ESCRITOS Y PASTORALES DE OBISPOS

ESCRITOS Y PASTORALES DE OBISPOS (168)

(IL SACERDOTE PASTORE E GUIDA DELLA COMUNITA' NELLA PARROCCHIA.

Dopo la parte dogmatica, pastorale, giuridica, sociologica: parte spirituale):

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SPIRITUALITA' PROPRIA DEL SACERDOTE IN QUANTO GUIDA DELLA COMUNITA'. SPIRITUALITA' DELLA PARROCCHIA

 

 

Carità pastorale, spiritualità specifica del sacerdote che guida la comunità parrocchiale

 

     La spiritualità propria del sacerdote viene descritta come "carità pastorale" e "ascetica propria del pastore d'anime" (PO 13). In modo particolare questa spiritualità si attua da parte dei sacerdoti che guidano la comunità parrocchiale, nello spazio e tempo, cioè  nelle circostanze salvifiche-teologiche, pastorali, ecclesiali, culturali e sociologiche. In queste circostanze di grazia, geografiche e storiche, i sacerdoti attuano la loro realtà soprannaturale di essere "prolungamento visibile e segno sacramentale di Cristo nel suo stesso stare di fronte alla Chiesa e al mondo" (PDV 16).

     Essere prolungamento del Buon Pastore significa diventare "segni viventi e portatori della misericordia" (Il Presbitero, Maestro... IV, n.2). Il sacerdote vive la sua configurazione a Gesù Cristo Capo e Pastore per mezzo della carità pastorale. "La vita spirituale del sacerdote viene improntata, plasmata, connotata da quegli atteggiamenti e comportamenti che sono propri di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa e che si compendiano nella sua carità pastorale" (PDV 21). In questo modo i sacerdoti diventano "strumenti vivi di Cristo Sacerdote" (PO 12).

 

     La carità pastorale fa del sacerdote un segno e imagine viva di Gesù, Capo, Pastore e Sposo della Chiesa. Così diventa "capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di «gelosia» divina (cfr. 2 Cor 11,2), con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell'affetto materno, capace di farsi carico dei «dolori del parto» finché «Cristo non sia formato» nei fedeli (cfr. Gal 4, 19)" (PDV 22).

 

     Le dimensioni della carità pastorale aprono la parrocchia e i suoi servitori nella prospettiva cristologica-teologica, ecclesiologica, sociologica. I sacerdoti che guidano la comunità sono la visibilità di Cristo in mezzo alla Chiesa e nelle circostanze storiche e culturali-sociologiche. Per mezzo di essi, Cristo vive presente "in mezzo" ai fratelli (cfr. Mt 18,20), come segno di unità che riflette la Trinità di Dio Amor: "Siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17,21).

 

I servizi ministeriali nella parrocchia, esigenza, espressione e mezzo privilegiato di santità:

 

     La guida e costruzione della comunità parrocchiale per mezzo dell'annuncio de la Parola (dimensione profetica), della celebrazione dei sacramenti (dimensione liturgica) e dei servizi di carità (dimensione diaconale), spinge i sacerdoti responsabili della parrocchia a lasciarsi modellare secondo le esigenze della stessa parola predicata, del mistero di Cristo celebrato e del commando dell'amore vissuto in mezzo ai fratelli.

 

     Questi servizi pastorali vengono attuati dal sacerdote ministro, in collaborazione con tutte le altre vocazioni (laicali e di vita consacrata). E' spiritualità di comunione ecclesiale, che domanda un'educazione permanente nel mistero della Chiesa,   comunione missionaria. "La funzione di pastore non si limita alla cura dei singoli fedeli: essa va estesa alla formazione di un'autentica comunità cristiana" (PO 6). E' "la comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l'essenza stessa del mistero della Chiesa" (Novo Millennio Inneunte 42).

 

     Il sacerdote ministro si santifica nell'esercizio dei ministeri, attuati secondo lo spirito di Cristo: "I presbiteri raggiungeranno la santità nel loro modo proprio se nello Spirito di Cristo eserciteranno le proprie funzioni con impegno sincero e instancabile" (PO 13).

 

     Tra la vita spirituale del sacerdote e l'esercizio dei ministeri sacerdotale, esiste uno stretto legame. L'identità sacerdotale scaturisce dall'armonia e "unità di vita" tra le esigenze di vita interiore e di azione apostolica. Il sacerdote vive la carità pastorale, a imitazione di Cristo Buon Pastore e in unione con lui. "La vita spirituale, altro non è che l'accoglienza nella coscienza e nella libertà, e pertanto nella mente, nel cuore, nelle decisioni e nelle azioni, della «verità» del ministero sacerdotale come amoris officium" (PDV 24; cfr. S. Agostino, In Ioannis Evangeliun Tractatus 123,5: PLS 2,637).

 

     Gli stessi ministeri sacerdotali tendono, per sua natura, a far diventare santi i fedeli membri della comunità ecclesiale. Si tende a "formare Cristo" nella vita dei credenti (cfr. Gal 4,19). Lo scopo dell'azione pastorale dei sacerdoti consiste nel "condurre al suo pieno sviluppo di vita spirituale ed ecclesiale la comunità loro affidata" (Il presbitero, Maestro... IV, n.3).

 

     L'Eucaristia è la sorgente da dove scaturisce la carità pastorale ed è anche la garanzia dell'unità di vita. Nel sacramento e sacrificio eucaristico, il sacerdote impara che, "il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo Capo e Pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo" (PDV 23).

 

     Nell'Eucaristia, il sacerdote impara a "vivere quale dono per il propri fratelli" (Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri n.48), e a "diventare pure hostia" in sintonia con "gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù" (Fil 2,5; Il Prebitero, Maestro... IV, 2).

 

 

 

Nella Chiesa particolare e universale

 

     Il dono di sé, come espressione della carità pastorale, non ha confini. I limiti della parrocchia non sono delle frontiere chiuse, ma delle concretizzazioni di una realtà di grazia molto più larga. "All'interno della comunità ecclesiale la carità pastorale del sacerdote sollecita ed esige in un modo particolare e specifico il suo rapporto personale con il presbiterio, unito nel e con il Vescovo, come esplicitamente scrive il Concilio: «La carità pastorale esige che i presbiteri, se non vogliono correre invano, lavorino sempre nel vincolo della comunione con i Vescovi e gli altri fratelli nel sacerdozio» (PO 14)" (PDV 23).

 

     Sentire con la Chiesa si concretizza nel vivere la comunione ecclesiale come fonte ed espressine di spiritualità. "Il rapporto con il Vescovo nell'unico presbiterio, la condivisione della sua sollecitudine ecclesiale, la dedicazione alla cura evangelica del Popolo di Dio nelle concrete condizioni storiche e ambientali della Chiesa particolare sono elementi dai quali non si può prescindere nel delineare la configurazione propria del sacerdote e della sua vita spirituale" (PDV 31).

 

     L'appartenenza a la Chiesa particolare significa diventare custode di una storia di grazia e di una eredità apostolica, di cui la comunità parrocchiale è una concretizzazione privilegiata. "È necessario che il sacerdote abbia la coscienza che il suo «essere in una Chiesa particolare» costituisce, di sua natura, un elemento qualificante per vivere una spiritualità cristiana" (PDV 31).

 

     La spiritualità della carità pastorale è di comunione viene vissuta con profondità. "L'appartenenza del sacerdote alla Chiesa particolare e la sua dedicazione, fino al dono della vita, per l'edificazione della Chiesa «nella persona» di Cristo Capo e Pastore, a servizio di tutta la comunità cristiana, in cordiale e filiale riferimento al Vescovo, devono essere rafforzate da ogni altro carisma che entri a far parte di un'esistenza sacerdotale o si affianchi ad essa" (PDV 31).

 

     La parrocchia riecheggia tutta la Chiesa particolare (che presiede un successore degli Apostoli, in collaborazione col suo Presbiterio) e anche tutta la Chiesa universale (in comunione con Successore di Pietro en con la Collegialità Episcopale). "Per fomentare opportunamente lo spirito comunitario, bisogna mirare non solo alla Chiesa locale ma anche alla Chiesa universale" (PO 6).

 

     Se la missione sacerdotale ha "la stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli" (PO 10), ciò significa che non ci può essere spiritualità sacerdotale senza la prospettiva missionaria universale: "La vita spirituale dei sacerdoti dev'essere profondamente segnata dall'anelito e dal dinamismo missionario" (PDV 32). Per ciò, la carità pastorale si concretizza nel far diventare missionaria tutta la comunità e quindi, tutte le vocazioni e istituzioni.

 

Al servizio della costruzione dell'unità

 

     Il parroco è padre a pastore di tutti, come servizio di unità, animazione e coordinamento. La sua autorità è quella di dirigere senza cercare il proprio interesse. Il sacerdote è al servizio di tutta la comunità, di tutti carismi e di tutte le vocazioni, privilegiando l'attenzione alle persone più bisognose: gli ammalati, i poveri, i giovani, le famiglie... In questo senso è "il servo di molti" (S. Agostino, Sermo Morin Guelferbytanus 32,1: PLS 2,637), seguendo ed imitando la vita de Cristo Servo (cfr. Mt 20,24ss; Mc 10,43-44).

 

     Il pastore della comunità parrocchiale "chiama le sue pecore una per una" (Gv 10,3-4), suscitando la conoscenza e la relazione di amicizia con tutte le persone e tutte le famiglie. In questo rapporto deve apparire sempre molto chiaro che "le anime appartengono a Cristo" (Il presbitero, Maestro... cap.IV, n.3).

 

     Nel riunire la comunità parrocchiale, i sacerdoti cercano di servire tutti senza discriminazioni, per portare tutti a l'unità. "Esercitando la funzione di Cristo capo e pastore per la parte di autorità che spetta loro, i presbiteri, in nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio come fraternità viva e unita e la conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo" (PO 6)

 

     Il servizio dell'autorità si concretizza nel costruire l'unità della comunità. L'umiltà nell'atteggiamento di servizio no diminuisce la responsabilità di prendere delle decisioni senza condizionamenti. "Nell'edificare la comunità cristiana i presbiteri non si mettono mai al servizio di una ideologia o umana fazione, bensì, come araldi del Vangelo e pastori della Chiesa, si dedicano pienamente all'incremento spirituale del corpo di Cristo" (PO 6).

 

     Il sacerdote diventa pane spezzato come Cristo; appartiene a tutti ed è disponibile in tutto quanto riguarda l'evangelizzazione della comunità. "Pastore della comunità, il sacerdote esiste e vive per essa: per essa  prega, studia, lavora e si sacrifica, per essa è disposto a dare la vita, amandola come Cristo, riversando su di essa tutto il suo amore e la sua stima" (Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri n.55).

 

     Gli spazi "vuoti", dove non arrivano i servizi parrocchiali (profetici, luturgici, diaconali), sono i luoghi deboli dove entrano le sette e le tendenze materialistiche. L'azione del parroco suscita la collaborazione attiva e responsabile di tutte le vocazioni e carismi.

 

     La spiritualità sacerdotole nel guidare le comunità parrocchiali, comporta che la casa del sacerdote sia la casa di tutti, anche con i segni di povertà: "Sistemino la propria abitazione in modo tale che nessuno possa ritenerla inaccessibile, né debba, anche se di condizione molto umile, trovarsi a disagio in essa" (PO 17).

 

     La vicinanza e prossimità dei sacerdoti a tutti i componenti della comunità, si esprime nel modo di vivere, vestire e parlare, secondo lo stile di vita di Cristo povero e servitore, sempre vicino a tutti e disposto ad ascoltare ed accompagnare tutti.

 

Comunità parrocchiale, scuola di preghiera-contemplazione, perfezione e missione

 

     La guida della parrocchia si concretizza nel cammino della contemplazione della Parola (comunità, scuola di preghiera), nel cammino della perfezione (comunità, scuola di santità), nel cammino di missione (comunità, scuola di missionarietà).

 

     La comunità parrocchiale diventa scuola di preghiera, comunità che ascolta la parola, prega, ama, evangelizza, secondo il modello della Chiesa primitiva: "Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere" (At 2,42).

 

     Nel servire alla comunità i presbiteri privilegiano la meditazione della Parola (lectio divina), la celebrazione dell'Eucaristia, la celebrazione della liturgia delle ore, l'itinerario dell'anno liturgico (intorno al Mistero Pasquale e alla domenica). "Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche « scuole » di preghiera, dove l'incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero «invaghimento » del cuore" (Novo Millennio Ineunte 33).

 

     La comunità parrocchiale diventa scuola di santità, dove tutti i servizi, vocazioni e carismi tendono alla configurazione con Cristo, imitando i suoi criteri, la sua scala di valori e i suoi atteggiamenti. "La chiamata alla missione deriva di per sé dalla chiamata alla santità... L'universale vocazione alla santità è strettamen­te collegata all'universale vocazione alla missione: ogni fedele è chiamato alla santità e alla missione" (RMi 90).

 

     L'itinerario parrocchiale è itinerario battesimale e quindi, itinerario di santità: "Chiedere a un catecumeno: « Vuoi ricevere il Battesimo? » significa al tempo stesso chiedergli: « Vuoi diventare santo? ». Significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso della Montagna: « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt 5,48)... Le vie della santità sono molteplici, e adatte alla vocazione di ciascuno" (Novo Millennio Inneunte 31).

 

     La comunità parrocchiale è scuola di missionarietà e carità. Il cammino di preghiera e di santità si rivolge verso l'annuncio del vangelo a tutti gli uomini. "Il mandato missionario ci introduce nel terzo millennio invitandoci allo stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora: possiamo contare sulla forza dello stesso Spirito, che fu effuso a Pentecoste e ci spinge oggi a ripartire sorretti dalla speranza « che non delude » (Rm 5,5)" (Novo Millennio Inneunte 58).

 

     I programmi di pastorale tendono a costruire delle persone e delle comunità dove Cristo sia nel centro del modo di pensare, di sentire e valutare, di amare e di agire.

 

     In questo modo, la comunità diventa "un cuore solo e un anima sola" (At 4,32), sempre attenta ai bisogni di tutti i fratelli e sorelle, con l'atteggiamento di "una nuova « fantasia della carità », che si dispieghi non tanto e non solo nell'efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione" (Novo Millennio Inneunte 50).

 

     La parrocchia diventerà una concretizzazione della Chiesa particolare e universale, mistero di comunione per la missione, mediante un processo permanente di rinnovamento, a imitazione degli Apostoli raggruppati "con Maria la Madre di Gesù" (At 1,14), figura e Madre della Chiesa. Maria è "il modello di quel­l'amore materno, dal quale devono essere animati tutti quelli che, nella missione apostolica della Chiesa, cooperano alla rigenerazione degli uomini" (LG 65; cfr. RMi 92).

 

     La presenza attiva e materna di Maria nell'itinerario di contemplazione, perfezione e missione, assicurerà alla comunità parrocchiale, con la sua intercessione, l'atteggiamento di apertura ai piani salvifici di Dio (Lc 1,28‑29.38), di fedeltà all'azione dello Spirito (Lc 1,35.39‑45), di contemplazione della Parola (Lc 1,46‑55; 2,19.51), di associazione sponsale a Cristo (Lc 2,35; Gv 2,4), di donazione sacrificale a Cristo Redentore (Gv 19,25‑27) e di tensione escatologica verso l'incontro definitivo di tutta l'umanità con Cristo (Ap 12,1; 21‑22).

Lunes, 11 Abril 2022 10:31

SAN PABLO Y LOS NUEVOS AREÓPAGOS

Escrito por

SAN PABLO Y LOS NUEVOS AREÓPAGOS

 

(Material entregué para posible “Instrumentum Laboris”: Plenaria de la Congregación para la Evangelización de los Pueblos, 16-19 noviembre 2009; posteriormente se amplió, renovó, etc., con aportaciones de los Asistentes y observaciones)

 

Sumario:

1.- INVITACIÓN A DISCERNIR Y AFRONTAR LOS NUEVOS AREÓPAGOS DE NUESTRO TIEMPO

2.- LOS NUEVOS AREÓPAGOS, RETOS PARA LA EVANGELIZACIÓN “AD GENTES”

3.- AFRONTAR LOS NUEVOS AREÓPAGOS DE LA EVANGELIZACIÓN CON EL “ESPÍRITU” DE SAN PABLO

 

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PRESENTACIÓN:

 

La celebración del año jubilar dedicado a San Pablo ha ayudado a reflexionar sobre los “nuevos areópagos” que hoy debe afrontar la Iglesia especialmente en el campo de la evangelización “ad gentes”. Constatar y discernir estos “nuevos areópagos” es hoy una tarea urgente para poder programar adecuadamente el modo específico de la actuación apostólica. Nuestro trabajo se encuadra en el contexto actual de legar para el futuro de la evangelización el fruto del año dedicado a San Pablo.

 

A casi veinte años de la publicación de la encíclica misionera Redemptoris Missio (7 diciembre 1990), sigue siendo apremiante la invitación de Juan Pablo II cuando describía la situación histórica del momento, que debía inspirarse en el modelo evangelizador del Apóstol de las gentes: “Pablo, después de haber predicado en numerosos lugares, una vez llegado a Atenas se dirige al areópago donde anuncia el Evangelio usando un lenguaje adecuado y comprensible en aquel ambiente (cfr. Hech 17, 22-31)” (RMi 37).

 

El presente “instrumento de trabajo”, en vistas  la reunión Plenaria de la Congregación para la Evangelización de los Pueblos, ha aprovechado las aportaciones enviadas por pastores y expertos de las diversas Iglesias locales dependientes de nuestro Dicasterio. También ha tenido muy en cuenta los contenidos de las catequesis y de otros documentos del Papa Benedicto XVI durante el año jubilar dedicado a San Pablo. Toda esta documentación es un verdadero arsenal que está en armonía con los contenidos de los documentos conciliares del Vaticano II y con otros documentos postconciliares de estos últimos años, mientras, al mismo tiempo, ofrece abundante luz y ayudas para discernir y afrontar la situación misionera actual.

 

Después de discernir y analizar lo nuevos areópagos de hoy, lo más importante será afrontarlos con las mismas actitudes y con el mismo espíritu del Apóstol de las gentes, para llevar a efecto una programación adecuada en el campo de la evangelización. Éste será un buen servicio que la Congregación para la Evangelización de los Pueblos puede ofrecer a la acción evangelizadora actual, como fruto de la celebración del bimilenario de San Pablo.

 

1.- INVITACIÓN A DISCERNIR Y AFRONTAR LOS NUEVOS AREÓPAGOS

 

Pablo VI, en su exhortación apostólica Evangelii Nuntiandi (1975), hizo un fuerte llamado a ir más allá de las fronteras de la fe, hacia los nuevos campos de la evangelización: “Para la Iglesia no se trata solamente de predicar el Evangelio en zonas geográficas cada vez más vastas o poblaciones cada vez más numerosas, sino de alcanzar y transformar con la fuerza del evangelio, los criterios de juicios, los valores determinantes, los puntos de interés, las líneas de pensamiento, las fuentes inspiradoras y los modelos de vida de la humanidad, que están en contraste con la Palabra de Dios y con el designio de salvación” (EN 19). Son los puntos neurálgicos o nuevos areópagos de nuestra sociedad.

 

La encíclica misionera de Juan Pablo II, Redemptoris Missio (1990), fue una invitación a discernir y afrontar las nuevas situaciones de la misión, porque “Dios abre a la Iglesia horizontes de una humanidad más preparada para la siembra evangélica” (RMi 3). Por esto, “el renovado impulso hacia la misión ad gentes exige misioneros santos... Es necesario suscitar un nuevo «anhelo de santidad» entre los misioneros y en toda la comunidad cristiana” (RMi 90).

 

Esta invitación, llena de esperanza, se concretaba de modo especial en discernir los nuevos “areópagos”, aludiendo explícitamente al hecho de la predicación de Pablo en la explanada del areópago de Atenas, ante el “tribunal” que juzgaba asuntos de importancia cívica. La mención final a Jesús resucitado no tuvo allí muy buena aceptación, salvo en el caso de la conversión del areopagita Dionisio y de una mujer llamada Dámaris.

 

Después de explicar las tres situaciones de la misión (“ad gentes” o de primera evangelización, pastoral ordinaria y nueva evangelización), Juan Pablo II recuerda y reafirma la importancia y urgencia de la “actividad misionera específica o misión ad gentes” (RMi 34). Es en este contexto donde aparece la invitación a analizar y afrontar los diversos ámbitos de la misión: territoriales, fenómenos sociales y áreas culturales (cfr. RMi 37). Aludiendo a la predicación de Pablo en el areópago de Atenas, Juan Pablo II hace hincapié en los “areópagos modernos”: “El areópago representaba entonces el centro de la cultura del docto pueblo ateniense, y hoy puede ser tomado como símbolo de los nuevos ambientes donde debe proclamarse el Evangelio” (RMi 37).

 

Entre los “areópagos” de nuestro tiempo, el Papa señalaba ya entonces: “el mundo de la comunicación” o medios de comunicación social en un mundo que es ya “una «aldea global”, “la evangelización de la cultura moderna” o de “la nueva cultura”, “la paz, el desarrollo y la liberación de los pueblos”, “los derechos del hombre y de los pueblos sobre todo los de las minorías”, “la promoción de la mujer y del niño”, “la salvaguardia de la creación”, “las relaciones internacionales”. Lo más importante es que éstos y otros areópagos “han de ser iluminados con la luz del Evangelio” (RMi 37).

 

Esta descripción de los nuevos areópagos se presenta como invitación a una actitud de esperanza misionera: “Nuestro tiempo es dramático y al mismo tiempo fascinador. Mientras por un lado los hombres dan la impresión de ir detrás de la prosperidad material y de sumergirse cada vez más en el materialismo consumístico, por otro, manifiestan la angustiosa búsqueda de sentido, la necesidad de interioridad, el deseo de aprender nuevas formas y modos de concentración y oración” (RMi 38). Así se comprende la intuición profética del final de la encíclica: “Veo amanecer una nueva época misionera, que llegará a ser un día radiante y rica en frutos, si todos los cristianos y, en particular, los misioneros y las jóvenes Iglesias responden con generosidad y santidad a las solicitaciones y desafíos de nuestro tiempo” (RMi 92).

 

La carta apostólica Tertio Millennio Adveniente (1994) de Juan Pablo II, al invitar a preparar la acción evangelizadora del nuevo milenio, fue una llamada a la esperanza cristiana, que se apoya en el misterio del Verbo Encarnado: “El Jubileo deberá confirmar en los cristianos de hoy la fe en el Dios revelado en Cristo, sostener la esperanza  prolongada en la espera de la vida eterna, vivificar la caridad comprometida activamente en el servicio a los hermanos” (TMa 31). En este contexto describía los retos o areópagos del momento histórico en medio de “muchas luces y no pocas sombras” (TMa 36).[1]

 

Las invitaciones a discernir los nuevos retos o areópagos del presente, se presentan a la luz del misterio de Cristo: “Verbo Encarnado es, pues, el cumplimiento del anhelo presente en todas las religiones de la humanidad: este cumplimiento es obra de Dios y va más allá de toda expectativa humana. Es misterio de gracia” (TMa 6).

 

Estas invitaciones se han hecho más apremiantes con ocasión del año paulino (junio 2008-2009). Ya en el anuncio de este evento (28 de junnio de 2007), el Papa Benedicto XVI había indicado a San Pablo como modelo para afrontar las nuevas situaciones: “El Apóstol de los gentiles, que se dedicó particularmente a llevar la buena nueva a todos los pueblos, se comprometió con todas sus fuerzas por la unidad y la concordia de todos los cristianos”.[2]

 

El mensaje del Santo Padre para le Jornada Mundial de las Misiones (año 2008), encuadrado dentro de la celebración del año paulino, es una llamada urgente a afrontar las nuevas situaciones de la misión “ad gentes”: “Es el Año paulino nos brinda la oportunidad de familiarizarnos con este insigne Apóstol, que recibió la vocación de proclamar el Evangelio a los gentiles, según lo que el Señor le había anunciado:  «Ve, porque yo te enviaré lejos, a los gentiles» (Hech 22, 21). ¿Cómo no aprovechar la oportunidad que este jubileo especial ofrece a las Iglesias locales, a las comunidades cristianas y a cada uno de los fieles, para propagar hasta los últimos confines del mundo el anuncio del Evangelio, «fuerza de Dios para la salvación de todo el que cree?» (Rom 1, 16)”.[3]

 

Durante las audiencias del Papa Benedicto XVI, con ocasión del año dedicado a San Pablo, sus 20 catequesis paulinas han sido una llamada urgente a imitar la disponibilidad misionera del Apóstol ante las nuevas situaciones que se le presentaron: “Sólo la preocupación por el crecimiento en la fe de aquellos a los que había evangelizado y la solicitud por todas las Iglesias que había fundado (cfr. 2 Cor 11,28) lo impulsaban a ralentizar la carrera hacia su único Señor, para esperar a los discípulos de modo que pudieran correr con él hacia la meta”.[4]

 

La llamada que había hecho Juan Pablo II al iniciar su pontificado (1978), fue asumida, comentada y actualizada por Benedicto XVI. Es una indicación clave para la evangelización actual: “«¡No temáis! ¡Abrid, más todavía, abrid de par en par las puertas a Cristo!» El Papa (Juan Pablo II) hablaba a los fuertes, a los poderosos del mundo, los cuales tenían miedo de que Cristo pudiera quitarles algo de su poder, si lo hubieran dejado entrar y hubieran concedido la libertad a la fe. Sí, él ciertamente les habría quitado algo: el dominio de la corrupción, del quebrantamiento del derecho y de la arbitrariedad. Pero no les habría quitado nada de lo que pertenece a la libertad del hombre, a su dignidad, a la edificación de una sociedad justa... Y todavía el Papa quería decir: ¡no! quien deja entrar a Cristo no pierde nada, nada –absolutamente nada– de lo que hace la vida libre, bella y grande... ¡No tengáis miedo de Cristo! Él no quita nada, y lo da todo. Quien se da a él, recibe el ciento por uno. Sí, abrid, abrid de par en par las puertas a Cristo, y encontraréis la verdadera vida”.[5]

 

El Papa Benedicto XVI, en su primera encíclica, Deus Caritas Est (2005) reiteraba la línea de esperanza misionera, basada en un transparente testimonio de caridad evangélica. Cuando la Iglesia “muestra la universalidad del amor” (DCe 25), entonces “la fuerza del cristianismo se extiende mucho más allá de las fronteras de la fe cristiana” (ibídem, 31). Es la idea que ha recalcado también en su segunda encíclica, Spe Salvi (2007): “Dios mismo se ha dado una « imagen »: en el Cristo que se ha hecho hombre. En Él, el Crucificado... Ahora Dios revela su rostro precisamente en la figura del que sufre y comparte la condición del hombre abandonado por Dios, tomándola consigo. Este inocente que sufre se ha convertido en esperanza-certeza: Dios existe” (Spe Salvi 43).

Verdaderamente nuestro tiempo es una llamada urgente a descubrir, discernir y afrontar los nuevos areópagos, imitando, como Pablo, “los mismos sentimientos de Cristo Jesús” (Fil 2,5), que son siempre de “compasión” (Mt 15,32) ante las multitudes hambrientas y sedientas de esperanza (cfr. Jn 7,37).

 

La recta aplicación del concilio Vaticano II dependerá de la respuesta generosa a estas invitaciones postconciliares, que vienen a ser una aplicación de los contenidos paulinos del concilio Vaticano II. En efecto, la doctrina del Apóstol se encuentra citada ampliamente en los documentos conciliares. Respecto a la misión “ad gentes”, basta recordar estos pasajes directamente misioneros:

 

Rom 15,16 “La oblación de los gentiles” (citado en AG 23; GS 38; PO 2).

 

1Cor 9,16: “Ay de mí si no evangelizare” (citado en AG 7 y 13; LG 17; AA 6).

 

1Cor 9,19: “Me he hecho esclavo de todos para ganarlos a todos” (citado en AG 24; PO 10; OT 4).

 

1Cor 10,33: “Yo me esfuerzo por agradar a todos en todo, sin procurar mi propio interés, sino el de la mayoría, para que se salven” (citado en AG 41; DH 11).

 

2Cor 8,9: “Nuestro Señor Jesucristo, siendo rico, por vosotros se hizo pobre a fin de que os enriquecierais con su pobreza” (citado en AG 3; LG 8 t 42; PO 17; PC 13).

 

Ef 1,10: “Recapitular todas las cosas en Cristo” (citado en AG 3; GS 38, 45,58; LG 48).

 

Fil 2,7: “Se anonadó tomando la forma de siervo” (citado en AG 24 al hablar de la vocación misionera: “el enviado entra en la vida y en la misión de Aquel que «se anonadó tomando la forma de siervo»”; cfr. LG 8, 36, 42; PO 15; PC 14).

 

Col 1 ,18: “Para que sea él el primero (la primicia) de todas las cosas” (citado en AA 7).

 

2Tes 3,1: “Orad por nosotros para que la Palabra del Señor siga propagándose y adquiriendo gloria, como entre vosotros” (citado en AG 1; DV 26).

 

1Tim 2,4: “Dios quiere que todos los hombres se salven y lleguen al  conocimiento pleno de la verdad” (citado en AG 7 y 42; SC 5 y 53; LG 16; DH 14; NAe 1).

 

1Tim 4,6: “Serás un buen ministro de Cristo Jesús, alimentado con las palabras de la fe y de la buena doctrina que has seguido fielmente” (citado en AG 26, formación misionera).

 

El concilio Vaticano II, en la constitución Gaudium et Spes (proemio y exposición preliminar, nn.1-10), invitaba a observar los aspectos positivos, que son “gozos y esperanzas” de la sociedad actual.

 

La invitación a discernir y afrontar los nuevos areópagos, como nuevas situaciones de la misión “ad gentes”, no significa echar en olvido el ámbito geográfico de esta misma misión, sino que la misión “a todos los pueblos” implica hoy también el ámbito cultural y sociológico. La misión de Cristo comunicada a la Iglesia es siempre sin fronteras geográficas y culturales. En este sentido la misión eclesial tiene que ser siempre misión “ad gentes” como la de Pablo (cfr. Hech 9,15; 13,46; 18,6), como misión del primer anuncio, que puede darse también en lugares de antigua tradición cristiana. En estos países, como afirma el concilio, “pueden originarse condiciones enteramente nuevas. Entonces la Iglesia tiene que ponderar si estas condiciones exigen de nuevo su acción misionera” (AG 6; cfr. AG 23, 27). Pero queda en pie que la misión “ad gentes” es “una actividad primaria de la Iglesia, esencial y nunca terminada” (RMi 31; cfr. n.34).

 

El concilio Vaticano II describe la misión “ad gentes” con estas palabras, que siguen siendo de apremiante actualidad: “La misión, pues, de la Iglesia se realiza mediante la actividad por la cual, obediente al mandato de Cristo y movida por la caridad del Espíritu Santo, se hace plena y actualmente pre­sente a todos los hombres y pueblos para conducirlos a la fe, a la libertad y a la paz de Cristo por el ejemplo de la vida y de la predicación, por los sacramentos y demás medios de la gracia, de forma que se les descubra el camino libre y seguro para la plena participación del misterio de Cristo” (AG 5).

 

2.- LOS NUEVOS AREÓPAGOS, RETOS PARA LA EVANGELIZACIÓN “AD GENTES”

 

A la lista de los areópagos que ofrece la encíclica Redemptoris Missio y otros documentos magisteriales (que hemos enumerado sucintamente en el primer apartado), hay que añadir otros, y especialmente hay que descubrir la peculiaridad con que se presentan hoy todos estos nuevos areópagos. Así lo han indicado los estudios competentes que han llegado a la Congregación para la Evangelización de los Pueblos, en vistas a la presente reunión Plenaria, como se intenta resumir a continuación.[6]

 

Precisamente por esta novedad de los areópagos, en parte inéditos hasta el presente, y de sus nuevas circunstancias, se amplía el ámbito geográfico de la misión, que ya no es siempre equivalente a “países de misión”. Podemos observar las grandes urbes (las “megalópolis”), donde las multitudes son plurirreligiosas y pluriculturales, que proceden de migraciones de todo tipo, y que hacen muy complejas las situaciones actuales. Pero también hay otros sectores que reclaman un primer anuncio: las nuevas situaciones de pobreza e injusticia, la familia, la juventud, los medios de comunicación, las nuevas formas de cultura y de educación, etc. Parecen los mismos areópagos de hace veinte años, pero, en realidad, las circunstancias son muy novedosas.

 

Cada uno de los nuevos areópagos se puede encuadrar en el conjunto de los diversos ámbitos: sociopolítico, sociocultural, socioeconómico. Al mismo tiempo, cada nuevo areópago encuentra resonancia en los demás.

 

Quizá el ámbito cultural o de valores es el más complejo y urgente, puesto que se trata de hacer llegar el evangelio hasta el “corazón” de los pueblos, de la familia, de la juventud, de los centros educativos y de investigación científica que hoy están condicionados más por intereses económicos y políticos. Los núcleos culturales y artísticos son puntos neurálgicos de nuestra sociedad, a los que hay que llegar con el tono característico de la “esperanza” cristiana.

 

Estas nuevas situaciones son como “signos de los tiempos”, según la afirmación conciliar, cuando invita a toda la iglesia a “auscultar a fondo los signos de la época e interpretarlos a la luz del Evangelio” (GS 4), “con la ayuda del Espíritu Santo” (GS 44), como nuevos paradigmas de la evangelización.

 

La misión de Cristo empezó hace ya veinte siglos, pero “está aún lejos de cumplirse... se halla todavía en sus comienzos” (RMi 1). Allí están las “semillas del Verbo”, que comenzaron a sembrarse desde los inicios de la historia humana y en todos los pueblos y culturas, y que, bajo la acción del Espíritu Santo, esperan llegar a su maduración en Cristo.

 

La lista de areópagos que ofrecemos a continuación es sólo una síntesis que debería ampliarse y valorarse adecuadamente:

 

1º) El areópago de anunciar el evangelio íntegro y de la proclamación explícita de la Palabra con testimonio el  de vida:

 

Se podría decir que el primer areópago (a partir del cual se llega a los demás) es el verdadero anuncio del Evangelio hoy, a partir del encuentro con Cristo resucitado, como en Pablo. Se trata propiamente de evangelizar el corazón de los apóstoles de hoy, llamados a vivir con autenticidad lo que van a anunciar. Es una llamada a mejorar el mismo modo de evangelizar, cuidando las expresiones (sin cambiar los contenidos), mejorando los métodos y especialmente ofreciendo el testimonio y la vivencia. Se anuncia a “alguien” que “vive”, Cristo resucitado presente.

 

La evangelización comporta la correlación viva del anuncio y de la respuesta, por parte de un sujeto que es a la vez persona y comunidad. Es el evangelizador quien primero debe purificar su memoria y curar sus heridas en contacto con Cristo crucificado y resucitado. El encuentro personal del evangelizador con Cristo es una prioridad pastoral.

 

Es, pues, una urgencia de la evangelización actual, el compromiso de todo apóstol por la santidad, como “perfección de la caridad” (LG 40) en el contexto de la verdad. Todos los bautizados están comprometidos en este proceso de santidad, que es parte integrante de la evangelización. “La llamada a la misión deriva de por sí de la llamada a la santidad. Cada misionero, lo es auténticamente si se esfuerza en el camino de la santidad” (RMi 90).[7]

 

En cuanto al testimonio, cabe observar que la sociedad actual es más “icónica”, en el sentido de necesitar y exigir signos y testigos creíbles del evangelio (cfr. EN 76; RMi 91). Los principios evangélicos necesitan concretarse en convicciones válidas y permanentes sobre la verdad, la libertad y el bien, así como sobre la ética personal, familiar y social. “Los cristianos, que viven y trabajan en esta dimensión internacional, deben recordar siempre su deber de dar testimonio del Evangelio” (RMi 37), porque “el hombre contemporáneo cree más a los testigos que a los maestros” (RMi 42; cita de EN 41).[8]

 

Se  necesita en la sociedad actual una proclamación explícita de la Palabra evangélica como mensaje de la salvación. La novedad del mensaje evangélico se centra en Cristo muerto y resucitado, que es la Palabra viva y  personal de Dios, celebrada en los sacramentos y en toda la acción litúrgica, como fuente y cima de la evangelización. La misión se centra en la Eucaristía, que es fuente y cima de la vida de la Iglesia. Entonces se encuentra la armonía entre anuncio, catequesis, sacramentos, testimonio, promoción, desarrollo integral, derechos humanos. El evangelio es novedad permanente de gracia.

 

En esta armonía de la evangelización (que es siempre y simultáneamente profética, litúrgica y diaconal), los areópagos tradicionales (predicación, catequesis, retiros, cartas pastorales, etc.) se afianzan y adquieren una novedad permanente. La catequesis diferenciada (según edad y formación) y también intergeneracional, apunta a fortificar la familia y ofrece una dimensión eclesial y misionera. Catequesis, liturgia y construcción de la comunidad eclesial se relacionan indisolublemente.

 

La Palabra es “viva y eficaz” (Heb 4,12; cfr. 1Pe 1,23; Is 49,2), para crear un corazón que se abre a ella con generosidad. “La Palabra de Dios no está encadenada” (2Tim 2,9), es “fuerza y sabiduría de Dios” (1Cor 1,24). Al ser anunciada, celebrada y vivida, la Palabra llama, convierte, transforma y crea nuevos enviados. Los sistemas políticos irrespetuosos de la dignidad humana no podrán nunca encadenar la Palabra de Dios.

 

Uno de los areópagos más urgentes es el de proponer, testimoniar y comunicar la fe, anunciando el evangelio que da sentido a la existencia humana. Hay que proponer claramente el corazón de la fe para llegar al corazón del hombre de hoy. El mensaje paulino expresa las vivencias de fe del mismo apóstol.

 

2º) El nuevo areópago de la “globalización”:

 

Aunque en cada pueblo y en cada cultura y situación sociológica los retos son peculiares, no obstante, hoy surge una situación global (“globalización”), que algunos llaman “holística”, muy parecida en todas partes, debido al sistema de educación estereotipada (a veces, sin valores permanentes) y también al influjo (positivo y negativo) de los cada vez más nuevos medios de comunicación. Es un influjo que intenta ser inmediato, universal y prevalentemente de impresiones o sensaciones. El resultado es un tono de pluralismo indiferenciado y de relativismo cultural, que se inserta en la raíz de todos los retos o nuevos areópagos actuales.

 

La “globalización”, con sus aspectos positivos y negativos, tiene diversos niveles: globalización sociológica, constituida por migraciones, medios de comunicación e informática; globalización cultural, a modo de encuentro entre culturas antiguas y con la cultura emergente de una sociedad postmoderna; globalización económica, de liberalización monetaria (bolsa financiera) que debería ser un camino de solidaridad universal, pero que corre el riesgo de convertirse en una nueva esclavitud a escala mundial.

 

La globalización tiene aspectos negativos, que llegan, a veces, a la mundalización de la apostasía o del agnosticismo moderno y postmoderno e incluso de un “laicismo” que destruye la misma laicidad legítima. Pero conviene no olvidar los aspectos positivos de apertura potencial de los pueblos a los valores evangélicos. La globalización actual, después de la celebración del año paulino, puede convertirse también en el encuentro cotidiano de los cristianos con las “semillas del Verbo”.

 

3º) El nuevo areópago de las comunicaciones sociales:

 

Los temas cristianos necesitan ser captados y asimilados, sin rebajar las exigencias evangélicas. El arte del lenguaje es imprescindible. Se necesita el uso adecuado y pedagógico de los medios de comunicación social. Hay que tener algo que ofrecer y saber cómo ofrecerlo. Juan Pablo II decía: “El primer areópago del tiempo moderno es el mundo de la comunicación, que está unificando a la humanidad y transformándola - como suele decirse - en una aldea global. Los medios de comunicación social han alcanzado tal importancia que para muchos son el principal instrumento informativo y formativo, de orientación y de inspiración para los comportamientos individuales, familiares y sociales. Las nuevas generaciones crecen en un mundo condicionado por esos medios” (RMi 37).[9]

 

Los medios de comunicación social, cuando están bien utilizados, son una posibilidad extraordinaria para la evangelización. Somos invitados a seguir la línea del Vaticano II: “La Iglesia católica... considera parte de su misión servirse de los instrumentos de comunicación social para predicar a los hombres el mensaje de salvación y enseñarles el recto uso de estos medios” (Inter Mirifica  3).[10]

 

4º) Las diversas facetas del nuevo areópago de las migraciones:

 

La migraciónactual masiva o multitudinaria, es originada por diversas causas: guerras (con la secuela de los refugiados), trabajo, estudio, negocios, turismo, navegación (por comercio, pesca, etc)... “Entre los grandes cambios del mundo contemporáneo, las migraciones han producido un fenómeno nuevo: los no cristianos llegan en gran número a los países de antigua cristiandad, creando nuevas ocasiones de comunicación e intercambio culturales, lo cual exige a la Iglesia la acogida, el diálogo, la ayuda y, en una palabra, la fraternidad” (RMi 37). Todos estos tipos de migración pueden incluir un desplazamiento masivo de los creyentes fuera de sus comunidades eclesiales, que, al mismo tiempo origina un encuentro pluralístico y polifacético, permanente y universal entre culturas y religiones, que tiende a construir una humanidad pluralística en todos los sentidos (racial o étnica, cultural y religiosa).

 

Es un fenómeno polifacético, porque puede ser migración selecionada o escogida, clandestina, de refugiados políticos y económicos, desplazados por guerras o carencias sociológicas, etc. A veces es migración con accidentes dramáticos o traumáticos, especialmente en el mar.Pero es siempre una nueva posibilidad de evangelizar y una urgencia inaplazable, también por el modo cómo hay que ejercitar la caridad cristiana sin discriminaciones.[11]

 

El fenómeno actual de esta migración tan compleja y variada, ha hecho posible un encuentro pluralístico, permanente y universal entre culturas y religiones. Esta movilidad e itinerancia humana tiende a la construcción de una humanidad pluralística o polifacética en cuanto a razas, culturas y religiones. Ello constituye un nuevo “areópago” que cuestiona profundamente al cristianismo, puesto que se le pide presentar lo específico del mensaje cristiano y concretamente de su experiencia de Dios.

 

5º) El nuevo areópago de la cultura universal dominante (“postmoderna”):

 

La cultura dominante(llamada a veces “postmoderna”), privilegia a escala mundial el bienestar, la eficacia, lo útil, la experiencia, las impresiones fuertes, donde frecuentemente ya no hay lugar para los valores éticos y permanentes. En este sentido nace “una nueva época de la historia humana... una nueva forma más universal de cultura” (GS 54), que tiende al “secularismo”, al indiferentismo, al agnosticismo y al relativismo, pero que, al mismo tiempo manifiesta “una angustiosa búsqueda de sentido” (RMi 38) y de la experiencia de Dios. El “laicismo”, como tergiversación de la verdadera “laicidad”, adopta una actitud negativa y agresiva respecto a todo lo religioso. A veces, llega al ateismo práctico o ideológico. Los defectos de algunos creyentes, que “han velado más bien que revelado el genuino rostro de Dios y de la religión” (GS 19).

 

En un mundo “secularizado”, se necesita presentar mejor los valores humanos, a la luz del evangelio. Pero la cultura emergente presta atención casi excluyente al adelanto tecnológico prescindiendo de su valor ético.

 

Se tiende a construir una ciencia nueva sobre el hombre; el verdadero humanismo armoniza razón y fe. “Según la fe cristiana y la doctrina de la Iglesia, solamente la libertad que se somete a la verdad conduce a la persona humana a su verdadero bien. El bien de la persona consiste en estar en la verdad y en realizar la verdad” (VS 84).En un mundo secularizado el hombre es todavía y lo será siempre “capaz de Dios” (CEC 27), inmerso en la búsqueda y sed de Dios, aunque el concepto sobre Dios le queda difuminado.

 

El areópago de la tecnología reclama una atención especial a los valores de la creación. Los bautizados ya han entrado en esta “nueva creación” (2Cor 5,17). Ellos podría cuidar mejor de la creación que se está deteriorando, sin explotarla; entonces la productividad sería mejor y más auténtica.

 

La tecnología necesita ser encuadrada en la  evangelización, para logar un proceso de paz y de desarrollo, que sea verdadera liberación de las personas y de los pueblos, con el respeto debido a las minorías.[12]

 

6º) El nuevo fenomeno de la proliferación de sectas de tono existencial:

 

Las sectas, aunque son un fenómeno de todas las religiones y de todas las épocas, tienden hoy a una fuerte experiencia subjetivista, con repercusiones de masa, de resultados inmediatos y de línea fuertemente sincretista y relativista, con gran ímpetu proselitista. Es necesario afrontar este reto instando en la catequesis, la vivencia del Misterio de Cristo (oración litúrgica, comunitaria y personal) y la acogida solidaria en la comunidad cristiana con fuertes derivaciones hacia los diversos campos de caridad. Los vacíos religiosos de nuestra sociedad son propicios para el éxito de las nuevas sectas y nuevos movimientos religioso (cfr. RMi 38).

 

Ningún creyente y ningún grupo religioso tiene que quedar aislado, a merced de estos embates sectarios, que hoy tienden a imponerse como una nueva escalvitud de tipo “pseudo carismático” y “pseudo pentecostal”.

 

Cabe incluir o relacionar con el fenómeno de las sectas de fuerte tono vivencial, el fanatismo religioso, bastante generalizado en casi todas las religiones actuales, cuando la razón queda obnubilada por una actitud pseudoreligiosa. Al mismo tiempo, se da un fuerte relativismo y secularismo cuando la razón mal interpretada soslaya la religión. Entonces el campo queda abierto a las supersticiones. La ruptura entre religión (fe) y razón puede tener consecuencias fatales para la vida social y también para la vida cristiana y la evangelización.[13]

 

7º) El nuevo areópago del diálogo interreligioso:

 

El diálogo interreligioso, entre el cristianismo y las otras religiones, necesita llegar al conocimiento mutuo y respetuoso, así como al intercambio sincero, leal y objetivo sobre las experiencias auténticas de encuentro con Dios (que es el objetivo de la “contemplación”). En toda actitud religiosa auténtica han una huella de humildad o realismo y, al mismo tiempo, de confianza en la bondad de Dios. El Señor ha puesto en culturas y religiones una “semilla” de actitud filial y una “preparación evangélica”, que sólo puede llegar a su plenitud en el “Padre nuestro” enseñado y vivido por Jesús.[14]

 

Las diversas religiones “reflejan no pocas veces un destello de aquella Verdad que ilumina a todo hombre” y “se esfuerzan por responder de varias maneras a la inquietud del corazón humano, proponiendo caminos, es decir, doctrinas, normas de vida y ritos sagrados” (NAe 2). En este contexto la Iglesia anuncia a Cristo, “en quien los hombres encuentran la plenitud de vida religiosa” (ibídem).

 

Esta relación interreligiosa es un “coloquio verdaderamente humano a la luz divina... para advertir en diálogo sincero y paciente las riquezas que Dios, generoso, ha distribuido a las gentes” (AG 11). Es actitud que manifiesta el “profundo respeto hacia todo lo que en el hombre ha obrado el Espíritu, que sopla donde quiere (cfr. Jn 3,8)” (RMi 56).[15]

 

8º) El nuevo areópago del diálogo intercultural:

 

El diálogo interculturalsupone un encuentro de personas que se expresan de modo distinto, aunque no opuesto, sobre las realidades del ser humano, del cosmos y de la trascendencia. Todos los seres humanos y todos los pueblos están insertados en una misma familia humana y en una historia providencial, como hijos del mismo Padre, quien hace salir “su sol” indiscriminadamente (cfr. Mt 5,45). Todas las culturas han dejado entrever que “en lo más profundo del corazón del hombre está el deseo y la nostalgia de Dios” (Fides et Ratio  24). “El hombre busca un absoluto que sea capaz de dar respuesta y sentido a toda su búsqueda” (ibídem, 27).

 

Es necesario evangelizar la cultura “hasta sus mismas raíces”, porque “la ruptura entre Evangelio y cultura es sin duda alguna el drama de nuestro tiempo” (EN 20). El diálogo es siempre y simultáneamente interpersonal, intercultural, interreligioso, social. Debe ser respetuoso de todos los destellos de verdad y de bien.

 

El diálogo entre culturas es una actitud evangelizadora permanente por parte de la Iglesia, la cual está en estado de inculturación continua. Al insertarse el evangelio en una cultura diferente, ésta es valorada, purificada y reorganizada. La Iglesia misionera, especialmente en la actualidad, está llamada a hacer este “paso” o “pascua” en la nueva cultura y en las culturas de todos los pueblos, sin mezcla, ni confusión, ni separación, siempre de camino hacia el Misterio de Cristo.

 

Se puede llegar al areópago del diálogo intercultural e interreligioso, solamente a través de una Iglesia en estado de inculturación consciente: quien escucha la Palabra guiado por el Espíritu Santo, queda tocado ontológicamente y movido por Cristo resucitado, enviado por el Padre, que ha comunicado a la Iglesia su misma misión universalista. “Todo ha sido creado por él y para él” (Col 1,16).

 

En estos fenómenos de relación interreligiosa e intercultural, San Pablo ha dejado una pista orientadora, citando en el areópago de Atenas una afirmación de la cultura griega: “Pues en él vivimos, nos movemos y existimos” (Hech 17,28). En toda religión y cultura, a pesar de las zonas obscuras (por el fanatismo pseudorreligioso o por el absolutismo de las ideologías), siempre quedan detalles imborrables de un amor eterno, que ya nada ni nadie podrá borrar jamás.

 

El diálogo interreligioso e intercultural sólo lo puede realizar adecuadamente un creyente o una comunidad, que hayan sido tocados por Cristo resucitado. Así la inculturación llega a la persona y a la comunidad “de manera vital y en profundidad” (EN 20). La persona humana, en todo su contexto cultural y primordial, queda tocada por Cristo muerto y resucitado.

 

Un pueblo al que se llega usando su cultura, está inquieto y  abierto a algo más, para encontrar el verdadero sentido de la vida, que sólo puede darse en Cristo. Una fe viva en el Resucitado abre este proceso de transformación de la cultura en todas sus dimensiones.

Es un pueblo entero y no sólo algún individuo, quien se inculturaliza: los valores culturales auténticos se transforman integrándolos en el cristianismo. En este sentido se puede hablar de enraizamiento del cristianismo en las culturas (cfr. EAf nn.55-70).

 

Ante la realidad de una nueva cultura naciente, los países de antigua cristiandad están llamados a aceptar con humildad que, al menos algunos de ellos, se han convertido en verdaderos países de misión “ad gentes”. Así sabrán captar mejor que la inculturación de las jóvenes Iglesias está iniciando dentro de un proceso normal de la inserción de la Revelación. Este proceso de inculturación invita y ayuda a establecer estructuras más sólidas para que duren más, también con sus expresiones artísticas.

 

Actualmente la inserción del evangelio en las culturas (inculturación) y más concretamente en la cultura emergente, es una prioridad inaplazable, que supone un proceso de aprecio, de purificación y de invitar a pasar a la plenitud en Cristo. Propiamente es la inculturación del amor de Cristo que murió por todos.[16]

 

Así lo resume el instrumento de trabajo para el 2º Sínodo de África: “El Evangelio se inserta en el tejido humano de la cultura... La Iglesia puede formar cristianos auténticos sólo asumiendo seriamente la inculturación del mensaje evangélico... El Apóstol (Pablo) ha sido un excepcional artífice de la inculturación del mensaje bíblico dentro de las nuevas coordenadas culturales... La Iglesia debe hacer penetrar la Palabra de Dios en la multiplicidad de las culturas y expresarla según sus idiomas, sus conceptos, sus símbolos y sus tradiciones religiosas”.[17]

 

9º) El nuevo areópago de la “esperanza” ante el desánimo y la falta de esperanza en las comunidades:

 

La esperanza cristiana es una  respuesta alentadora al areópago del desánimo. Ante ciertos desánimos de la sociedad y también dentro de la misma Iglesia, es necesario presentar la esperanza cristiana como propuesta definitiva sobre el sentido de la vida. Es la esperanza que ahonda más sus raíces en las realidades humanas para transformarlas desde dentro, puesto que “la esperanza escatológica no merma la importancia de las tareas temporales” (GS 21).

 

El tono de la acción evangelizodra ha de ser siempre de esperanza: “Los gozos y las esperanzas, las tristezas y las angustias de los hombres de nuestro tiempo, sobre todo de los pobres y de cuantos sufren, son a la vez gozos y esperanzas, tristezas y angustias de los discípulos de Cristo” (GS 1).

 

En la vida de Pablo y en su doctrina encontramos esta orientación profunda de quienes, por estar enraizados en Cristo, viven “gozosos en la esperanza” (Rom 12,12). Es la afirmación tendría que plasmarse en testimonio concreto y vivencial: “Hemos puesto nuestra esperanza en el Dios vivo” (1Tim 4,10). San Pedro  invitaba también así a los primeros cristianos:“Dad culto al Señor en vuestros corazones, siempre dispuestos a dar respuesta a todo el que os pida razón de vuestra esperanza” (1Pe 3,15).

 

Afirma Benedicto XVI: “San Pablo había comprendido muy bien que sólo en Cristo la humanidad puede encontrar redención y esperanza. Por ello, sentía apremiante y urgente la misión de «anunciar la promesa de la vida en Cristo Jesús» (2Tim 1,1), «nuestra esperanza» (1Tim 1,1), para que todas las gentes pudieran compartir la misma herencia, siendo partícipes de la promesa por medio del Evangelio (cfr. Ef 3,6). Era consciente de que la humanidad, privada de Cristo, está «sin esperanza y sin Dios en el mundo» (Ef 2,12)”.[18]

 

10º) El nuevo areópago de la juventud:

 

El areópago de la juventud actual debe afrontarse en esta línea de esperanza cristiana. “La crisis de esperanza afecta más fácilmente a las nuevas generaciones que, en contextos socio-culturales faltos de certezas, de valores y puntos de referencia sólidos, tienen que afrontar dificultades que parecen superiores a sus fuerzas”.[19]

 

La acción evangelizadora debe llegar especialmente al campo de la juventud y de la infancia, donde se fragua el futuro de la humanidad actual. Es un campo que se entrelaza con los nuevos areópagos de la cultura emergente y de los medios de comunicación social. “Los jóvenes en numerosos países representan ya más de la mitad de la población” (RMi 37).

 

La crisis en la juventud de cada época origina ordinariamente un alejamiento inicial de la religión, para descubrir posteriormente, de un modo más personal, la religión como encuentro comprometido con Cristo, a quien se acoge como a amigo personal e insustituible, el único que da sentido a la vida a la historia humana. De ahí la importancia de una educación catequística adecuada y vivencial.

 

Ante los nuevos cambios culturales y sociales, la sensibilidad reformista y universalista del joven puede orientarse hacia el redescubrimiento de los valores auténticos del evangelio, todavía no puestos en práctica suficientemente. El concilio Vaticano II invita a los jóvenes a reaccionar según el ideal reformador del evangelio: “Edificad con entusiasmo un mundo mejor que el de vuestros mayores. La Iglesia os mira con confianza y amor” (Pablo VI, Mensaje a los jóvenes, en la clausura del Vaticano II).

 

La juventud es “causa de esperanza” (Santo Tomás I-II, q.40, a.6) por su capacidad de afrontar y construir la vida porque siempre se puede hacer lo mejor. Los jóvenes son portadores de esperanza. San Juan alienta a los jóvenes a aprovechar sus cualidades para responder a la vocación cristiana: “Os escribo, jóvenes, porque sois fuertes, y la palabra de Dios permanece en vosotros, habéis vencido al maligno” (1Jn 2,14). Por esto, hay que presentarles a “Cristo, el héroe verdadero, humilde y sabio, el Profeta de la verdad y del amor, el compañero y amigo de los jóvenes” (Pablo VI, Mensaje a los jóvenes, en la clasura del Concilio Vaticano II).

 

Al presentar a los jóvenes las situaciones actuales, conviene plantearles esta pregunta clave: “¿Cómo hacer llegar el mensaje de Cristo a los jóvenes no cristianos, que son el futuro de Continentes enteros?” (RMi 37). Si responden generosamente a la llamada, “tendrán ante sí una vida atrayente y experimentarán la verdadera satisfacción de anunciar la «buena nueva» a los hermanos y hermanas, a quienes guiarán por el camino de la salvación” (RMi 80).[20]

 

11º) El nuevo reto y areópago de hacer misioneras a todas las Iglesia particulares y comunidades:

 

Un gran reto, de carácter intraeclesial es el fortalecimiento de “las Iglesias particulares”, que tienen que llegar a ser “suficientemente fundadas y dotadasde energías propias y de madurez” (AG 6), para afrontar ellas mismas, con sus propios medios más adecuados, las situaciones y retos con herramientas propias y más eficaces.

 

La falta de personal apostólico en una Iglesia particular cuestiona y compromete a toda la Iglesia universal y a cada comunidad eclesial. No es adecuada la actual distribución de apóstoles y de recursos económicos, que origina una dependencia excesiva del exterior. Mientras hay que prestar especial atención a las grandes urbes, al mismo tiempo no puede olvidarse la importancia de la acción misionera en las zonas rurales más marginadas.

 

Las Iglesias particulares o locales necesitan potenciarse para afrontar las propias situaciones culturales y sociológicas, sin perder la perspectiva de la comunión universal. Mientras se tiende a utilizar los elementos culturales propios, hay que guardar la unidad y la universalidad, porque “solamente una Iglesia que mantenga la conciencia de su universalidad y demuestre que es de hecho universal, puede tener un mensaje capaz de ser entendido, por encima de los límites regionales, en el mundo entero” (EN 63).

 

“La «Iglesia de Dios» no es sólo la suma de distintas Iglesias locales, sino que las diversas Iglesias locales son a su vez realización de la única Iglesia de Dios. Todas juntas son la «Iglesia de Dios», que precede a las distintas Iglesias locales, y que se expresa, se realiza en ellas”.[21]

 

La Iglesia particular es sujeto y no sólo objeto de la misión. Por esto, está llamada a reconocerse como familia y comunidad misionera, que parte también de un “camino de Damasco”, como encuentro con Cristo resucitado. La Iglesia se pone al servicio de la reconciliación, de la justicia y de la paz, cuando se edifica como familia de Dios local y universal. Los apóstoles son siempre enviados por la comunidad eclesial o en su nombre; ésta garantiza la autenticidad de la misión recibida del Señor.

 

La “aldea global” (”village global”) interpela a la “catolicidad” y a la Colegialidad Episcopal. Hay que hacer misionera a toda la Iglesia y a todas las Iglesias particulares; no basta con instituciones concretas o particulares, aunque éstas son siempre necesarias. Los creyentes en Cristo están llamados a vivir el “sentido de Iglesia”, como Cuerpo de Cristo,  que se construye en comunión. No se pueden separar los dos polos: Cristo y su Iglesia. “Quien tiene espíritu misionero siente el ardor de Cristo por las almas y ama a la Iglesia, como Cristo… Para todo misionero y toda comunidad « la fidelidad a Cristo no puede separarse de la fidelidad a la Iglesia” (RMi 89).

 

La misión “a todas las gentes” es connatural a la Iglesia particular: “Todo el misterio de la Iglesia está contenido en cada Iglesia particular, con tal de que ésta no se aísle, sino que permanezca en comunión con la Iglesia universal y, a su vez, se haga misionera” (RMi 48). Así se llega a una consecuencia lógica: “Como la Iglesia particular debe representar lo mejor que pueda a la Iglesia universal, conozca muy bien que ha sido enviada también a aquellos que no creen en Cristo y que viven en el mismo territorio, para servirles de orientación hacia Cristo con el testimonio de la vida de cada uno de los fieles y de toda la comunidad” (AG 20).[22]

 

12º) El nuevo areópago de las vocaciones en su dimensión misionera:

 

El areópago intraeclesial tal vez más urgente y desafiante es el de la vocación cristiana y de las vocaciones específicas (laical, religiosa, sacerdotal) en su dimensión misionera. La respuesta a la vocación es “una respuesta positiva que presupone siempre la aceptación y la participación en el proyecto que Dios tiene sobre cada uno; una respuesta que acoja la iniciativa amorosa del Señor y llegue a ser para todo el que es llamado una exigencia moral vinculante, una ofrenda agradecida a Dios y una total cooperación en el plan que Él persigue en la historia”.[23]

 

La vocación laical es inserción y participación de los laicos especialmente en las estructuras sociales, con su propia responsabilidad y en comunión de Iglesia. Ellos son ciudadanos insertados en la realidad y en las estructuras concretas, ejerciendo sus deberes profesionales y religiosos sin divorcio, ya en el presente mundo (cfr. GS 43). A ellos toca en particular el difícil y muy noble arte de la política (cfr. GS 75 y ChL 42). Están llamados a compartir la responsabilidad de la misión universal en comunión con la Iglesia particular y siguiendo las indicaciones y oportunidades de la Congregación para la Evangelización de los Pueblos.

 

El testimonio de santidad es de inserción responsable y comunional (eclesial) en las estructuras humanas. La inserción misionera del laicado en las estructuras humanas dependerá e su capacidad de ser fermento evangélico y de vivir la comunión eclesial.[24]

 

Por parte de la vida consagrada, el testimonio de santidad es de radicalismo evangélico. La Iglesia necesita siempre la santidad, la profecía, la actividad evangelizadora y de servicio de las personas consagradas, para ser “visibilidad los rasgos caracterçisticos de Jesús –virgen, pobre y obediente- en medio del mundo” (VC 1). “Verdaderamente la vida consagrada es memoria viviente del modo de existir y de actuar de Jesús como Verbo encarnado” (VC 22).[25]

 

Por parte de los sacerdotes ministros, el testimonio de santidad es de ser signo claro del Buen Pastor. Por el sacramento del Orden, se configuran a Cristo Cabeza y Pastor, para prolongar su misma misión y su mismo estilo de vida evangélica. “El don espiritual  que recibieron los presbíteros en la ordenación no los dispone sólo para una misión limitada y res­tringida, sino para una misión amplísima y universal de salva­ción «hasta los extremos de la tierra» (Hech 1,8), porque cualquier ministerio sacerdotal participa de la misma amplitud universal de la misión confiada por Cristo a los Apóstoles” (PO 10).[26]

 

En las exhortaciones postsinodales y demás documentos postconciliares, al hablar de cada vocación o estado de vida, se describe la situación mundial, presentando los retos, de signo negativo o también positivo. En estos signos (positivos y negativos) se inserta cada vocación cristiana con su peculiar característica.[27]

 

En el conjunto de vocaciones cristianas destaca hoy la colaboración peculiar de la mujer (dignidad, colaboración responsable y misionera). “En las enseñanzas de Jesús, así como en su modo de comportarse, no se encuentra nada que refleje la habitual discriminación de la mujer, propia del tiempo... Este modo de hablar sobre las mujeres y a las mujeres, y el modo de tratarlas, constituye una clara «novedad» respecto a las costumbres dominantes entonces” (Mulieris Dignitatem 13). “En María, Eva vuelve a descubrir cuál es la verdadera dignidad de la mujer, de su humanidad femenina” (ibídem 11).[28]

 

La Palabra encuentra una acogida y sensibilidad especial en la mujer, que puede llegar a ser, como la Magdalena, “apóstol de los apóstoles”  (MD 16, citando a Santo Tomás de Aquino). Es significativo que Pablo compare su acción ministerial a la maternidad (Gal 4,19), de la que es modelo María (cfr. Gal 4,4) y que Jesús haya invitado a superar las dificultades no tanto con la agresividad del varón cuanto con la generosidad de la mujer-madre (cfr. Jn 16,20-22). “El apóstol hombre siente la necesidad de recurrir a lo que es por esencia femenino, para expresar la verdad sobre su propio servicio apostólico” (MD 22).[29]

 

13º) El nuevo areópago de los nuevos pobres y  nuevos tipos de pobreza:

 

El desarrollo humano integral tiende a liberar a los pobres de la opresión y de la marginación, por un proceso constructivo y reconciliador de la justicia y de la paz. La misión cristiana es siempre misión hacia los pobres y hacia los ricos indiscriminadamente. Se trata de liberar a los pobres de su miseria y opresión, para recuperar la dignidad humana, mientras se ayuda a los hermanos mejor situados (bienestantes) a compartir los bienes con los demás, siguiendo el ejemplo de los primeros cristianos (cfr. Hech 4,32).

 

La colaboración en el desarrollo y progreso humano para liberar a los pobres, no debe ser una mera filantropía ni una mera variante de la acción social. “El amor al prójimo enraizado en el amor a Dios es ante todo una tarea para cada fiel, pero lo es también para toda la comunidad eclesial, y esto en todas sus dimensiones: desde la comunidad local a la Iglesia particular, hasta abarcar a la Iglesia universal en su totalidad” (DCe 20).

 

En la caridad cristiana transparentan las bienaventuranzas. Los cristianos somos la Iglesia de las bienaventuranzas. La caridad evangélica se practica especialmente con los más pobres. La “opción preferencial por los pobres” (NMi 49) es una dimensión necesaria del ser cristiano y del servicio al Evangelio.

 

Jesús vivió la misión de “evangelizar a los pobres” (Lc 4,18). Es la nota característica de los tiempos mesiánicos, según la profecía de Isaías: “Los pobres son evangelizados” (Mt 11,5; Is 61,1). Jesús “siendo rico, por vosotros se hizo pobre, a fin de que os enriquecierais con su pobreza” (2Cor 8,9). “A todas las víctimas del rechazo y del desprecio Jesús les dice: «Bienaventurados los pobres » (Lc 6, 20). Además, hace vivir ya a estos marginados una experiencia de liberación, estando con ellos y yendo a comer con ellos (cfr. Lc 5, 30; 15, 2), tratándoles como a iguales y amigos (cfr. Lc 7, 34), haciéndolos sentirse amados por Dios y manifestando así su inmensa ternura hacia los necesitados y los pecadores (cfr. Lc 15, 1-32)” (RMi 14).

 

La encíclica misionera de Juan Pablo II insiste en este aspecto: “El testimonio evangélico, al que el mundo es más sensible, es el de la atención a las personas y el de la caridad para con los pobres y los pequeños, con los que sufren” (RMi 42). Por esto, “la actividad misionera lleva a los pobres luz y aliento para un verdadero desarrollo, mientras que la nueva evangelización debe crear en los ricos, entre otras cosas, la conciencia de que ha llegado el momento de hacerse realmente hermanos de los pobres en la común conversión hacia el « desarrollo integral », abierto al Absoluto” (RMi 59).

 

Esta atención a los pobres y especialmente a los más pobres, es decir a los que no tiene la fe, indica que la caridad no tiene fronteras. Por esto, “la Iglesia en todo el mundo quiere ser la Iglesia de los pobres... quiere extraer toda la verdad contenida en las bienaventuranzas de Cristo y sobre todo en esta primera: «Bienaventurados los pobres de espíritu...». Quiere enseñar esta verdad y quiere ponerla en práctica, igual que Jesús vino a hacer y enseñar”.[30]

 

14º) El nuevo areópago de atención pastoral a los enfermos y a las  nuevas enfermedades:

 

La pastoral de los enfermos tiene en cuenta que en estos momentos de dolor, donde queda implicada toda la familia, se suscita la pregunta sobre el sentido de la vida. Por esto, el cuidado de los enfermos ha de ser una de las prioridades en la Iglesia y en la sociedad humana. La pastoral de la salud abarca muchas facetas, sin olvidar ofrecer a los paciente una ayuda espiritual especial, que supone cercanía fraterna y escuha.

 

Jesús resucitado sigue presente en el mundo para salvar al ser humano en toda su integridad y unidad de cuerpo y alma (cfr. GS 14). Su acción salvífica se actualiza en cada período histórico: “Pasó haciendo el bien” (Hech 10,38) y “cargó con nuestras enfermedades” (Mt 8,17).

 

Frecuentemente la enfermedad expresa o también produce la división interna del corazón humano, que necesita ser sanado desde la raíz (cfr. GS 13). A la luz de la fe, el creyente descubre que Jesús se describe a sí mismo en la parábola del buen samaritano (cfr. Lc 10,33-34). La sanación forma parte de la misión confiada por Jesús a sus apóstoles: “sanad a los enfermos” (Mt 10,8; cfr. Mc 16,18). El sacramento de la unción es un signo portador de gracia para la salud integral del enfermo.

 

La realidad de las enfermedades y de la muerte, a la luz de la fe, se convierte en mayor aprecio de la salud y de la vida terrena, para transformarla según el espíritu de las bienaventuranzas y del mandato del amor. Entonces la vida y la salud recuperan su pleno sentido: el de servir amando a Dios y a los hermanos. Las realidades humanas de salud y enfermedad, pasan a ser, por medio de los sacramentos, prolongación de la misma vida de Cristo en su caminar hacia la Pascua.

 

Hoy como en toda época histórica, “Jesús se identifica con los pobres: los hambrientos y sedientos, los forasteros, los desnudos, enfermos o encarcelados. « Cada vez que lo hicisteis con uno de estos mis humildes hermanos, conmigo lo hicisteis » (Mt 25, 40). Amor a Dios y amor al prójimo se funden entre sí: en el más humilde encontramos a Jesús mismo y en Jesús encontramos a Dios” (DCe 15). Por esto, “la Iglesia es la familia de Dios en el mundo. En esta familia no debe haber nadie que sufra por falta de lo necesario. Pero, al mismo tiempo, lacaritas-agapé supera los confines de la Iglesia; la parábola del buen Samaritano sigue siendo el criterio de comportamiento y muestra la universalidad del amor que se dirige hacia el necesitado encontrado « casualmente » (cf. Lc 10, 31), quienquiera que sea” (DCe 25).[31]

 

15º) El nuevo areópago de la familia:

 

La familia es el areópago tal vez más en más alto riesgo. La familia está llamada a ser la primera comunidad misionera, de la que depende el futuro del mundo y de la Iglesia, como célula fundamental de la sociedad.

 

En una perspectiva sociológica auténtica, la familia es “escuela de humanidad más completa y más rica” (GS 52). La familia es “la célula primera y vital de la sociedad” (AA 11). Es un dato constatable que “el futuro del mundo y de la Iglesia se fragua en la familia” Familiarisi consortio 75).

 

Para encuadrar a la familia en su dimensión misionera,  “los padres han de ser para con sus hijos los primeros predicadores de la fe, tanto con su palabra como con su ejemplo, y han de fomentar la vocación propia de cada uno, y con especial cuidado la vocación sagrada” (LG 11). Por esta realidad eclesial, “la familia está llamada a anunciar, celebrar y servir el Evangelio de la vida” (Evangelium vitae 92). La familia “tiene la misión de custodiar, revelar y comunicar el amor” (FC 17).

 

Su acción evangelizadora es, pues, intrafamiliar, intraeclesial, interfamiliar y hacia toda la sociedad. La familia es un campo preferencial, tanto para evangelizarla como para hacerla evangelizadora, defensora de sus derechos inalienables, tanto en sí misma como en el campo de la educación donde ella colabora con su propia e inalienable responsabilidad. En este campo educacional, la familia cristiana está llamada a ser testimonio creíble del Evangelio de la esperanza. “También la familia humana, hoy más unida por el fenómeno de la globalización, necesita además un fundamento de valores compartidos, una economía que responda realmente a las exigencias de un bien común de dimensiones planetarias”.[32]

 

16º) El nuevo areópago de la formación humana, cristiana,  misionera:

 

El areópago de la educación en las escuelas y  universidades se enmarca en el contexto de la formación y desarrollo humano integral. Así se llega a la juventud, a las comunicaciones sociales, a todo el ambiente cultural y social.

 

Las exigencias de la evangelización actual requieren una formación adecuada. Esta formación capacita a los apóstoles de hoy para confrontarse críticamente con la cultura emergente. La formación catequética es imprescindible en este proceso de formación de personas y comunidades, ofreciendo un acompañamiento espiritual permanente, en un itinerario “mistagógico” que presente los contenidos de la fe para celebrarlos, vivirlos y anunciarlos.[33]

 

La teología de la misión, la misionología, necesita una clarificación y divulgación mejor. La misión es cuestión de fe y necesita absolutamente un clima de oración. “Sin la misión ad gentes esta dimensión misionera de la Iglesia quedaría privada de su significado fundamental” (RMi 34). Hay que evangelizar los estudios de teología (la misma formación teológica): cuando la Escritura es alma de toda la teología y de toda la pastoral, a la luz del Misterio de Cristo, entonces el Señor resucitado se muestra misionero del Padre (cfr. EN 7) que confía y continúa su misión en la Iglesia. Por esto, la  “missio Dei” es al mismo tiempo “missio Ecclesiae”.[34]

 

El misterio de salvación según los planes de Dios tiene perspectiva “holística”: se evangeliza teniendo en cuenta la integridad de la creación, así como la situación concreta histórica, a la luz de la revelación de Jesucristo presente y activo en su Iglesia. Entonces se hace patente que la misión (como la fe) no es una ideología.

 

A partir de una buena teología sobre la misión, la Iglesia afronta la historia (y el sentido de la historia) como un areópago por evangelizar. En el paradigma y areópago de la historia de la Iglesia y de la sociedad, se discierne lo propiamente auténtico y la estrecha relación entre todos los pueblos.El centro del horizonte histórico es siempre Jesús, testimoniando por las grandes figuras misioneras.

 

La evangelización es plenamente humana (integral) cuando se realiza según el plan de Dios para toda la humanidad. Hoy se necesita afrontar diversas estrategias, potenciando a los agentes de pastoral (también en su formación inicial y permanente). Toda la Iglesia es misionera.[35]

 

17º) El aareópago de la “Nueva Evangelización”:

 

El areópago de la nueva evangelización supone un cambio de métodos y expresiones, aunque no de contenidos evangélicos; pero es sobre todo una llamada a un nuevo fervor por parte de los apóstoles. La Nueva Evangelización es una llamada eclesial “ad intra” para una auténtica renovación.

 

La “nueva evangelización” se orienta a “una situación intermedia, especialmente en los países de antigua cristiandad, pero a veces también en las Iglesias más jóvenes, donde grupos enteros de bautizados han perdido el sentido vivo de la fe o incluso no se reconocen ya como miembros de la Iglesia, llevando una existencia alejada de Cristo y de su Evangelio” (RMi 33).

 

La “nueva evangelización” es un punto de referencia, a modo de necesidad urgente, en la que hay que comprometerse, sin confundirla con el proselitismo. Debe incluir el testimonio y un diálogo interreligioso profundo e inteligente, así como aprovechar el valor evangelizador de los bienes culturales.[36]

 

La atención a las pequeñas comunidades cristianas es imprescindible en este momento de globalización. Es una atención particular que afecta a parroquias, asociaciones, grupos bíblicos y de oración, peregrinaciones, movimientos apostólicos, nuevas comunidades, para encontrar nuevos caminos en vistas a afrontar la evangelización actual.

 

La evangelización en zonas urbanas necesita una acción pastoral más insertada y coordinada, por medio de una presencia (“itinerancia”) apostólica, que se concreta en disponibilidad, adaptabilidad, gratuidad en los servicios.

 

18º) El nuevo areópago de la Iglesia perseguida y martirial:

 

Las situaciones actuales de persecución y martirio recuerdan la época martirial de la Iglesia primitiva: “Por muchas persecuciones, hemos de entrar en el Reino de Dios” (Hech 14,22). Podríamos decir que se actualiza la situación permanente de la vida apostólica de San Pablo: “Somos perseguidos” (2Cor 12,11). Entonces aparece que “la sangre de los mártires es semilla de Cristianos” (Tertuliano). No se trata de complejo de persecución, sino de afrontar con espíritu de fe, con esperanza inquebrantable y con verdadero amor de donación y de perdón, que asegure la reconciliación en la verdad y la caridad.

 

Esta situación y actitud  martirial forma parte de la Kenosis de Cristo, que es siempre misterio de cruz (cfr. Fil 2,6ss). La encíclica Redemptoris Missio, después de citar el texto de filipenses, añade: “Se describe aquí el misterio de la Encarnación y de la Redención, como despojamiento total de sí, que lleva a Cristo a vivir plenamente la condición humana y a obedecer hasta el final el designio del Padre. Se trata de un anonadamiento que, no obstante, está impregnado de amor y expresa el amor. La misión recorre este mismo camino y tiene su punto de llegada a los pies de la cruz” (RMi 88).

 

El encuentro con las culturas y religiones, por parte del cristianismo, tiene que ser siempre con actitud “kenótica” de humildad y de cruz, en la perspectiva del mando del amor (“en esto conocerán que sois mis discípulos”: Jn 13,35). El misterio de Cristo es así, para transformar el sufrimiento y la humillación en renovación interior de los misioneros, disponibles para la persecución, la cruz, el sufrimiento (la misión no es turismo), y, de este modo, reflejar la actitud de Cristo de morir amando y perdonando.

 

Una nota característica de la evangelización será siempre la disponibilidad “martirial”. En efecto, el martirio es la encarnación suprema del Evangelio.[37]

 

19º) El nuevo areópago de construir la comunión eclesial (fundada en la Eucaristía) y de continuar promoviendo  el ecumenismo misionero:

 

La comunión eclesial es de eficacia  misionera. Sólo viviendo esta comunión eclesial, se podrá transformar en unidad verdadera el fenómeno de la interculturalidad. “El Evangelio fue el fermento de la libertad y del progreso en la historia humana, incluso temporal, y se presen­ta constantemente como germen de fraternidad, de unidad y de paz” (AG 8).

 

La “comunión” eclesial se realiza y se concretiza en el amor a la Iglesia, a imitación de Cristo, según la instancia de Pablo (cfr. Ef 5,25). La comunión de los Apóstoles orando con María, figura de la Iglesia, es factor de unidad (cfr. Hech 1,14).

 

La comunión eclesial es signo eficaz de evangelización. Así manifiesta, como signo eficaz, el misterio de Cristo resucitado presente en la Iglesia, misterio de salvación universal. “El es quien nos revela que «Dios es amor» (1Jn 4.8), a la vez que nos enseña que la ley fundamental de la perfección humana, y, por tanto, de la transformación del mundo, es el mandamiento nuevo del amor. Así, pues, a los que creen en la caridad divina les da la certeza de que abrir a todos los hombres los caminos del amor y esforzarse por instaurar la fraternidad universal no son cosas inútiles” (GS 38).

 

El testimonio evangélico de la caridad se expresa de modo especial en la “comunión” eclesial. La fuerza del anuncio del Evangelio de la esperanza será más eficaz si se une al testimonio de una profunda unidad y comunión en la Iglesia; la eficacia de la evangelización depende del testimonio de unidad por parte de los cristianos.

 

La “comunión” eclesial realiza la unidad pedida por Jesús: “Como tú, Padre, en mí y yo en ti, que ellos también sean uno en nosotros, para que el mundo crea que tú me has enviado” (Jn 17,21). Puesto que la “comunión” eclesial es un signo eficaz de evangelización y un “camino e instrumento de evangelización” (EN 77), la falta de unidad entre los cristianos es “uno de los grandes males de la evangelización”; por esto, “la suerte de la evangelización está ciertamente vinculada al testimonio de unidad dado por la Iglesia” (ibídem).

 

La Iglesia se hace realidad de “comunión”, a partir de la Eucaristía, puesto que es la “fuente y cumbre de toda la vida cristiana” (LG 11), la “fuente y culminación de toda la evangelización” (PO 5). Ella “contiene todo el bien espiritual de la Iglesia, es decir, Cristo mismo, nuestra Pascua” (PO 5). La Eucaristía es, pues, “el compendio y la suma de nuestra fe” (CEC 1327). Por esto, “no se edifica ninguna comunidad cristiana si no tiene como raíz y quicio la celebración de la santísima eucaristía... Esta celebración, para que sea sincera y cabal, debe conducir lo mismo a las obras de caridad y de mutua ayuda que a la acción misional y a las varias formas del testimonio cristiano” (PO 6).

 

“La eucaristía construye la Iglesia” (RH 20) y la Iglesia hace posible la eucaristía. Al comer de mismo pan, llegamos a ser un mismo cuerpo por la comunión fraterna y eclesial: “porque aun siendo muchos, somos un solo pan y un solo cuerpo, pues todos participamos de un solo pan” (1Cor 10,17). La Eucaristía es “el signo de la unidad y vínculo de caridad” (SC 47).

 

En el campo de la evangelización, “los trabajos apostólicos se ordenan a que, una vez hechos hijos de Dios por la fe y el bautismo, todos se reúnan, alaben a Dios en medio de la Iglesia, participen en el sacrificio y coman la cena del Señor” (SC 10).

 

La construcción de la comunión eclesial a partir de la Eucaristía, es la clave de la misión: “La Eucaristía, construyendo la Iglesia, crea precisamente por ello comunidad entre los hombres” (Ecclesia de Eucharistia 24). “La Eucaristía es fuente de unidad eclesial y, a la vez, su máxima expresión” (Mane nobiscum domine 21). “La comunión tiene siempre y de modo inseparable una connotación vertical y una horizontal: comunión con Dios y comunión con los hermanos y hermanas. Las dos dimensiones se encuentran misteriosamente en el don eucarístico” (Sacramentum Caritatis 76). “Por eso la Eucaristía no es sólo fuente y culmen de la vida de la Iglesia; lo es también de su misión: Una Iglesia auténticamente eucarística es una Iglesia misionera” (ibídem 84).[38]

 

El camino ecuménico salva la peculiaridad de los dones recibidos, evitando el sincretismo y el relativismo. El intercambio de dones recibidos supone una actitud de autenticidad y de fidelidad. “La unidad debe ser el resultado de una verdadera conversión de todos, del perdón recíproco, del diálogo teológico y de las relaciones fraternas, de la oración y de la perenne docilidad a la acción del Espíritu Santo, que es también el Espíritu de reconciliación” (RP 9). “El auténtico ecumenismo no se da sin la conversión interior” (UR 7) y sin la “renovación de la Iglesia” (UR 6) puesto que se tiende a “una vida más pura según el evangelio” (UR 7); “esta conversión del corazón y santidad de vida, junto con las oraciones... han de considerarse como alma de todo el movimiento ecuménico” (UR 8).[39]

 

El proceso de reconciliación y paz se realiza en armonía (cfr. 1Cor 13,11), primordialmente como reconciliación con Dios (cfr. 2Cor 6,18-20), que se concreta siempre en reconciliación con los hermanos, consigo mismo y con el cosmos. Es proceso de conversión personal y estructura. La Iglesia necesita presentar esta reconciliación en su mismo proceso de comunión interna.

 

20º) La peculiaridad de los nuevos areópagos en los diversos Continentes:

 

Los cinco Continentes son ya en realidad país de misión, con diversas tonalidades. Hay que intercambiar misioneros en las múltiples direcciones. La responsabilidad “presente” (en “tiempo real”, como se exige en los “medios”), tiene que ser responsabilidad solidaria, “tiempo favorable... tiempo de salvación” (1Cor 6,2).

 

Durante la segunda mitad del siglo XX, además de la celebración del concilio Vaticano II y de innumerables encuentros internacionales, han tenido lugar los Sínodos Episcopales “Continentales”. En esas celebraciones se ha reflexionado sobre la realidad de las Iglesias de cada Continente y el Papa ha publicado la respectiva exhortación apostólica postsinodal, donde se refleja todo el trabajo realizado colegialmente, también con la aportación de todas las Iglesias particulares.

 

Las circunstancias de cada Continente son diversas, pero, en realidad, la situación evangelizadora universal se está convirtiendo en una situación “global”, que invita a una “nueva evangelización”.[40]

 

Las situaciones misioneras frecuentemente son hoy parecidas a nivel universal, debido al fenómeno de la globalización y a la fuerza masiva de medios de comunicación. Los documentos sobre las situaciones en cada Continente, al describir la realidad peculiar y diferenciada a la vez, lo hacen con un tono de realismo y esperanza, así como de urgencia de santificación y misión.

 

En África, los nuevos areópagos están enmarcados en un contexto de gran vitalidad eclesial en vocaciones y organización pastoral, acentuando la responsabilidad laical, la inculturación y la formación. Estas situaciones actuales son también consecuencia de una problemática anterior a modo de nuevo colonianismo: guerras por competencia de poderes políticos y económicos multinacionales (suscitadas desde fuera y aprovechando las diferencias étnicas), grandes masas migratorias también hacia fuera de Africa, inestabilidad de los regímenes políticos, corrupción administrativa, substracción de las materias primas y empobrecimiento de la población, nuevas enfermedades, desempleo, neocolonianismo cultural... Por esto, se insta a la formación inicial y permanente (sacerdotes, religiosos, laicos), para realizar la inculturación en comunión eclesial, con la responsabilidad de laicos bien formados y el uso más adecuado de los medios de comunicación social, etc.[41]


En América, distinguiendo entre la parte septentrional, central y meridional, se constata la gran fuerza de la religiosidad popular, el sentido de Dios, la solidaridad, la sensibilidad respecto a los problemas sociales; al mismo tiempo, se insta a afrontar los problemas de la injusta distribución de los bienes, la inestabilidad administrativa, etc.[42]

 

En Asia se subraya su gran sentido de religiosidad, la riqueza de sus culturas milenarias, su capacidad de contemplación y organización, etc. Al mismo tiempo, se observan en la actualidad tendencias materialistas, fanatismos de algunos sectores religiosos, falta de misionariedad en algunas comunidades, lentitud o también defectos en el proceso de inculturación, etc. Últimamente se ha acentuado el fenómeno de la religión como fuente de disturbios. Es una realidad cuestionadora la existencia de injusticias, diferencias socioeconómicas, desequilibrio entre diversas religiones, pobreza... El diálogo se presenta como un camino conjunto con otras religiones en comprensión mutua. La ruptura de esta comprensión ha producido persecuciones contra la Iglesia. Por parte de la Iglesia, se necesita emprender un nuevo camino de evangelización que salvaguarde la dignidad de pueblos y personas, el respeto a las diversas religiones, una promoción de diálogo que mejore la relación con la cultura y sociedad.[43]

 

En Oceanía, por parte de innumerables islas del Pacífico, se puede observar un cristianismo bastante arraigado en poblaciones indígenas, con cierto riesgo de aislamiento y dispersión, así como de falta de inculturación; Australia y Nueva Zelanda (de mayoría cristiana) tienen una problemática parecida al Occidente, también respecto a las masas migratorias y el proceso de descristianización.[44]

 

En Europa, se señalan algunos signos negativos de mucha trascendencia para la evangelización, que tienen repercusión a nivel universal, debido a la influencia cultural, económica y política. Destacan los siguientes: el agnosticismo práctico, la indiferencia religiosa, el laicismo, la pérdida del sentido de la vida, el descenso de la natalidad, la disminución de las vocaciones al sacerdocio y a la vida consagrada, la inestabilidad del matrimonio (crisis familiares), las divisiones, las actitudes racistas, las tensiones interreligiosas, la indiferencia ética general, la búsqueda obsesiva de los propios intereses (individualismo, hedonismo), la marginación de los más débiles, el aumento del número de los pobres, nuevas formas de agresividad y violencia. Entre los signos positivos de esperanza se destacan: mayor sentido de la religiosidad en grupos selectos, toma de conciencia de la misión de cada bautizado, respeto de la dignidad de la mujer, unión entre los pueblos europeos, testimonio de los mártires, numerosos santos (antiguos y modernos), nuevos movimientos y comunidades, afianzamiento del movimiento ecuménico, etc.[45]

 

En todos los Continentes se señalan signos negativos: Afán desorbitado de lucro y de consumo, valorizar en sentido absoluto el progreso y la técnica, acentuar exageradamente la eficacia y utilidad, marginar a personas y pueblos, el menoscabo de la vida y dignidad humana también en la institución familiar, los brotes de racismo, el hambre de grandes multitudes, la mortalidad infantil, nuevas enfermedades (medicinas insuficientes), la degradación del ecosistema y de la atmósfera, la drogadicción, las guerras más o menos declaradas, la falta de educación cualificada para millones de personas (especialmente niños), las injusticias en el sistema económico, las corrupción administrativa, el aborto, la eutanasia, la manipulación de los embriones humanos, etc.

 

Pero los signos de esperanza son también parecidos en todas partes. Ecclesia in America: identidad cristiana (n.14), frutos de santidad (n.15), piedad popular (n.16), presencia católica oriental. Ecclesia in Africa: momento histórico alentador por los signos de esperanza (nn.9-29). Ecclesia in Asia: realidad pasada y presente (nn.5-9), la gracia de los mártires (n.49). Ecclesia in Oceania: actividad caritativa (nn.75-84). Ecclesia in Europa: posibilidad de una nueva evangelización (nn.11-17).

 

Los nuevos areópagos dejan entrever signos de esperanza: toma de conciencia universal sobre los derechos humanos, valoración de culturas y pueblos (rescate cultural), sentido de la libertad y dignidad humana, encuentro positivos de religiones, respeto del ambiente (ecología), ventajas de las comunicaciones inmediatas y globales, resurgir religioso y de interioridad, respeto a la dignidad y derechos de la mujer, “opción preferencial por los pobres” (NMi 49), nuevos movimientos y comunidades eclesiales, etc. Todo ello es un llamado urgente a evangelizar desde el Evangelio.

 

La misión “ad gentes”, en sus diversos niveles (geográfico, sociológico y cultural) será la nota característica para discernir si la evangelización local sigue el ritmo evangélico querido por el Señor y realizado especialmente por San Pablo. Muchos retos y problemas de la situación actual en el campo evangelizador local, no tienen solución si la Iglesia particular y toda comunidad cristiana no se abre a la misión “ad gentes”.

 

3.- AFRONTAR LOS NUEVOS AREÓPAGOS DE LA EVANGELIZACIÓN CON EL “ESPÍRITU” DE SAN PABLO

 

A)  La figura de Pablo como punto de referencia:

 

Pablo, a partir de su encuentro con Cristo resucitado en el camino de Damasco, quedó transformado de perseguidor en evangelizador. La frase clave de esta transformación queda reflejada en las palabras de Jesús: “Yo soy Jesús, a quien tú persigues” (Hech 9,5). El amor de Cristo le transformó en un amigo y en un apóstol iluminado por su amor.

 

Después de unos doce años de experiencias apostólicas iniciales, de oración y de contacto con las diversas comunidades eclesiales y también con quieres presidían la Iglesia, siguieron otros diez o doce años de viajes misioneros. Su llamada divina quedó también garantizada por la mediación de la Iglesia en Jerusalén y en Antioquía.

 

Sus tres grandes viajes fueron una labor constante para insertar el evangelio, que él había recibido, en diversas situaciones culturales y religiosas, tan complejas como en nuestro tiempo. El precio de esta inserción, que hoy llamaríamos inculturación, fue de continuas “flaquezas, ultrajes, dificultades, persecuciones y angustias” (2Cor 12,10). Él mismo describe sus grandes deseos de evangelizar el mundo entero, escribiendo la carta a los romanos, donde manifiesta su deseos de llevar el Evangelio al límite de Occidente (cfr. Rom 15,14-33).

 

Su mundo “globalizado” se concretó en las zonas del imperio romano en torno al Mediterráneo. Era un mundo cruzado por calzadas y vías marítimas, frecuentadas por mercaderes, soldados, peregrinos piadosos, esclavos (como mercancía o también porque huían de sus amos), prisioneros con sus guardianes, correos, funcionarios del gobierno, predicadores de nuevas doctrinas “mistéricas”... Al recordar sus viajes, no podemos menos de imaginar una amalgama de culturas y experiencias religiosas en torno a aquel pequeño mundo del Mediterráneo.

 

La estancia en las grandes urbes se prolongó a veces por largo tiempo, para poder enraizar allí el evangelio y expandirlo a sus alrededores. Sabemos, al menos, que estuvo un año y seis meses en Corinto (cfr. Hech 18,11), dos años en Éfeso (cfr. Hech 19,10, ó tres años años según Hech 20,31). Se calcula que recorrió durante sus viajes misioneros entre 15 y 16 mil km. En estos viajes fueron muchos los colaboradores que le ayudaron en la inserción adecuada del evangelio según las diversas situaciones.

 

Su acción evangelizadora se concretaba en crear células vitales (inicialmente pequeñas en número) en gran parte del Imperio, situadas a lo largo de la calzadas, donde se hablaba el griego “koiné” (común), aparte de sus propios idiomas. A estas mismas comunidades creadas o animadas por él, las informaba sobre la situación de comunidades hermanas y las formaba, siempre con la colaboración de sus discípulos.

 

Después de dos años en la cárcel de Cesarea y del viaje marítimo hacia Roma (por haber apelado al César), pasando por Malta, y después de un período de encarcelamiento y una probable libertad pasajera, entre los años 64 y 67, fue decapitado en Roma, capital del imperio romano.

 

Verdaderamente, “de perseguidor se transformó en testigo y misionero; fundó comunidades cristianas en Asia Menor y en Grecia, recorriendo miles de kilómetros y afrontando todo tipo de vicisitudes, hasta el martirio en Roma. Todo por amor a Cristo”.[46]

 

Pablo sigue siendo hoy maestro de los pueblos. Él mismo resume, casi al final de su vida, su itinerario apostólico: “Yo he sido constituido... maestro de los gentiles en la fe y en la verdad” (1Tim 2, 7). “Pero su mirada no se dirige solamente al pasado. «Maestro de los gentiles»: esta expresión se abre al futuro, a todos los pueblos y a todas las generaciones. San Pablo no es para nosotros una figura del pasado, que recordamos con veneración. También para nosotros es maestro, apóstol y heraldo de Jesucristo”.[47]

 

Pablo pudo inculturar el evangelio y proclamarlo en diversos “areópagos” culturales y sociológicos, porque, a partir de la gracia y vocación de su encuentro personal con Cristo, supo recibirlo y vivirlo en comunión con las comunidades eclesiales y especialmente con los Doce que eran “las columnas” de la Iglesia: con Pedro durante quince días (cfr. Gal 1,18), Santiago “el hermano del Señor” (Gal 1,19) y Juan (cfr. Gal 2,9). “La importancia que san Pablo confiere a la Tradición viva de la Iglesia, que transmite a sus comunidades, demuestra cuán equivocada es la idea de quienes afirman que fue san Pablo quien inventó el cristianismo: antes de proclamar el evangelio de Jesucristo, su Señor, se encontró con él en el camino de Damasco y lo frecuentó en la Iglesia, observando su vida en los Doce y en aquellos que lo habían seguido por los caminos de Galilea”.[48]

 

El universalismo de Pablo se concreta en la apertura a toda las gentes, puesto que Jesucristo, el crucificado y resucitado, ha dado la vida por todos. Su objetivo consiste en “que todas las naciones respondan a la fe” (Rom 1,5). La conversión de Pablo había sido un proceso de cambiar su perspectiva, más allá de las fronteras étnicas y religiosas de Israel, porque Cristo, como “luz de los gentiles”, aporta “la salvación hasta el fin de la tierra” (Hech 13,47; cfr. Is 49,69). La predicación del evangelio va más allá de toda frontera cultural y religiosa.[49]

 

En este proceso de inculturación y encuentro global, la Iglesia, por ser el “Cuerpo” de Cristo, muestra que las personas que la componen forman una sola familia. La diversidad de dones, cuando reina el amor, se hace un solo cuerpo, del que Cristo es “la cabeza” (Col 1,18). La diversidad de piedras vivas que componen la Iglesia como “templo del Espíritu Santo”, constituyen en Cristo una “ofrenda viva, santa y agradable a Dios” (Rom 12,1). Pablo quería “ser para los gentiles ministro de Cristo Jesús, ejerciendo el sagrado oficio del Evangelio de Dios, para que la oblación de los gentiles sea agradable, santificada por el Espíritu Santo” (Rom 15,16).

 

B)En Pablo, la misión es cuestión de amor:

 

Todo su empeño evangelizador brota de un triple amor, a Cristo, a la Iglesia y a toda la humanidad redimida por el Señor: “Vivo en la fe del Hijo de Dios que me amó y se entregó a sí mismo por mí” (Gal 2,20). Sin este amor a Cristo, no tiene explicación humana el celo misionero de Pablo para afrontar las nuevas situaciones culturales y sociológica: “Su fe consiste en ser conquistado por el amor de Jesucristo, un amor que lo conmueve en lo más íntimo y lo transforma. Su fe no es una teoría, una opinión sobre Dios y sobre el mundo. Su fe es el impacto del amor de Dios en su corazón. Y así esta misma fe es amor a Jesucristo”.[50]

 

La misión de hoy necesita apóstoles enamorados de Cristo como Pablo: “Es, pues, un deber urgente para todos anunciar a Cristo y su mensaje salvífico. «¡Ay de mí —afirmaba san Pablo— si no predicara el Evangelio!» (1Cor 9,16). En el camino de Damasco había experimentado y comprendido que la redención y la misión son obra de Dios y de su amor. El amor a Cristo lo impulsó a recorrer los caminos del Imperio romano como heraldo, apóstol, pregonero y maestro del Evangelio, del que se proclamaba «embajador entre cadenas» (Ef 6,20). La caridad divina lo llevó a hacerse «todo a todos para salvar a toda costa a algunos» (1Co 9,22). Como el apóstol san Pablo, está llamado a preocuparse de las personas lejanas que todavía no conocen a Cristo, o que todavía no han experimentado su amor, que libera”.[51]

Imitar a Pablo es imitar a Cristo (cfr. 1Cor 11,1). Pablo se sabía amado por Jesús (cfr. Gal 2,20) y se movía sólo por su amor (2Cor 5,14). Ningún reto o nuevo areópago le podía separar del amor a Cristo (cfr. Rom 8,35-39). Se movía bajo la acción del Espíritu Santo (cfr. Hech 20,22), como conquistado por el Señor (cfr. Fil 3,12). Era sólo instrumento y colaborador de Cristo para proclamarlo entre las gentes, urgido por su amor.

 

La vida de Pablo es la de un “convertido” al Evangelio, al que se ha abierto totalmente y al que pertenece incondicionalmente para anunciarlo aún con riesgo de la propia vida. Su amor a Cristo resume los trazos de su estilo apostólico. “Así pues, en vida o en muerte, pertenecemos al Señor” (Rom 14,8).

 

C)A partir del encuentro transformante con Cristo resucitado.

 

En encuentro con Cristo resucitado en el camino de Damasco fue trascendental: “Jo soy Jesús, a quien tú persigues” (Hech 9,5). La comunidad cristiana (la “ecclesia”) es la familia, el “cuerpo” de Jesús. Pablo respondió al esta gracia con suma fidelidad: “¿Qué quieres que haga?” (Hech 22,10). En Cristo encontró que las promesas hechas por Dios se cumplen en la plenitud de los tiempos (cfr. Gal 4,4; Mc 1,15). Pero esto comportará para Pablo un cambio radical de actitud religiosa, que se concretará en conocimiento personal de Cristo resucitado presente en su Iglesia, que es su Cuerpo. “No soy yo el que vivo,  sino que es Cristo quien vive en mí” (Gal 2,20).

 

A Pablo el hecho de haber sido educado en la fe y teología judaica, como hebreo nacido de hebreos (cfr. Fil 3,5), y el haber vivido “sin reproche” (Fil 3,6) las exigencias de la ley, le sirvió para que, una vez recibido el don de la fe en Jesús, se abriera a los nuevos horizontes de la salvación. Su “conversión” fue propiamente una apertura generosa a estos nuevos planes del mismo Dios que había establecido la primera alianza.

 

También para nuestra reforma apostólica, conviene no olvidar que Pablo, antes de este paso o conversión a la fe cristiana, era honesto y devoto, pero no podía aceptar que Dios quisiera hacer algo tan nuevo. Por esto colaboró en el martirio de Esteban. Podríamos decir que su “arrogancia” espiritual sólo podrá ser vencida por el don de la nueva gracia de Dios. Una vez abierto totalmente a Cristo, empleó el mismo celo de antes, pero ahora en anunciar el evangelio. Estaba bien preparado para inculturar la fe cristiana: como judío, como ciudadano romano y como conocedor de la cultura hebrea, griega y latina.

 

Su apostolado se concretaba principalmente en la enseñanza y testimonio (como Jesús), para construir la comunidad o familia de Jesús. Estaba urgido por el amor y, por esto, no buscaba su propio interés ni la posesión de bienes de esta tierra. Trabajó con sus propias manos, para no depender de ningún mecenas.

 

San Pablo se dedica a sembrar el evangelio donde todavía no ha sido sembrado. Predica la salvación en dimensión mundial. El evangelio es servicio de la reconciliación (“katallassein”, reconciliar: vocablo citado frecuentemente en sus escritos). Se trata de llevar el evangelio a pueblos que tienen otro concepto de Dios, del hombre, del mundo, aunque Dios es siempre el mismo y la familia humana es una sola. Pablo se dedicó a engendrar y nutrir a las Iglesias jóvenes recién fundadas por él.

 

Su vida consiste en una proclamación continuada y profundizada para presentar el único fundamento que es Cristo. La vida apostólica de Pablo se mueve armónicamente entre el encuentro con Cristo y el compromiso de la misión, como participación en la misma misión de Cristo: Jesús le espera en todo corazón humano para construir la comunidad eclesial como “cuerpo” de Cristo. Pablo entra a formar parte de la misma Iglesia de Jesús, a quien él había perseguido. Y transmite lo que ha recibido: el cuerpo eucarístico de Cristo resucitado presente en la Iglesia. Bajo la acción del espíritu, comunica este mensaje o Palabra de salvación: Cristo muerto por nuestros pecados, resucitado para nuestra justificación, vive presente entre nosotros.

 

D)Su estilo apostólico:

 

La norma pastoral de San Pablo sigue siendo vigente: “Examinadlo todo y quedaos con lo bueno” (1Tes 5,21). Si “Dios hace salir su sol sobre malos y buenos” (Mt 5,45), es señal de que hay dones de Dios en todos los pueblos, que preparan la aceptación de Jesús como único Salvador. La misión sigue urgiendo como en tiempo de Pablo: “¡Ay de mí si no predicara el Evangelio!” (1Cor 9,16).

 

El muro entre los pueblos ha sido abatido, gracias al encuentro con Cristo en el camino de Damasco. Es un mensaje armónico: resurrección de Cristo, bautismo, Eucaristía, Iglesia. El “no pueblo” se hace “pueblo”, gracias al cuerpo crucificado, resucitado y eucarístico de Cristo. El Dios de Israel, el único Dios revelado, se manifiesta como Dios de todos los pueblos. Pablo fue elegido gratuitamente por el Señor para ser “vaso de elección para llevar el nombre de Cristo a los gentiles” (Hech 9,15). Y así se mostró especialmente desde que Bernabé fue a buscarlo a Tarso para llevarlo a Antioquía (cfr. Hech 11,25ss).

 

Pablo salva toda la herencia religiosa y cultural de cada pueblo (y especialmente la revelación del Antiguo Testamento), anunciando (como “apóstol de las gentes”) que Cristo ha muerto y resucitado para salvar a todos. Jesús (vivo, resucitado) hace irrupción en la vida y en la cultura. “¿Cómo creerán en aquel a quien no han oído? ¿Cómo oirán sin que se les predique? Y ¿cómo predicarán si no son enviados?... Por tanto, la fe viene de la predicación, y la predicación, por la Palabra de Cristo. Y pregunto yo: ¿Es que no han oído? ¡Cierto que sí! Por toda la tierra se ha difundido su voz y hasta los confines de la tierra sus palabras (cfr. Sal 19,5)” (Rom 10,14-15.17-18).

 

Dios ama a todos los pueblos. Cristo comunica una plenitud de vida que no anula los dones que ya se han recibido de Dios como preparación evangélica. Jesús es “la luz de las gentes” (Lc 2,32), en quien se cumplen todas las promesas y todos los anhelos. El desafío para la misión de Pablo eran las diferencias culturales y religiosas. Él intenta garantizar la cohabitación de estas diversidades, presentándose como “deudor” de griegos y bárbaros (Rom 1,14). Lo importante es que, a partir de la fe, “todos vosotros sois uno en Cristo Jesús” (Gal 3,28).

 

Pablo se siente libre para evangelizar, porque todo lo que no sea para amar y hacer amar a Cristo, es “pérdida” (Fil 3,7). Continúa la misma misión de Cristo, como “siervo” y “apóstol” (Rom 1,1; Ef 1,1; Col 1,23). Y así puede afrontar la universalidad de situaciones, con la fuerza del mismo Cristo, con quien todo lo puede (cfr. Fil 4,13). Al Reino de Dios sólo se puede entrar “por muchas persecuciones” (Hech 14,22) y persecuciones (cfr. 2Cor 12,11). Su fuerza estriba en Cristo resucitado y en su Palabra viva.

 

La misión de Pablo se mueve entre la “kenosis” y  la comunión, como camino crucial, camino de la cruz y de la resurrección, para entrar en el areópago de la interculturalidad y transformarlo en vivencias y realidades de comunión eclesial y humana.

 

El secreto del éxito estriba en su amor a Cristo que lo apremia a anunciar la buena nueva (cfr. 2Cor 5,14). Manifestó siempre un amor entrañable a judíos y paganos, dispuesto a sufrir amando por todos, imitando así la ternura del corazón de Cristo. Después de haber proclamado el evangelio en gran parte de la cuenca del Mare Nostrum (“desde Jerusalén hasta la Iliria”: Rom 15,19), expone a los romanos su deseo de llegar hasta el extremo de occidente: “como hace ya muchos años que deseo veros, confío en que, al fin, de paso para España, se logre mi deseo. Así lo espero… Partiré para España pasando por vuestra ciudad” (Rom 15,23-24.28). Probablemente llegó a España como exiliado, poco antes de ser apresado nuevamente y sufrir el martirio en Roma.

 

Él es sólo siervo y deudor del evangelio (cfr. Fil 2,22). Su “evangelio” es el mismo de todos los Apóstoles, pero insertado en situaciones culturales y sociológicas distintas (cfr. Rom 2,16; 16,25; Gal 2,2; 1Cor 1,17). Busca la “reconciliación” de todos con Dios en Cristo: “En nombre de Cristo os suplicamos: ¡reconciliaos con Dios!” (2Cor 5,20).

 

Su “kerigma” o primer anuncio es como la síntesis de toda su predicación: Cristo, Hijo de Dios hecho hombre, por obra del Espíritu Santo, muerto y resucitado, Mediador y Salvador, vive en su Iglesia y en el corazón de los bautizados (cfr. Rom 1,1ss; Gal 4,4-7, etc.). Dios nos ha elegido en Cristo ya antes de la creación del mundo y nos ha hecho hijos en el Hijo, perdonándonos los pecados en virtud de la sangre derramada de Jesús (cfr. Ef 1,3-14; Col 1,13-20). El objetivo de su acción pastoral consiste en “formar a Cristo” en cada creyente (Gal 4,19). En el Espíritu Santo y unidos a Cristo, ya podemos decir “Padre” a Dios, con el mismo amor de Cristo (cfr. Rom 8,5; Gal 4,6).

 

Se necesitan misioneros y pastores animados por el amor apasionado hacia Cristo, como Pablo. Pastores que conozcan, amen y anuncien a Cristo apasionadamente. Pastores que se entreguen a un celo apasionado por Cristo. Conocer y amar a Cristo íntimamente, agradecidamente y apasionadamente. Esto supone una actitud de relación y amistad, meditación constante e imitación (cfr. Gal 2,20; Fil 2,5). El apóstol no se predica a sí mismo, sino a Cristo (cfr. 2Cor 3,5-6; 4,2-6).

 

Puesto que el Espíritu Santo es quien sostiene la misión (cfr. Rm 5,5; 8,14-15), es posible adoptar hoy una total disponibilidad y creatividad para el servicio evangélico, también con el espíritu de mortificación, obediencia, perseverancia de Pablo.

 

E) La construcción de las comunidades eclesiales en la comunión:

 

Vinculado a Cristo y al evangelio, Pablo funda y visita comunidades. Tiende a crear células vitales (inicialmente pequeñas en número) en gran parte del Imperio: situadas a lo largo de las calzadas, donde se hablaba el griego “koiné” (común), aparte de sus propios idiomas.

 

El interés del apóstol se muestra especialmente en crear comunidades con la colaboración de todos, e informarlas sobre la situación de todas las demás. Así va formando una conciencia eclesial comunional y misionera.

 

En sus cartas se pueden encontrar descripciones bastante detalladas de las comunidades que él había fundado, para hacer realidad en ellas la salvación de Cristo, Hijo de Dios enviado por el Padre bajo la acción del Espíritu Santo. Distingue entre la asamblea o comunidad doméstica (cfr. 1Cor 16,19; Rom 16,5) y toda la Iglesia (cfr. 1Cor 14,23; Rom 16,23). También la “Iglesia” puede ser el conjunto de fieles de una ciudad (cfr. 1Cor 5,4-5), o una región (Gál 1,2) o el conjunto de todos los creyentes (cfr. Rom 16,16; 1Cor 11,16.22). Esta integración de las comunidades concretas, más bien pequeñas, en la gran comunidad eclesial, suponía romper con la mentalidad de creencias opuestas y de clasificación social dentro de la Iglesia. Ordinariamente eran comunidades urbanas, donde llegaban gentes de diversas etnias, culturas, religiones, condición social. Los cristianos intentaban superar esas barreras y consecuentemente eran mal vistos por los no creyentes.

 

Además de esas Iglesia domésticas en las urbes, Pablo habla de “toda la Iglesia” que se componía por todas las Iglesias de una ciudad (cfr. 1Cor 14,23; Rom 16,23). Podían ser “la Iglesia de Dios que está en Corinto” (1Cor 1,2) o en Filipo, Tesalónica, Éfeso, etc. Pablo suscitaba la comunión con otros “Iglesias” de la misma ciudad y de otras ciudades. En las comunidades paulinas, lo más importante es que Cristo está presente con la acción del Espíritu Santo según diversos carismas, tendiendo siempre a la vida de comunión (cfr. Rom 12,4-8; 1Cor 12,4-11), a partir de la Eucaristía (cfr. 1Cor 11). En esas comunidades hay especialmente apóstoles, profetas y maestros (Ef 4,11-13).

 

Mantuvo siempre la unidad de esas comunidades con la comunidad madre de Jerusalén, especialmente por medio de la “colecta” para los pobres. Pablo es experto en comunión porque es apóstol por medio de la “kenosis”, es decir, por medio de su propia humillación y servicio, sin buscar su proprio interés. Funda o guía comunidades, presentándose él mismo como modelo de “kenosis”: “Sed mis imitadores como yo lo soy de Cristo” (1Cor 11,1; cfr. 1Cor 4,16). Esta actitud humilde le sostuvo en momentos de dificultad, afianzando su comunión con quienes “eran considerados como columnas” (Gal 2,9). Por esto afirma con gozo: “nos tendieron la mano en señal de comunión a mí y a Bernabé” (ibídem).

 

Esta misión, que podríamos llamar también “kenótica” y “comunional”, hizo posible la transformación de  la comunidad cristiana de Corinto, ciudad cosmopolita, amalgamada de riqueza y pobreza, de miserias e injusticias (como hoy nuestras metrópolis interculturales, industrializadas y secularizadas). Con su testimonio humilde de imitación del crucificado, podía pedir y exigir con plena autoridad: “No haya entre vosotros divisiones; antes bien, estéis unidos en una misma mentalidad y un mismo juicio” (1Cor 1,10).

 

La ciudad de Filipo se desenvolvía en un ambiente cosmopolita y comercial como Corinto, reflejando una comunidad que daba un tinte intercultural a los neófitos cristianos. En este contexto intercultural afirma el Apóstol: “Por lo demás, hermanos, todo cuanto hay de verdadero, de noble, de justo, de puro, de amable, de honorable, todo cuanto sea virtud y cosa digna de elogio, todo eso tenedlo en cuenta” (Fil 4,8).

 

El camino de comunión, que Pablo predica y vive con los cristianos de Filipo y de Corinto, es el mejor medio para construir la comunión, superando tensiones culturales y así llegar a la “comunión” con la Iglesia madre de Jerusalén (cfr. Hech 2,42-47; 4,32-33). El “Cuerpo” de Cristo, que es la Iglesia, es fruto de su Cuerpo eucarístico (cfr. 1Cor 10,17). La expresión “Cuerpo” de Cristo, aplicada  la Iglesia, es exclusiva de Pablo. Se trata de la armonía entre los miembros de este mismo cuerpo; pero sobre todo, tiene como punto de referencia a Cristo vivo en su Iglesia, como Cabeza de la misma (cfr. Col 1,24). Por esto, “bautizados en un mismo Espíritu, somos un sólo cuerpo” (1Cor 12,13; cfr. 12,27-26).

 

Aunque en la Iglesia hay ministerios diferenciados, existe una igualdad fundamental entre todos los bautizados: “Todos vosotros sois uno en Cristo Jesús” (Gal 3,28), “miembros de un solo cuerpo” (Col 3,15). Todos somos “coherederos” de Cristo (Rom 8,17). En la Iglesia actúa “la gracia de Nuestro Señor Jesucristo, el amor del Padre, la comunión del Espíritu” (2Cor 13,13). Los carismas para la edificación mutua y armónica (cfr. 2Cor 12,7). Somos “familiares de Dios” (Ef 2,19), “casa de Dios” (1Tim 3,14). La “comunión” (“koinonía”) era el elemento aglutinante de los primeros cristianos (cfr. Hechos 2,42). En Pablo, la koinonía deriva de la unión con Cristo: “Habéis sido llamados a la comunión con su hijo Jesucristo, Señor nuestro” (1Cor 1,9). Es la “comunión” de sintonía y vivencia con el resucitado presente, también como fruto de la participación eucarística (cfr. 1Cor 10,16-17).

 

La “comunión” eclesial es reflejo y participación de la comunión trinitaria (cfr. 2Cor 13,13). Pablo suscitaba la “comunión” (“koinonía”) entre las diversas Iglesias y la Iglesia madre de Jerusalén (cfr. Rom 15,27). La “colecta” era expresión de koinonía y también agradecimiento por la acogida recibida en la Iglesia madre: “Santiago, Cefas y Juan, que eran considerados como columnas, nos tendieron la mano en señal de comunión a mí y a Bernabé: nosotros nos iríamos a los gentiles y ellos  a los circuncisos” (Gal 2,9).

 

Para el Apóstol, la Iglesia es la comunidad de aquéllos que se reúnen en nombre de Cristo, la reunión de los que viven la santidad de hijos y el amor de hermanos en la plenitud del Espíritu. Es “la casa que Dios edifica” (1Cor 3,9). “Hay diversidad de dones, pero el Espíritu es el mismo. Hay diversidad de funciones, pero uno mismo es el Señor. Son distintas las actividades, pero el Dios que lo activa todo en todos es siempre el mismo” (1Cor 12,4-6).

 

F)Una Iglesia renovada por el espíritu apostólico de Pablo:

 

El amor de Cristo a su Iglesia, tal como lo describe Pablo (cfr. Ef 5,25-27), es una invitación constate a ver la realidad cultural e histórica, valorarla a la luz del evangelio y actuar en consecuencia, en vistas a una renovación o conversión pastoral y espiritual: “Dejaos reconciliar con Dios” (2Cor 5,20). La Iglesia es armonía de ministerios y de ministros diferenciados (Apóstoles, doctores o maestros y profetas...), guiados por la acción del mismo Espíritu Santo comunicado por Jesús resucitado presente.

 

Los nuevos areópagos de hoy dejan entrever los designios de Dios en Cristo Jesús, que reclaman una Iglesia que sea transparencia y signo portador de Jesús, “sacramento universal de salvación” (LG 48; AG 1). Ante estos nuevos areópagos, es necesario presentar un nuevo rostro de Iglesia, según el Espíritu de Jesús. Su centro es Jesús presente en sus diversos signos, también en el corazón de cada pueblo y cultura. Al apóstol y a toda la Iglesia, Jesús “le espera en el corazón de cada hombre” (RMi 88).

 

La Iglesia “peregrina” o “escatológica”, es “itinerante”, una Iglesia más libre y solidaria, desprendida de cargos y privilegios, plenamente dispuesta a evangelizar, porque todos sus miembros son discípulos y misioneros de Cristo. Evangelizar es su razón de ser. “Evangelizar consti­tuye, en efecto, la dicha y vocación propia de la Iglesia, su identidad más profunda. Ella existe para evangelizar” (EN 14).

 

Ser Iglesia de Jesús, como expresión e instrumento suyo, es el gran desafío de nuestra época. “Aquí está el reto fundamental que afrontamos: mostrar la capacidad de la Iglesia para promover y formar discípulos y misioneros que respondan a la vocación recibida y comuniquen por doquier, por desborde de gratitud y alegría, el don del encuentro con Jesucristo. No tenemos otro tesoro que éste. No tenemos otra dicha ni otra prioridad que ser instrumentos del Espíritu de Dios, en Iglesia, para que Jesucristo sea encontrado, seguido, amado, adorado, anunciado y comunicado a todos, no obstante todas las dificultades y resistencias” (Documento conclusivo de Aparecida, V Conferencia General, CELAM, n.14).

 

La Iglesia se renueva en cada época para vivir con el entusiasmo de los primeros cristianos, siguiendo el ejemplo de Pedro y Pablo. En Pablo, la misión enraíza en el conocimiento humilde, en la confianza y en el amor de Cristo (cfr. 2Cor 5,14; Rom 8,35). “Finalmente, como si se tratara de un hijo nacido fuera de tiempo, se me apareció también a mí” (1Cor 15,8).

 

Pablo vive para transmitir lo que ha recibido (cfr. 1Cor 11,23). Esta “tradición” viene de Jesús y de los Apóstoles. “Un elemento típico del verdadero apóstol, claramente destacado por san Pablo, es una especie de identificación entre Evangelio y evangelizador, ambos destinados a la misma suerte”.[52]

 

La Iglesia es el signo portador de la presencia de Cristo a través del tiempo, en las diversas situaciones culturales y sociológicas. A la Iglesia se la renueva amándola como Cristo la ha amado (cfr. Ef 5,25). Amar a la Iglesia es servirla sin servirse de ella, buscando siempre no los propios intereses, sino “los intereses de Cristo Jesús” (Fil 2,21).

 

El espíritu eclesial de San Pablo ayudaría a vivir la realidad de la Iglesia misterio de comunión misionera. La recta aplicación del Vaticano II necesita mucho amor a la Iglesia, de suerte que personas y comunidades se sientan como signo comunitario de Cristo resucitado presente. Las cuatro Constituciones conciliares son una pauta siempre actual, porque se trata de la Iglesia misterio o sacramento, expresión e instrumento de Cristo (LG), Iglesia de la Palabra (DV), Iglesia del misterio pascual (SC), Iglesia insertada en el mundo (GS). Así es la Iglesia como misionera por su misma naturaleza (AG).

 

Una Iglesia evangelizadora, como transparencia e instrumento de Cristo, es una Iglesia “santa e inmaculada” (Ef 5,27). En ella está presente y se proclama el misterio de Cristo: “El Misterio escondido desde siglos en Dios… para que la multiforme sabiduría de Dios sea ahora manifestada… mediante la Iglesia” (Ef 3,9-10).

 

G)La espiritualidad misionera de San Pablo:

 

Pablo no duda de su identidad. “No me avergüenzo del Evangelio, que es una fuerza de Dios para la salvación de todo el que cree: del judío primeramente y también del griego” (Rom 1,16-17; cfr. 2Tim 1,6). Pablo está dedicado de por vida anunciar el “misterio” de Cristo, “escondido” por los siglos y ahora “manifestado” (cfr. Ef 3,4-10). Cristo resucitado es poder, fuerza y salvación para todos.

 

Jesús resucitado daba sentido a su vida: “No tengas miedo, sigue hablando y no calles; porque yo estoy contigo y nadie te pondrá la mano encima para hacerte mal, pues tengo yo un pueblo numeroso en esta ciudad” (Hech 18,9-10). Es como si el mismo Cristo le llamara desde el corazón de cada ser humano y de cada pueblo: “Ven a ayudarnos” (Hech 16,9).

 

Al cristiano, llamado desde el bautismo a la santidad y al apostolado, se le ofrece esta pauta de “espiritualidad”: “Si vivimos según el Espíritu, obremos también según el Espíritu” (Gal 5,25). Para Pablo, el “mandato” o la “urgencia” misionera deriva del amor: “La caridad de Cristo me urge” (2Cor 5,14). “Os celo con el celo de Dios” (2Cor 11,2). “Como una madre cuida con cariño de sus hijos” (1Tes 2,7; cfr. Gal 4,19). “He sido yo quien, por el  Evangelio, os engendré en Cristo Jesús” (1Cor 4,15). “Por mi parte, muy gustosamente gastaré y me desgastaré totalmente por vuestras almas” (2Cor 12,15). Dispuesto al martirio. “Amándoos, daros nuestra vida” (1Tes 1,8). “¿Quién nos separará del amor de Cristo? ¿la angustia?, ¿la persecución?, ¿el hambre?, ¿la desnudez?, ¿los peligros?, ¿la espada?...  Pero en todo esto salimos vencedores gracias a aquel que nos amó” (Rom 8,35.37). Es la pauta trazada por el mismo Jesús para Pablo: “Instrumento escogido para llevar ni nombre antes las naciones” (Hech 9,15).

 

Vivir en Cristo equivale a relación íntima, imitación, transformación en él. Esta espiritualidad misionera de Pablo se concreta en compartir la misma vida de Cristo: Ser “prisionero de Cristo Jesús” (Fil 1,7), tenido “como un malhechor” (2Tim 2,9), para poder reflejar “en mi cuerpo las llagas de Jesús” (Gal 6,17). Es embajador en cadenas, haciendo de su vida una “libación” (Fil 2,17).

 

La fuerza de Pablo y de toda la misión cristiana consiste en la imitación de la actitud de Cristo, “quien, siendo rico, se hizo pobre a fin de que os enriquecierais con su pobreza” (2Cor 8,9). Esto supone “vaciarse” del propio interés, para hacerse uno con los demás, sea lo que sea de donde provengan. Así entra en los corazones y en las culturas el evangelio de la “kenosis” y de la comunión eclesial. Entonces toda comunidad cristiana se hace un himno de caridad (cfr. 1Cor 13), donde todos se esfuerzan por cumplir esta norma: “haced todo con amor” (1Cor 16,14)

 

Afirma Redemptoris Missio: “Al misionero se le pide « renunciarse a sí mismo y a todo lo que tuvo hasta entonces y a hacerse todo para todos: en la pobreza que lo deja libre para el Evangelio; en el despego de personas y bienes del propio ambiente, para hacerse así hermano de aquellos a quienes es enviado y llevarles a Cristo Salvador. A esto se orienta la espiritualidad del misionero: « Me he hecho débil con los débiles... Me he hecho todo para todos, para salvar a toda costa a algunos. Y todo esto lo hago por el Evangelio » (1 Cor 9, 22-23)” (RMi 88).

 

Por esto, a Pablo el servicio apostólico no le engríe, sino que le ayuda a ser agradecido a la misericordia divina, como “el menor de los Apóstoles” (1Cor 15,9). Todavía al final de su vida, se reconoce un “pecador”, ya renovado y enviado a los otros pecadores para anunciar el perdón. “La gracia de Dios no ha sido estéril en mí” (1Cor 15,10). “Cristo Jesús vino al mundo a salvar a los pecadores; y el primero de ellos soy yo” (1Tim 1,15).

 

Su intimidad con Cristo se refleja en su amor a la Iglesia. Vive en Cristo (cfr. Fil 1,21; Gal 2,20), imitando sus “sentimientos” (Fil 2,5), puesto que “Cristo amó a su Iglesia y se entregó a sí mismo por ella” (Ef 5,25).

 

La vida apostólica, para poder reflejar el evangelio de Jesús, tiene que ser de “gratuidad”: “Sé andar escaso y sobrado. Estoy avezado a todo y en todo: a la saciedad y al hambre; a la abundancia y a la privación” (Fil 4,12). Por esto se dedica a “predicar el evangelio entregándolo gratuitamente” (1Cor 9,18), “no he buscado oro ni plata” (Hech 20,33), porque, dice citando a Jesús: “Hay más felicidad en dar que en recibir” (Hech 20,35).

 

Así puede “servir” y “gastarse” por el evangelio y por el bien de los demás (cfr. 2Cor 12,15), llevando en su corazón y contagiando a los demás “la preocupación por todas las Iglesias” (2Cor 11,28), y “proclamar la Palabra... a tiempo y a destiempo” (2Tim 4,2), porque “la Palabra de Dios no está encadenada” (2Tim 2,9).

 

Su vida, en y con Cristo, fue un vaciarse de sí mismo en favor del Evangelio como enviado para anunciar a Jesucristo muerto y resucitado. “Pablo, apóstol no por disposición ni intervención humana alguna, sino por encargo de Jesucristo y de Dios Padre que lo resucitó triunfante de la muerte” (Rom 1,1). “Sé en quien he puesto mi confianza” (2Tim 1,12). Su vida no es suya, porque ya sólo pertenece a Jesús: “He sido conquistado por Cristo Jesús” (Fil 3,12).  Así es la verdadera “autoestima” cristiana.

La misión encargada es la misma de Cristo y, por tanto, no tiene fronteras: “Dios me reveló a su Hijo y me dio el encargo de anunciar su mensaje evangélico a los que no son judíos” (Gál 1,16). “La fuerza salvadora de Dios alcanza a todos los creyentes por medio de la fe en Jesucristo. A todos sin distinción... por su benevolencia los restablece en su amistad de forma gratuita mediante la liberación realizada por Cristo Jesús” (Rom 3,22.24).

 

Las dificultades de la evangelización, transformadas en amor, se convierten en fecundidad apostólica. Es la “cruz” que manifiesta la fuerza de la debilidad. La “cruz” es poder salvador de Dios  “para los llamados” (Rom 1,24). Ante los nuevos retos de la evangelización, la única fuerza eficaz deriva de la cruz, que es “fuerza de Dios y sabiduría de Dios” (1Cor 1,24). El “misterio de Cristo” (Ef 3,4) es “esperanza de la gloria” (Col 1,27), porque Cristo es “nuestra paz... por medio de la cruz” (Ef 2,14.18).[53]

 

A MODO DE CONCLUSIÓN:

 

La invitación de los documentos magisteriales, conciliares y postconciliares, sobre los nuevos areópagos de la actualidad, es una urgencia para responder por medio de un discernimiento y una programación misionera que se inspire en la figura del Apóstol de las gentes, como trasunto de Cristo Buen Pastor.

 

Ante los nuevos areópagos y teniendo en cuenta la figura de Pablo, se entiende mejor que “evangelizar es, ante todo, dar testimonio, de una manera sencilla y directa, de Dios revelado por Jesucristo mediante el Espíritu Santo. Testimoniar que ha amado al mundo en su Hijo” (EN 26). Los nuevos areópagos necesitan ser afrontados a partir de un encuentro personal y comunitario con Cristo. Sólo así aparece la armonía entre Cristo, que está presente en la Iglesia y en el mundo, y el apóstol que está llamado a dedicarse apasionadamente a la misión inculturada y sin fronteras.

 

El estilo “nuevo” de apóstol y de toda comunidad eclesial, es de una profunda relación personal e íntima con Cristo, de amor incondicional a la Iglesia, de disponibilidad sin fronteras, de gratuidad, servicio, humildad y de asociación a Cristo crucificado y resucitado. Esto se aprende especialmente en la celebración litúrgica del misterio pascual de Cristo y en la contemplación de su Palabra como proceso de “lectio divina”.

 

La Palabra de Dios, cuando da fruto abundante en el corazón de los apóstoles, puede cambiar profundamente el corazón del hombre. Es la Palabra que se hace “pan de vida” en la Eucaristía y que de este modo construye la comunidad  como “Cuerpo” de Cristo, donde reina la caridad. La semilla evangélica es la Palabra de Dios que ya se empezó a sembrar en el corazón de los primeros padres y de toda la humanidad, pero que se ha hecho personalmente presente en la historia, por medio de Jesús de Nazaret, el Hijo de Dios hecho hombre, muerto y resucitado.

 

La “buena semilla” (Mt 13,24) necesita encontrar la “tierra buena”, el “corazón bueno” (Lc 8,15), donde pueda germinar. La comunidad del resucitado se tiene que caracterizar por la descripción que de ella hizo el mismo Jesús: “Mi madre y mis hermanos son... los que escuchan la Palabra de Dios y la cumplen” (Lc 8,21).

 

La respuesta de la Iglesia para afrontar los nuevos areópagos, es como el “sí” de María, a modo de nueva maternidad apostólica y eclesial (cfr. Gal 4,4.19.26). Es un proceso de dejarse sorprender como María, por el misterio de Dios Amor, que, “al llegar la plenitud de los tiempos, ha enviado a su Hijo nacido de la mujer” (Gal 4,4). La capacidad de contemplación y de asombro ante el misterio de Dios que irrumpe en la historia, se convierte en confianza y audacia de nuevos apóstoles, “gozosos en la esperanza” (Rom 12,12), “esperando contra toda esperanza” (Rom 4,18).

 



[1]La lista de retos que se describen (cfr. TMa 36-38) es parecida a la de la encíclica Redemptoris Missio (resumida más arriba) y a los retos que veremos en el apartado siguiente. La carta apostólica Novo Millennio Ineunte (2001), también de Juan Pablo II, invita a “ser testigos del amor” para afrontar estos retos del presente (NMi 42-57).

 

[2]BENEDICTO XVI, Homilía durante la celebración de las primeras vísperas de la solemnidad de San Pedro y San Pablo, 28 de junio de 2007, en la basílica de San Pablo.

 

[3]BENEDICTO XVI, Mensaje para la jornada mundial de las misiones 2008 (publicado el 11 mayo de 2008). Como Pablo, así también el apóstol de hoy “está llamado a preocuparse de las personas lejanas que todavía no conocen a Cristo, o que todavía no han experimentado su amor, que libera... La missio ad gentes se convierte así en el principio unificador y convergente de toda su actividad pastoral y caritativa” (ibídem).

 

[4]BENEDICTO XVI, Catequesis durante la Audiencia del miércoles 19 noviembre 2008.

 

[5]BENEDICTO XVI, Homilía en la inauguración de su Pontificado (24 de abril de 2005).

 

[6]La colaboración que se ha recibido de personas consultadas (Cardenales, Obispos, Consultores, Teólogos, Pastoralistas) proviene de los diversos sectores continentales. Se han presentado reflexiones sintéticas y prácticas, señalando realidades actuales (los nuevos “areópagos”), aplicaciones concretas al propio país, siempre teniendo en cuenta la actualidad de la figura y de la doctrina de San Pablo.

 

[7]Sobre la llamada actual a la santidad, ver las diversas exhortaciones apostólicas postsinodales sobre cada Continente: EEu n.14, EAm nn.30-31; EAf n.136; EO n. 30. Citamos estas exhortaciones (de gran valor misionero universal) indicando su sigla: Ecclesia in Africa EAf (1995); Ecclesia in America EAm (1999); Ecclesia in Asia EAs (1999); Ecclesia in Oceania EO (2001); Ecclesia in Europa EEu (2003).

 

[8] Cfr. EEu nn.3, 20), EAf nn.77, 106 (testimonio).

 

[9]Ver el mensaje que Benedicto XVI ha escrito para la Jornada Mundial de las Comunicaciones Sociales del año 2009, 24 mayo, sobre el tema: Nuevas tecnologías, nuevas relaciones. Promover una cultura de respeto, de diálogo y amistad.

 

[10]Cfr. IM (todo el documento); AG 26; EN 45; RMi 37; CEC 2493-2499; CIC 822-832; EEu n.63, EAm n.72, EAs n.48, EAf nn.52, 71, 124-125, EO n.21.

 

[11]Ver otros documentos: GS 6, 27, 66, 84, 87; AG 20; AA 10; ChD 16, 18. Carta Ap. Stella Maris (21.1.97). También: Carta conjunta a las Superioras y Superiores Generales de los Institutos de vida consagrada y de las sociedades de vida apostólica sobre los emigrantes (Ciudad del Vaticano, 13 de mayo de 2005); (Pont. Consejo Pastoral Emigrantes e Itinerantes) Orientaciones para una pastoral de los gitanos (8 diciembre 2005).

 

[12]El nuevo areópago de la postmodernidad está relacionado con el tema del diálogo intercultural (ver más abajo).

 

[13]La encíclica Fides et Ratio (1998) da pautas muy profundas y prácticas.

 

[14]“Semillas del Verbo” y “preparación evangélica”, son expresiones patrísticas citadas por el concilio Vaticano II (cf. AG 3, 11 y LG 16-17).

 

[15]Cfr. AG 3,9,11; LG 16; DH 2,10; NAE 1-5; ES 101; EN 53,77; RH 6,11-12; RMi 29,55-57; EAm nn.50-51, EAs n.31, EAf nn.65-67, EO n.25, EEu n.15.

 

[16]Cfr. LG 13,17; GS 44; AG 3,10-11,22; EN 20,53,63; RH 12; SA (todo el documento); RMi 52-54; CA 24,50,51; PDV 55; CEC 1204-1206; VC 79-80; Eu n.58 (necesidad de inculturación), EAs nn. 21-22; EAf nn.55-70 (urgencia, necesidad, fundamentos teológicos, criterios y ámbitos, campos de aplicación), n.78 (inculturar la fe); EO n.16.

 

[17]Instrumento de trabajo para el 2º Sínodo de África de 2009, n.73.

 

[18]BENEDICTO XVI, Mensaje para la jornada mundial de las misiones, 2008 (publicado el 11 mayo de 2008). Ver también: Mensaje a los jóvenes del mundo con ocasión de la XXIV Jornada Mundial de la Juventud 2009; este último mensaje termina con una oración mariana en la que, después de citar a San Bernardo, dice: “María, Estrella del mar, guía a los jóvenes de todo el mundo al encuentro con tu divino Hijo Jesús, y sé tú la celeste guardiana de su fidelidad al Evangelio y de su esperanza”.

 

[19]Mensaje a los jóvenes del mundo con ocasión de la XXIV Jornada Mundial de la Juventud 2009 (publicado el 21 de febrero de 2009).

 

[20]Cfr. AA 12; GS 7, 52, 75, 88; GE 1-6; ChD 14, 30; OP 6; IM 10-12; EN 72; RMi 37, 80; CEC 1632, 2688. Documento de Puebla 1166-1205; documento de Santo Domingo 111-120. EEu n.61; EAm n.47: esperanza de la Iglesia; EAs n.47, EAf n.93, EO, n.44.

 

[21]BENEDICTO XVI, Catequesis (paulina) durante la audiencia del miércoles 15 de octubre de 2008.

 

[22]Cfr. LG 23; ChD 11; AG 19-20; EN 62-64; RMi 48-49, 64, 89; OE 2-6; CEC 832-835, 1560; CIC 368-374. Ver también: Pastores Gregis n.65 (toda Iglesia particular debe abrirse responsablemente a la Iglesia universal).

 

[23]BENEDICTO XVI, Mensaje para la jornada sobre las vocaciones, 3 mayo 2009.

 

[24]Cfr. LG 30-38; AA; GS 38, 43; AG 2, 6, 13, 21, 41; EN 70-75; CFL 7-8, 64; RMi 71-74; CEC 897-913; CIC 224-231; Santo Domingo 94-103; EEu n.41; EAm n.44, EAs n.45, EAf n.90, EO n.43.

 

[25]Otros documentos: PC (todo el documento); LG 43-47; AG 18, 40; EN 69; RMi 69-70; VC 72-74, 77-78; CEC 914-933; CIC 573-730; ET; RD; EEu n.37; EAm n.43, EAf n.94, EAs n.44, EO nn.51-52.

 

[26] Cfr. PO; PDV; Directorio para el ministerio y la vida de los sacerdotes; CEC 611, 1120, 1548-1568. Cfr. EEu n.34; cfr. EAm n.39, EAf nn.97-98; EAs n.43; EO n.49.

 

[27]Sobre el laicado: Christifideles Laici (1988) nn.3-6. Sobre la formación sacerdotal: Pastores dabo vobis (1992) nn. 5-10. Sobre la vida consagrada: Vita consecrata (1996) nn.63 y 84 (profetismo), n.85 (mundo contemporáneo), nn.87ss (los grandes retos de la vida consagrada); ver también: Caminar desde Cristo (Congregación para los Institutos de Vida Consagrada, 2002) nn.45-46 (retos actuales). También la exhortación postsinodal Pastores Gregis (2003), sobre el obispo servidor del evangelio, presenta retos semejantes al final del documento (cap.VII), invitando a una acción evangelizadora llena de esperanza: justicia y paz, diálogo interreligioso, vida social y económica actual, respeto del ambiente, el campo de la salud, los emigrantes... (nn.66-72).

 

[28]El Papa Juan Pablo II, en Mulieris dignitatem (1988) y en la carta a las mujeres (29 de junio de 1995), da gracias por la mujer como madre, esposa, hija, hermana, trabajadora, consagrada.

 

[29]Otros documentos: GS 8-9, 29, 49, 52, 60; 67; AA 9: MD (todo el documento); FC 6, 22-25; CFL 49; RMa 24-25, 37; VC 57; EAf 121; CEC 369-373, 1577, 2331-2336.

 

[30]Discurso de Juan Pablo II a los habitantes de la « Favela Vidigal » en Río de Janeiro, 2 de julio de1980, 4: AAS 72 (1980) 854. cfr. EEu n.85; cfr. EEu 86; EAm nn.52-55, 58: caridad, solidaridad; EAf nn.138-139: solidaridad; EAs n.34.

 

[31]Ver la encíclica Deus Caritas est, especialmente la segunda parte. También: EEu n.88; cfr. EAm nn.18, 30, 63; EAf nn.68, 116; EAs nn.35-36; EO n.34. Hay que tener en cuenta la realidad de nuevas enfermedades, especialmente el azote del SIDA, buscando solucione auténticas para su erradicación y para su curación, independientemente de los intereses económicos egoístas. Sobre la pastoral de la salud: CEC 1502-1510, 2288-91.

 

[32]BENEDICTO XVI, Mensaje para la Jornada Mundial de la Paz, “familia humana, comunidad de paz” (1 enero 2008) 10. Cfr. GS 47-52; AA 11; EN 71; RMi 80; FC (todo el documento); CEC 1655-1657, 2196-2233, 2685; EEu n.101; cfr. EAm n.46, EAs n.46. EAf nn.80-85, 92, EO n.45.

 

[33]Cfr. EEu n.50-51; EAm n.69-70: catequesis y evangelización de la cultura; EAf n.91: catequistas; EO n.22.

 

[34]Se nota en la formación de los futuros apóstoles una carencia del enfoque teológico a la luz del misterio de Cristo:“En la revisión de los estudios eclesiásticos hay que atender, sobre todo, a coordinar adecuadamente las disciplinas filosóficas y teológicas, y que juntas tiendan a descubrir más y más en las mentes de los alumnos el misterio de Cristo, que afecta a toda la historia del género humano, influye constantemente en la Iglesia y actúa, sobre todo, mediante el ministerio sacerdotal” (OT 14).

 

[35]Cfr. AG 24-25; OT 4, 19-21; RMi 83.

 

[36]Cfr. RMi 2-3, 30, 33, 59, 72-73, 83, 85-86; CA 5; VS 107; EAm  63; Puebla 366; Santo Domingo 23-30. EEu 37, 55, 60. Ver también: EAm 6 y todo el cap.VI (la nueva evangelización); EAf  57.

 

[37]Cfr. LG 42; AG 24; DeV 60; EN 76; RMi 42: CEC 2473-2474; VS 89, 92-93; TMa 37; EEu n.13; EAs n.49.

 

[38]Cfr. SC 10, 47-58; LG 11; PO 5-6; CEC 610-611, 1322-1419; CIC 807-958. Encíclica Mysterium Fidei (Pablo VI); Carta Apostólica Dominicae cenae (Juan Pablo II); Encíclica Ecclesia de Eucharitia (Juan Pablo II); Carta Apostólica Mane nobiscum domine (Juan Pablo II); Exhortación Apostólica postsinodal Sacramentum caritatis (Benedicto XVI).

 

[39]Cfr. LG 15; UR (todo el documento); EN 77; UUS; CEC 820-822, 855-856; EEu n.53-54; EAm n.49; EAs nn.29-30; EAf n.65; EO n.23.

 

[40]Exhortaciones postsinodales sobre cada Continente (que ya hemos cetado más arriba, son sus siglas): Ecclesia in Africa (1995); Ecclesia in America (1999); Ecclesia in Asia (1999); Ecclesia in Oceania (2001); Ecclesia in Europa (2003), Ver el instrumento de trabajo para el 2º Sínodo sobre África. Lo consignó personalmente Benedicto XVI a los presidentes de las Conferencias Episcopales africanas, el jueves 19 de marzo en Yaoundé (Camerún), con ocasión de su viaje al continente (Camerún y Angola), 17 al 23 marzo 2009. La segunda Asamblea del Sínodo de Obispos sobre África,  Roma, 4-25 octubre 2009, sobre el tema: La Iglesiaen África al servicio de la reconciliación, de la justicia y de la paz. “Vosotros sois la sal de la tierra... Vosotros sois la luz del mundo” (Mt 5,13-14)”.

 

[41]Ver una síntesis histórica y un resumen de la actualidad misionera africana en la exhortación apostólica Ecclesia in Africa, cap.II. El Instrumento de trabajo para el 2º Sínodo de África afirma: “A la luz del Espíritu Santo, las Iglesias particulares afirman que en el corazón herido del hombre anida la causa de todo lo que desestabiliza el continente africano” (n.11). Se describe a la Iglesiacomo familia de Dios, al servicio de la justicia, de la paz y de la conciliación. Es la justicio y la paz del Reino, para cuya realización se necesitan programas adecuados de formación.

 

[42]Ecclesia in America señala: el fenómeno de la globalización (n.20), la urbanización creciente (n.21), el peso de la deuda externa (n.22 y 59), la corrupción (n.23 y 60), el comercio y consumo de drogas (n.24 y 61), el poco respeto a la ecología (n.25), los pecados sociales (n.56), la cultura de muerte (n.63), los pueblos indígenas y de origen africano (n.64), los inmigrantes (n.65), el desafío de las sectas (n.73).

 

[43]Ver Ecclesia in Asia: cap.I, nn.5-9 (contexto religioso, cultural, económico, social), la globalización (n.39), la deuda externa (n.40), el ambiente (n.41). Ecclesia in Africa: problemas actuales de divisiones y degradación de la familia (nn.46-52), el SIDA (n.116), las guerras (n.117), los refugiados y prófugos (n.119), la deuda internacional (n.120), la mujer (n.121).

 

[44]Ver Ecclesia in Oceania: los derechos humanos no atendidos (n.27), los pueblos indígenas poco valorados (n.28), la poca ayuda para el desarrollo (n.29), el deterioro del ambiente (n.31).

 

[45]Ver Ecclesia in Europa nn.7-17.

 

[46]BENEDICTO XVI, Mensaje a los jóvenes del mundo con ocasión de la XXIV Jornada Mundial de la Juventud 2009.

 

[47]BENEDICTO XVI: Homilía durante la celebración de las primeras vísperas de la solemnidad de San Pedro y San Pablo, 28 de junio de 2008, en la inauguración del año paulino en la basílica de San Pablo extra muros.

 

[48]BENEDICTO XVI, Catequesis durante la audiencia del miércoles 24 septiembre 2008.

 

[49]Este universalismo inculturado y de inserción en todos los areópagos de la época, ha sido subrayado por las numerosas catequesis de Benedicto XVI durante el año paulino. Además de las cuatro catequesis paulinas del inicio de su pontificado (25 de octubre, y 8, 15 y 22 de noviembre del año 2006), Benedicto XVI ha desarrollado otras 20 catequesis paulinas en el decurso del año dedicado a San Pablo. En el año 2008: 2 de julio, 27 de agosto; 3, 10 y 24 de septiembre; 9, 15, 22 y 29 de noviembre; 3 y 10 de diciembre. En el año 2009: 7, 14 y 28 de enero; 6 de febrero.

 

[50]BENEDICTO XVI: Homilía durante las primeras vísperas en la inauguración año paulino, 28 de junio de 2008.

 

[51]BENEDICTO XVI, Mensaje para la jornada mundial de las misiones 2008..

 

[52]BENEDICTO XVI, Catequesis sobre San Pablo, durante la audiencia del miércoles 10 septiembre 2008.

 

[53]Redemptoris Missio 88 cita el texto completo de Fil 2,7ss, como base de la espiritualidad misionera.

 

ESPIRITUALIDAD SACERDOTAL EN RELACION CON EL CARISMA EPISCOPAL

 

                                                         Juan Esquerda Bifet

 

Sumario:

 

      1.El carisma episcopal y la espiritualidad sacerdotal. Presentación y delimitación del tema

      2.Una realidad de gracia delineada con claridad: la espiritualidad sacerdotal en el  Presbiterio

      3.La puesta en práctica de la espiritualidad sacerdotal por medio del proyecto de vida en el Presbiterio

      4.La necesidad teológica del carisma episcopal para la vida sacerdotal

      5.Líneas conclusivas: unas propuestas factibles

 

                                   * * *

 

1. El carisma episcopal y la espiritualidad sacerdotal. Presentación y delimitación del tema

 

      La espiritualidad específica del sacerdote, particularmente del sacerdote llamado "diocesano" o "secular", tiene una relación de dependencia directa respecto al carisma del propio obispo.[1]

 

      Este carisma, recibido en el sacramento del Orden y relacionado con la misión eclesial, apunta principalmente no a las cuestiones de administración, sino a la realidad de gracia de cada súbdito y, de modo especial, de cada sacerdote (presbítero) y diácono del Presbiterio.

 

      Mi reflexión sobre esta realidad de gracia la he ido elaborando en sentido "transversal", durante largos años de estudio teológico y docencia universitaria sobre la espiritualidad sacerdotal (de todo sacerdote ministro, obispo y presbítero), mientras, al mismo tiempo, iba observando las realidades existentes en diversos Presbiterios.[2]

 

      No intento responder directamente al ruego que me han hecho repetidas veces sobre la elaboración de una síntesis de espiritualidad episcopal. Una espiritualidad específica del obispo existe, puesto que responde a la gracia especial recibida en el sacramental del Orden; pero en ningún modo es una espiritualidad aparte del Presbiterio, puesto que obispos y presbíteros forman una unidad especial.[3]

 

      La peculiaridad de la espiritualidad episcopal está ligada esencialmente al hecho de ser cabeza del Presbiterio y a la exigencia de orientar la gracia recibida hacia la santificación de sus presbíteros (además de todos los fieles de la Iglesia particular). Pero mi reflexión se orienta directamente hacia el Presbiterio, donde los presbíteros y diáconos necesitan, para vivir su propia espiritualidad específica, la actuación del carisma episcopal.[4]

 

      En mis estudios sobre la historia de la espiritualidad sacerdotal he constatado un vacío, especialmente respecto a la urgencia actual de llevar a efecto las directrices trazadas por el concilio y postconcilio del Vaticano II. Muchas de estas directrices quedan sin aplicar a la vida sacerdotal del Presbiterio, por no dejar actuar el carisma episcopal.[5]

 

      Se han dado  pasos muy importantes en esta cuestión fundamental, pero me parecen insuficientes. Veo en todo ello un caso parecido a las decisiones del concilio de Trento respecto a los Seminarios. Entonces se cumplió la decisión de instituir estos centros formativos, pero no se llevó a efecto, en general, el deseo de Trento: que los obispos, renovando la pastoral de la diócesis (y de la catedral), plasmaran en los Seminarios la "vida apostólica" o vida al estilo de los Apóstoles.[6]

 

      Para comprender mejor lo que intento decir, bastaría leer el canon 245, que urge a los futuros sacerdotes (durante su período de formación en el Seminario) a prepararse para vivir la vida fraterna en el Presbiterio: ..."los alumnos... mediante la vida en común en el Seminario, y los vínculos de amistad y compenetración con los demás, deben prepararse para una unión fraterna con el Presbiterio diocesano, del cual serán miembros para el servicio de la Iglesia" (can. 245). Pero, en buena lógica, un seminarista se preguntará: ¿dónde queda descrito este Presbiterio? ¿cuál es su proyecto de vida?...[7]

 

      Son muchos los textos conciliares y postconciliares que hacen referencia a esta relación de dependencia del presbítero respecto al obispo, en todos los campos de la vida y del ministerios sacerdotal. Cada uno de los "tria munera" incluyen esta relación estrecha entre obispo y presbíteros[8]. En las visitas "ad Limina", es frecuente que el Santo Padre recuerde con insistencia a los obispos esta relación, invitándoles a ponerla en práctica.[9]

 

      La Asamblea ordinaria del Sínodo de los Obispos, programada para el año 2.000, estudia el tema del obispo. En los "Lineamenta" para este Sínodo se resume la relación entre el obispo y sus sacerdotes con estas palabras: "Junto con los sacerdotes de su Presbiterio, tiene que recorrer los caminos específicos de espiritualidad en cuanto llamado a la santidad por el nuevo título derivado del orden sagrado" (Lineamenta, n.89).[10]

 

 

2. Una realidad de gracia delineada con claridad: la espiritualidad sacerdotal en el Presbiterio

 

      El proceso de reflexión y de concientización sobre la espiritualidad sacerdotal ha llegado a un momento culminante en el siglo XX, gracias a las figuras sacerdotales de todas las épocas, a la doctrina patrística, a los documentos magisteriales y a los estudios teológicos.[11]

 

      Lo más importante de esta síntesis teológica sobre la espiritualidad sacerdotal, consiste en haber llegado a individualizar las realidades de gracia, de las que deriva la espiritualidad del sacerdote, como vivencia de lo que uno es y hace. La reflexión teológica queda siempre abierta a nuevas especulaciones. Hoy ya es relativamente fácil individualizar los trazos más salientes de la fisonomía sacerdotal.[12]

 

      Sería bueno poner ya en práctica estas líneas de espiritualidad en el Presbiterio de la Iglesia particular, sin entretenerse demasiado en nuevas pesquisas que intenten escapar de lo que ya es claro, aunque todavía no asimilado y puesto en práctica. Urge presentar una síntesis clara, ordenada y entusiasmante. Ello es posible, gracias especialmente a los documentos magisteriales y a las figuras de santos sacerdotes (especialmente los beatificados o canonizados).[13]

 

      La espiritualidad eclesial de toda la comunidad sería una abstracción, si cada una de las vocaciones (laical, religiosa, sacerdotal) no viviera su propio carisma, para compartirlo con los demás en comunión eclesial de hermanos (sin prevalencias, exclusivismos y privilegios). La espiritualidad sacerdotal aporta el servicio de unidad y coordinación entre todas las vocaciones, ministerios y carismas; el sacerdote diocesano tiene esta peculiaridad de coordinación de todos los carismas, sin exclusivismos ni exclusiones, bajo la guía de quien preside la caridad.[14]

 

      La espiritualidad sacerdotal corresponde a la vivencia de su propio ser y misión. Se participa en el ser o consagración sacerdotal de Cristo, para representarle como Cabeza, Pastor, Sacerdote, Siervo y Esposo (cfr. PO 1-3; PDV 11-13). Jesucristo, ungido y enviado por el Espíritu Santo (cfr. Lc 4,18), prolonga su ser y lo expresa en "los suyos" (Jn 13,1; 17,10).[15]

 

      Es la espiritualidad que corresponde al hecho de prolongar su misma misión de anuncio (kerigma), cercanía salvífica y donación sacrificial. En el diálogo de Cristo con el Padre, aflora esta misión común que se prolonga en la historia (cfr. Jn 17,18) y que Jesús confía explícitamente en su resurrección y ascensión (cfr. Jn 20,21; Mt 28,19-20).[16]

 

      Por ser "instrumentos vivos de Cristo Sacerdote" (PO 12), la espiritualidad de los sacerdotes ministros se delinea como caridad pastoral, es decir, como "ascesis propia del pastor de almas" (PO 13). Esta espiritualidad se realiza "ejerciendo los ministerios incansablemente en el Espíritu de Cristo" (PO 13) y se expresa sin dicotomías en "unidad de vida" o armonía entre vida interior y acción apostólica (PO 14).[17]

 

      Es espiritualidad según el estilo de vida de los Apóstoles, como "signo personal y sacramental" de cómo amó el Buen Pastor (PDV 16). Los "Apóstoles" y sus sucesores están llamados a vivir el seguimiento evangélico radical, en comunión fraterna y con disponibilidad misionera (Mt 4,19ss; 19,27ss; Mc 3,14; PDV 15-16, 60). Así comparten esponsalmente la misma vida del Señor (Mc 10,38; PDV 22, 29) y son signo de cómo amó él (Jn 17,10; PDV 49).

 

      Como dato específico de la espiritualidad del sacerdote diocesano, habrá que tener en cuenta unas realidades de gracia que matizan su espiritualidad sacerdotal. Las realidades de gracia de todo sacerdote (consagración por el carácter, seguimiento evangélico al estilo de los Apóstoles, fraternidad, misión que prolonga la misión de Cristo), quedan matizadas por la caridad pastoral como determinante, la dependencia pastoral y espiritual respecto al obispo, la pertenencia permanente (por la incardinación) a la Iglesia particular y al Presbiterio diocesano.

 

      La realidad de gracia del Presbiterio matiza la espiritualidad sacerdotal diocesana de modo determinante (cfr. PO 8; LG 28; PDV 31, 74-80; ChD 28; Puebla 663; Dir. 25-28).  Es una "fraternidad sacramental" (PO 8), o "íntima fraternidad" exigida por sacramento el Orden (LG 28), signo eficaz de santificación y evangelización. Por esto, el Presbiterio es "mysterium" y "realidad sobrenatural" (PDV 74), que matiza la espiritualidad de sus componentes, en el sentido de pertenecer a una "familia sacerdotal" (ChD 28; PDV 74). Consecuentemente, la fraternidad del Presbiterio es "lugar privilegiado", donde todo sacerdote (especialmente el diocesano o "secular", por estar "incardinado"), puede "encontrar los medios específicos de santificación y evangelización" (Directorio 27). Entonces la fraternidad del Presbiterio llegará a ser "un hecho evangelizador" (Puebla 663).[18]

 

      La realidad de gracia, de pertenecer de modo permanente al Presbiterio, no es exclusiva ni excluyente. Todo sacerdote pertenece al Presbiterio, pero esa pertenencia de gracia, en el caso de la incardinación, puede ser más permanente (como lo es para el religioso la pertenencia a su institución).[19]

 

      Estas realidades de gracia se resumen, pues, en consagración y misión, como signo personal y sacramental del Buen Pastor, en línea de caridad pastoral (virtudes evangélicas en relación con los ministerios), según el estilo de vida de los Apóstoles, perteneciendo en sentido esponsal a la Iglesia particular y a la familia sacerdotal del Presbiterio.

 

      En cada presbítero, estas realidades de gracia necesitan, para su recta comprensión y realización, la actuación del carisma episcopal (cfr. PO 7; ChD 15-16; PDV 74, 79). El obispo es el fundamento visible de la unidad en la Iglesia particular y en su Presbiterio (LG 23; cfr. PO 7-8), y es él principalmente quien debe "fomentar la santidad de sus clérigos, de los religiosos y de los laicos, de acuerdo con la peculiar vocación de cada uno" (ChD 15).

 

      Las gracias provenientes del sacramento del Orden (carácter, para ejercer válidamente, y gracia sacramental, para servir santamente), aunque son una participación peculiar del sacerdocio de Cristo, se reciben por imposición de manos del obispo, adquiriendo éste una paternidad espiritual. Esta paternidad tendrá un significado especial respecto a quienes se han incardinado a la Iglesia particular y pertenecen, de modo permanente, al Presbiterio: "En la cura de las almas son los sacerdotes diocesanos los primeros, puesto que estando incardinados o dedica­dos a una Iglesia particular, se consagran totalmente al servicio de la misma, para apacentar una porción del rebaño del Señor; por lo cual constituyen un presbiterio y una familia, cuyo padre es el Obispo" (ChD 28).[20]

 

 

      Tanto en la acción ministerial como en la vivencia de la propia espiritualidad específica, "ningún presbítero, por tanto, puede cumplir cabalmente su misión aislada o individualmente, sino tan sólo uniendo sus fuerzas con otros presbíteros, bajo la dirección de quienes están al frente de la Iglesia" (PO 7).[21]

 

      En el campo de la espiritualidad o santidad específica, la relación de dependencia no es sólo de tipo disciplinar o jurídico, sino especialmente de actuación ministerial por parte del carisma episcopal: "Por esta comunión, pues, en el mismo sacerdocio y ministerio tengan los Obispos a sus sacerdotes como hermanos y amigos, y preocúpense cordialmente, en la medida de sus posibilidades, de su bien material y, sobre todo, espiritual. Porque sobre ellos recae principalmente la grave responsabilidad de la santidad de sus sacerdotes; tengan, por consiguiente, un cuidado exquisito en la continua formación de su Presbiterio. Escúchenlos con gusto, consúltenles incluso y dialoguen con ellos sobre las necesidades de la labor pastoral y del bien de la diócesis" (PO 7).[22]

 

      Sería prácticamente imposible la derivación misionera universal del Presbiterio de la Iglesia particular, si el carisma episcopal no asumiera la responsabilidad misionera de la diócesis con la cooperación responsable de sus presbíteros. Es de lamentar que tanto la espiritualidad sacerdotal del Presbiterio, como la disponibilidad misionera universal de la Iglesia particular, acostumbren a estar ausentes de muchos planes de pastoral; sin la espiritualidad sacerdotal, faltaría la colaboración responsable y gozosa del Presbiterio; sin la derivación misionera universal, ya no habría dimensión eclesial auténtica.[23]

 

 

3. La puesta en práctica de la espiritualidad sacerdotal por medio del proyecto de vida en el Presbiterio

 

      Estas realidades de gracia, que constituyen la espiritualidad sacerdotal diocesana, representan la identidad del mismo sacerdote. Son también las pautas principales de su ideario. Pero se necesita llevarlas a la práctica concreta en el contexto ambiental del propio Presbiterio.

 

      Si el Presbiterio es una "fraternidad sacramental" (PO 8), un "mysterium" o "realidad sobrenatural" (PDV 745), una "familia sacerdotal" (ChD 28; PDV 74), "un hecho evangelizador" (Puebla 663), todo ello indica que es el cauce normal o "el lugar privilegiado"  para "encontrar los medios específicos de santificación y evangelización" (Directorio 27).

 

      ¿Cómo hacer efectivo este Presbiterio, donde el presbítero pueda encontrar los medios necesarios para realizar la caridad pastoral, el seguimiento evangélico al estilo de los Apóstoles, la fraternidad efectiva y afectiva y la disponibilidad misionera?

 

      "Pastores dabo vobis" sugiere que el obispo, con su Presbiterio, elabore un proyecto de vida que abarque todas estas realidades de vida y ministerio sacerdotal, dejando espacio operativo, como es lógico, al plan diocesano de pastoral y al campo propio de los carismas e instituciones eclesiales. El texto dice así: "Esta responsabilidad lleva al Obispo, en comunión con el presbiterio, a hacer un proyecto y establecer un programa, capaces de estructurar la formación permanente no como un mero episodio, sino como una propuesta sistemática de contenidos, que se desarrolla por etapas y tiene modalidades precisas" (PDV 79).

 

      El proyecto de vida debe abarcar todas las áreas de la formación permanente, para que sea capaz de "sostener de una manera real y eficaz, el ministerio y la vida espiritual de los sacerdotes" (PDV 3).[24]

 

      Todo sacerdote o futuro sacerdote necesita ver un Presbiterio estructurado según un ideario definido, unos objetivos precisos y unos medios adecuados. La doctrina conciliar y postconciliar sobre el sacerdocio ministerial (que hemos resumido en el n. 2) ofrece material suficiente para programar estos apartados (ideario, objetivos, medios).[25]

 

      No es fácil entender por qué este proyecto de vida, pedido por PDV, no es todavía una realidad en muchos Presbiterios. Tal vez falta algo tan esencial como es el plan de pastoral diocesano, en el que se encuadre mejor la vida del Presbiterio, dejando espacio operativo a su propio camino. A veces es debido a que el Consejo Presbiteral (que no debe identificarse con el Presbiterio) no ha encontrado su cauce de actuación.[26]

 

      Los planes de formación permanente (en sus cuatro áreas: humana, espiritual, intelectual, pastoral), la actuación del Consejo Presbiteral y la puesta en práctica del proyecto de vida en el Presbiterio, dependerán de la actuación del carisma episcopal. Si esta actuación se limitara al terreno administrativo y de gobierno, bien podría organizar cursos de actualización, convocar sesiones de consejo con sus componentes y dar normas disciplinares. Pero quedaría sin afrontar la principal actuación del carisma episcopal: la revitalización de su Presbiterio según el modelo de la "vida apostólica" o "apostolica vivendi forma" (es decir: el seguimiento evangélico, la vida comunitaria y la disponibilidad misionera).

 

      Sin la actuación del carisma episcopal, en esta línea de espiritualidad específica (cfr. ChD 15-16, 28; PO 7), la formación permanente del clero seguirá siendo algo marginal o circunstancial; el Consejo Presbiteral no acertará en encontrar su actuación específica (siempre distinta del Consejo Pastoral). Entonces el proyecto de vida en el Presbiterio ya no se vería como algo necesario. El plan diocesano de pastoral, en cualquiera de sus ofertas, no será efectivo mientras el Presbiterio no tenga su propio proyecto de vida sacerdotal.

 

      La existencia o la carencia de este  proyecto integral, que abarca toda la vida y ministerial sacerdotal (cfr. PDV 3, 79; Dir 76, 86), es el índice de vitalidad del Presbiterio y también de la recta actuación del carisma episcopal respecto a sus sacerdotes.

 

      Habrá que contar con una realidad atrofiante que reclama afrontarla como quien rema contra corriente: en la mayoría de los Seminarios no se ha estudiado sistemáticamente la espiritualidad específica del sacerdote. Los documentos conciliares y postconciliares al respecto, no son suficientemente conocidos y, mucho menos, estudiados. Precisamente ahí está uno de los principales y más urgentes campos de actuación del carisma episcopal: ayudar a tomar conciencia y a vivir la propia espiritualidad sacerdotal diocesana en el Presbiterio.[27]

 

 

4. La necesidad teológica del carisma episcopal para la vida sacerdotal

 

      Analógicamente a cuando se dice del "párroco", todo sacerdote (presbítero), en su actuación sacerdotal y en la comunidad confiada, es "un pastor que hace las veces del obispo" (SC 42; cfr. LG 28). No se trata de competencias o de alternativas, sino de la realidad del Presbiterio, cuyos miembros son siempre "colaboradores necesarios en el ministerio y oficio de enseñar, santificar y apacentar al Pueblo de Dios" (PO 7). El decreto ChD matiza que la labor del obispos es "con la cooperación de su Presbiterio" (ChD n. 11). Respecto al obispo, que es "padre" de todo el Presbiterio (ChD 28), los presbíteros son también "hermanos y amigos suyos" (PO 7).[28]

 

      Si el obispo es "el gran sacerdote de su grey, de quien deriva y depende, en cierto modo, la vida en Cristo de sus fieles" (SC 41), ello tendrá una aplicación peculiar respecto a los presbíteros. Efectivamente, "sobre los obispos recae de manera principal el grave peso de la santidad de sus sacerdotes" y, por esto, habrán de tener "el máximo cuidado de la continua formación de sus sacerdotes" (PO 7). Los obispos son "principio y fundamento visible de unidad en sus Iglesias particulares" (LG 23).[29]

 

      No es mi intento, en el presente estudio, urgir la aplicación de esta obligación (y vocación específica) por parte del obispo, sino más bien atraer la atención de la reflexión teológica sobre la actuación del carisma episcopal en la vida de los sacerdotes y, de modo especial, suscitar en los presbíteros (y diáconos) el amor filial y la dependencia espiritual respecto a su propio obispo. La afirmación "nada sin el obispo" recobra toda su hondura en esta perspectiva de comunión responsable.[30]

 

      Mientras no actúe o no se deje actuar al carisma episcopal en la delineación práctica de la espiritualidad sacerdotal en el Presbiterio, esta espiritualidad no pasará de ser una aspiración pasajera o un ideal teórico. Los "Lineamenta" se remiten a la importancia de la sucesión apostólica, para urgir la vida apostólica (que es común a obispos y presbíteros): "El testimonio ininterrumpido de la Tradición reconoce en los obispos aquellos que poseen el «sarmiento de la semilla apostólica» y suceden a los Apóstoles como pastores de la Iglesia" (Lineamenta n.28)[31]. "Los obispos son sucesores de los Apóstoles no solamente en la autoridad y en la sacra potestas, sino también en la forma de vida apostólica, en los sufrimientos" (Lineamenta n.29). "El obispo es el primer responsable del discernimiento de la vocación de los candidatos, de su formación" (Lineamenta n.34).

 

      Son muchos los textos conciliares que instan al sacerdote presbítero a poner en práctica sus exigencias sacerdotales, teniendo en cuenta su dependencia respecto al propio obispo. Hemos ido citando algunos en los apartados anteriores (cfr. LG 28; PO 7; ChD 28; PDV 74, 79).

 

      Esta dependencia efectiva no será realidad sino en el grado en que el obispo viva en las mismas condiciones de sus presbíteros, embarcado en la misma barca, para correr la misma suerte. Sin esta cercanía familiar, espiritual, pastoral y económica, la actuación del carisma episcopal no pasará las fronteras de la disciplina y de la administración.[32]

 

      Hay un texto conciliar programático que resume esta actuación episcopal y que necesitaría ser asimilado también por los presbíteros, para no poner obstáculoss a la actuación del carisma episcopal del propio obispo: "Traten siempre con caridad especial a los sacerdotes, puesto que reciben parte de sus obligaciones y cuidados y los realizan celosamente con el trabajo diario, considerándolos siempre como hijos y amigos, y, por tanto, estén siempre dispuestos a oírlos, y tratando confidencialmente con ellos, procuren promover la labor pastoral íntegra de toda la diócesis. Vivan preocupados de su condición espiritual, intelectual y material, para que ellos puedan vivir santa y piadosamente, cumpliendo su ministerio con fidelidad y éxito" (ChD 16).[33]

 

      Me parece ver en esta afirmación conciliar el fundamento de la orientación de "Pastores dabo vobis" sobre el proyecto de vida, que hemos citado y comentado más arriba (cfr. PDV 79). Los "Lineamenta" fofrece unas pautas muy esclarecedoras:

 

      "A la actitud del obispo con cada sacerdote se une la conciencia de tener en torno a sí un Presbiterio diocesano. Por esto debe alimentar en ellos la fraternidad que sacramentalmente los une y promover entre todos el espíritu de colaboración en una eficaz pastoral de conjunto (Lineamenta n.33).

 

      "El obispo debe esforzarse cada día para que todos los presbíteros sepan y se den cuenta, de forma concreta, que no están solos o abandonados, sino que son miembros y parte de un solo Presbiterio... consciente de que el testimonio de comunión afectiva y efectiva entre el obispo y sus presbíteros es un estímulo eficaz de la comunión en la Iglesia particular en todos los demás niveles" (ibídem).

 

      "La relación sacramental-jerárquica se traduce en la búsqueda constante de una comunión afectiva y efectiva del obispo con los miembros de su Presbiterio" (Lineamenta n.32)

 

      Pablo VI recordó esta realidad de gracia al inaugurar la Asamblea de Medellín desde la catedral de Bogotá: "Si un obispo concentrase sus cuidados más asiduos, más inteligentes, más pacientes, más cordiales, en formar, en asistir, en escuchar, en guiar, en instruir, en amonestar, en confortar a su clero, habría empleado bien su tiempo, su corazón y su actividad"[34]. Los "Lineamenta" recuerdan también este ministerio episcopal: "El ministerio del obispo se determina con relación a las diferentes vocaciones de los miembros del Pueblo de Dios y, ante todo, con relación a los sacerdotes, incluso religiosos, y al Presbiterio constituido por ellos en la Iglesia particular" (Lineamenta n.31).

 

      Sin esta referencia al carisma episcopal, el sacerdote diocesano no podrá llevar a efecto todas las exigencias de la espiritualidad sacerdotal. Al constatar esta vocación en el propio Presbiterio, el sacerdote puede apoyarse también en otros carismas legítimos y también eclesiales. Pero queda por cubrir el campo más suyo y más específico:

 

      ¿Cómo encontrar en le propio Presbiterio (con su propio obispo), los medios propios de espiritualidad y de evangelización? (cfr.. PO 8; PDV 74; Dir 27)[35]

 

      ¿Cómo ser servidor y coordinador de todos los carismas que el Espíritu Santo ha suscitado en la Iglesia particular y en la comunidad eclesial que le ha confiado el obispo?

 

 

      Si no se encontrara apoyo explícito por parte del carisma episcopal (por no reconocerlo, por no amarlo o por no dejarlo actuar), difícilmente se encontraría solución a estas aspiraciones hondas que el Espíritu Santo ha comunicado a los sacerdotes el día de la ordenación sacerdotal, especialmente cuando se ordenan como incardinados (desposados) al servicio de la Iglesia particular (en comunión responsable con la Iglesia universal) y como miembros permanentes de la familia sacerdotal del Presbiterio.[36]

 

 

5. Líneas conclusivas: unas propuestas factibles

 

      La doctrina conciliar y postconciliar del Vaticano II enraíza en toda la tradición eclesial sobre la "Vida Apostólica" en el Presbiterio. El obispo fue siempre (en línea de principio) el primer responsable y agente en la construcción de esa vida sacerdotal al estilo de los Apóstoles: seguimiento evangélico, fraternidad, disponibilidad misionera.[37]

 

      Los "Lineamenta" para la Asamblea ordinaria de los Obispos (para el año 2.000) recuerdan también esta relación del obispo con sus sacerdotes, como hemos citado repetidamente en el presente estudio. Ahí se invita a considerar el significado de la Misa Crismal: "Para un obispo es un momento de gran esperanza, ya que se encuentra con el Presbiterio diocesano, reunido en torno a él" (Lineamenta n. 96). También hay que reconocer la importancia de la mediación del obispo en la ordenación sacerdotal "recibiendo de Dios a los nuevos cooperadores" (Lineamenta n. 96).

 

      La dinámica histórica de la espiritualidad sacerdotal (siempre en línea de caridad pastoral y de espiritualidad comunitaria y eclesial) indica unos hitos (época patrística, medioevo, Trento, encíclicas sacerdotales del siglo XX, Sínodos...), en los que la figura del obispo es determinante en la puesta en práctica o en la decadencia de la vida sacerdotal en el Presbiterio.[38]

 

      El futuro de los Seminarios radica en esta actuación del obispo (como sucesor de los Apóstoles que forma a sus colaboradores inmediatos), mucho más que en nuevas metodologías y organizaciones[39].

 

      El futuro de los Presbiterios radica también en la propia responsabilidad de los presbíteros, corroborada con la actuación imprescindible del carisma episcopal. El "proyecto" (escrito o vivido) del Presbiterio no podrá realizarse de modo efectivo y permanente sin el obispo.[40]

 

      La actuación concreta del carisma episcopal (como padre, hermano, amigo, según las expresiones conciliares) emana de su propia espiritualidad, como exigencia de la ordenación o consagración episcopal. Pero esta espiritualidad forma una unidad especial con sus presbíteros (y diáconos), a modo de unidad familiar y "colegio".

 

      Sería una afirmación superficial decir que esta actuación "clericalizaría" la actuación del obispo... Efectivamente, su carisma, además de dirigirse "por igual" a todos los estados de vida según la propia vocación (laical, religiosa, sacerdotal), debe afianzarse formando a sus colaboradores inmediatos que son parte de este mismo carisma.[41]

 

      Concretamente, la actuación del carisma episcopal es necesaria para que se ponga en práctica la espiritualidad (y vida ministerial) en el Presbiterio. De modo especial necesitaría concretarse más explícitamente en estos puntos:

 

      1) Trazar las líneas claras y entusiasmantes de la "mística" o espiritualidad sacerdotal en el Seminario y en el Presbiterio (ello sería fuente de vocaciones y de perseverancia sacerdotal).

 

      2) Asumir el cuidado más directo de la espiritualidad de sus presbíteros (nadie le puede suplir, aunque sí muchos pueden ayudar, especialmente por la dirección espiritual y asociaciones).

 

      3) Hacerse más cercano, compartiendo la misma vida a nivel humano (economía, vivienda, descanso...), espiritual (procurando retiros y dirección espiritual), intelectual (actualización), pastoral (compartiendo los sudores apostólicos)... La perseverancia sacerdotal no será posible sin esta cercanía a modo de familia sacerdotal, sin distinciones ni privilegios.

 

      4) Trazar el proyecto de vida en el Presbiterio, tal como lo pide PDV 79, de manera sencilla, entusiasmante y siempre perfeccionable (con la aportación de todo el Presbiterio).

 

      5) Hacer que los presbíteros colaboren activa y responsablemente en el plan diocesano de pastoral, desde su propio proyecto de vida (sin diluirlo en el plan general).

 

      6) Hacer posible el cauce de la colaboración misionera universal, por medio del centro diocesano misionero y de las OMP e Institutos misioneros, de suerte que se transforme la Iglesia particular en Iglesia misionera, especialmente por la aportación del mismo Presbiterio.

 

      7) Instar continuamente en la oración común con sus Presbíteros, en la que aparezcan "sus esperanzas para el Presbiterio diocesano" (Lineamenta n.93), a modo de Cenáculo con María que también "imploraba con sus oraciones el don del Espíritu" (LG 59). Si la Iglesia "invoca frecuentemente a María como Regina Apostolorum" (Lineamenta n. 100), es debido a que ella es la "Madre del sumo y eterno sacerdote, Reina de los Apóstoles y auxilio de su ministerio" (PO 18) y, por consiguiente, madre peculiar de todos los sacerdotes ministros.[42]



    [1]El concilio Vaticano II, "Pastores dabo vobis" y el "Directorio" prefieren el término "diocesano" (cfr. LG 28 y 41; PO 8; PDV 2, 4, 17, 28, 31, 59, 68, 71, 74; Dir. 88-89). El Código de Derecho Canónico usa el término "clero secular" (can. 680). No se trata de oponer términos, sino de acentuar un aspecto: pertenencia permanente a una diócesis (por la incardinación) y distinción del clero "regular" o religioso. El calificativo de "secular" indica que es distinto de estilo "claustral", en cuanto que existe una mayor inserción en las estructuras seculares. Hay que reconocer, no obstante, la existencia de una "secularidad" que es propia del laicado: "El carácter secular es propio y peculiar de los laicos" (LG 31).

    [2]En mis publicaciones he tenido en cuenta, a partir de la base bíblica, los documentos históricos (patrísticos, magisteriales, litúrgicos), la vida de los santos sacerdotes y la experiencia de muchos sacerdotes con quienes me he encontrado en los diversos Continentes. La realidad y la experiencia las he intentado discernir a la luz de la Palabra predicada, vivida y celebrada por la Iglesia de todos los tiempos. Cfr. Teología de la espiritualidad sacerdotal (Madrid, BAC, 1991); Signos del Buen Pastor (Bogotá, CELAM, 1991).

    [3]Los "Lineamenta" para la X Asamblea Ordinaria del Sínodo de los Obispos, tiene expresiones muy ricas de contenido sobre la espiritualidad específica del obispo: "Padre cercano en medio de su pueblo, el obispo es la imagen de Jesús, el Buen Pastor, que camina junto a su rebaño" (n.86). "El obispo debe encontrar en la caridad pastoral el vínculo de la perfección sacerdotal y también el fruto de la gracia y del carácter sacramental recibido... Se debe conformar con Cristo Buen Pastor, tanto en su vida personal como en su ministerio apostólico, de modo que el pensamiento de Cristo (cfr. 1Cor 2,10) le invada en todo y totalmente en las ideas, en los sentimientos, en las opciones y el obrar" (n.87). "Sin embargo el obispo debe vivir su espiritualidad propia, a causa del don específico de la plenitud del Espíritu de santidad, que ha recibido como padre y pastor de la Iglesia... Se trata, demás, de una espiritualidad eclesial, porque cada obispo es configurado con Cristo Pastor, para amar a la Iglesia con el amor de Cristo Esposo, para servirla... Así, en la Iglesia, se convierte en modelo y promotor de la espiritualidad de comunión en todos los niveles" (n.89). "La caridad pastoral debe determinar los modos de pensar y actuar del obispo... En consecuencia, la caridad pastoral exige estilos y formas de vida que, realizados como imitación de Cristo pobre y humilde, permitan estar cerca de todos los miembros del rebaño" (n.69). "La eficacia de la guía pastoral de un obispo y de su testimonio de Cristo... depende en gran parte de la autenticidad del seguimiento del Señor y del vivir in amicitia Jesu Christi" (n.97).

    [4]"Todos los presbíteros, juntamente con los Obispos, participan de tal modo del mismo y único sacerdocio y ministerio de Cristo, que la misma unidad de consagración y de misión exige una comunión jerárquica con el Orden de los Obispos, unión que manifiestan perfectamente a veces en la concelebración litúrgica, y unidos a los cuales profesan que celebran la comunión eucarísti­ca. Por tanto, los Obispos, por el don del Espíritu Santo, que se ha dado a los presbíteros en la Sagrada Ordenación, los tienen como necesarios colaboradores y consejeros en el ministerio y función de enseñar, de santificar y de apacentar la grey de Dios" (PO 7).

    [5]He resumido mi impresión al final de Historia de la espiritualidad sacerdotal (Burgos, Facultad Teológica, 1985) p. 216: "Las experiencias de vida apostólica, tantas veces practicadas por los santos obispos y sacerdotes durante la historia pasada, seguirán siendo esporádicas y momentáneas mientras no encuentren eco responsable y vivencial en todo el Presbiterio y especialmente en quien es su cabeza, hermano y padre". Será difícil remontar un vacío de varios siglos. Cfr. Espiritualidad sacerdotal y formación espiritual del sacerdote, en: Os daré pastores según mi corazón (Valencia, EDICEP, 1992) 207-222.

    [6]El decreto conciliar de Trento invitaba al obispo asumir la responsabilidad de sus futuros sacerdotes: "Establece el santo Concilio que todas las catedrales, metropolitanas e Iglesias mayores, tengan obligación de mantener y educar religiosamente, e instruir en la disciplina eclesiástica, según las posibilidades y extensión de las diócesis, cierto número de jóvenes de la misma ciudad y diócesis... Cuide el obispo que asistan todos los días al sacrificio de la Misa, que confiesen a los menos una vez al mes, que reciban, a juicio del confesor, el Cuerpo de nuestro Señor Jesucristo, y que sirvan en la catedral y en otras Iglesias del pueblo los días festivos. El obispo... arreglará, según el Espíritu Santo le iluminare, todo lo dicho, y todo cuanto sea oportuno y necesario, velando en sus frecuentes visitas de que siempre se guarde"... (Ses.23, can.18 de reforma: Concilium Tridentinum, IX, 628-630). He hecho notar el vacío postconciliar respecto a este cuidado episcopal: La institución de los Seminarios y la formación del clero, en: Trento, i tempi del Concilio, Società, religione e cultura agli inizi dell'Europa moderna (Trento, 1995) 261-270.

    [7]Dos son las preguntas que más me han impresionado en los diversos Seminarios diocesanos (de los cinco Continentes): ¿existe para el sacerdote diocesano una espiritualidad específica? ¿encontraré en mi Presbiterio los medios necesarios para vivirla?

    [8]En realidad, los presbíteros son "colaboradores y consejeros necesarios" del obispo en todos los ministerios (PO 7; cfr. CD 16, 28). Ver también el Directorio "Ecclesiae Imago" sobre el ministerio de los obispos (22 de febrero de 1973), nn. 107-117 (Relaciones con el clero diocesano).

    [9]Textos como el siguiente son muy frecuentes, parecidos en los contenidos básicos y variados según las circunstancias: "En todas estas tareas, vuestros primeros y principales colaboradores en la predicación del Evangelio y en la difusión de la buena nueva de la salvación son los sacerdotes... Esta paternidad espiritual se expresa en un profundo vínculo de comunión entre vosotros y vuestros sacerdotes, en vuestra disponibilidad en acogerlos y el apoyo que esperan y necesitan de vosotros... El bienestar humano y espiritual de vuestros sacerdotes será el coronamiento de vuestro ministerio episcopal... Compartir una vida sencilla alegra al Presbiterio y, cuando va acompañada por la confianza mutua, facilita la obediencia voluntaria que todo presbítero debe a su obispo" (JUAN PABLO II, Disc. a los miembros de la Conferencia Episcopal de Zimbabwe, 4 de septiembre de 1998, Oss. Rom. esp. 11 septiembre, p.5).

    [10]La pregunta n. 6 del "Cuestionario" de los "Lineamenta" queda formulada así: "¿Cómo vive el obispo su relación con el Presbiterio y con cada sacerdote, especialmente en la proclamación de la fe? ¿Cuáles deberían ser sus preocupaciones principales en este campo?".

    [11]Indico algunas síntesis actuales, teológicas y sistemáticas, sobre la espiritualidad sacerdotal: AA.VV., Espiritualidad sacerdotal, Congreso (Madrid, EDICE, 1989); AA.VV., Espiritualidad del Presbiterio (Madrid, EDICE, 1987); J. CAPMANY, Apóstol y testigos, reflexiones sobre la espiritualidad y la misión sacerdotales (Barcelona, Santandreu, 1992); M. CAPRIOLI, Il sacerdozio. Teologia e spiritualità (Roma, Teresianum, 1992); J. ESQUERDA BIFET, Teología de la espiritualidad sacerdotal (Madrid, BAC, 1991); Idem, Signos del Buen Pastor, Espiritualidad y misión sacerdotal (Bogotá, CELAM, 1991); A. FAVALE, El ministerio presbiteral, aspectos doctrinales, pastorales y espirituales (Madrid, Soc. Educ. Atenas, 1989). Pero surge siempre esta pregunta: ¿se estudia en los Seminarios la espiritualidad sacerdotal de modo sistemático y entusiasmante?

    [12]  Sin el conocimiento y la vivencia de esta espiritualidad sacerdotal específica, que es esencialmente comunitaria y eclesial, sería imposible la aportación responsable de los sacerdotes al plan pastoral de la Iglesia particular. Este plan pastoral debe ser orientado, en último término, por el obispo, quien, al mismo tiempo tiene el carisma de presidir el Presbiterio y cuidar de su espiritualidad y santificación. Cada vocación  (laical, sacerdotal o de vida consagrada) y cada carisma (personal o de grupo-movimiento) debe vivir su propia realidad e identidad, personal y comunitaria, dentro de la comunión eclesial, y encontrar su espacio operativo para que de verdad aporte algo a la comunidad eclesial y a la pastoral de conjunto. Un plan pastoral diocesano que no respetara estas realidades de gracia, no sería eclesial ni cristiano.

    [13]Actualmente se discuten dos cuestiones: "ministerialidad" y "secularidad" de la espiritualidad y vida sacerdotal. Las dos cuestiones (como otras del pasado o que surgirán en el futuro) son válidas, si se quedan en un campo de reflexión sin herir las realidades de gracia. Toda la espiritualidad sacerdotal es "ministerial" o de "servicio" (en nombre de Cristo Profeta, Sacerdote y Pastor), a partir de una realidad ontológica (el "carácter" o gracia permanente del Espíritu). El sacerdote está insertado en las realidades del mundo ("seculares"), a la luz de Cristo Sacerdote Buen Pastor. Suscitar una nueva perspectiva teológica es siempre válido (así avanza la teología), con tal que no sirva para distraer de la vivencia de lo que ya ha quedado esclarecido suficientmente por la acción del Espíritu en la Iglesia.

    [14]El pastoreo de quien preside la comunidad debe cuidar de todos los carismas, por el hecho de "ejercer el oficio de Cristo Cabeza y Pastor", tiende a "formar una genuina comunidad cristiana" (PO 6). "Los presbíteros están puestos en medio de los laicos para llevarlos a todos a la unidad de la caridad... Ellos son defensores del bien común" (PO 9).

    [15]Participar ontológicamente o en el ser del sacerdote de Cristo Cabeza y Pastor (cfr. PO 1-3), comporta una configuración con él (cfr. PDV 20-22), que es también Siervo (cfr. PDV 48) y Esposo (cfr. PDV 22). Esta participación en el ser de Cristo es consagración por el Espíritu Santo (cfr. PDV 1, 10, 27, 33, 69). De ahí derivan las diversas dimensiones o perspectivas y puntos de vista de esta realidad tan rica de contenidos: dimensión trinitaria, cristológica, pneumatológica, eclesiológica, antropológica, sociológica... (cfr. Directorio cap. I).

    [16]Los textos conciliares y postconciliares indican esta participación en la misma misión profética, sacerdotal y real de Cristo (cfr. PO 4-6, 10-11; PDV 16-18). Es siempre misión universal (cfr. PO 10; PDV 16-18, 31-32). Al mismo tiempo, es misión santificadora por el ejercicio del mismo ministerio (cfr. PO 13), con tal que se realice en "unidad de vida", como Cristo está unido a la voluntad del Padre (PO 13-14). Las afirmaciones clave del PO 12-14 son un programa completo de espiritualidad sacerdotal ministerial: "instrumentos vivos de Cristo Sacerdote", "en el ministerio", "unidad de vida", "ascesis del pastor de almas".

    [17]La caridad pastoral es la sintonía e imitación de Cristo Buen Pastor, que da la vida dándose él (pobreza), sin pertenecerse (obediencia), como consorte o Esposo (castidad o virginidad). Así el sacerdote es signo personal y sacramental del Buen Pastor: Mt 19,27; PO 15-17; PDV 21-30. La comunidad eclesial tiene derecho a ver, en quien la preside espiritualmente, la caridad del Buen Pastor y Esposo de la Iglesia. Además de las síntesis globales sobre la espiritualidad sacerdotal (citadas más arriba), ver: M. PEINADO, Solicitud pastoral (Barcelona, Flors, 1967); P. XARDEL, La flamme qui dévore le berger (Paris, Cerf, 1969.

    [18]Estos elementos pueden inspirarse en una figura de valor sacerdotal, participando periódicamente en grupos sacerdotales o en asociaciones (como la Unión Apostólica y otras), subrayando algunos matices y añadiendo otros, concretando más los compromisos, etc. El sacerdote religioso (o de instituciones de vida consagrada) vive estas realidades de gracia con matices de una espiritualidad "particular": relación con el carisma fundacional, estatutos, compromisos (votos, etc.).

    [19]C. BERTOLA, Fraternidad sacerdotal (Madrid, Soc. Educ. Atenas, 1992); A. CATTANEO, Il Presbiterio della Chiesa particolare (Milano, Edit. Giuffré, 1993); J. ESQUERDA BIFET, Teología de la Espiritualidad sacerdotal (Madrid, BAC, 1991) cap. VI; V. FUSCO, Il presbiterio: Fondazione biblico-teologica: Asprenas 33 (1986) 5-36; J. LECUYER, Le Presbyterium, en: Les prêtres (Paris, Cerf, 1968) (Unam Sanctam 68) 275‑288; A. VILELA, La condition collégial des prêtres au III siècle (Paris, Beauchesne, 1971).

    [20]Esta paternidad no significa paternalismo; en otros textos conciliares se le llama también hermano y amigo (PO 7). Esta paternidad deriva del hecho de que el obispo sea "la imagen viva de Dios Padre" (S. Ignacio de Antioquía, Ad Trall. 3,1).

    [21]En el ejercicio de los ministerios, el presbítero representa al obispo: "En cada una de las congregaciones de fieles, ellos representan al Obispo con quien están confiada y animosamente unidos, y toman sobre sí una parte de la carga y solicitud pastoral y la ejercitan en el diario trabajo" (LG 28; cfr. SC 42; PO 7). En la administración del sacramento de la confirmación, la misión o encargo recibido del obispo es indispensable para su validez. La teología todavía no ha aclarado si el presbítero podría también ordenar, analógicamente a como puede confirmar como ministro extraordinario; hoy por hoy, esta ordenación no sería válida.

    [22]Es importante observar la insistencia en la "comunión", como partícipes del mismo sacerdocio y ministerio del obispo y, consecuentemente, de la misma espiritualidad sacerdotal, salvando la diferencia en el grado sacramental y la dependencia del carisma episcopal. "Presbyterorum Ordinis" habla de la "obedien­cia sacerdotal, ungida de espíritu de cooperación, se funda especialmente en la participación misma del ministerio episcopal que se confiere a los presbíteros por el Sacramento del Orden y por la misión canónica" (PO 7,b).

    [23]Sobre la derivación misionera universal del ministerio sacerdotal (para colaborar con la responsabilidad del obispo), ver: ChD 5-6; LG 23, 28; PO 10; AG 38; RMi 63; PDV 2, 4, 14, 16-18, 23, 31-32, 59, 74-75, 82; Dir. 14-15. Los "Lineamenta" desea "que toda la diócesis se haga misionera" (Lineamenta n.74; cfr. nn. 45 y 73).

    [24]Expuse la fundamentación y las pautas de este proyecto en: Ideario, objetivos y medios para un proyecto de vida sacerdotal en el Presbiterio, "Sacrum Ministerium" 1(1995) 175-186. Ver también: J.T. SANCHEZ, Los sacerdotes protagonistas de la Evangelización, en: (Pontificia Comisión para América Latina), (Lib. Edit. Vaticana 1996) 101-110. En esta última publicación, el entonces Prefecto de la Congregación para el Clero trata de la formación permanente en el Presbiterio y propone en la p. 110: "elaboración en cada Presbiterio de un proyecto de vida que recoja las orientaciones concretas en los diversos niveles de formación permanente: humana, espiritual, intelectual, pastoral, un programa orgánico, sistemático, integral".

    [25]El proyecto podría tener, pues, tres partes principales: El ideario (ser, obrar y vivencia o espiritualidad), los objetivos (a nivel humano, espiritual, intelectual, pastoral) y los medios (personales y comunitarios). Para cada uno de estos capítulos hay material suficientemente claro y entusiasmante en PO, PDV y Directorio. Ver el artículo citado anteriormente sobre el proyecto de vida en el Presbiterio.

    [26]Al consejo presbiteral "compete, entre otras cosas, buscar los objetivos claros y distintamente definidos de los diversos ministerios que se ejercen en la diócesis, proponer prioridades, indicar los métodos de acción" (Directorio "Ecclesiae Imago" sobre el ministerio pastoral de los obispos, 22 de febrero de 1973, n. 202). Pero por su medio también "se fomenta la fraternidad en el Presbiterio y el diálogo entre el obispo y los presbíteros" (ibídem).

    [27]Sin esta mística sacerdotal, conocida y vivida gozosa y generosamente, difícilmente tendrá el obispo vocaciones "propias" en su Seminario, así como clero suficiente y disponible apostólicamente en su diócesis; este conocimiento de la propia espiritualidad lleva, por su misma lógica interna, a estudiar los clásicos de espiritualidad de cualquier escuela, también para servir a las demás vocaciones. En este campo puede prestar un gran servicio la Unión Apostólica, como cauce de intercambio de experiencias de "Vida Apostólica" en los diversos Presbiterios.

    [28]Lineamenta n.11, citando LG 28 y ChD 7, dice: "La necesaria cooperación del Presbiterio está enraizada en el mismo evento sacramental". Más adelante afirma: "Esta misma gracia (sacramental) une a los presbíteros a las distintas funciones del ministerio episcopal... Sus necesarios colaboradores y consejeros... asumen, según su grado, los oficios y la solicitud del obispo y la hacen presente en cada comunidad" (Lineamenta n.31; cfr. LG 28). El Directorio "Ecclesiae Imago" sobre el ministerio pastoral de los obispos concreta: "El Obispo... sabe bien que su deber es dirigir su amor y su solicitud particular sobre todo hacia los presbíteros y hacia los candidatos al ministerio sagrado" (n. 107; cita PO 7; ver también el n. 111 del mismo Directorio). De ello se seguirá que "todo el Presbiterio se sienta junto con el Obispo verdaderamente corresponsable de la Iglesia particular" (n. 111).

    [29]"En los presbíteros de la diócesis, aunque sean religiosos, el Obispo trata de infundir y hacer madurar la conciencia de formar un único Presbiterio en la Iglesia, todos juntos con el Obispo y unidos entre sí por el vínculo del sacramento del Orden, aunque sean diversas las tareas que desempeñan" (Directorio "Ecclesiae Imago" sobre el ministerio pastoral de los obispos n. 109).

    [30]En el Presbiterio, el obispo ocupa el lugar de Cristo, mientras los presbíteros ocupan el lugar de los Apóstoles (San Ignacio de Antioquía, Ad Magnesios VI, 1). El carisma propio de la apostolicidad del obispo tiene significado espiritual y moral antes que administrativo. Esta realidad de gracia fundamenta "su relación  personal-espiritual del pastor con su grey" (Lineamenta n.10).

    [31]toma la expresión "semilla apostólica" de Tertuliano (Praescr. Haeret., 32: PL 2,53). Para los contenidos de "sucesores" de los Apóstoles, ver LG 18 y 20. "Pastores dabo vobis" recuerda también que los presbíteros participan, en grado inferior, de esta sucesión apostólica (cfr. PDV 15-16, 42, 60).

    [32]Al hablar de la pobreza sacerdotal, el concilio Vaticano II, remitiéndose a toda la tradición, une la vida del obispo con la del sacerdote: "Guiados, pues, por el Espíritu del Señor, que ungió al Salvador y lo envió a evangelizar a los pobres, los presbíteros, y lo mismo los Obispos, mucho más que los restantes discípulos de Cristo, eviten todo cuanto pueda alejar de alguna forma a los pobres, desterrando de sus cosas toda clase de vanidad. Dispongan su morada de manera que a nadie esté cerrada, y que nadie, incluso el más pobre, recele frecuentarla" (PO 17). Sobre la vida sencilla y pobre de los obispos: Motu Proprio "Pontificalia insignia" (Pablo VI, 21 de junio de 1968); Instrucción "Ut sive sollicite" (31 de marzo de 1969).

    [33]Continúa el texto: "Por lo cual han de fomentar las instituciones y establecer reuniones especiales, de las que los sacerdotes participen algunas veces, bien para practi­car algunos ejercicios espirituales más prolongados para la renovación de la vida, o bien para adquirir un conocimiento más profundo de las disciplinas eclesiásticas, sobre todo de la Sagrada Escritura y de la Teología, de las cuestiones sociales de mayor importancia, de los nuevos métodos de acción pastoral" (ChD 16).

    [34]Pablo VI, Alocución en la inauguración de la II Conferencia General del Episcopado Latinoamericano, Catedral de Bogotá (24 de agosto de 1968). Son los mismos contenidos del Directorio "Ecclesiae Imago" sobre el ministerio pastoral de los obispos: "El Obispo considera como un sacrosanto deber conocer a sus presbíteros diocesanos, sus caracteres y capacidades, sus aspiraciones y tenor de vida espiritual, su celo e ideales, su estado de salud y sus condiciones económicas, su familia y todo lo que diga relación a ellos" (n. 111).

    [35]En "Don y misterio" (en el apartado sobre el Presbiterio de Cracovia), Juan Pablo II manifesta su gozo de haber encontrado en su Presbiterio (como presbítero y como obispo) la fraternidad sacerdotal y las ayudas necesarias para vivir su sacerdocio.

    [36]Las diversas asociaciones, carismas, movimientos, etc., pueden ser una ayuda para vivir mejor las realidades de gracia de la propia espiritualidad sacerdotal diocesana. Hay que reconocer también y apreciar la gran ayuda de las diversas formas de vida consagrada, así como de la pertenencia a instituciones y asociaciones que se inspiran en carismas particulares. Ello puede ayudar también al sacerdote diocesano, a modo de dirección espiritual o de grupo de amigos; pero no cancela la actuación del carisma episcopal ni la puede suplir.

    [37]Ver en la historia de la espiritualidad sacerdotal la forma de vivir los Presbiterios según San Agustín, San Eusebio de Vercelli, Santo Domingo, experiencias "canonicales", etc. Cfr. Teología de la Espiritualidad Sacerdotal, o.c., cap. 13 (síntesis histórica). También en: Historia de la espiritualidad sacerdotal (Burgos, Facultad de Teología, 1985); corresponde al vol. 19 de "Teología del Sacerdocio".

    [38]Además de los santos obispos recordados anteriormente, cabe hacer mención de otros posteriores: San Carlos Borromeo, San Juan de Ribera, San Juan de Ávila... Ver Historia de la espiritualidad sacerdotal, o.c.

    [39]La renovación de los Seminarios no puede consistir principalmente en el cambio de unas estructuras materiales y organizativas, sino en el afianzamiento de la "Vida Apostólica" puesta en práctica con el propio obispo, en las coordenadas actuales de una familia sacerdotal que comparte la misma suerte.

    [40]Es importante e imprescindible que el Consejo Presbiteral asuma esta responsabilidad, como "consejo" del obispo, respecto a la vida de los presbíteros. Todo ello debe ser reforzado por la Comisión o Departamento Episcopal del Clero (pastoral sacerdotal, vocaciones y ministerios).

    [41]La exención histórica de la vida religiosa o consagrada (por motivos especiales) o la exención actual respecto a la autonomía del carisma de la vida consagrada, no debe olvidar la actuación necesaria e indispensable del sucesor de los Apóstoles, en el ámbito de la Iglesia particular, respecto a quienes imitan de modo peculiar la "apostolica vivendi forma", siguiendo el estilo apostólico de que son garantes los obispos (cfr. VC 45, 48, 93-94). La actuación del carisma episcopal abarca todos los demás carismas. Los "Lineamenta" hacen, en el cuestionario, esta pregunta: "¿Qué iniciativas concretas favorecen la unión espiritual del obispo, sobre todo con los presbíteros y diáconos, con los consagados y las consagradas y con los laicos, especialmente si están reeunidos en asociaciones y fundaciones eclesiales?" (pregunta n. 20).

    [42]He prescindido de la denominación jurídica sobre el sector eclesial que preside el obispo (diócesis, arquidiócesis, patriarcado, vicariato, prefectura, prelatura, etc.). Lo importante es la Iglesia concretizada allí donde hay un sucesor de los Apóstoles, en comunión con el Papa sucesor de Pedro.

          RENOVACION ECLESIAL Y ESPIRITUALIDAD MISIONERA

                  PARA UNA NUEVA EVANGELIZACION

                                              J. Esquerda Bifet

1. Exigencias de una "Nueva evangelización"

     La frase "una nueva evangelización" es una invitación que ha hecho Juan Pablo II y que ha repetido con frecuencia desde el año 1983, primero en Puerto Príncipe (Haití) y luego en Santo Domingo. Se trata de una "evangelización nueva: nueva en su ardor, en sus métodos, en su expresión".

     El objetivo quedó marcado desde el principio: suscitar "una intensa movilización espiritual... para cambiar los corazones mediante una evangelización renovada que sea fuente de vitalidad cristiana y de esperanza..., que despliegue con más vigor el potencial de santidad, en un gran impulso misionero, una vasta actividad catequética, una manifestación fecunda de colegialidad y comunión, un combate evangélico de dignificación del hombre" (Santo Domingo, 11 y 12 de octubre de 1984).

     El tema de la Conferencia Episcopal Latinoamericana de 1992 lo incluye en un contexto más amplio: "Nueva evangelización, promoción humana, cultura cristiana". La carta del Santo Padre a los religiosos del Brasil hace relación a la vida consagrada: "Queréis poner al servicio de la nueva evangelización las inmensas energías personales, comunitarias, institucionales y carismáticas de la vida consagrada, con los ojos puestos en las necesidades urgentes" (11 de julio de 1989).

     El Papa ha repetido la invitación a toda la Iglesia y, concretamente, a todas las vocaciones: "En los umbrales del tercer milenio, toda la Iglesia, Pastores y fieles, ha de sentir con más fuerza su responsabilidad de obedecer al mandato de Cristo: 'Id por todo el mundo y proclamad la Buena Nueva a toda la creación' (Mc 16,15), renovando su empuje misionero. Una grande, comprometedora y magnífica empresa ha sido confiada a la Iglesia, la de una nueva evangelización, de la que el mundo actual tiene una gran necesidad" (Christfideles Laici 64).

     La Iglesia debe, pues, prepararse para responder a una nueva evangelización: nueva en su ardor (por la disponibilidad misionera de los evangelizadores), nueva en sus métodos (por un mejor aprovechamiento de los nuevos medios de apostolado), nueva en las expresiones (por la adaptación de la doctrina y de la práctica cristiana sin diminuir sus principios y exigencias evangélicas).

     Esta realidad se convierte en un desafío para toda la Iglesia, para cada comunidad eclesial y para cada creyente: nos encontramos ante nuevas situaciones para anunciar el evangelio, tenemos nuevas gracias de Dios para responder a ellas..., "sólo" faltan los nuevos apóstoles"...

     Según la encíclica Redemptoris Missio (RMi), la llamada a una "nueva evangelización"  tiene como objetivo la renovación de la comunidad eclesial para que ésta se haga misionera "ad gentes". Esta renovación eclesial será una realidad cuando se viva la fe cristiana con todas sus consecuencias. "¡La fe se fortalece dándola! La nueva evangelización de los pueblos cristianos hallará inspiración y apoyo en el compromiso por la misión universal" (RMi 2). "La misión ad intra es signo creíble y estímulo para la misión ad extra y viceversa" (RMi 34).

     La "nueva evangelización" equivale a "reevangelización" de las comunidades para recuperar "el sentido vivo de la fe" (RMi 33). Esto significa una mayor vivencia de los valores evangélicos, según las líneas de la espiritualidad misionera trazadas por la encíclica Redemptoris Missio. Entonces la comunidad eclesial sabrá responder al momento histórico de gracia. "Dios abre a la Iglesia horizontes de una humanidad más preparada para la siembra evangélica. Preveo que ha llegado el momento de dedicar todas las fuerzas eclesiales a la nueva evangelización y a la misión ad gentes. Ningún creyente en Cristo, ninguna institución de la Iglesia puede eludir este deber supremo: anunciar a Cristo a todos los pueblos" (RMi 3).

     La formación para la vida consagrada queda profundamente implicada en esta renovación eclesial y en la espiritualidad misionera, en vistas a la nueva evangelización. "La virginidad por el Reino se traduce en múltiples frutos de maternidad según el espíritu" (RMi 70).

 

2. Renovación eclesial para una nueva evangelización

     La "nueva época misionera" (RMi 92) abre nuevos horizontes al anuncio del evangelio. "Nuestro tiempo es dramático y, al mismo tiempo, fascinador" (RMi 38). Probablemente nos encontramos ante el mayor desafío histórico que ha tenido la Iglesia, en el sentido de reclamar una renovación eclesial que haga de personas y de comunidades un signo creíble de las bienaventuranzas. Se necesitan "nuevos santos para evangelizar al hombre de hoy" (Juan Pablo II, Discurso 11.10.85) .

     Impresionan, en la nueva encíclica misionera, las frecuentes llamadas del Papa a la renovación eclesial, precisamente para afrontar la nueva evangelización con todas sus derivaciones misioneras. "Hoy la Iglesia debe afrontar otros desafíos, proyectándose hacia nuevas fronteras, tanto en la primera misión ad gentes, como en la nueva evangelización de pueblos que han recibido ya el anuncio de Cristo. Hoy se pide a todos los cristianos, a las Iglesia particulares y a la Iglesia universal la misma valentía que movió a los misioneros del pasado y la misma disponibilidad para escuchar la voz del Espíritu" (RMi 30).

     La pauta de esta renovación eclesial se encuentra en las bienaventuranzas. "La Iglesia quiere extraer toda la verdad contenida en las bienaventuranzas de Cristo y sobre todo  la verdad contenida en esta primera: 'Bienaventurados los pobres de espíritu'... Fiel al espíritu de las bienaventuranzas, la Iglesia está llamada a compartir con los pobres y los oprimidos de todo tipo. Por esto exhorto a todos los discípulos de Cristo y a las comunidades cristianas, desde las familias a las diócesis, desde las parroquias a los Institutos religiosos, a hacer un sincera revisión de la propia vida en el sentido de solidaridad con los pobres" (RMi 60). "Ha llegado el momento de hacerse realmente hermanos de los pobres en la común conversión hacia el desarrollo integral, abierto al Absoluto" (RMi 59).

 

     La misión de la Iglesia consiste en llamar a la "conversión", es decir, "a la adhesión plena y sincera a Cristo y a su Evangelio, mediante la fe. La conversión es un don de Dios" (RMi 46). Ahora bien, está llamada no sería eficaz sin el testimonio evangélico presentado por la comunidad eclesial. "El hombre contemporáneo cree más en los testigos que en los maestros... el testimonio de vida cristiana es la primera e insustituible forma de misión" (RMi 42). La Iglesia necesita ser y presentarse como Evangelio viviente, en un proceso de renovación continua. "Cada convertido es un don hecho a la Iglesia y comporta una grave responsabilidad para ella... porque, especialmente si es adulto, lleva consigo como una energía nueva, el entusiasmo de la fe, el deseo de encontrar en la Iglesia el Evangelio vivido. Sería una desilusión para él, si después de ingresar en la comunidad eclesial encontrase en la misma una vida que carece de fervor y sin signos de renovación. No podemos predicar la conversión, si no nos convertimos nosotros mismos cada día" (RMi 47).

     Los problemas internos de la comunidad eclesial pueden superarse fácilmente cuando se abre a una renovación misionera. "Sólo haciéndose misionera la comunidad cristiana podrá superar las divisiones y tensiones internas y recobrar su unidad y su vigor de fe" (RMi 49).

     Esta llamada a la renovación eclesial se encuentra en todos los períodos históricos. En el concilio Vaticano II, la invitación se repite con términos muy expresivos. Para que "la claridad de Cristo resplandezca sobre la faz de la Iglesia" (LG 1), es necesario que la misma Iglesia se renueve continuamente: "La Iglesia encierra en su propio seno a pecadores, y siendo al mismo tiempo santa y necesitada de purificación, avanza continuamente por la senda de la penitencia y de la renovación" (LG 8). Se trata siempre de renovación en el Espíritu Santo, quien, "con la fuerza del evangelio rejuvenece a la Iglesia, la renueva incesantemente y la conduce a la unión consumada con su Esposo" (LG 4).

     Esta renovación es eminentemente evangélica, en cuanto que se debe inspirar en las bienaventuranzas (como hemos indicado más arriba), es decir, en la caridad cristiana y el mandato del amor. Es renovación por medio de una vida santa. Así lo resumía Juan Pablo II en la exhortación apostólica Christifideles laici: El concilio Vaticano II ha pronunciado palabras altamente luminosas sobre la vocación universal a la santidad. Se puede decir que precisamente esta llamada ha sido la consigna fundamental confiada a todos los hijos e hijas de la Iglesia, por un concilio convocado para la renovación evangélica de la vida cristiana... Es urgente, hoy más que nunca, que todos los cristianos vuelvan a emprender el camino de la renovación evangélica" (CFL 16).

     Sólo con esta actitud de renovación evangélica, será realidad la fidelidad a la misión. "La llamada a la misión deriva, de por sí, de la llamada a la santidad... La vocación universal a la santidad está estrechamente unida a la vocación universal a la misión... La espiritualidad misionera de la Iglesia es un camino hacia la santidad" (RMi 90).

     La renovación interior tiene repercusiones en la vida práctica y, de modo especial, en la disponibilidad misionera de toda la Iglesia: "Como la Iglesia es toda ella misionera y la obra de la evangelización es deber fundamental del Pueblo de Dios, el concilio invita a todos a una profunda renovación interior, a fin de que, teniendo viva conciencia de la propia responsabilidad en la difusión del Evangelio, acepten su participación en la obra misionera entre los gentiles" (AG 35).

     Esta invitación es un examen de conciencia sobre puntos muy concretos, que ya fueron indicados por Pablo VI en Evangelio nuntiandi (1975): "¿Qué es de la Iglesia, diez años después del concilio? ¿Está anclada en el corazón del mundo y es suficientemente libre e independiente para interpretar al mundo? ¿Da testimonio de la propia solidaridad hacia los hombres y al mismo tiempo del Dios Absoluto? ¿Ha ganado en ardor contemplativo y de adoración, y pone más celo en la actividad misionera, caritativa, liberadora? ¿Es suficiente su empeño en el esfuerzo de buscar el restablecimiento de la plena unidad entre los cristianos, lo cual hace más eficaz el testimonio común, con el fin de que el mundo crea?" (EN 76).

 

3. Espiritualidad misionera para una nueva evangelización

     Una nueva evangelización requiere, como hemos visto, una renovación eclesial, de suerte que en creyentes y comunidades aparezca más claramente el rostro de Cristo, a modo de "evangelio vivido" (RMi 47). Ahora bien, esta renovación se hará realidad por un proceso de "espiritualidad misionera", como fidelidad a las nuevas gracias del Espíritu Santo. La espiritualidad que describe Redemptoris Missio para los misioneros es analógicamente la misma que deben tener todos los agentes de la nueva evangelización, puesto que se trata de renovar la comunidad eclesial para hacerla misionera ad gentes.

     La expresión "espiritualidad misionera" se encuentra ya en el concilio Vaticano II, al hablar de los cometidos de la Congregación para la Evangelización de los Pueblos: "Este Dicasterio promueva la vocación y la espiritualidad misionera, el celo y la oración por las misiones, y difunda noticias auténticas y convenientes sobre las misiones" (AG 29). El contenido de esta expresión se encuentra en los números 23-25 de Ad Gentes, y se desarrolla explicando la vocación misionera, la formación espiritual y las virtudes concretas de los misioneros, que "han de renovar su espíritu constantemente", para vivir una "vida realmente evangélica" (AG 24), de suerte que "la vida de Jesús obre en aquellos a los que es enviado" (AG 25).

     Pablo VI, en Evangelii nuntiandi, presentó "el espíritu de la evangelización", explicándolo como "actitudes interiores" del apóstol (EN 74), fidelidad al Espíritu Santo como "agente principal de la evangelización" (EN 75), "autenticidad" y testimonio (EN 76), unidad (EN 77), servicio de la verdad (EN 78), caridad apostólica (EN 79-80). Esta espiritualidad se adquiere viviendo en Cenáculo con María para afrontar una "renovada evangelización" (EN 81-82).

     La primera afirmación del capítulo VIII de la encíclica Redemptoris Missio es precisamente sobre la existencia de la espiritualidad misionera como "espiritualidad específica": "La actividad misionera exige una espiritualidad específica, que concierne particularmente a quienes Dios ha llamado a ser misioneros" (RMi 87).

     La fidelidad al Espíritu Santo (dimensión pneumatológica) es la actitud básica de la espiritualidad misionera ("espiritualidad" = vida según el Espíritu). "Esta espiritualidad se expresa, ante todo, viviendo con plena docilidad al Espíritu; ella compromete a dejarse plasmar interiormente por él, para hacerse cada vez más semejante a Cristo" (RMi 87). A partir de esta docilidad, se presentan "los dones de fortaleza y discernimiento", como "rasgos esenciales de la espiritualidad misionera" (ibídem).

     La fidelidad al Espíritu Santo es el punto de partida para entender la misión en su significado pneumatológico (cap. III). Sin la docilidad al Espíritu no se acertará en el contenido evangélico de la misión o no habrá la fortaleza para actuarlo: "También la misión sigue siendo difícil y compleja, como en el pasado, y exige igualmente la valentía y la luz del Espíritu" (RMi 87). En la nueva situación de la Iglesia y de la sociedad, "conviene escrutar las vías misteriosas del Espíritu y dejarse guiar por él hasta la verdad completa (cf. Jn 16,13)" (ibídem).

     La dimensión cristológica de la espiritualidad misionera se presenta como relación personal con él, imitación, seguimiento: "Nota esencial de la espiritualidad misionera es la comunión íntima con Cristo: no se puede comprender y vivir la misión, si no es con referencia a Cristo, en cuanto enviado a evangelizar" (RMi 88). Como en otros pasajes de la encíclica, se pone como modelo de esta actitud cristológica a san Pablo, quien nos deja entrever "sus actitudes" (ibídem, citando a Fil 2,5-8; 1Cor 9,22-23).

     De esta relación personal con Cristo nace la recta comprensión de la misión y la disponibilidad para la misma. La dimensión cristológica de la misión (cap. I-II) se comprende y vive a partir de una espiritualidad eminentemente cristológica. Hay que resaltar un aspecto fundamental de esta espiritualidad cristológica: la experiencia de la presencia de Cristo en la vida del apóstol. "Precisamente porque es 'enviado', el misionero experimenta la presencia consoladora de Cristo, que lo acompaña en todo momento de su vida. 'No tengas miedo... porque yo estoy contigo' (Act 18, 9-10). Cristo lo espera en el corazón de cada hombre" (RMi 88).

     La dimensión eclesiológica de la espiritualidad misionera se expresa en amor a la Iglesia como la ama Cristo. Esta será la garantía de la misión: "Quien tiene espíritu misionero siente el ardor de Cristo por las almas y ama a la Iglesia, como Cristo" (RMi 89). Es el sentido o "espíritu de la Iglesia", que le hace descubrir y vivir "su apertura y atención a todos los pueblos y a todos los hombres" (ibídem).

     Esta dimensión eclesiológica de la espiritualidad es el punto de partida para comprender la dimensión eclesiológica de la misión (cap. I-II). "Lo mismo que Cristo, él debe amar a la Iglesia... (Ef 5,25). Este amor, hasta dar la vida, es para el misionero un punto de referencia. Sólo un amor profundo por la Iglesia puede sostener el celo del misionero; su preocupación cotidiana -como dice san Pablo- es la 'solicitud por todas las Iglesia' (2Cor 11,28). Para todo misionero y toda comunidad, la fidelidad a Cristo no puede separarse de la fidelidad a la Iglesia" (RMi 89; cf. PO 14).

     La dimensión pastoral de la espiritualidad se describe en la línea de la "caridad apostólica": "La espiritualidad misionera se caracteriza, además, por la caridad apostólica" (n.89). Es la caridad pastoral de "Cristo, el Buen Pastor, que conoce sus ovejas, las busca y ofrece su vida por ellas (cf. Jn 10)" (ibídem).

     Se trata, pues, de un "celo por las almas, que se inspira en la caridad misma de Cristo, y que está hecha de atención, ternura, compasión, acogida, disponibilidad, interés por los problemas de la gente" (RMi 89). Por esto, "el misionero es el hombre de la caridad" (ibídem).

     La dimensión antropológica de la espiritualidad está en estrecha relación con Cristo "que conocía lo que hay en el hombre (Jn 2,25), amaba a todos ofreciéndoles la redención, y sufría cuando ésta era rechazada" (RMi 89). Esta dimensión está en la línea de toda la encíclica: "La actividad misionera tiene como único fin servir al hombre, revelándole el amor de Dios que se ha manifestado en Jesucristo" (RMi 2). De este modo, "el misionero es el 'hermano universal', lleva consigo el espíritu de la Iglesia, su apertura y atención... particularmente a los más pequeños y pobres" (RMi 89).

     Esta dimensión antropológica es eminentemente liberadora (RMi 38-39). "En cuanto tal, supera las fronteras y las divisiones de raza, casta e ideología: es signo del amor de Dios en el mundo, que es amor sin exclusión ni preferencia" (n.89).

     La encíclica coloca un tema básico de espiritualidad (la contemplación) al hablar de las nuevas situaciones actuales (dimensión sociológica), a modo de "nuevos areópagos" que interpelan a la Iglesia (culturas, medios de comunicación, desarrollo, liberación de los pueblos, derechos fundamentales, ecología, etc.), se señala "la angustiosa búsqueda de sentido, la necesidad de interioridad, el deseo de aprender nuevas formas y modos de concentración y de oración... se busca la dimensión espiritual de la vida como antídoto a la deshumanización" (RMi 38). A esta fenómeno, que "no carece de ambigüedad", la Iglesia sólo puede responder ofreciendo "el patrimonio espiritual" evangélico recibido de Cristo, "el Camino, la Verdad y la Vida" (Jn 14,6). Esta "es la vía cristiana para el encuentro con Dios para la oración, la ascesis, el descubriendo del sentido de la vida. También es un areópago que hay que evangelizar" (RMi 38).

     A esta problemática sobre la búsqueda actual de Dios, sólo se puede responder con una actitud verdaderamente contemplativa. El Papa lo afirma también como fruto de su misma experiencia misionera: "El contacto con los representantes de las tradiciones espirituales no cristianas, en particular, las de Asia, me ha corroborado que el futuro de la misión depende en gran parte de la contemplación. El misionero, sino es contemplativo, no puede anunciar a Cristo de modo creíble. El misionero es un testigo de la experiencia de Dios y debe poder decir, como los Apóstoles: 'Lo que contemplamos... acerca de la Palabra de vida..., os lo anunciamos' (1Jn 1,1-3). "El misionero ha de ser un contemplativo en la acción" (ibídem).

     La espiritualidad misionera se puede resumir como vida de santidad en relación a la misión: "La llamada a la misión deriva, de por sí, de la llamada a la santidad... La vocación universal a la santidad está estrechamente unida a la vocación universal a la misión... La espiritualidad misionera de la Iglesia es un camino hacia la santidad. El renovado impulso hacia la misión ad gentes exige misioneros santos" (RMi 90).

     La dimensión mariana de la espiritualidad misionera hace redescubrir y vivir la naturaleza misionera y materna de la Iglesia (Gal 4,4, 4,19; 4,26). "María es el ejemplo de aquel amor maternal con que es necesario que estén animados todos aquellos que, en la misión apostólica de la Iglesia, cooperan a la regeneración de los hombres" (RMi 92; cf. LG 65).

 

Conclusión: Implicaciones para la formación a la vida consagrada

     La vida consagrada necesita una formación adecuada para poder responder a las necesidades de una "nueva evangelización". "En la inagotable y multiforme riqueza del Espíritu se sitúan las vocaciones de los Institutos de vida consagrada, cuyos miembros, 'dado que por su misma consagración se dedican al servicio de la Iglesia... están obligados a contribuir de modo especial a la tarea misional, según el modelo propio de su Instituto'... La Iglesia debe dar a conocer los grandes valores evangélicos de que es portadora; y nadie los atestigua más eficazmente que quienes hacen profesión de vida consagrada en la castidad, pobreza y obediencia, con una donación total a Dios y con plena disponibilidad a servir al hombre y a la sociedad, siguiendo el ejemplo de Cristo" (RMi 69).

     La renovación eclesial y la espiritualidad misionera, en vistas a una nueva evangelización, comportan importantes consecuencias para la formación a la vida consagrada tanto inicial como permanente, y en todos los niveles: espiritual, humano, intelectual y pastoral.

     Una nueva evangelización reclama "nuevo fervor" por parte de los apóstoles. Si se da este nuevo fervor o generosidad, habrá también apóstoles más disponibles para la misión.

     Toda renovación eclesial auténtica, bajo la acción del Espíritu Santo, se realiza en el paradigma del Cenáculo: "Como los Apóstoles después de la Ascensión de Cristo, la Iglesia debe reunirse en el Cenáculo 'con María la Madre de Jesús' (Act 1,14), para implorar el Espíritu Santo y obtener fuerza y ardor para cumplir el mandato misionero. También nosotros, mucho más que los Apóstoles, tenemos necesidad de ser transformados y guiados por el Espíritu" (RMi 92; cf. AG 4; LG 59; EN 82; RH 22; RMa 24).

LÍNEAS BÁSICAS DE LA MATERNIDAD DE MARÍA RESPECTO A LOS SACERDOTES MINISTROS

 

(Mons. Juan Esquerda Bifet)

 

Presentación: La presencia activa y materna de María en la vida y en los ministerios sacerdotales

1: En el itinerario formativo

2: En la vida sacerdotal

3: En el ejercicio de los misterios

Conclusión: Nuestro lugar en el Corazón materno de María

 

* * *

 

Presentación: La presencia activa y materna de María en la vida y en los ministerios sacerdotales

 

En todos los temas cristianos hay que tener en cuenta que nos encontramos ante realidades de gracia, las cuales continúan aconteciendo. La presencia activa y materna de María en la Iglesia es una de estas realidades de gracia y tiene una dimensión sacerdotal, en bien de toda la Iglesia y especialmente en bien de los sacerdotes ministros.

 

Las palabras de Jesús dirigidas a María, continúan repercutiendo en su Corazón maternal: “He aquí a tu hijo” (Jn 19,26). Su maternidad es una realidad salvífica permanente: “Y esta maternidad de María perdura sin cesar en la economía de la gracia” (LG 62).

 

También las palabras de Jesús al discípulo amado, continúan siendo actuales: “He aquí a tu Madre” (Jn 19,27). Un buen “discípulo”  las sigue escuchando y poniéndolas en práctica. Por esto, a María “la Iglesiacatólica, enseñada por el Espíritu Santo, la honra con filial afecto de piedad como a Madre amantísima” (LG 53).

 

El encargo recibido por Juan, en nombre de todos los creyentes, se concretó en una relación familiar: “La recibió en su casa” (Jn 19,27). Esta recepción equivale a recibirla en “comunión de vida” por parte de todo fiel, y especialmente por parte de todo ministro ordenado: “La palabra del Crucificado al discípulo —a Juan y, por medio de él, a todos los discípulos de Jesús: « Ahí tienes a tu madre » (Jn 19, 27)— se hace de nuevo verdadera en cada generación” (enc. Deus Caritas Est, n. 42).[1]

 

María estaba habituada a “meditar” las palabras de Jesús en su Corazón (cfr. Lc 2,19.51). Por esto, el encargo recibido en el Calvario, como un nuevo aspecto de su maternidad, lo relacionaba con otras palabras del mismo Jesús. Efectivamente, todo lo que decía y hacía Jesús estaba relacionado con “las cosas (o la casa) del Padre” (Lc 2,49), con su “hora” (Jn 2,4), con su actitud oblativa “en manos” del Padre (Lc 23,46). María había escuchado cómo Jesús calificó  a la comunidad de sus seguidores: “Mi madre, y mis hermanos” (Mt 12,48; cfr. Lc 8,21). Y en la última cena, las referencias de Jesús a sus discípulos también eran otras tantas llamadas al Corazón de la Madre: “Ellos son mi expresión… les amas como a mí… yo estoy en ellos” (Jn 17,10.23.26). Nadie mejor que ella podía captar los sentimientos profundos de Cristo, en cuyo Corazón abierto podía “contemplar” todo su amor para con cada uno de los redimidos (cfr. Jn 19,27). Recibir a los discípulos y hermanos de Jesús, significaba para ella recibir al mismo Jesús: “Quien a vosotros recibe, a mí me recibe” (Mt 10,40).

 

La herencia de Jesús al dejarnos a su Madre como nuestra, continúa siendo una realidad salvífica, siempre actual: “Jesucristo – decía el Cura de Ars - tras habernos dado cuanto nos podía dar, quiere aún dejarnos en herencia lo más precioso que él tenía: su Santa Madre”.[2]

 

Es una realidad que muestra a María como la madre siempre “ocupada” en relación con la Iglesia, en la cual se actualiza “el influjo salvífico de la Bienaventurada Virgen” (LG 60).

 

Todo esto tiene lugar, aunque de modo diferenciado, en cada una de las vocaciones. María es Madre, modelo, intercesora, ayuda, maestra, guía, discípula… Así lo podemos aplicar a todo el proceso formativo sacerdotal, como también a la realidad de su vida y del ejercicio de los ministerios.

 

La "memoria" de María equivale a tomar conciencia de su presencia activa y materna en el campo de la evangelización, como modelo y ayuda en el seguimiento y discipulado evangélico de todos los creyentes y especialmente del sacerdocio ministerial.[3]

 

 

1: En el itinerario formativo

 

María acompaña el proceso formativo de todas las vocaciones. Ella está presente en todo el itinerario vocacional como figura y prototipo de toda la Iglesia. La vocación de los primeros Apóstoles es un punto de referencia para toda vocación y, de modo especial, para la vocación sacerdotal. En esta referencia apostólica encontramos un inicio, como fue después de Caná, cuando los discípulos creyeron en Jesús y le siguieron “con su madre” (cfr. Jn 2,11-12). Encontramos también un momento especial de perseverancia (junto a la cruz: Jn 19,25-27) y un tiempo peculiar de renovación bajo la acción del Espíritu Santo (Pentecostés: Hech 1,14; 2,4). Ella está de modo activo y materno en todo el proceso de formación vocacional, que es siempre de relación personal y comunitaria con Cristo, a modo de encuentro y amistad, seguimiento e imitación, fraternidad y misión.

 

Para afrontar estos tres momentos de la vocación sacerdotal, se necesita una formación inicial y permanente, de suerte que la vocación sea una vivencia permanente y comprometida, a modo de “vida según el Espíritu” (cfr. Gal 5,25) y con vistas a ejercer los ministerios. Se quiere vivir lo que uno es y hace, como proceso de consagración y misión.

 

Puesto que en el sacerdocio ministerial (de los ministros ordenados) se trata de una especial participación en la consagración y misión de Cristo Sacerdote, presente en la Iglesia, hay que tener en cuenta estos datos esenciales: María es Madre de Cristo Sacerdote, Madre de la Iglesia Pueblo sacerdotal y Madre especial de los sacerdotes ministros. La maternidad peculiar de María respecto a los sacerdotes ministros, se integra armónicamente con su cuidado materno respecto a todos los redimidos.

 

El itinerario formativo del sacerdote ministro (tanto en el período inicial como en la formación continuada), incluye necesariamente la formación sobre el propio carisma específico sacerdotal, que tiene dimensión mariana por su misma naturaleza.[4]

 

María es "Madre del sumo y eterno Sacerdote" (PO 18). La unción sacerdotal de Cristo (Verbo Encarnado), de la que participa toda la Iglesia, tuvo lugar en le seno de María, por obra del Espíritu Santo. Desde entonces, María, “guiada por el Espíritu Santo, se entregó total­mente al misterio de la redención de los hombres” (PO 18). De este modo, quedó relacionada íntimamente con el ser (la consagración) de Cristo, con su obrar (la misión) y con su vivencia y estilo de vida. En el momento del sacrificio de la cruz, “se asoció con entrañas de madre a su sacrificio, consintiendo amorosamente en la inmolación de la víctima que ella misma había engendrado" (LG 58).

 

El “sí” sacerdotal de Cristo tuvo lugar en el seno de María: “Vengo para hacer tu voluntad” (Heb 10,7; Sal 40.9). El “sí” de María (Lc 1,38) quedó unido al de Jesús. Ella llevó en su seno a Jesús Sacerdote: Dios, hombre, Salvador. Su actitud habitual de meditar la Palabra (cfr. Lc 2,10.51) deja entender que recibió al Verbo antes en su corazón que en su seno.[5]

 

El “Magníficat” es el fruto de su “sí” contemplativo, unido al sacrificio de Cristo Sacerdote, que ya desde su concepción e infancia era “oblación” al Padre, en el Corazón y por manos de María (cfr. Heb 10,7ss, en relación con Lc 2,22, cuando tuvo lugar la presentación de niño en el templo).

 

María es Madre de la Iglesia Pueblo sacerdotal, puesto que "pertenece indisolublemente al misterio de Cristo y al misterio de la Iglesia" (RMa 27), al que también sirve el sacerdote en los ministerios proféticos, litúrgicos y de dirección y caridad. La Iglesia es “Pueblo sacerdotal” (LG 10). María es Madre de la Iglesia por haber engendrado a Cristo, Cabeza de la mima. Es “Madre de la Iglesia” por ser “Madre de los pastores y de los fieles”.[6]

 

Los contenidos del título “Madre de la Iglesia”, ya están en el concilio. Efectivamente, María es “verdadera Madre de. Redentor...  verdaderamente madre de los miembros de Cristo por haber cooperado con su amor a que naciesen en la Iglesia los fieles, que son miembros de aquella cabeza, por lo que también es saludada como miembro sobreeminente y del todo singular de la Iglesia, su prototipo y modelo destacadísimo en la fe y caridad” (LG 53).

 

La misión de la Santísima Virgen María se inserta, pues, “en el misterio del Verbo Encarnado y del Cuerpo Místico” (LG 54). María es, a la vez, miembro y Madre del Pueblo sacerdotal, Tipo o figura de la Iglesia (cfr. LG 53, 62-65). Es “Madre en la Iglesia y a través de la Iglesia" (RMa 24). "Con su nueva maternidad en el Espíritu, acoge a todos y a cada uno por medio de la Iglesia" (RMa 37).

 

María es Madre especial del sacerdote ministro (y de todos los ministros ordenados), en todo el proceso de vocación, seguimiento y misión, puesto que "Cristo, moribundo en la cruz, la entregó como Madre al discípulo" (OT 8).[7]

 

El sacerdote ministro participa de la consagración sacerdotal de Cristo (que tuvo lugar en el seno de María), prolonga la misma misión de Cristo (quien asoció y sigue asociando a María), está llamado a vivir en sintonía con él (como María, guiada por el Espíritu Santo, se asoció a la obra redentora de Cristo). De este modo, María está presente y activa maternalmente en todas las etapas del itinerario de la vida apostólica.

 

La participación peculiar por parte de los sacerdotes ministros en el sacerdocio de Cristo, es una “consagración” especial, que deriva hacia la “misión”, como prolongación de la misma misión de Cristo, para obrar “en su nombre” o “en persona de Cristo”. Esta participación en la consagración y misión de Cristo exige y, al mismo tiempo, hace posible una sintonía y docilidad generosa. "De esta docilidad hallarán siempre un maravilloso ejemplo en la Bienaventurada Virgen María, que, guiada por el Espíritu Santo, se consagró toda al ministerio de la redención de los hombres" (PO 18).

 

Todos los aspectos y etapas de la formación sacerdotal hacen referencia a María, como “Madre y educadora de nuestro sacerdocio”(PDV 82). Efectivamente, “cada aspecto de la formación sacerdotal puede referirse a María como la persona humana que mejor que nadie ha correspondido a la vocación de Dios; que se ha hecho sierva y discípula de la Palabra hasta concebir en su corazón y en su carne al Verbo hecho hombre para darlo a la humanidad; que ha sido llamada a la educación del único y eterno Sacerdote, dócil y sumiso a su autoridad materna. Con su ejemplo y mediante su intercesión, la Virgen santísima sigue vigilando el desarrollo de las vocaciones y de la vida sacerdotal en la Iglesia” (ibídem).

 

De ahí la relación esencial del sacerdote ministro con María “la Madre de Jesús” (Jn 2,1; 19,25-27). Por esto, "la espiritualidad sacerdotal no puede considerarse completa, sin no toma seriamente en consideración el testamento de Cristo crucificado... Todo presbítero sabe que María, por ser Madre, es la formadora eminente de su sacerdocio, ya que ella es quien sabe modelar el corazón sacerdotal" (Directorio para el ministerio y la vida de los presbíteros, 68).

 

Decía Benedicto XVI a los seminaristas en Colonia durante la XX Jornada Mundial de la Juventud (19 agosto 2005), comentando el encuentro de los Magos con Jesús en Belén (cfr. Mt 2,11) y describiendo el itinerario formativo sacerdotal: “Es precisamente la Madre quien le muestra a Jesús, su Hijo, quien se lo presenta; en cierto modo se lo hace ver, tocar, tomar en sus brazos. María le enseña a contemplarlo con los ojos del corazón y a vivir de él. En todos los momentos de la vida en el seminario se puede experimentar esta amorosa presencia de la Virgen, que introduce a cada uno al encuentro con Cristo en el silencio de la meditación, en la oración y en la fraternidad. María ayuda a encontrar al Señor sobre todo en la celebración eucarística, cuando en la Palabra y en el Pan consagrado se hace nuestro alimento espiritual cotidiano”.

 

 

2: En la vida sacerdotal

 

La espiritualidad mariana es una dimensión intrínseca a la espiritualidad eclesial. De modo particular lo es de la espiritualidad sacerdotal. Los Apóstoles y discípulos formaban parte de la familia de Jesús: “Mi Madre y mis hermanos son aquellos que oyen la Palabra de Dios y la cumplen” (Lc 8,21; cfr. 2,19.51). El hecho del Cenáculo es paradigmático, como punto de referencia durante toda la historia eclesial, donde los Apóstoles y discípulos reunidos, “perseveraban en la oración, con un mismo espíritu, en compañía de algunas mujeres, de María, la madre de Jesús” (Hech 1,14).

 

Los “sentimientos” de Cristo respecto a su Madre tienen que reflejarse en quienes participan de la misma consagración del Señor y prolongan su misma misión, mientras presentan el mismo estilo de vida como testimonio evangélico. Cristo fue “ungido” sacerdote en el seno de María, por obra del Espíritu Santo, y quiso nacer de ella, asociándola a su obra redentora. La espiritualidad sacerdotal mariana es una actitud de reverencia y amor filial hacia quien es "Madre del sumo y eterno Sacerdote, Reina de los Apóstoles y refugio de su ministerio" (PO 18). El ser (consagración), el obrar (misión) y la vivencia (espiritualidad) del sacerdote, incluyen una relación estrecha con María.

 

La comunión en el Presbiterio de la Iglesia particular supone “unión” y  sintonía vivencial con “María, la Madre de Jesús” (Hech 1,14). Por esto, la “fraternidad sacramental” del Presbiterio (PO 8), que es una “realidad sobrenatural” (PDV 74), como derivación del sacramento del Orden (cfr. LG 28), necesita esta sintonía de oración en comunión fraterna y en espera activa de las nuevas gracias del Espíritu Santo.María, también ahora, “precede el testimonio apostólico" (RMa 27).

 

Las figuras sacerdotales de la historia (como San Juan de Ávila, San Juan Eudes, San Luís María Grignion de Montfort, San Alfonso Mª de Ligorio, el Santo Cura de Ars, San Antonio Mª Claret, etc.), son puntos de referencia para recordar y vivir la relación de María con los sacerdotes ministros. Los santos sacerdotes han vivido esta relación con María a la luz de la Encarnación (consagración sacerdotal de Cristo en el seno de su Madre), del sacrificio redentor que culmina en la cruz (con María en actitud oblativa), de la Eucaristía (como pan de vida que se formó en el seno de María y que actualiza el misterio redentor) y de la Iglesia (como madre de las almas).

 

Por ser “Madre de Jesucristo y Madre de los sacerdotes” (PDV 82), María ejerce también en ellos un “influjo salvífico” (LG 62), que es de presencia activa y de modelo de asociación a Cristo Sacerdote. Ella es “Madre y educadora de nuestro sacerdocio” (PDV 82). En este sentido, "los sacerdotes tienen particular título para que se les llame hijos de María" (Pío XII, Menti nostrae  n.124).

 

Esta espiritualidad se concreta en relación filial e imitación. Por ser “madre y educadora de nuestro sacerdocio... nosotros los sacerdotes estamos llamados a crecer en una sólida y tierna devoción a la Virgen María, testimoniándola con la imitación de sus virtudes y con la oración frecuente” (PDV 82).

 

Las palabras de Jesús en la cruz (“he aquí a tu Madre”) siguen aconteciendo en quienes quieren vivir en sintonía con “los sentimientos” oblativos de Cristo (Fil 2,5). La invitación a asumirla como Madre, incluye dejarse orientar por ella como modelo de maternidad apostólica, en todo el itinerario de formación, en la vida y en el ministerio sacerdotal: “Haced lo que él os diga” (Jn 2,5). María es modelo y ayuda de fidelidad a la Palabra y al Espíritu Santo.

 

En los documentos magisteriales sobre el sacerdocio ministerial, es frecuente la invitación a vivir la relación interpersonal con María. Ella “es Madre del eterno Sacerdote y, por eso mismo, Madre de todos los sacerdotes... de una manera especial siente predilección por los sacerdotes, que son viva imagen de su Jesús" (Menti nostrae, n.124). Por ser “Madre de los sacerdotes”, "en cierto modo, somos los primeros en tener derecho a ver en ella a nuestra Madre" (Juan Pablo II, Carta del Jueves Santo 1979). Por esto, "conviene que se profundice constantemente nuestro vínculo espiritual con la Madre de Dios" (Carta del Jueves Santo 1988).[8]

 

 

3: En el ejercicio de los ministerios

 

Los sacerdotes ministros prolongan la misma misión de Cristo, proclamando su palabra, celebrando su misterio pascual y actualizando su acción salvífica y pastoral. La fidelidad a la consagración y a la misión, participada de Cristo, en todos los momentos de la vida y ministerio del sacerdote, constituye la esencia de su espiritualidad. Con la ayuda y el ejemplo de María, Madre de Cristo Sacerdote y de la Iglesia como Pueblo sacerdotal, viven estos ministerios con las mismas actitudes y “los mismos sentimientos de Cristo” (Fil 2,5).

 

Los ministerios sacerdotales son una especial concretización de la maternidad de la Iglesia (cfr. PO 6) y, consecuentemente, tienen que ejercerse con el “amor maternal” de María, figura de la Iglesia madre (cfr. LG 65; Gal 4,19, en relación con Gal 4,4-7 y 4,26). El sacerdote, como Pablo, toma a María como figura e imagen materna, "la mujer" (Gal 4,4), para describir su difícil y, a veces, doloroso ministerio de "formar a Cristo" en los demás (Gal 4,19).

 

Comentando este texto paulino de la carta a los Gálatas, Juan Pablo II, en la encíclica Redemptoris Mater  lo aplica al apóstol para resaltar su vivencia mariana: “En estas palabras de san Pablo está contenido un indicio interesante de la conciencia materna de la Iglesia primitiva, unida al servicio apostólico entre los hombres. Esta conciencia permitía y permite constantemente a la Iglesia ver el misterio de su vida y de su misión a ejemplo de la misma Madre del Hijo, que es el « primogénito entre muchos hermanos » (Rom 8, 29)” (RMa 43).

 

Recibir a María en la propia casa, tiene, pues, para el sacerdote, un sentido ministerial: "Quecada uno de nosotros permita a María que ocupe un lugar en la casa del propio sacerdocio sacramental, como Madre y Mediadora de aquel gran misterio (cfr. Ef 5,32), que todos deseamos servir con nuestra vida" (Juan Pablo II, Carta del Jueves Santo, 1988).

 

La espiritualidad sacerdotal es de “caridad pastoral”, a modo de “unidad de vida”, en  sintonía de actitudes con Cristo Buen Pastor (cfr. PO 13). Esta espiritualidad específica de los sacerdotes se realiza "ejerciendo sincera e incansablemente sus ministerios en el Espíritu de Cristo" (PO 13). En el ejercicio de los ministerios, los sacerdotes están llamados a vivir la espiritualidad mariana de todo bautizado, en relación con la presencia activa y materna de María. Ella es modelo, intercesora, guía, maestra y discípula. La caridad pastoral, quintaesencia de la espiritualidad sacerdotal, matiza todos los aspectos de la devoción y culto mariano: conocerla, amarla, imitarla, celebrarla e invocarla.

 

Esta caridad pastoral tiene el matiz de “amor materno” a imitación de María. "La Virgen fue en su vida ejemplo de aquel amor maternal con que es necesario que estén animados todos aquellos que, en la misión apostólica de la Iglesia, cooperan a la regeneración de los hombres" (LG 65).

 

Los santos sacerdotes han subrayado también el paralelismo entre María y el sacerdocio ministerial, especialmente en relación con la Eucaristía. “Mirémonos, padres, de pies a cabeza, ánima y cuerpo, y vernos hemos hechos semejables a la sacratísima Virgen María, que con sus palabras trajo a Dios a su vientre... Y el sacerdote le trae con las palabras de la consagración" (San Juan de Ávila, Plática 1ª).[9]

 

Por ser la Eucaristía “fuente y cima de toda la evangelización” (PO 5), todos los ministerios se relacionan armónicamente entre sí: se anuncia a Cristo, se le hace presente (especialmente en la Eucaristía) y se le comunica para que sea centro de la vida personal y comunitaria. María concibió aquel cuerpo ofrecido en sacrificio que ahora se actualiza sacramentalmente por manos del sacerdote y, también por medio de él, se anuncia y comunica. El anuncio del evangelio presupone la actitud de contemplación de la Palabra, como María que la meditaba en su corazón (cfr. Lc 2,19.51). Con ella, se vive mejor el equilibrio y la armonía de los ministerios.

 

María está presente en la Iglesia, que es misterio de comunión misionera, a cuyo servicio está el sacerdote. Los ministerios sacerdotales tienden a construir la comunidad eclesial como comunidad de oración y fraternidad (a la luz de la Palabra y en relación con la Eucaristía), para llegar a ser “un solo corazón y una sola alma” (Hech 4,32) y de este modo anunciar el evangelio “con audacia” (Hech 4,31). Para ello es imprescindible la actitud permanente y programática de vivir la comunión en sintonía “con María, la Madre de Jesús” (Hech 1,14). “En ella encontramos la esencia de la Iglesia realizada del modo más perfecto” (Benedicto XVI, Sacramentum Caritatis 96).

 

El ministerio sacerdotal, especialmente en la celebración eucarística (que presupone el anuncio y lleva a la vivencia), tiene en cuenta el modelo mariano de recibir al Señor para comunicarlo a los demás. “Desde la Anunciación hasta la Cruz, María es aquélla que acoge la Palabra que se hizo carne en ella y que enmudece en el silencio de la muerte. Finalmente, ella es quien recibe en sus brazos el cuerpo entregado, ya exánime, de Aquél que de verdad ha amado a los suyos « hasta el extremo » (Jn 13,1)” (Sacramentum Caritatis 33).

 

El sacerdote ministro, como Juan, recibe el don de María para comunicarlo a los demás, cooperando como ella a hacerlo vida propia:  “La Bienaventurada Virgenavanzó en la peregrinación de la fe y mantuvo fielmente la unión con su Hijo hasta la cruz. Allí, por voluntad de Dios, estuvo de pie (cfr. Jn 19,25), sufrió intensamente con su Hijo y se unió a su sacrificio con corazón de Madre que, llena de amor, daba su consentimiento a la inmolación de su Hijo como víctima. Finalmente, Jesucristo, agonizando en la cruz, la dio como madre al discípulo con estas palabras: Mujer, ahí tienes a tu hijo” (LG 58).

 

Para todo bautizado y especialmente para el sacerdote ministro “María de Nazaret, icono de la Iglesia naciente, es el modelo de cómo cada uno de nosotros está llamado a recibir el don que Jesús hace de sí mismo en la Eucaristía” (Sacramentum Caritatis 33).

 

Por medio de la acción ministerial de la Iglesia, la maternidad de María “perdura sin cesar en la economía de la gracia” (LG 62). María “está unida también íntimamente a la Iglesia... porque en el misterio de la Iglesia que con razón también es llamada madre y virgen, la Bienaventurada Virgen María la prece­dió, mostrando en forma eminente y singular el modelo de la virgen y de la madre” (LG 63).

 

La espiritualidad mariana de la Iglesia es esencialmente ministerial y, al mismo tiempo, reclama la fidelidad carismática a las nuevas gracias del Espíritu Santo: “Por lo cual, también en su obra apostó­lica, con razón, la Iglesia mira hacia aquella que engendró a Cristo, concebido por el Espíritu Santo y nacido de la Virgen, precisamente para que por la Iglesia nazca y crezca también en los corazones de los fieles” (LG 65).

 

 

Conclusión: Nuestro lugar en el Corazón materno de María

 

La participación del sacerdote ministro en el ser, en el obrar y en las vivencias de Cristo, está, pues, íntimamente relacionada con María, Madre de Cristo Sacerdote y de la Iglesia Pueblo sacerdotal. Su vocación, consagración y misión se realizan en dimensión cristológica, mariana y eclesial. Cada momento ministerial tiene un paralelismo con María, especialmente en la celebración eucarística donde se actualiza el sacrificio redentor.

 

El sacerdote ministro sirve los signos ministeriales de la maternidad de la Iglesia, actualizando la maternidad de María. Cristo se prolonga en los signos y ministerios de la Iglesia asociando a María. María ve en los sacerdotes ministros un “Jesús viviente” (San Juan Eudes), como “instrumentos vivos” de Cristo Sacerdote (PO 12).

 

Juan Pablo II, en Pastores dabo vobis, indicaba unas pistas de renovación, vividas en un "Cenáculo" permanente, en el que, gracias a la presencia activa de María, "Madre de los sacerdotes" y "Reina de los Apóstoles", tendrá lugar "una extraordinaria efusión del Espíritu de Pentecostés... La Iglesia está dispuesta a responder a esta gracia" (PDV 82).

 

Cuando se meditan las palabras del Señor dirigidas a María (“he aquí a tu hijo”: Jn 19,26), es fácil encontrar la armonía de la revelación y de la fe, que tendría lugar en el Corazón de María, al meditar en estas palabras de la oración sacerdotal de Jesús: “Ellos son mi expresión” (Jn 17,10), “los amas como a mí” (Jn 17,23), porque “yo estoy en ellos” (Jn 17,26). María vivió y sigue viviendo en esta “onda” cristológica y sacerdotal.

 

Es emocionante y programática la despedida de Juan Pablo II, en la carta del Jueves Santo de 2005, unos días ante de su muerte: “¿Quién puede hacernos gustar la grandeza del misterio eucarístico mejor que María? Nadie cómo ella puede enseñarnos con qué fervor se han de celebrar los santos Misterios y cómo hemos estar en compañía de su Hijo escondido bajo las especies eucarísticas. Así pues, la imploro por todos vosotros, confiándole especialmente a los más ancianos, a los enfermos y a cuantos se encuentran en dificultad. En esta Pascua del Año de la Eucaristía me complace hacerme eco para todos vosotros de aquellas palabras dulces y confortantes de Jesús: «Ahí tienes a tu madre« (Jn 19, 27)” (Carta Jueves Santo, 2005, n.8).

 

Los sacerdotes ministros y los futuros sacerdotes son llamados a “amar y venerarcon amor filial a la Santísima Virgen María, que al morir Cristo Jesús en la cruz fue entregada como madre al discípulo” (OT 8). La espiritualidad sacerdotal mariana es, pues, “filial devoción y veneración a esta Madre del Sumo y Eterno Sacerdote, Reina de los Apóstoles y auxilio de su ministerio” (PO 18).

 

El Santo Cura de Ars, confió sus feligreses al Corazón Inmaculado de María, poniendo sus nombres en un corazón de plata. La relación de los bautizados con la ternura materna de María la expresaba así: "El Corazón de la Santísima Virgen María es la fuente de la que Cristo tomó la sangre con que nos redimió... En el corazón de esta Madre no hay más que amor y misericordia. Su único deseo es vernos felices. Sólo hemos de volvernos hacia ella para ser atendidos... El hijo que más lágrimas ha costado a su madre, es el más querido de su corazón... El corazón de María es tan tierno para nosotros, que los de todas las madres reunidas no son más que un pedazo de hielo al lado suyo".[10]

 

Benedicto XVI confió al Corazón materno de María el cuidado de la vocación, de la vida y del ministerio sacerdotal: “¡He aquí el secreto de vuestra vocación y de vuestra misión! Está guardado en el corazón inmaculado de María, que vela con amor materno sobre cada uno de vosotros. Recurrid frecuentemente a ella con confianza” (Discurso a los seminaristas, Colonia, Jornada Mundial de la Juventud, 19 agosto 2005).

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La alegría de ser sacerdote es una nota característica de su identidad, como anunciador, celebrador y comunicador del Misterio Pascual de Cristo. Por esto, “el gozo pascual” (PO 11) es parte integrante del testimonio del sacerdote y nota característica de su identidad, también y especialmente con vistas a suscitar vocaciones sacerdotales.

 

La identidad sacerdotal se concreta en el “gozo pascual” de vivir lo que uno es y hace: “El sacerdote, hombre de la Palabra divina y de las cosas sagradas, debe ser hoy más que nunca un hombre de alegría y de esperanza… «La felicidad que hay en el decir la misa se comprenderá sólo en el cielo», escribía el Cura de Ars. Os animo por tanto a reforzar vuestra fe y la de los fieles en el Sacramento que celebráis y que es la fuente de la verdadera alegría. El santo de Ars escribía: «El sacerdote debe sentir la misma alegría (de los apóstoles) al ver a Nuestro Señor, al que tiene entre las manos»”.[11]

 

 

ESTUDIOS:

 

F.M. ÁLVAREZ, La Madredel Sumo y Eterno Sacerdote (Barcelona, Herder, 1968); María y la Iglesia: espiritualidad mariana sacerdotal: Seminarios 33 (1987) 465-475.

 

A. BANDERA, La Virgen Maríay el sacerdocio de Cristo: Teología Espiritual 42 (1998) 35-60.

 

M. BORDONI, La dimensione mariana del sacerdozio ordinato: Sacrum Ministerium 10 (2004) 175-205.

 

G. CALVO, La espiritualidad mariana del sacerdote en Juan Pablo II: Compostellanum 33 (1988) 205-224.

 

G. D'AVACK, Il sacerdote e Maria (Milano, Ancora, 1968).

 

E. DE LA LAMA, La Madrede Jesús en el kerigma de Pablo. Para el estudio del perfil mariano de la espiritualidad sacerdotal: Scripta de Maria 3 (2006) 89-130.

 

A. De LUÍS FERRERAS, María, en: Diccionario del Sacerdocio, o.c., 415-421.

 

M. DUPERRAY, Regina Cleri: en: Maria, Études sur la Sainte Vierge (Paris, 1949-1971), III, 659-696.

 

J. ESQUERDA BIFET, María en la espiritualidad sacerdotal, en: Nuevo Diccionario de Mariología (Madrid, Paulinas 1988) 1799-1804; Maria nella spiritualità sacerdotale, in: nuevo Dizionario di mariología (Paoline, 1985) 1237-1242; Espiritualidad sacerdotal, Servidores del Buen Pastor (Valencia, EDICEP, 2008), cap.V (Iglesia, María); Teología de la espiritualidad sacerdotal(Madrid, BAC, 1991) cap. XI (Espiritualidad sacerdotal mariana); Espiritualidad mariana (Valencia, EDICEP, 2009) cap.VIII, 4 (María y la vocación sacerdotal); Spiritualità mariana della Chiesa, Esposizione sistematica (Roma, Centro di Cultura Mariana, 1994) cap.VII, 4.

 

J.M. FERRER GRENESCHE, La Virgen Maríaen la formación sacerdotal: Toletana 13 (2005) 11-29.

 

N. GARCÍA GARCÉS, María y la espiritualidad de los ministros ordenados, en: Espiritualidad sacerdotal, Congreso (Madrid, EDICE 1989) 263-282.

 

L.M. HERRÁN, Sacerdocio y maternidad espiritual de Maria: Teo­logía del Sacerdocio 7 (1975) 517‑542; María en la espiritualidad sacerdotal según la doctrina del Vaticano II: Annales Theologici 3 (1989) 347-370.

 

A. HUERGA, La devoción sacerdotal a la Santisima Virgen: Teo­logía Espiritual 13 (1969) 229‑253.

 

J.L. ILLANES, Espiritualidad y sacerdocio (Madrid, Rialp, 1999).

 

B. JIMÉNEZ DUQUE, Maria en la espiritualidad del sacerdote: Teo­logía Espiritual 19 (1975) 45‑59.

 

A. De LUIS, María, en: Diccionario del sacerdocio (Madrid, BAC, 2005) 415-421.

 

P. PHILIPPE, La Virgen Maríay el sacerdote (Bilbao, Desclée, 1955).

 

C. RODRÍGUEZ, María en la vida espiritual del sacerdote: Revista espiritual n.57 (1977) 50‑56.

 

R. SÁNCHEZ CHAMOSO, María y la vocación en la Iglesia: Seminarios 33 (1987) 221-246.

 

J. SARAIVA, Santità mariana del sacerdote, en: (Congregazione per il Clero) Sacerdoti, forgiatori di santi per il nuovo millennio sulle orme dell'apostolo Paolo. Atti del VI Convegno Internazionale dei sacerdoti (Malta, 18-23 ottobre 2004) 100-113.

 

E. SAURAS, Maria y el sacerdote: Estudios Marianos 13 (1953) 143‑172.

 

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Para facilitar al eventual traductor en italiano, transcribimos algunos textos magisteriales en italiano:

 

(En la presentación):

"La parola del Crocifisso al discepolo — a Giovanni e attraverso di lui a tutti i discepoli di Gesù: « Ecco tua madre » (Gv 19, 27) — diventa nel corso delle generazioni sempre nuovamente vera (enc. Deus Caritas est, n.42).

 

 

(Todavía en la presentación):

"Gesù Cristo dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più prezioso, vale a dire della sua Santa Madre" (Nodet, 244; testo di riferimento nella Lettera del Papa Benedetto XVI, 16 giugno 2009, nota 61).

 

(En la conclusión):

"Il segreto della vostra vocazione e della vostra missione è conservato nel Cuore Immacolato di Maria, che veglia con amore materno su ognuno di voi" (Benedetto XVI, Discorso ai seminaristi: Colonia, Giornata Mondiale della Gioventù, 19 agosto 2005).

 



[1]Por su especial actualidad sacerdotal, transcribimos la nota 130 de la encíclica Redemptoris Mater, con la referencia a San Agustín: “Como es bien sabido, en el texto griego la expresión «eis ta ídia» supera el límite de una acogida de María por parte del discípulo, en el sentido del mero alojamiento material y de la hospitalidad en su casa; quiere indicar más bien una comunión de vida que se establece entre los dos en base a las palabras de Cristo agonizante. Cfr. San Agustín, In Ioan. Evang. tract. 119, 3: CCL 36, 659: « La tomó consigo, no en sus heredades, porque no poseía nada propio, sino entre sus obligaciones que atendía con premura ».

 

[2]Ver la fuente de este y de otros textos del Cura de Ars, en: Benedicto XVI, Carta para la convocación de un año sacerdotal con ocasión del 150 aniversario del Dies Natalis del Santo Cura de Ars (16 junio 2009). Ordinariamente se toman de: B. NODET, Juan-María B. Vianney, Cura de Ars. Su pensamiento y su corazón (Barcelona, Hormiga de Oro, 1994).

 

 

[3]Este tema de la presencia de María es muy explícito en los documentos de Juan Pablo II, especialmente a partir de Redemptoris Mater (ver nn.1, 38, 32-32, 38, 48), quien se remite a los documentos del concilio. Ver también la encíclica Ecclesia de Eucharistia, n.57: “María está presente con la Iglesia, y como Madre de la Iglesia, en todas nuestras celebraciones eucarísticas”. Decía Germán de Constantopla: "Puesto que sigues todavía paseándote corporalmente en medio de nosotros, lo mismo que si estuvieras aquí viva, los ojos de nuestros corazón se sienten atraídos para  mirarte todo el día... Tú visitas a todos y velas por todos... No has abandonado este mundo perecedero... sino que estás muy cercana de los que te invocan" (Oratio in Dormitionem SS. Deiparae: PG 98, 343, 346).

[4]Ver estudios citados en la bibliografía final. Sobre el itinerario formativo, resumo los contenidos en: Espiritualidad mariana(Valencia, EDICEP, 2009) cap.VIII, 4 (María y la vocación sacerdotal).

 

[5]Dice San Agustín: "También para María, de ningún valor le hubiera sido la misma maternidad divina, si no hubiera llevado a Cristo más felizmente en su corazón que en su carne" (Sobre la santa virginidad, 3).

 

[6]Pablo VI, Alocución, en Santa María la Mayor, 21 noviembre 1964).

 

[7]Ver bibliografía final, sobre la espiritualidad mariana del sacerdote ministro.

 

[8]Ver éstos y otros textos marianos en su contexto: PO 19; OT 8; can. 246, 276; PDV 36, 38, 45, 82. En la exhortación apostólica Pastores gregis: nn.3,13, 14-15, 36, 74.

 

[9]Resumo la espiritualidad mariana sacerdotal de San Juan de Ávila, en:La doctrina mariológica del Maestro San Juan de Avila: Marianum 62 (2001) 91-114.

 

[10]Sobre la fuente de estas afirmaciones del Santo Cura de Ars, ver la nota 2 y también: Juan XXIII, Sacerdotii nostri primordia (encíclica con ocasión del primer centenario de su muerte, 1959).

 

[11]Benedicto XVI, Video conferencia, Retiro en Ars, 28 septiembre 2009).

 

MARÍA EN EL ITINERARIO DE LA FORMACIÓN, DE LA VIDA Y DEL MINISTERIO SACERDOTAL

 

Juan Esquerda Bifet

 

Presentación: La presencia activa y materna de María en la formación, en la acción ministerial y en la vida sacerdotal

1. En el itinerario de la formación inicial y permanente

2. En el ejercicio de los ministerios

3. En el itinerario de la vida sacerdotal

Conclusión: Nuestro lugar sacerdotal en el Corazón materno de María

 

* * *

 

Presentación: La presencia activa y materna de María en la formación, en la acción ministerial y en la vida sacerdotal

 

En el desarrollo de los temas cristianos es conveniente recordar que nos encontramos ante realidades de gracia, las cuales continúan aconteciendo, más allá de nuestras expresiones verbales y de nuestros conceptos. No se trata, pues, de una teoría que se va desarrollando en torno a preferencias, palabras o a ideas, que son frecuentemente objeto de discusión. La presencia activa y materna de María en la Iglesia es una de estas realidades de gracia y tiene una dimensión sacerdotal, en bien de toda la Iglesia (Pueblo sacerdotal) y especialmente en bien de los sacerdotes ministros.

 

El encargo de Jesús a María en el Calvario, no sólo se recuerda, sino que es “memoria” en el sentido estricto, es decir, se actualiza en las celebraciones litúrgicas, en la historia de la Iglesia y en la vida de cada creyente. Las palabras de Jesús dirigidas a María, continúan repercutiendo también en su Corazón maternal: “He aquí a tu hijo” (Jn 19,26). Su maternidad es una realidad salvífica permanente: “Y esta maternidad de María perdura sin cesar en la economía de la gracia” (LG 62). Es algo real, que no sabemos cómo definir, pero ciertamente es “influjo salvífico” (LG 70), como de instrumento vivo de la gracia.[1]

 

También las palabras de Jesús al discípulo amado se actualizan continuamente: “He aquí a tu Madre” (Jn 19,27). Un buen “discípulo”  las sigue escuchando y poniéndolas en práctica como recién salidas del Corazón del Señor. Por esto, a María “la Iglesiacatólica, enseñada por el Espíritu Santo, la honra con filial afecto de piedad como a Madre amantísima” (LG 53).

 

El encargo recibido por Juan, en nombre de todos los creyentes, se concretó en una relación familiar: “La recibió en su casa” (Jn 19,27). Esta recepción equivale a recibirla en “comunión de vida” por parte de todo fiel, y especialmente por parte de todo ministro ordenado: “La palabra del Crucificado al discípulo - a Juan y, por medio de él, a todos los discípulos de Jesús: « Ahí tienes a tu madre » (Jn 19, 27) - se hace de nuevo verdadera en cada generación” (Deus Caritas Est, 42).[2]

 

María estaba habituada a “meditar” las palabras de Jesús en su Corazón (cfr. Lc 2,19.51). Por esto, el encargo recibido en el Calvario, como un nuevo aspecto de su maternidad, lo relacionaba con otras palabras del mismo Jesús. Efectivamente, todo lo que decía y hacía Jesús estaba relacionado con “las cosas (o la casa) del Padre” (Lc 2,49), con su “hora” (Jn 2,4), con su actitud oblativa “en manos” del Padre (Lc 23,46).

 

María había escuchado cómo Jesús calificó  a la comunidad de sus seguidores: “Mi madre, y mis hermanos” (Mt 12,48; cfr. Lc 8,21). Y en la última cena, las referencias de Jesús a sus discípulos también eran otras tantas llamadas al Corazón de la Madre: “Ellos son mi expresión (mi gloria)… les amas como a mí… yo estoy en ellos” (Jn 17,10.23.26). Nadie mejor que ella podía captar los sentimientos profundos de Cristo, en cuyo Corazón abierto podía “contemplar” todo su amor para con cada uno de los redimidos (cfr. Jn 19,27). Recibir a los discípulos y hermanos de Jesús, significaba para ella recibir al mismo Jesús: “Quien a vosotros recibe, a mí me recibe” (Mt 10,40).

 

La herencia de Jesús, al dejarnos a su Madre como nuestra, continúa siendo una realidad salvífica, siempre actual: “Jesucristo – decía el Cura de Ars - tras habernos dado cuanto nos podía dar, quiere aún dejarnos en herencia lo más precioso que él tenía: su Santa Madre”.[3]

 

Es una realidad que muestra a María como la madre siempre “ocupada” en relación con la Iglesia, en la cual se actualiza “el influjo salvífico de la Bienaventurada Virgen” (LG 60).

 

Todo esto tiene lugar, aunque de modo diferenciado, en cada una de las vocaciones. María es Madre, modelo, intercesora, ayuda, maestra, guía, discípula… Así lo podemos aplicar a todo el proceso o itinerario formativo sacerdotal, como también al ejercicio de los ministerios y a la realidad armónica y coherente de su vivencia. En el camino vocacional, en relación con el ministerio y la vida sacerdotal, María es también y de modo especial: “Estrella de la nueva evangelización... autora luminosa y guía segura de nuestro camino” (NMi 58).

 

La "memoria" de María equivale a tomar conciencia de su presencia activa y materna en el campo de la evangelización, como modelo y ayuda en el seguimiento y discipulado evangélico de todos los creyentes y especialmente del sacerdocio ministerial.[4]

 

 

1. En el itinerario de la formación inicial y permanente

 

María acompaña el proceso formativo de todas las vocaciones. Ella está presente en todo el itinerario vocacional como figura y prototipo de toda la Iglesia. La vocación de los primeros Apóstoles es un punto de referencia para toda vocación y, de modo especial, para la vocación sacerdotal. En esta referencia a la vida apostólica encontramos un inicio, como fue después de Caná, cuando los discípulos creyeron en Jesús y le siguieron “con su madre” (cfr. Jn 2,11-12). Para el “precursor”, la presencia activa de María fue, también en su momento inicial, una gracia especial del Espíritu Santo (cfr. Lc 1,15.44). Así mismo encontramos un momento especial de perseverancia (junto a la cruz: Jn 19,25-27) y un tiempo peculiar de renovación bajo la acción del Espíritu Santo (en Pentecostés: Hech 1,14; 2,4). Ella está de modo activo y materno en todo el proceso de formación vocacional, que es siempre de relación personal y comunitaria con Cristo, a modo de encuentro y amistad, seguimiento e imitación, fraternidad y misión.

 

Para corresponder a las exigencias de la vocación sacerdotal, se necesita una formación inicial y permanente, de suerte que la vocación sea una vivencia y opción fundamental, a modo de “vida según el Espíritu” (cfr. Gal 5,25) y con vistas a ejercer los ministerios. Se quiere vivir lo que uno es y lo que uno hace, como proceso de consagración y de misión, plasmados en un amor apasionado por Cristo.

 

Puesto que en el sacerdocio ministerial (es decir, el sacerdocio de los ministros ordenados) se trata de una especial participación en la consagración y misión de Cristo Sacerdote, presente en la Iglesia, hay que tener en cuenta estos datos esenciales: María es Madre de Cristo Sacerdote Madre de la Iglesia Pueblo sacerdotal y Madre especial de los sacerdotes ministros. La maternidad peculiar de María respecto a los sacerdotes ministros, se integra armónicamente con su cuidado materno respecto a todos los demás redimidos.

 

El itinerario formativo del sacerdote ministro (tanto en el período inicial como en el de la formación continuada), incluye necesariamente la formación sobre el propio carisma específico sacerdotal, que tiene dimensión mariana por su misma naturaleza. Intentamos resumir los datos esenciales de esta formación mariana sacerdotal.[5]

 

La formación sacerdotal, inicial y permanente, se caracteriza por su dimensión cristológica, que es de relación, imitación, seguimiento y configuración con Cristo. María es "Madre del sumo y eterno Sacerdote" (PO 18). La unción sacerdotal de Cristo (Verbo Encarnado), de la que participa toda la Iglesia, tuvo lugar en le seno de María, por obra del Espíritu Santo. Desde entonces, María, “guiada por el Espíritu Santo, se entregó total­mente al misterio de la redención de los hombres” (PO 18). De este modo, quedó relacionada íntimamente con el ser (la consagración) de Cristo, con su obrar (la misión) y con su vivencia y estilo de vida. En el momento del sacrificio de la cruz, “se asoció con entrañas de madre a su sacrificio, consintiendo amorosamente en la inmolación de la víctima que ella misma había engendrado" (LG 58).[6]

 

El “sí” sacerdotal de Cristo tuvo lugar en el seno de María: “Vengo para hacer tu voluntad” (Heb 10,7; Sal 40.9). El “sí” de María (Lc 1,38) está íntimamente relacionado con el de Jesús. Ella llevó en su seno a Jesús Sacerdote: Dios, hombre, Salvador. La actitud habitual de meditar la Palabra en el corazón (cfr. Lc 2,10.51) deja entender que recibió al Verbo antes en su corazón que en su seno.[7]

 

El “Magníficat” es fruto de su “sí” contemplativo, unido al sacrificio de Cristo Sacerdote, que ya desde su concepción era “oblación” al Padre, en el Corazón y por manos de María (cfr. Heb 10,7ss, en relación con Lc 2,22, cuando tuvo lugar la presentación de niño en el templo).

 

La dimensión eclesiológica de la formación sacerdotal inserta al ministro ordenado en el amor, la fidelidad y el servicio a la Iglesia. María es Madre de la Iglesia Pueblo sacerdotal, puesto que "pertenece indisolublemente al misterio de Cristo y al misterio de la Iglesia" (RMa 27), al que también sirve el sacerdote en los ministerios proféticos, litúrgicos y de dirección y caridad. La Iglesia es “Pueblo sacerdotal” (LG 10). María es Madre de la Iglesia por haber engendrado a Cristo, Cabeza de la misma. Es “Madre de la Iglesia” por ser “Madre de los pastores y de los fieles”.[8]

 

Los contenidos del título “Madre de la Iglesia” ya se encuentran en los textos conciliares. Efectivamente, María es “verdadera Madre del Redentor...  verdaderamente madre de los miembros de Cristo por haber cooperado con su amor a que naciesen en la Iglesia los fieles, que son miembros de aquella cabeza, por lo que también es saludada como miembro sobre eminente y del todo singular de la Iglesia, su prototipo y modelo destacadísimo en la fe y caridad” (LG 53).

 

La misión de la Santísima Virgen María se inserta, pues, “en el misterio del Verbo Encarnado y del Cuerpo Místico” (LG 54). María es, a la vez, miembro y Madre del Pueblo sacerdotal, Tipo o figura de la Iglesia (cfr. LG 53, 62-65). Es “Madre en la Iglesia y a través de la Iglesia" (RMa 24). "Con su nueva maternidad en el Espíritu, acoge a todos y a cada uno por medio de la Iglesia" (RMa 37).

 

A partir de la formación cristológica y eclesiológica de la formación, se llega a profundizar mejor la relación estrecha entre María y el sacerdote. María es Madre especial del sacerdote ministro (y de todos los ministros ordenados), en todo el proceso de vocación, seguimiento y misión, puesto que "Cristo, moribundo en la cruz, la entregó como Madre al discípulo" (OT 8).[9]

 

El sacerdote ministro participa de la consagración sacerdotal de Cristo (que tuvo lugar en el seno de María), prolonga la misma misión de Cristo (quien asoció y sigue asociando a María), está llamado a vivir en sintonía con él (como María, guiada por el Espíritu Santo, se asoció a la obra redentora de Cristo). De este modo, María está presente y activa maternalmente en todas las etapas del itinerario de la formación y de la vida apostólica. Por esto, la relación “entre la Virgen y el sacerdocio, es un nexo profundamente enraizado en el misterio de la Encarnación... sacrificio, sacerdocio y Encarnación van unidos, y María se encuentra en el centro de este misterio. Jesús, antes de morir, ve a su Madre al pie de la cruz y ve al hijo amado; y este hijo amado ciertamente es una persona, un individuo muy importante; pero es más: es un ejemplo, una prefiguración de todos los discípulos amados, de todas las personas llamadas por el Señor a ser «discípulo amado» y, en consecuencia, de modo particular también de los sacerdotes”.[10]

 

La participación peculiar por parte de los sacerdotes ministros en el sacerdocio de Cristo, es una “consagración” especial, que deriva hacia la “misión”, como prolongación de la misma misión de Cristo, para obrar “en su nombre” o “en persona de Cristo”, como insertando el propio “yo” en su “Yo”. Esta participación en la consagración y misión de Cristo exige y, al mismo tiempo, hace posible una sintonía y docilidad generosa. "De esta docilidad hallarán siempre un maravilloso ejemplo en la Bienaventurada Virgen María, que, guiada por el Espíritu Santo, se consagró toda al ministerio de la redención de los hombres" (PO 18).

 

Estas líneas formativas quedaron sintetizadas en la RatioFundamentalisInstitucionis Sacerdotalis de 1970, adaptadas posteriormente al nuevo Código en 1985. El texto breve que se refiere a la formación mariana del futuro sacerdote es el siguiente: “Imite con amor ardiente, según el sentir de la Iglesia, a la Virgen María, Madre de Cristo, y asociada de un modo especial a la obra de la redención” (n.54).[11]

 

Todos los aspectos y etapas de la formación sacerdotal hacen referencia a María, como “Madre y educadora de nuestro sacerdocio” (Pastores dabo vobis 82). Efectivamente, “cada aspecto de la formación sacerdotal puede referirse a María como la persona humana que mejor que nadie ha correspondido a la vocación de Dios; que se ha hecho sierva y discípula de la Palabra hasta concebir en su corazón y en su carne al Verbo hecho hombre para darlo a la humanidad; que ha sido llamada a la educación del único y eterno Sacerdote, dócil y sumiso a su autoridad materna. Con su ejemplo y mediante su intercesión, la Virgen santísima sigue vigilando el desarrollo de las vocaciones y de la vida sacerdotal en la Iglesia” (ibídem).[12]

 

De ahí la relación esencial del sacerdote ministro con María “la Madre de Jesús” (Jn 2,1; 19,25-27). Por esto, "la espiritualidad sacerdotal no puede considerarse completa, si no toma seriamente en consideración el testamento de Cristo crucificado... Todo presbítero sabe que María, por ser Madre, es la formadora eminente de su sacerdocio, ya que ella es quien sabe modelar el corazón sacerdotal" (Directorio para el ministerio y la vida de los presbíteros, 68).[13]

 

Benedicto XVI, hablando a los seminaristas durante la XX Jornada Mundial de la Juventud (Colonia 19 agosto 2005), comentó el encuentro de los Magos con Jesús en Belén (cfr. Mt 2,11) y describió el itinerario formativo sacerdotal de este modo: “Es precisamente la Madre quien le muestra a Jesús, su Hijo, quien se lo presenta; en cierto modo se lo hace ver, tocar, tomar en sus brazos. María le enseña a contemplarlo con los ojos del corazón y a vivir de él. En todos los momentos de la vida en el seminario se puede experimentar esta amorosa presencia de la Virgen, que introduce a cada uno al encuentro con Cristo en el silencio de la meditación, en la oración y en la fraternidad. María ayuda a encontrar al Señor sobre todo en la celebración eucarística, cuando en la Palabra y en el Pan consagrado se hace nuestro alimento espiritual cotidiano”.[14]

 

Este proceso formativo tiene en cuenta que la vocación es un don de Dios y, por tanto, iniciativa del Señor (cfr. Jn 15,16), que reclama y hace posible una respuesta recta, libre y generosa. María, en el momento de la Anunciación, se deja sorprender por el proyecto de Dios y responde con fidelidad generosa (cfr. Lc 1,29ss). Se trata de un don de Dios, que sigue siendo suyo y no puede desvirtuarse por las propias preferencias.

 

Es un proceso lento de discernimiento, como dejándose sorprender por Dios. María se adentró en este proceso para vivir en sintonía con el misterio insondable de su Hijo: “Será llamado Hijo del Altísimo… el Espíritu Santo vendrá sobre ti” (Lc 1,32.35). Las palabras de Jesús dirigidas a María son una invitación a aceptar su misterio sacerdotal: “¿No sabíais que no yo debía estar en las cosas (en la casa) de mi Padre?” (Lc 2,49). “No ha llegado mi hora” (Jn 2, 4). “Quién es mi madre” (Mt 12,48; cfr. Lc 9,21). “Ahí tienes a tu hijo” (Jn 19,26), etc.

 

Es un proceso que podemos llamar de “contemplación” comprometida, aprendiendo a “leer a Dios” (“Lectio Divina”) en su Verbo o Palabra personal. María se deja sorprender, captada por el trasfondo bíblico de la Anunciación (cfr. Sof 3,14-17; Is 7,14; Ex 24) y del niño recién nacido (cfr. Lc 2,19; Is 9,5).  No sería correcta una verdadera “Lectio Divina” (“leer a Dios” en la Escritura) que no estuviera en “armonía” con la “memoria contemplativa” de María (cfr. Hech 1,14, en relación con Lc 2,19.51)

 

La contemplación habitual de María se refleja en su cántico: “ElMagníficat —un retrato de su alma, por decirlo así— está completamente tejido por los hilos tomados de la Sagrada Escritura, de la Palabra de Dios” (Deus Caritas est 41). En la presentación del niño Jesús en el templo, la “admiración” indica el respeto y la admiración de los planes de Dios: “Su padre y su madre estaban admirados de lo que se decía de él” (Lc 2,33).

 

Esta actitud permanente de María es la que corresponde a quien sigue un proceso formativo vocacional. Efectivamente: “La Palabrade Dios es verdaderamente su propia casa, de la cual sale y entra con toda naturalidad. Habla y piensa con la Palabra de Dios; la Palabra de Dios se convierte en palabra suya, y su palabra nace de la Palabra de Dios. Así se pone de manifiesto, además, que sus pensamientos están en sintonía con el pensamiento de Dios, que su querer es un querer con Dios. Al estar íntimamente penetrada por la Palabra de Dios, puede convertirse en madre de Palabra encarnada” (Deus caritas est 41).

 

El proceso formativo es de maduración en la libertad, que consiste en la verdad de la donación: “María de Nazaret, desde la Anunciación a Pentecostés, aparece como la persona cuya libertad está totalmente disponible a la voluntad de Dios. Su Inmaculada Concepción se manifiesta propiamente en la docilidad incondicional a la Palabra divina. La fe obediente es la forma que asume su vida en cada instante ante la acción de Dios. Virgen a la escucha, vive en plena sintonía con la voluntad divina; conserva en su corazón las palabras que le vienen de Dios y, formando con ellas como un mosaico, aprende a comprenderlas más a fondo (cfr. Lc 2,19.51). María es la gran creyente que, llena de confianza, se pone en las manos de Dios, abandonándose a su voluntad” (Sacramentum Caritatis 33).

 

La dimensión mariana de la formación abarca también el nivel intelectual y pastoral. Se trata del estudio de la mariología en su perspectiva cristológica y eclesiológica. “La investigación y la enseñanza de la mariología, y su servicio a la pastoral tienden a la promoción de una auténtica piedad mariana, que debe caracterizar la vida de todo cristiano y particularmente de aquellos que se dedican a los estudios teológicos y se preparan para el sacerdocio”.[15]

 

La oración del Papa Benedicto XVI, en el acto de consagración de los sacerdotes al Corazón de María (Fátima, 12 mayo 2010), ofrece unas líneas que se refieren al itinerario formativo: “Ayúdanos, con tu poderosa intercesión, a no desmerecer esta vocación sublime, a no ceder a nuestros egoísmos, ni a las lisonjas del mundo, ni a las tentaciones del Maligno. Presérvanos con tu pureza, custódianos con tu humildad y rodéanos con tu amor maternal, que se refleja en tantas almas consagradas a ti y que son para nosotros auténticas madres espirituales… Repite al Señor esa eficaz palabra tuya: «no les queda vino» (Jn 2,3), para que el Padre y el Hijo derramen sobre nosotros, como una nueva efusión, el Espíritu Santo”.[16]

 

También el la celebración de las vísperas con sacerdotes, religiosos, seminaristas y diáconos, el mismo día 12 de mayo de 2010, el Papa recordó unos aspectos básicos del camino formativo. La acción materna de María en ese proceso consiste en “generar nuevos hijos en el Hijo, que el Padre ha querido como primogénito de muchos hermanos. Cada uno de nosotros está llamado a ser, con María y como María, un signo humilde y sencillo de la Iglesia que continuamente se ofrece como esposa en las manos de su Señor…Permitidme que os abra mi corazón para deciros que la principal preocupación de cada cristiano, especialmente de la persona consagrada y del ministro del Altar, debe ser la fidelidad, la lealtad a la propia vocación, como discípulo que quiere seguir al Señor. La fidelidad a lo largo del tiempo es el nombre del amor; de un amor coherente, verdadero y profundo a Cristo Sacerdote… En este camino de fidelidad, amados sacerdotes y diáconos, consagrados y consagradas, seminaristas y laicos comprometidos, nos guía y acompaña la Bienaventurada Virgen María”.[17]

 

Se podría hablar de una herencia mariana sacerdotal de Juan Pablo II, en el sentido de habernos legado un extenso programa de formación sacerdotal. Además de los textos de Pastores dabo vobis (citados más arriba), habría que recordar las numerosas alusiones de sus cartas con ocasión del Jueves Santo, que citamos en los capítulos siguientes.[18]

 

 

2. En el ejercicio de los ministerios

 

Los sacerdotes ministros prolongan la misma misión de Cristo, proclamando su palabra, celebrando su misterio pascual y actualizando su acción salvífica y pastoral. La fidelidad a la consagración y a la misión, participada de Cristo, en todos los momentos de la vida y del ministerio del sacerdote, constituye la esencia de su espiritualidad. Con la ayuda y el ejemplo de María, Madre de Cristo Sacerdote y Madre de la Iglesia como Pueblo sacerdotal, viven estos ministerios en sintonía con las mismas actitudes y “los mismos sentimientos de Cristo” (Fil 2,5).

 

Los ministerios sacerdotales son una especial concretización de la maternidad de la Iglesia (cfr. PO 6) y, consecuentemente, tienen que ejercerse con el “amor maternal” de María, figura de la Iglesia madre (cfr. LG 65; Gal 4,19, en relación con Gal 4,4-7 y 4,26). El sacerdote, como Pablo, toma a María como figura e imagen materna, "la mujer" (Gal 4,4), para describir su difícil y, a veces, doloroso ministerio de "formar a Cristo" en los demás (Gal 4,19). Probablemente ese texto paulino es el primer fragmento mariano escrito del Nuevo Testamento; refleja el misterio de la cruz inherente a la vida de los Apóstoles.

 

Por esto, “la verdad de la maternidad de la Iglesia, con el ejemplo de la Madre de Dios, se nos hace cercana a nuestra conciencia sacerdotal. Si la Iglesia entera aprende de María la propia maternidad, ¿no será también necesario que los hagamos nosotros?” (Carta del Jueves Santo 1988, n.4).

 

Comentando el texto paulino de la carta a los Gálatas, Juan Pablo II, en la encíclica Redemptoris Mater  lo aplica al apóstol para resaltar su vivencia mariana: “En estas palabras de san Pablo está contenido un indicio interesante de la conciencia materna de la Iglesia primitiva, unida al servicio apostólico entre los hombres. Esta conciencia permitía y permite constantemente a la Iglesia ver el misterio de su vida y de su misión a ejemplo de la misma Madre del Hijo, que es el « primogénito entre muchos hermanos » (Rom 8, 29)” (RMa 43).[19]

 

Recibir a María en la propia casa, tiene, pues, para el sacerdote, un sentido también ministerial: "Quecada uno de nosotros permita a María que ocupe un lugar en la casa del propio sacerdocio sacramental, como Madre y Mediadora de aquel gran misterio (cfr. Ef 5,32), que todos deseamos servir con nuestra vida" (Carta del Jueves Santo, 1988, n.4). El itinerario ministerial tiene lugar, como para el discípulo amado, en “comunión de vida con María” (RMa 45).

 

La espiritualidad sacerdotal es de “caridad pastoral”, a modo de “unidad de vida”, en  sintonía de actitudes con Cristo Buen Pastor (cfr. PO 13). Esta espiritualidad específica de los sacerdotes se realiza "ejerciendo sincera e incansablemente sus ministerios en el Espíritu de Cristo" (PO 13). En el ejercicio de los ministerios, los sacerdotes están llamados a vivir de modo paprticular la espiritualidad mariana de todo bautizado, en relación con la presencia activa y materna de María. Ella es modelo, intercesora, guía, maestra y discípula. La caridad pastoral, quintaesencia de la espiritualidad sacerdotal, matiza todos los aspectos de la devoción y culto mariano: conocerla, amarla, imitarla, celebrarla e invocarla.

 

Esta caridad pastoral tiene el matiz de “amor materno” a imitación de María. "La Virgen fue en su vida ejemplo de aquel amor maternal con que es necesario que estén animados todos aquellos que, en la misión apostólica de la Iglesia, cooperan a la regeneración de los hombres" (LG 65; cfr. Gal 4,4.19.26; Jn 16,21-22).

 

Los santos sacerdotes han subrayado también el paralelismo entre María y el sacerdocio ministerial, especialmente en relación con la Eucaristía. Decía San Juan de Ávila “Mirémonos, padres, de pies a cabeza, ánima y cuerpo, y vernos hemos hechos semejantes a la sacratísima Virgen María, que con sus palabras trajo a Dios a su vientre... Y el sacerdote le trae con las palabras de la consagración" (Plática 1ª). "¿Qué cosa es una hostia consagrada sino una Virgen que trae encerrado en sí a Dios?" (Sermón 4). "Y así hay semejanza entre la santa encarnación y este sacro misterio; que allí se abaja Dios a ser hombre, y aquí Dios humanado se baja a estar entre nosotros los hombres; allí en el vientre virginal, aquí debajo de la hostia; allí en los brazos de la Virgen, aquí en las manos del sacerdote" (Sermón 55; cfr. Carta 122).

 

Pero aquella carne y sangre de Cristo proceden de María y se inmolaron con su asociación. Es ella la que invita a acercarnos a Cristo presente en la Eucaristía: "Venid y comed del pan que yo concebí en mis entrañas, y del pan que yo parí" (Sermón 12). Allí está "la guirnalda de la humanidad que le dio su santísima Madre" (Sermón 36). Se trata del "pan de la Virgen" (Ser 39, 28). "Ella es la que nos lo guisó, y por ser ella la guisandera se le pega más sabor al manjar" (Sermón 41). "Ella fue... la que nos amasó este pan" (Sermón 46; cfr. Sermones 56, 58 y 70).

 

El Maestro Ávila no deja de relacionar esta dimensión mariana de la Eucaristía con la dignidad y santidad del sacerdote ministro (cfr. Tratado sobre el sacerdocio, nn. 2 y 15). Por esto el sacerdote ministros se siente "semejante" a la Virgen María y estrechamente unido a ella (cfr. Cartas 6 y 8).[20]

 

Por ser la Eucaristía“fuente y cima de toda la evangelización” (PO 5), todos los ministerios se relacionan armónicamente entre sí: se anuncia a Cristo, se le hace presente (especialmente en la Eucaristía) y se le comunica para que sea centro de la vida personal y comunitaria. María concibió aquel cuerpo ofrecido en sacrificio que ahora se actualiza sacramentalmente por manos del sacerdote y, también por medio de él, se anuncia y comunica. El anuncio del evangelio presupone la actitud de contemplación de la Palabra, como María que la meditaba en su corazón (cfr. Lc 2,19.51). Con ella, se vive mejor el equilibrio y la armonía de los ministerios.

 

El encargo eucarístico está íntimamente relacionado con el encargo de filiación mariana. “De hecho, al discípulo predilecto, que siendo uno de los Doce había escuchado en el Cenáculo las palabras: «Haced esto en memoria mía». Cristo, desde lo alto de la Cruz, lo señaló a su Madre, diciéndole: «He ahí a tu hijo». El hombre, que el Jueves Santo recibió el poder de celebrar la Eucaristía, con estas palabras del Redentor agonizante fue dado a su Madre como «hijo»” (Carta del Jueves Santo, 1979, n.11).

 

En su última carta de Jueves Santo, pocos días antes de su muerte, Juan Pablo II invitaba a los sacerdotes a realizar “una existencia  eucarística aprendida de María”, puesto que “nadie cómo ella puede enseñarnos con qué fervor se han de celebrar los santos Misterios y cómo hemos de estar en compañía de su Hijo escondido bajo las especies eucarísticas" (Carta del Jueves Santo, 2005, n.8).

 

María está presente en la Iglesia, que es misterio de comunión misionera, a cuyo servicio está el sacerdote. Los ministerios sacerdotales tienden a construir la comunidad eclesial como comunidad de oración y fraternidad (a la luz de la Palabra y en relación con la Eucaristía), para llegar a ser “un solo corazón y una sola alma” (Hech 4,32) y de este modo anunciar el evangelio “con audacia” (Hech 4,31). Para ello es imprescindible la actitud permanente y programática de vivir la comunión en sintonía de actitudes “con María, la Madre de Jesús” (Hech 1,14). “En ella encontramos la esencia de la Iglesia realizada del modo más perfecto” (Sacramentum Caritatis 96).

 

Si admitimos que "María es «memoria» de la encarnación del Verbo en la primera comunidad cristiana" (Pastores Gregis 14), hay que admitir también que lo es en cada época histórica. La Iglesiaaprende de María el camino de la fe, para vivirla y transmitirla: "La santa Madre de Dios debe ser, pues, para el Obispo maestra en escuchar y cumplir prontamente la Palabra de Dios, en ser discípulo fiel al único Maestro, en la estabilidad de la fe, en la confiada esperanza y en la ardiente caridad” (ibídem).

 

Resulta muy emotiva yvivencial una explicación de Juan Pablo II, donde el Papa describe la ternura materna de María en relación con la celebración eucarística de la Iglesia: “¿Cómo imaginar los sentimientos de María al escuchar de la boca de Pedro, Juan, Santiago y los otros Apóstoles, las palabras de la Última Cena: «Éste es mi cuerpo que es entregado por vosotros» (Lc 22, 19)? Aquel cuerpo entregado como sacrificio y presente en los signos sacramentales, ¡era el mismo cuerpo concebido en su seno! Recibir la Eucaristía debía significar para María como si acogiera de nuevo en su seno el corazón que había latido al unísono con el suyo y revivir lo que había experimentado en primera persona al pie de la Cruz” (Ecclesia de Eucaristía 56)

 

El sacerdote ministro, por tener especial relación con María, está llamado a imitar sus actitudes de fidelidad a la Palabra y al Espíritu Santo y santificador, en todos los ministerios: proféticos, litúrgicos, diaconales y caritativos. En todos y cada uno de los ministerios sacerdotales, “la contemplación de la Santísima Virgen pone siempre ante la mirada del presbítero el ideal al que ha de tender en el ministerio en favor de la propia comunidad, para que también ésta última sea « Iglesia totalmente gloriosa » mediante el don sacerdotal de la propia vida” (Directorio 68).

 

El ministerio sacerdotal, especialmente en la celebración eucarística (que presupone el anuncio y lleva a la vivencia), tiene en cuenta el modelo mariano de recibir al Señor para comunicarlo a los demás. “Desde la Anunciación hasta la Cruz, María es aquélla que acoge la Palabra que se hizo carne en ella y que enmudece en el silencio de la muerte. Finalmente, ella es quien recibe en sus brazos el cuerpo entregado, ya exánime, de Aquél que de verdad ha amado a los suyos « hasta el extremo » (Jn 13,1)” (Sacramentum Caritatis 33).[21]

 

El sacerdote ministro, como Juan, recibe el don de María para comunicarlo a los demás, cooperando como ella a hacerlo vida propia: “La Bienaventurada Virgenavanzó en la peregrinación de la fe y mantuvo fielmente la unión con su Hijo hasta la cruz. Allí, por voluntad de Dios, estuvo de pie (cfr. Jn 19,25), sufrió intensamente con su Hijo y se unió a su sacrificio con corazón de Madre que, llena de amor, daba su consentimiento a la inmolación de su Hijo como víctima. Finalmente, Jesucristo, agonizando en la cruz, la dio como madre al discípulo con estas palabras: Mujer, ahí tienes a tu hijo” (LG 58).

 

Para todo bautizado y especialmente para el sacerdote ministro “María de Nazaret, icono de la Iglesia naciente, es el modelo de cómo cada uno de nosotros está llamado a recibir el don que Jesús hace de sí mismo en la Eucaristía” (Sacramentum Caritatis 33). La acción ministerial de presidir la Eucaristía tiene como objetivo prolongar en la comunidad eclesial la misma actitud oblativa de María: “Los fieles encomiendan a María, Madre de la Iglesia, su vida y su trabajo. Esforzándose por tener los mismos sentimientos de María, ayudan a toda la comunidad a vivir como ofrenda viva, agradable al Padre” (ibídem 96).

 

Por medio de la acción ministerial de la Iglesia, la maternidad de María “perdura sin cesar en la economía de la gracia” (LG 62). María “está unida también íntimamente a la Iglesia... porque en el misterio de la Iglesia que con razón también es llamada madre y virgen, la Bienaventurada Virgen María la prece­dió, mostrando en forma eminente y singular el modelo de la virgen y de la madre” (LG 63). En los ministerios sacerdotales se hace presente esta realidad salvífica, mariana y eclesial, en la que María es “Madre por medio de la Iglesia” (RMa 24, LG 65), mientras, al mismo tiempo, "la Iglesia aprende de ella su propia maternidad” (RMa 43).[22]

 

La espiritualidad mariana de la Iglesia es esencialmente ministerial y, al mismo tiempo, reclama la fidelidad carismática a las nuevas gracias del Espíritu Santo: “Por lo cual, también en su obra apostó­lica, con razón, la Iglesia mira hacia aquella que engendró a Cristo, concebido por el Espíritu Santo y nacido de la Virgen, precisamente para que por la Iglesia nazca y crezca también en los corazones de los fieles” (LG 65).

 

En todo el campo de la piedad popular y en todo el proceso de inculturación, el sacerdote ministro realiza una tarea que es eminentemente mariana. El servicio sacerdotal en el campo de la piedad ofrece una oportunidad excepcional para llevar a los fieles a la escucha de la Palabra y a la celebración de los misterios: “Junto con el Pueblo de Dios, que mira a María con tanto amor y esperanza, vosotros debéis recurrir a Ella con esperanza y amor excepcionales. De hecho, debéis anunciar a Cristo que es su hijo; ¿Y quién mejor que su Madre os transmitirá la verdad acerca de El? Tenéis que alimentar los corazones humanos con Cristo; ¿Y quién puede hacerles más conscientes de lo que realizáis, si no la que lo ha alimentado? «Salve, o verdadero Cuerpo, nacido de la Virgen María»” (Carta del Jueves Santo, 1979, n.11).

 

El servicio ministerial de la Eucaristía tiende a que todo el Pueblo de Dios se una al “sí” (“amén”) de María, que es aceptación vivencial y comprometida del misterio de Cristo Sacerdote y Víctima. “María concibió en la anunciación al Hijo divino, incluso en la realidad física de su cuerpo y su sangre, anticipando en sí lo que en cierta medida se realiza sacramentalmente en todo creyente que recibe, en las especies del pan y del vino, el cuerpo y la sangre del Señor. Hay, pues, una analogía profunda entre el fiat pronunciado por María a las palabras del Ángel y el amén que cada fiel pronuncia cuando recibe el cuerpo del Señor. A María se le pidió creer que quien concibió «por obra del Espíritu Santo» era el «Hijo de Dios » (cf. Lc 1, 30.35)” (Ecclesia de Eucaristía, 55).[23]

 

María es modelo y ayuda en el modo de servir (“pastorear”), en la celebración de la Eucaristía y en toda la disponibilidad ministerial. Así lo pedía en Fátima, con una emotiva oración, el Papa Benedicto XVI: “Madre de la Iglesia, nosotros, sacerdotes, queremos ser pastores que no se apacientan a sí mismos, sino que se entregan a Dios por los hermanos, encontrando la felicidad en esto. Queremos cada día repetir humildemente  no sólo de palabra sino con la vida, nuestro «aquí estoy». Guiados por ti, queremos ser Apóstoles de la Divina Misericordia, llenos de gozo por poder celebrar diariamente el Santo Sacrificio del Altar y ofrecer a todos los que nos lo pidan el sacramento de la Reconciliación”.[24]

 

 

3. En el itinerario de la vida sacerdotal

 

La espiritualidad mariana es una dimensión intrínseca a la espiritualidad eclesial. De modo particular lo es de la espiritualidad sacerdotal. Los Apóstoles y discípulos formaban parte de la familia de Jesús: “Mi Madre y mis hermanos son aquellos que oyen la Palabra de Dios y la cumplen” (Lc 8,21; cfr. 2,19.51). El hecho del Cenáculo es paradigmático, como punto de referencia durante toda la historia eclesial, donde los Apóstoles y discípulos reunidos, “perseveraban en la oración, con un mismo espíritu, en compañía de algunas mujeres, de María, la madre de Jesús” (Hech 1,14).

 

Los “sentimientos” de Cristo respecto a su Madre tienen que reflejarse en quienes participan de la misma consagración del Señor y prolongan su misma misión, mientras presentan el mismo estilo de vida como testimonio evangélico. Cristo fue “ungido” sacerdote en el seno de María, por obra del Espíritu Santo, y quiso nacer de ella, asociándola a su obra redentora. La espiritualidad sacerdotal mariana es una actitud de reverencia y amor filial hacia quien es "Madre del sumo y eterno Sacerdote, Reina de los Apóstoles y refugio de su ministerio" (PO 18). El ser (consagración), el obrar (misión) y la vivencia (espiritualidad) del sacerdote, incluyen una relación estrecha con María.

 

En el momento de la “consagración” sacerdotal de Cristo, en el seno de María, Dios quiso el “sí” de su Madre (cfr. Lc 1,38). La vida del sacerdote ministro es participación de la consagración de Cristo y prolongación de su misma misión. El “sí” del sacerdote ministro se concreta, como para todo creyente, en “imitar su vida de fe” (RMa 48).

 

Nuestro “sí” al Espíritu Santo, en el momento de la ordenación sacerdotal, es una respuesta a la pregunta del Obispo ordenante que pide “unirse a Cristo Sacerdote”. Es un sí que prolonga en el tiempo el “sí” de María en el momento de la consagración sacerdotal de Cristo. Por esto, la actitud o espiritualidad mariana (devoción, entrega) es esencial en el sacerdocio ministerial.

 

La consagración sacerdotal de Cristo en el seno de María se concretó en una oblación al Padre y en el amor del Espíritu Santo, que abarcaría toda su existencia (cfr. Heb 9,14; 10,5-7). Quiso asociar a su ofrenda la actitud mariana oblativa y esponsal de “estar de pie” (Jn 19,25) junto a la cruz, con el “discípulo amado” (Jn 19,26-27). Pertenecemos a Cristo, como María le pertenece, participando con ella en su oblación sacerdotal. Cuando decimos en el ministerio eucarístico “esto es mi cuerpo… mi sangre”, estamos insertados en la misma oblación esponsal-sacerdotal de Cristo, desde el seno de María hasta la cruz.[25]

 

En esta oblación de Cristo, ya desde el seno de María y durante toda su vida,  está asociada su Madre, quien también lo está en nuestra oblación ministerial: “Madre de Jesucristo y Madre de los sacerdotes: acepta este título con el que hoy te honramos para exaltar tu maternidad y contemplar contigo el Sacerdocio de tu Hijo unigénito y de tus hijos, oh Santa Madre de Dios. Madre de Cristo, que al Mesías Sacerdote diste un cuerpo de carne por la unción del Espíritu Santo para salvar a los pobres y contritos de corazón: custodia en tu seno y en la Iglesia a los sacerdotes, oh Madre del Salvador.

Madre de la fe, que acompañaste al templo al Hijo del hombre, en cumplimiento de las promesas hechas a nuestros Padres: presenta a Dios Padre, para su gloria, a los sacerdotes de tu Hijo, oh Arca de la Alianza” (PDV 82).

 

El seno de María es, pues, custodio de la consagración sacerdotal de Jesús y de la nuestra. Ella ha dado a luz a Cristo Hijo de Dios, Sacerdote y Víctima. A nosotros nos da a luz en esta misma perspectiva sacerdotal, tal como Cristo nos ha elegido. María es “icono” de toda la realidad eclesial, también de su realidad sacerdotal, como Pueblo de Dios a cuyo servicio están puestos los ministros ordenados.

 

Los apóstoles “creyeron” en Jesús (Jn 2,11), siguiendo la actitud de fe de María (cfr. Lc 2,45; Jn 2,5). Esta fe es conocimiento vivido de Cristo, que se traduce en “seguimiento” esponsal con María “su Madre” (Jn 2,12) y, consecuentemente, en encuentro, relación, imitación, transformación. Así es la santidad como “perfección de la caridad” (LG 40), que para el sacerdote ministro se traduce en “caridad pastoral” (PO 13).

 

La comunión en el Presbiterio de la Iglesia particular supone “unión” y  sintonía armónica y vivencial con “María, la Madre de Jesús” (Hech 1,14). Por esto, la “fraternidad sacramental” del Presbiterio (PO 8), que es una “realidad sobrenatural” (PDV 74), como derivación del sacramento del Orden (cfr. LG 28), necesita esta sintonía de oración en comunión fraterna y en espera activa de las nuevas gracias del Espíritu Santo.María, también ahora, “precede el testimonio apostólico" (RMa 27). Ser servidores de una comunidad donde hay “un solo corazón y una sola alma” (Hech 4,32), presupone la “unidad” de quienes son signo comunitario de Cristo Sacerdote en la Iglesia particular (cfr. Jn 17,23). Entonces el Presbiterio se hace signo eficaz de santificación y de evangelización.

 

Las figuras sacerdotales de la historia (como San Juan de Ávila, San Juan Eudes, San Luís María Grignion de Montfort, San Alfonso Mª de Ligorio, el Santo Cura de Ars, San Antonio Mª Claret, etc.), son puntos de referencia para recordar y vivir la relación de María con los sacerdotes ministros. Los santos sacerdotes han vivido esta relación con María a la luz de la Encarnación (consagración sacerdotal de Cristo en el seno de su Madre), del sacrificio redentor que culmina en la cruz (con María en actitud oblativa), de la Eucaristía (como pan de vida que se formó en el seno de María y que actualiza el misterio redentor) y de la Iglesia (como madre de las almas).

 

Por ser “Madre de Jesucristo y Madre de los sacerdotes” (PDV 82), María ejerce también en ellos un “influjo salvífico” (LG 62), que es de presencia activa y de modelo de asociación a Cristo Sacerdote. En este sentido, "los sacerdotes tienen particular título para que se les llame hijos de María".[26]

 

Esta espiritualidad se concreta en relación filial e imitación. Por ser “madre y educadora de nuestro sacerdocio... nosotros los sacerdotes estamos llamados a crecer en una sólida y tierna devoción a la Virgen María, testimoniándola con la imitación de sus virtudes y con la oración frecuente” (PDV 82).[27]

 

Las palabras de Jesús en la cruz (“he aquí a tu Madre”) siguen aconteciendo en quienes quieren vivir en sintonía con “los sentimientos” oblativos de Cristo (Fil 2,5). La invitación a asumirla como Madre, incluye dejarse orientar por ella como modelo de maternidad apostólica, en todo el itinerario de formación, en la vida y en el ministerio sacerdotal: “Haced lo que él os diga” (Jn 2,5). María es modelo y ayuda de fidelidad a la Palabra y al Espíritu Santo.

 

En los documentos magisteriales sobre el sacerdocio ministerial, es frecuente la invitación a vivir la relación interpersonal con María. Ella “es Madre del eterno Sacerdote y, por eso mismo, Madre de todos los sacerdotes... de una manera especial siente predilección por los sacerdotes, que son viva imagen de su Jesús" (Menti nostrae 124). Por ser “Madre de los sacerdotes”, nos liga a ella “un vínculo especial” y, por esto, "en cierto modo, somos los primeros en tener derecho a ver en ella a nuestra Madre" (Carta del Jueves Santo 1979, n.11). Por esto, "conviene que se profundice constantemente nuestro vínculo espiritual con la Madre de Dios" (Carta del Jueves Santo 1988, n.2).[28]

 

La primera carta de Jueves Santo (1979), de Juan Pablo II, es programática, también para la espiritualidad mariana sacerdotal. El Papa presenta su propia experiencia mariana en este camino formativo: “Deseo, por consiguiente, que todos vosotros, junto conmigo, encontréis en María la Madre del sacerdocio, que hemos recibido de Cristo. Deseo, además, que confiéis particularmente a Ella vuestro sacerdocio. Permitir que yo mismo lo haga, poniendo en manos de la Madre de Cristo a cada uno de vosotros sin excepción alguna de modo solemne y, al mismo tiempo, sencillo y humilde” (n.6).

 

El camino mariano es cristológico y eclesial:: “La Iglesiade hoy habla de sí misma sobre todo en la Constitución dogmática Lumen Gentium. También aquí, en el último Capítulo, ella confiesa que mira a María como Madre de Cristo, porque se llama a sí misma madre y desea ser madre, engendrando para Dios los hombres a una vida nueva. Oh, queridos Hermanos. ¡Qué cerca de esta causa de Dios estáis vosotros! ¡Cuán profundamente ella está impresa en vuestra vocación, ministerio y misión!” (ibídem).

 

La espiritualidad mariana es eminentemente eucarística:: “Tenéis que alimentar los corazones humanos con Cristo; ¿Y quién puede hacerles más conscientes de lo que realizáis, si no la que lo ha alimentado?… La entrega de María a Juan como Madre, da a entender la relación con los demás Apóstoles, llamaos «amigos» de Cristo.  La Madre de Cristo sabe todo esto… Ella misma coopera con amor de Madre a la regeneración y a la formación de todos aquellos que se convierten en hermanos de su Hijo, que han llegado a ser sus amigos, y hará que puedan no defraudar esta santa amistad” (ibídem).

 

Las líneas de esta actitud mariana en la vida sacerdotal han quedado trazadas en esta carta de Juan Pablo II.Es una actitud de confianza filial, que sintoniza con el amor a Cristo Sacerdote, con dimensión relacional y vivencial de cercanía: “Deseo, por consiguiente, que todos vosotros, junto conmigo, encontréis en María la Madre del sacerdocio, que hemos recibido de Cristo. Deseo, además, que confiéis particularmente a Ella vuestro sacerdocio… que cada uno de vosotros lo realice personalmente, como se lo dicte su corazón, sobre todo el propio amor a Cristo Sacerdote, y también la propia debilidad, que camina a la par con el deseo del servicio y de la santidad… Se da en nuestro sacerdocio ministerial la dimensión espléndida y penetrante de la cercanía a la Madre de Cristo” (ibídem, n.11).

 

El Directorio para el ministerio y la vida de los presbíteros (1994) describe la relación entre María y el sacerdote en el campo de la santificación y del ministerio, invitando a imitar sus virtudes. Después de recordar la “relación esencial entre la Madre de Jesús y el sacerdocio de los ministros del Hijo, que deriva de la relación que hay entre la divina maternidad de María y el sacerdocio de Cristo”, afirma que “en dicha relación está radicada la espiritualidad mariana de todo presbítero. La espiritualidad sacerdotal no puede considerarse completa si no toma seriamente en consideración el testamento de Cristo crucificado, que quiso confiar a Su Madre al discípulo predilecto y, a través de él, a todos los sacerdotes, que han sido llamados a continuar Su obra de redención”. Por esto, “los sacerdotes, que se cuentan entre los discípulos más amados por Jesús crucificado y resucitado, deben acoger en su vida a María como a su Madre: será Ella, por tanto, objeto de sus continuas atenciones y de sus oraciones. La Siempre Virgen es para los sacerdotes la Madre, que los conduce a Cristo, a la vez que los hace amar auténticamente a la Iglesia y los guía al Reino de los Cielos… No serán hijos devotos, quienes no sepan imitar las virtudes de la Madre. El presbítero, por tanto, ha de mirar a María si quiere ser un ministro humilde, obediente y casto, que pueda dar testimonio de caridad a través de la donación total al Señor y a la Iglesia” (Directorio 68).

 

La acogida de María, por parte del discípulo amado, “en lo íntimo de su vida, de su ser, «eis tà ìdia»” (cfr. Jn 19,27), indica que “la peculiar relación de maternidad que existe entre María y los presbíteros es la fuente primaria, el motivo fundamental de la predilección que alberga por cada uno de ellos… Por su identificación y conformación sacramental a Jesús, Hijo de Dios e Hijo de María, todo sacerdote puede y debe sentirse verdaderamente hijo predilecto de esta altísima y humildísima Madre”.[29]

 

Esta espiritualidad mariana del sacerdote tiene especialmente matices eucarísticos, por la estrecha relación que existe entre la Eucaristía, María y el sacerdocio. En encargo ministerial eucarístico (“haced esto en conmemoración mía”: Lc 22,19) está relacionado con el encargo mariano (“he aquí a tu madre”: Jn 19,26-27). Por esto, “Vivir en la Eucaristía el memorial de la muerte de Cristo implica también recibir continuamente este don. Significa tomar con nosotros –a ejemplo de Juan– a quien una vez nos fue entregada como Madre. Significa asumir, al mismo tiempo, el compromiso de conformarnos a Cristo, aprendiendo de su Madre y dejándonos acompañar por ella. María está presente con la Iglesia, y como Madre de la Iglesia, en todas nuestras celebraciones eucarísticas. Así como Iglesia y Eucaristía son un binomio inseparable, lo mismo se puede decir del binomio María y Eucaristía" (Ecclesia de Eucaristía 55).[30]

 

Durante su visita a Fátima, Benedicto XVI ha proporcionado dos textos de gran contenido sacerdotal, especialmente para la vivencia mariana. El texto de la consagración expresa una vivencia basada en los contenidos esenciales de la identidad sacerdotal, con fuertes motivaciones de actualidad:

 

“Madre Inmaculada… Esposa del Espíritu Santo, alcánzanos el don inestimable de la transformación en Cristo. Por la misma potencia del Espíritu que, extendiendo su sombra sobre Ti, te hizo Madre del Salvador, ayúdanos para que Cristo, tu Hijo, nazca también en nosotros. Y, de este modo, la Iglesia pueda ser renovada por santos sacerdotes, transfigurados por la gracia de Aquel que hace nuevas todas las cosas. Madre de Misericordia, ha sido tu Hijo Jesús quien nos ha llamado a ser como Él: luz del mundo y sal de la tierra (cfr. Mt 5,13-14)… Abogada y Mediadora de la gracia, tu que estas unida a la única mediación universal de Cristo, pide a Dios, para nosotros, un corazón completamente renovado, que ame a Dios con todas sus fuerzas y sirva a la humanidad como tú lo hiciste… Madre nuestra desde siempre, no te canses de visitarnos, consolarnos, sostenernos. Ven en nuestra ayuda y líbranos de todos los peligros que nos acechan. Con este acto de ofrecimiento y consagración, queremos acogerte de un modo más profundo y radical, para siempre y totalmente, en nuestra existencia humana y sacerdotal. Que tu presencia haga reverdecer el desierto de nuestras soledades y brillar el sol en nuestras tinieblas, haga que torne la calma después de la tempestad, para que todo hombre vea la salvación del Señor, que tiene el nombre y el rostro de Jesús, reflejado en nuestros corazones, unidos para siempre al tuyo. Así sea”.[31]

 

El texto de la homilía va entrelazando la vida sacerdotal con la vida consagrada, acentuando el común denominador del seguimiento radical de Cristo, distinguiendo, al mismo tiempo, el valor de la profesión o consagración y la representación ministerial. Citamos solamente el aspecto mariano de la vida sacerdotal:

“Cada uno de nosotros está llamado a ser, con María y como María, un signo humilde y sencillo de la Iglesia que continuamente se ofrece como esposa en las manos de su Señor… Amados hermanos sacerdotes, en este lugar especial por la presencia de María, teniendo ante nuestros ojos su vocación de fiel discípula de su Hijo Jesús, desde su concepción hasta la Cruz y después en el camino de la Iglesia naciente, considerad la extraordinaria gracia de vuestro sacerdocio… Con Ella y como Ella somos libres para ser santos; libres para ser pobres, castos y obedientes; libres para todos, porque estamos desprendidos de todo; libres de nosotros mismos para que en cada uno crezca Cristo, el verdadero consagrado al Padre y el Pastor al cual los sacerdotes, siendo presencia suya, prestan su voz y sus gestos; libres para llevar a la sociedad moderna a Jesús muerto y resucitado, que permanece con nosotros hasta el final de los siglos y se da a todos en la Santísima Eucaristía”.[32]

En resumen, la presenta activa y materna de María en la vida del sacerdote, podría concretarse en la frase conciliar (aplicada a todo apóstol): "Amor materno" como Maria (LG 65; cfr. Gal 4, 19). De ahí deriva una actitud relacional y comunional con Cristo y con la Iglesia, que se expresa, a imitación de María, como fidelidad a la Palabra y a la acción del Espíritu, asociación (amistad) con Cristo, compromiso de santificación en relación con los ministerios vividos con los "sentimientos de Cristo" (Fil 2, 5). Así se puede "reencontrar en María la Madre del sacerdocio" (Carta del Jueves Santo 1979, n.11), puesto que ella, "con su ejemplo y mediante su intercesión… sigue vigilando el desarrollo de las vocaciones y de la vida sacerdotal en la Iglesia" (PDV 82).[33]

 

 

Conclusión: Nuestro lugar sacerdotal en el Corazón materno de María

 

La participación del sacerdote ministro en el ser, en el obrar y en las vivencias de Cristo, está, pues, íntimamente relacionada con María, Madre de Cristo Sacerdote y de la Iglesia Pueblo sacerdotal. Su vocación, consagración y misión se realizan en dimensión cristológica, mariana y eclesial. Cada momento ministerial tiene un paralelismo con María, especialmente en la celebración eucarística donde se actualiza el sacrificio redentor.

 

El sacerdote ministro sirve los signos ministeriales de la maternidad de la Iglesia, actualizando la maternidad de María. Cristo se prolonga en los signos y ministerios de la Iglesia asociando a María. María ve en los sacerdotes ministros un “Jesús viviente” (San Juan Eudes), como “instrumentos vivos” de Cristo Sacerdote (PO 12).

 

Juan Pablo II, en Pastores dabo vobis, indicaba unas pistas de renovación, vividas en un "Cenáculo" permanente, en el que, gracias a la presencia activa de María, "Madre de los sacerdotes" y "Reina de los Apóstoles", tendrá lugar "una extraordinaria efusión del Espíritu de Pentecostés... La Iglesia está dispuesta a responder a esta gracia" (PDV 82).

 

Cuando se meditan las palabras del Señor dirigidas a María (“he aquí a tu hijo”: Jn 19,26), es fácil encontrar la armonía de la revelación y de la fe, que tendría lugar en el Corazón de María, al meditar en estas palabras de la oración sacerdotal de Jesús: “Ellos son mi expresión” (Jn 17,10), “los amas como a mí” (Jn 17,23), porque “yo estoy en ellos” (Jn 17,26). María vivió y sigue viviendo en esta “onda” cristológica y sacerdotal.

 

Es emocionante y programática la despedida de Juan Pablo II, en la carta del Jueves Santo de 2005, unos días antes de su muerte: “¿Quién puede hacernos gustar la grandeza del misterio eucarístico mejor que María? Nadie cómo ella puede enseñarnos con qué fervor se han de celebrar los santos Misterios y cómo hemos estar en compañía de su Hijo escondido bajo las especies eucarísticas. Así pues, la imploro por todos vosotros, confiándole especialmente a los más ancianos, a los enfermos y a cuantos se encuentran en dificultad. En esta Pascua del Año de la Eucaristía me complace hacerme eco para todos vosotros de aquellas palabras dulces y confortantes de Jesús: «Ahí tienes a tu madre» (Jn 19, 27)” (n.8).

 

Los sacerdotes ministros y los futuros sacerdotes son llamados a “amar y venerarcon amor filial a la Santísima Virgen María, que al morir Cristo Jesús en la cruz fue entregada como madre al discípulo” (OT 8). La espiritualidad sacerdotal mariana es, pues, “filial devoción y veneración a esta Madre del Sumo y Eterno Sacerdote, Reina de los Apóstoles y auxilio de su ministerio” (PO 18).

 

El Santo Cura de Ars, confió sus feligreses al Corazón Inmaculado de María, poniendo sus nombres en un corazón de plata. La relación de los bautizados con la ternura materna de María la expresaba así: "El Corazón de la Santísima Virgen María es la fuente de la que Cristo tomó la sangre con que nos redimió... En el corazón de esta Madre no hay más que amor y misericordia. Su único deseo es vernos felices. Sólo hemos de volvernos hacia ella para ser atendidos... El hijo que más lágrimas ha costado a su madre, es el más querido de su corazón... El corazón de María es tan tierno para nosotros, que los de todas las madres reunidas no son más que un pedazo de hielo al lado suyo".[34]

 

Benedicto XVI invitó a los seminaristas a confiar al Corazón materno de María el cuidado de la vocación, del ministerio y de la vida sacerdotal: “¡He aquí el secreto de vuestra vocación y de vuestra misión! Está guardado en el corazón inmaculado de María, que vela con amor materno sobre cada uno de vosotros. Recurrid frecuentemente a ella con confianza”.[35]

 

La alegría de ser sacerdote es una nota característica de su identidad, como anunciador, celebrador y comunicador del Misterio Pascual de Cristo. Por esto, “el gozo pascual” (PO 11) es parte integrante del testimonio del sacerdote y nota característica de su identidad, también y especialmente con vistas a suscitar vocaciones sacerdotales.

 

La identidad sacerdotal se concreta en el “gozo pascual” de vivir lo que uno es y hace: “El sacerdote, hombre de la Palabra divina y de las cosas sagradas, debe ser hoy más que nunca un hombre de alegría y de esperanza… «La felicidad que hay en el decir la misa se comprenderá sólo en el cielo», escribía el Cura de Ars. Os animo por tanto a reforzar vuestra fe y la de los fieles en el Sacramento que celebráis y que es la fuente de la verdadera alegría. El santo de Ars escribía: «El sacerdote debe sentir la misma alegría (de los apóstoles) al ver a Nuestro Señor, al que tiene entre las manos»”.[36]

 

La predilección de María por los sacerdotes ministros no es infravaloración de las otras vocaciones. María ama a cada redimido según la propia misión y carismas recibidos. El Papa Benedicto XVI lo resume con esta observación teológica: “De hecho, son dos las razones de la predilección que María siente por ellos: porque se asemejan más a Jesús, amor supremo de su corazón, y porque también ellos, como ella, están comprometidos en la misión de proclamar, testimoniar y dar a Cristo al mundo”.[37]

 

Con una breve oración de Juan Pablo II, se pueden resumir los deseos de la Iglesia de hoy sobre la formación, el ministerio y la vida sacerdotal, en dimensión pneumatológica, mariológica y eclesiológica: “Madre de la Iglesia, que con los discípulos en el Cenáculo implorabas el Espíritu para el nuevo Pueblo y sus Pastores: alcanza para el orden de los presbíteros la plenitud de los dones, oh Reina de los Apóstoles” (PDV 82).[38]

 



[1]La "memoria" cristiana tiene sentido cristológico, a modo de recuerdo que "actualiza" o hace que acontezcan de nuevo las palabras y gestos del Señor, su misterio pascual, para dar testimonio de él, como resucitado: "Acuérdate de Jesucristo, resucitado de entre los muertos" (2Tim 2,8). Sobre la "memoria" cristiana, ver A. SOLIGNAC, Mémoire, en: Dicionaire de Spiritualité X, 991-10002.

[2] Por su especial actualidad sacerdotal, transcribimos la nota 130 de la encíclica mariana de Juan Pablo II, Redemptoris Mater, con la referencia a San Agustín: “Como es bien sabido, en el texto griego la expresión «eis ta ídia» supera el límite de una acogida de María por parte del discípulo, en el sentido del mero alojamiento material y de la hospitalidad en su casa; quiere indicar más bien una comunión de vida que se establece entre los dos en base a las palabras de Cristo agonizante. Cfr. San Agustín, In Ioan. Evang. tract. 119, 3: CCL 36, 659: « La tomó consigo, no en sus heredades, porque no poseía nada propio, sino entre sus obligaciones que atendía con premura »”.

[3] Ver la fuente de este y de otros textos del Cura de Ars, en: Benedicto XVI, Carta para la convocación de un año sacerdotal con ocasión del 150 aniversario del Dies Natalis del Santo Cura de Ars (16 junio 2009). Ordinariamente se toman de: B. NODET, Juan-María B. Vianney, Cura de Ars. Su pensamiento y su corazón (Barcelona, Hormiga de Oro, 1994).

[4]El tema de la presencia de María es muy explícito en los documentos de Juan Pablo II, especialmente a partir de Redemptoris Mater (ver nn.1, 38, 32-32, 38, 48), donde se remite a los documentos del concilio. Ver también la encíclica Ecclesia de Eucharistia, n.57: “María está presente con la Iglesia, y como Madre de la Iglesia, en todas nuestras celebraciones eucarísticas”. Decía Germán de Constantinopla: "Puesto que sigues todavía paseándote corporalmente en medio de nosotros, lo mismo que si estuvieras aquí viva, los ojos de nuestros corazones se sienten atraídos para  mirarte todo el día... Tú visitas a todos y velas por todos... No has abandonado este mundo perecedero... sino que estás muy cercana de los que te invocan" (Oratio in Dormitionem SS. Deiparae: PG 98, 343, 346).

[5]J.M. FERRER GRENESCHE, La Virgen Maríaen la formación sacerdotal: Toletana 13 (2005) 11-29; R. SÁNCHEZ CHAMOSO, María y la vocación en la Iglesia: Seminarios 33 (1987) 221-246. Ver los estudios citados en notas posteriores, especialmente sobre la espiritualidad mariana del sacerdote.

[6] Sobre María en relación con Cristo Sacerdote: F.M. ÁLVAREZ, La Madredel Sumo y Eterno Sacerdote (Barcelona, Herder, 1968); A. BANDERA, La Virgen Maríay el sacerdocio de Cristo: Teología Espiritual 42 (1998) 35-60.

[7] Dice San Agustín: "También para María, de ningún valor le hubiera sido la misma maternidad divina, si no hubiera llevado a Cristo más felizmente en su corazón que en su carne" (Sobre la virginidad, 3: PL 40, 398, comentaLc 11,27-28: "son más bien bienaventurados"...). "Primero se realiza la venida por la fe en el corazón de la Virgen, y luego sigue la fecundidad en el seno materno" (Sermón 293,1: PL 39,1327-11328).

[8]Pablo VI, Alocución al fnal de la tercera etapa conciliar, en Santa María la Mayor, 21 noviembre 1964:AAS 1964, 1007-1018.

[9]Ver comentario de Redemptoris Mater sobre este punto, en la nota 2 del presente estudio. Cfr. M. BORDONI, La dimensione mariana del sacerdozio ordinato: Sacrum Ministerium 10 (2004) 175-205; G. D'AVACK, Il sacerdote e Maria (Milano, Ancora, 1968); A. De LUÍS FERRERAS, María, en: Diccionario del Sacerdocio (Madrid, BAC, 2005) 415-421; M. DUPERRAY, Regina Cleri: en: Maria, Études sur la Sainte Vierge (Paris, 1949-1971), III, 659-696; P. PHILIPPE, La Virgen Maríay el sacerdote (Bilbao, Desclée, 1955); E. SAURAS, Maria y el sacerdote: Estudios Marianos 13 (1953) 143‑172.

[10]Benedicto XVI, Alocución durante la Audiencia general, 12 agosto 2009: María, Madre de todos los sacerdotes.

[11]El texto está encuadrado en el contexto de toda la formación espiritual, con vistas a adquirir una “buena intención” que se traduzca en “adhesión” a Cristo y a la Iglesia, siempre con actitud de meditación de la Palabra de Dios y de celebración y adoración de la Eucaristía. En la respectiva (nota 144) del texto de 1985, se aporta una referencia bibliográfica: CIC: Can. 246, §3; Pablo VI, Exhortación Apostólica Marialis cultus, 2 febrero 1974: AAS 66 (1974), pp. 21 ss.; Juan Pablo II, encíclica Redemptor hominis, 4 marzo 1979:AAS 71 (1979), pp. 320 ss., n. 22; Carta Novo incipiente Nostro, Jueves Santo, 8 abril 1979: AAS 71 (1979), pp. 415 s., n. 11; Alocución Penso che abbiate, a los alumnos del Seminario Romano Mayor, 12 febrero 1983: Insegnamenti, VI, 1, pp. 409 ss.; (Congregazione per l'Educazione Cattolica), Lettera circolare su alcuni aspetti più urgenti della formazione spirituale nei Seminari, 6 enero 1980, p. 2l.

[12]La oración final de Pastores dabo vobis es una petición para realizar este proceso formativo con la ayuda de María: “Madre de Jesucristo, que estuviste con Él al comienzo de su vida y de su misión, lo buscaste como Maestro entre la muchedumbre, lo acompañaste en la cruz, exhausto por el sacrificio único y eterno, y tuviste a tu lado a Juan, como hijo tuyo: acoge desde el principio a los llamados al sacerdocio,  protégelos en su formación y acompaña a tus hijos  en su vida y en su ministerio, oh Madre de los sacerdotes. Amén” (PDV 82). Citamos otro fragmento de esta oración en el apartado 3.

[13] Este Directorio de la Congrgación del Clero (31 marzo 1994) añade: “La Virgen, pues, sabe y quiere proteger a los sacerdotes de los peligros, cansancios y desánimos: Ella vela, con solicitud materna, para que el presbítero pueda crecer en sabiduría, edad y gracia delante de Dios y de los hombres (cfr. Lc 2, 40)” (ibídem, 69).

[14] El discurso continúa: “El secreto de la santidad es la amistad con Cristo y la adhesión fiel a su voluntad… El seminario es un tiempo de preparación para la misión. Los Magos «se marcharon a su tierra», y ciertamente dieron testimonio del encuentro con el Rey de los judíos. También vosotros, después del largo y necesario itinerario formativo del seminario, seréis enviados para ser los ministros de Cristo; cada uno de vosotros volverá entre la gente como alter Christus… Recordad siempre las palabras de Jesús: «Permaneced en mi amor» (Jn 15, 9)… ¡He aquí el secreto de vuestra vocación y de vuestra misión! Está guardado en el corazón inmaculado de María, que vela con amor materno sobre cada uno de vosotros. Recurrid frecuentemente a ella con confianza".

[15] (Congregación para la Educación Católica): Carta circular sobre la Virgen María en la formación intelectual y espiritual (25 marzo 1988) n.33. La carta añade: “La Congregación para la Educación Católica quiere llamar de modo especial la atención de los educadores de seminarios sobre la necesidad de suscitar una auténtica piedad mariana en los seminaristas, quienes serán un día los principales agentes de la pastoral de la Iglesia” (ibídem). Se remite a los textos ya citados de OT 8 y de Ratio fundamentalis, n.34, así como a la Cartacircular sobre algunos aspectos más urgentes de la formación espiritual en los seminarios (6 enero 1980), de la que tomamos esta afirmación: “El trato con la Santísima Virgen no puede conducir sino a un mayor trato con Cristo y con su cruz. Nada mejor que la verdadera devoción a María, comprendida como un esfuerzo de imitación cada vez más completo, puede introducir… a la alegría de creer… Un seminario no debe retroceder ante el problema de dar a sus alumnos, por los medios tradicionales de la Iglesia, un sentido del misterio mariano auténtico y una verdadera devoción interior, tal como los santos la han vivido y tal como San Luis María Grignion de Montfort la ha presentado, como un «secreto» de salvación” (II,3). Cita también el Código: “Deben fomentarse el culto a la Santísima Virgen María, incluso por el rezo del santo rosario, la oración mental y las demás prácticas de piedad con las que los alumnos adquieran espíritu de oración y se fortalezcan en su vocación” (CIC can.246,§ 3).

[16]Benedicto XVI, Consagración de los sacerdotes al Corazón Inmaculado de María, Fátima, 12 mayo 2010. Ver otro fragmento de la consagración en el texto respectivo de la nota 31.

[17]Benedicto XVI,Alocución durante la celebración de las vísperas con sacerdotes, religiosos, seminaristas y diáconos, Fátima, 12 de mayo de 2010. Ver otro fragmento de esta alocución en el texto correspondiente a la nota 32

[18]Cartas del Jueves Santo (1978-2005): Fragmentos marianos en cartas de: 1979 (n.11), 1982 (n.10), 1988 (nn.4-8), 1995 (nn.3-4), 2005 (n.8 y conclusión). Ver: (Lettere Giovedì Santo) L'amore più grande. Giovanni Paolo II ai sacerdoti(Roma, Edit. Rogate, 2005). Ver la nota bibliográfica final del presente estudio, sobre Juan Pablo II y el sacerdocio.

[19] Decía San Juan de Ávila: "Si hubiese en la Iglesia corazones de madre en los sacerdotes... les daría resucitados las ánimas de los pecadores" (Plática 2ª). "Somos los ojos de la Iglesia" (ibídem).

[20] La doctrina mariana de San Juan de Ávila se encuentra especialmente en sus sermones (nn. 60-72). Su oración favorita, además del Ave María y del Magníficat, era: "Recordare, Virgo Mater, cum steteris ante Deum, ut loquaris pro nobis bona, et avertas indignationem suam a nobis" (oración recomendada en el sermón 66). Con esta oración inciaba frecuentemente sus predicaciones. Resumo la espiritualidad mariana sacerdotal de San Juan de Ávila, en:La doctrina mariológica del Maestro San Juan de Ávila: Marianum 62 (2001) 91-114.

[21]Benedicto XVI, en la conclusión de la exhortación apostólica, añade: “La Iglesia ve en María, « Mujer eucarística » —como la ha llamado el Siervo de Dios Juan Pablo II, su icono más logrado, y la contempla como modelo insustituible de vida eucarística. Por eso, en presencia del «verum Corpus natum de Maria Virgine » sobre el altar, el sacerdote, en nombre de la asamblea litúrgica, afirma con las palabras del canon: « Veneramos la memoria, ante todo, de la gloriosa siempre Virgen María, Madre de Jesucristo, nuestro Dios y Señor »” (Sacramentum Caritatis, n.96).

[22] L.M. HERRÁN, Sacerdocio y maternidad espiritual de Maria: Teo­logía del Sacerdocio 7 (1975) 517‑542.

[23] La Exhortación Apostólica postsinodal de Juan Pablo II, Pastores Gregis (2003), presenta a María como “Madre de la Esperanza” en la vida ministerial (n.3). La referencia al Cenáculo de Pentecostés, es como el espejo o icono, donde se encuentra “el lazo indisoluble entre María y los sucesores de los Apóstoles” (n.14). María es modelo de fidelidad a la Palabra y de constante referencia en la liturgia, como actitud de escucha, oración y ofrecimiento.

[24] Benedicto XVI, Consagración de los sacerdotes al Corazón Inmaculado de María, Fátima, 12 mayo 2010.

[25] San Juan de Ávila subraya la semejanza de María con el ministerio sacerdotal y también la cooperación en la redención. María "dio al Verbo de Dios el ser hombre, engendrándole de su purísima sangre, siendo hecha verdadera y natural Madre de Él" (Tratado sobre el sacerdocio, n.2). Es Madre de Jesucristo, el Hijo de Dios. Está asociada a él como "Esposa del Verbo eterno" (Sermón 65/1), de quien es "madre y esposa" (Plática 15ª; cfr. Sermón 70), asociada a su obra redentora como "nueva Eva" (cfr. Sermones 60, 63 y 67). "Conocer" a María equivale a conocer Cristo como Redentor, "conocer nuestro Redentor y nuestro remedio" (Sermón 60). Todo lo que tiene María es "para que ayude al segundo Adán, que es Jesucristo, para ayudarle en la redención y a recoger las ánimas por quien Él derramó su sangre" (ibídem). La humanidad o "santísima carne" salvífica de Cristo, "con cuyos trabajos y muerte fuimos redimidos, podemos decir que fue carne de la Virgen, pues que ella se la dio y la mantuvo" (Sermón 68). Así, pues, "nuestra bendita mujer fue criada para que ayudase al segundo Adán, Cristo, a restaurar lo que el primer hombre y mujer echaron a perder" (ibídem). Todos los redimidos y especialmente los sacerdote ministros, somos, pues, "hacienda de sus entrañas" (Sermón 70).

[26]Pío XII, Menti nostrae 124.

[27] En los estudios sobre la espiritualidad mariana del sacerdote, se alude frecuentemente la base teológica y formativa: F.M. ÁLVAREZ, María y la Iglesia: espiritualidad mariana sacerdotal: Seminarios 33 (1987) 465-475; G. CALVO, La espiritualidad mariana del sacerdote en Juan Pablo II: Compostellanum 33 (1988) 205-224; E. DE LA LAMA, La Madrede Jesús en el kerigma de Pablo. Para el estudio del perfil mariano de la espiritualidad sacerdotal: Scripta de Maria 3 (2006) 89-130; J. ESQUERDA BIFET, María en la espiritualidad sacerdotal, en: Nuevo Diccionario de Mariología (Madrid, Paulinas 1988) 1799-1804; Espiritualidad mariana(Valencia, EDICEP, 2009) cap.VIII, 4 (María y la vocación sacerdotal); N. GARCÍA GARCÉS, María y la espiritualidad de los ministros ordenados, en: Espiritualidad sacerdotal, Congreso (Madrid, EDICE 1989) 263-282; L.M. HERRÁN, María en la espiritualidad sacerdotal según la doctrina del Vaticano II: Annales Theologici 3 (1989) 347-370; A. HUERGA, La devoción sacerdotal a la Santísima Virgen: Teo­logía Espiritual 13 (1969) 229‑253; J.L. ILLANES, Espiritualidad y sacerdocio (Madrid, Rialp, 1999); B. JIMÉNEZ DUQUE, Maria en la espiritualidad del sacerdote: Teo­logía Espiritual 19 (1975) 45‑59; C. RODRÍGUEZ, María en la vida espiritual del sacerdote: Revista espiritual n.57 (1977) 50‑56; J. SARAIVA, Santità mariana del sacerdote, en: (Congregazione per il Clero) Sacerdoti, forgiatori di santi per il nuovo millennio sulle orme dell'apostolo Paolo. Atti del VI Convegno Internazionale dei sacerdoti (Malta, 18-23 ottobre 2004) 100-113.

[28] Ver éstos y otros textos marianos en su contexto: PO 19; OT 8; can. 246, 276; PDV 36, 38, 45, 82. En la exhortación apostólica Pastores gregis: nn.3,13, 14-15, 36, 74.

[29] Benedicto XVI, Alocución durante el rezo del Ángelus, 12 agosto 2009.

[30] La recomendación que hizo posteriormente Benedicto XVI, es aplicable  de modo especial a los sacerdotes ministros: “Esforzándose por tener los mismos sentimientos de María, ayudan a toda la comunidad a vivir como ofrenda viva, agradable al Padre... De Ella hemos de aprender a convertirnos en personas eucarísticas y eclesiales” (Exhortación Apostólica  Sacramentum Caritatis 96).

[31]Consagración de los sacerdotes al Corazón Inmaculado de María, Fátima, 12 mayo 2010 (consagración repetida en la Plaza de San Pedro, al finalizar el Año Sacerdotal, 11 junio 2010). Ver otro fragmento de la consagración en el texto correspondiente a la nota 16.

[32]Alocución durante la celebración de las vísperas con sacerdotes, religiosos, seminaristas y diáconos, Fátima, 12 mayo 2010. Ver otro fragmento de la alocución en el texto correspondiente a la nota 17.

[33] San Juan de Ávila subraya la semejanza de María con el sacerdote ministro,  por "el ser sacramental que el sacerdote da a Dios humanado", no sólo una vez, sino frecuentemente (Tratado del sacerdocio, n. 2). Por esto, María considera a los sacerdotes como parte de su mismo ser materno: "Los racimos de mi corazón, los pedazos de mis entrañas" (Sermón 67). De ahí el significado de la castidad o virginidad sacerdotal (cfr. Tratado del sacerdocio, n.15).

[34]Sobre la fuente de estas afirmaciones del Santo Cura de Ars, ver la nota 3 y también: Juan XXIII, Sacerdotii nostri primordia (encíclica con ocasión del primer centenario de su muerte, 1959).

[35]Discurso a los seminaristas, Colonia, Jornada Mundial de la Juventud, 19 agosto 2005.

[36] Benedicto XVI, Video conferencia, Retiro en Ars, 28 septiembre 2009.

[37]Benedicto XVI, Alocución durante el rezo del Ángelus, 12 agosto 2009.

[38]Se podría hablar de una herencia sacerdotal de Juan Pablo II, que tiene gran dimensión mariana. Además de las notas anteriores, ver: AA.VV., Il contributo di Papa Giovanni Paolo II alla formazione dei candidati al sacerdozio: Seminarium 46/4 (2006); AA.VV., Studia in honorem Caroli Woytyla, Angelicum 56 (1979) fasc. 2-3; J.A. ABAD., Juan Pablo II al sacerdocio, Pamplona 1981; R. BERZOSA MARTÍNEZ, Siete perfiles de la identidad sacerdotal en el magisterio de Juan Pablo II, Surge 51 (l993) 348-358; J. BRAMORSKI, L'identità sacerdotale alla luce del pensiero di Giovanni Paolo II: Angelicum 80 (2003) 369-401; G. CALVO, La espiritualidad mariana del sacerdote en Juan Pablo II, Compostellanum 33 (1988) 205-224; M. CAPRIOLI, Il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale nel pensiero di Giovanni Paolo II: Lateranum 47 (1981) 124-157; Catequesis sobre el presbiterado y los presbíteros, Madrid, Palabra 1993 (Audiencias generales: 31 de marzo a 29 de septiembre 1993): J. ESQUERDA BIFET, Identidad apostólica: transfondo histórico de la carta de Juan Pablo II a los sacerdotes. Teol. del Sacerdocio 12 (1980) 107-149; S. GAMARRA, Juan Pablo II ante el sacerdocio: Surge 36 (1978) 503-525; J. GARCÍA VELASCO, Juan Pablo II y el Seminario: Seminarios 79 (1981) 11-54; J. GOICOECHEAUNDÍA, El pensamiento de SS. Juan Pablo II sobre el sacerdocio: Surge 38 (1980) 179-189; 39 (1981) 51-62; JUAN PABLO II, Don y misterio. En el quincuagésimo aniversario de mi sacerdocio, Madrid, BAC, 1996; (Lettere Giovedì Santo) L'amore più grande. Giovanni Paolo II ai sacerdoti, Roma, Edit. Rogate, 2005 ; L.J. LEFEVRE, La lettre de Jean Paul II aux prêtres de l'Eglise. Appendice: A propos de l'accueil fait à la lettre de Jean Paul II: La Pensée Catholique 180 (1979) 5-21 ; J.A. MARQUES, O Sacerdocio Ministerial no Magisterio de Joâo Paolo II: Theologica 15 (1980) 81-224 ; A. PÉREZ BUSTILLO, La experiencia oracional en el magisterio pastoral del presbítero según las enseñanzas de Juan Pablo II: Revista Teológica Limense 42 (2008) 5-34; L.G. RAMÍREZ, El espíritu sacrificial oblativo en la vida y ministerio del presbítero, según el magisterio de Pablo II, Roma, Teresianum, 2000 (Tesis); J. SARAIVA MARTINS, La formazione sacerdotale oggi nell'insegnamento di Giovanni Paolo II. Lib. Edit. Vaticana, 1997 ; M. VINET, Le prêtre et sa mission dans l'enseignement du Papa Jean Paul II: Bulletin de Saint Sulpice 8 (1982) 63-76.

 

JUAN ESQUERDA BIFET

 

 

 

HEMOS VISTO SU GLORIA

 

EI camino de la contemplación según san Juan

 

Presentación

 

Cuando leemos el evangelio de Juan, nos sentimos invitados a descubrir las huellas del Señor resucitado en nuestro caminar de todos los días. Estas huellas 0 "signos" del paso de Cristo se encuentran también fuertemente impresas en la vida de todo ser humano.

 

Podemos hacer la prueba abriendo al "azar" cual~ quiera de esas páginas irrepetibles en que se narra un encuentro con Cristo. 'Cada uno se siente espontáneamente dentro de un drama, como interlocutor actual de Cristo. La lectura se convierte entonces en vivencia personal. Los latidos del corazón de Cristo todavía se perciben en sus palabras, siempre jóvenes, y en sus gestos, siempre cercanos, como de quien hace suyos nuestros sufrimientos, gozos, dudas y esperanzas.

 

Los problemas de nuestro existir humano concreto solo se iluminan "en el rostro de Cristo" (2Cor 4,6). En el evangelio de Juan es el rostro cercano y la mirada cariñosa de un amigo, a quien no Ie resulta indiferente ni anodino un solo momento de nuestro existir. En este rostro y en esta mirada descubrimos, por una parte, el misterio de Dios amor, y, por otra, el misterio de todo hombre, que sigue expresando, de un modo u otro, un deseo tan profundo como humanamente inexplicable: "Queremos ver a Jesús" (In 12,21).

 

La afirmaci6n clave de Juan refleja su propia ex~

 

periencia de encuentro con Cristo: Hemos visto su gloria (In 1,14). Pero es una experiencia que se repi­te en cada ser humano que se deja interpelar por Cristo. En efecto, el evangelio queda abierto hacia el futuro, como queriendo continuar los encuentros irrepetibles que deben hacerse realidad en cada hombre. Tanto los amigos de Cristo como sus perse­guidores, y aun quienes aparentan hablar con indi­ferencia, han sido "tocados" amorosamente por el. En este sentido podemos decir que el evangelio lo seguimos escribiendo todos en el caminar de nuestra vida, donde el gran protagonista va dejando sus "signos" 0 huellas de enamorado.

 

La sed de Dios, que se nota en cada persona, pue­blo, cultura y religi6n, tiene una expresi6n caracte­rística, que el mismo Dios sembró en todo corazón: "Muéstrame tu rostro" (Ex 31,18). La dinámica de la búsqueda de Dios es la expresión más auténtica de la historia humana, aunque siga estando ausente en muchas publicaciones "hist6ricas".

 

Nadie nos puede suplir en nuestra experiencia personal de encuentro con Cristo. Y tampoco nada ni nadie puede sustituir a Cristo como camino y como meta de una búsqueda sobre el sentido de nuestra existencia humana. Solo el da sentido al cosquilleo de nuestra interioridad y a la responsabi­lidad de un compromiso personal y comunitario. Los métodos e ideas que quisieran suplir al Señor, aunque se presentaran con la etiqueta de la "con­templación", de la "cosmovisión" y del "compromi­so", no harían mas que agrandar el vacio y aumen­tar los errores de nuestra vida personal y social. El camino de esta búsqueda es personal y, por tanto, intransferible e irrepetible; pero es también y esen­cialmente un camino comunitario de todos los her­manos, que deben llegar a ser la comunidad eclesial de redimidos por Cristo.

 

La dinámica de Hemos visto su gloria es como un

 

"drama", que se repite en cada página del evangelio de Juan y en cada recodo de nuestro camino de pere­grinas. En los personajes de Juan, como en los de nuestros días y en nosotros mismos, tiene lugar un forcejeo entre la luz y las tinieblas. Es la tensión de la fe en Cristo, que se resuelve en un encuentro per­sonal, y de la aceptación de su mensaje: "Para que creáis" (In 20,31).

 

A pesar del deseo innato que forcejea en cada co­razón humano ("queremos ver a Jesús"), parece como si uno se adentrara en un callejón sin salida: "A Dios no le ha visto nadie" (In 1,18). Es la impre­si6n producida por los signos pobres de la presencia y de la palabra de Jesús. Necesitamos esta experien­cia, que corre a la par con la experiencia de nuestra propia pobreza, puesto que es la única que puede acabar con tantos castillos de naipes y tantos espejismos que nosotros nos empeñamos en calificar de planes maravillosos. Solo cuando aceptamos nues­tra propia limitación sentimos cercano a Cristo: "EI Padre os ama"(Jn 16,27); "quien me ve a mi, ve al Padre" (In 14,9); "nadie viene al Padre sino por mi" (In 14,6)...

 

Verdaderamente, en Cristo cercano descubrimos que "Dios es más grande que nuestro corazón" y que nuestros planes (1 In 3,20), porque "el nos ha amado primero" (l Jn 4,19). La "luz inaccesibIe" (1Tim 6,16) se va haciendo luz: "En tu luz hemos visto la luz" (Sal 35,lO). En Jesús, que es "la luz ver­dadera", que disipa las tinieblas e "ilumina a todo hombre" (In 1,9), descubrimos que "Dios es amor" (l In 4,8.16). Siguiendo la invitación de Jesús, que se nos ha hecho encontradizo, nuestra contingencia y circunstancias de cada día dejan traslucir la tras­cendencia de un Dios amor, para quien nuestro existir ya forma parte cariñosamente de su misma vida eterna: "Llévame, luz admirable" (J. H. New­man).

 

En este encuentro vivencial con Cristo se aprende a pasar con él, a partir de un "éxodo", a través de un "desierto", para llegar a la unión 0 encuentro en el lugar y en el tiempo preparado por el Padre, es decir, en la nueva Jerusalem. Jesús nos invita a vivir su "pascua", que es también la nuestra, de "pasar de este mundo al Padre" (In 13,1).

 

Con esta perspectiva de camino de perfección, que es camino de experiencia y de encuentro contempla­tivo, comprendemos como en Jesús se resumen to­dos los "signos" de la historia de salvación: es el cordero pascual, el tabernáculo, la serpiente de bronce, el mana, el agua que brota de la roca... Pero lo más maravilloso del caso es que ahora estos sig­nos de su presencia y cercan{a salvífica se nos hacen presentes en nuestras circunstancias históricas, asu­midas esponsalmente por él como suyas. En el evan­gelio de san Juan aprendemos la actitud contempla­tiva de ver siempre un "más allá" de las cosas. A Cristo le encontramos en la enfermedad, la humilla­ción, la marginación, la soledad, el servicio humilde y anónimo, el trabajo cotidiano... Todo se convierte en pascua o"paso" hacia una nueva creación, que se fragua en la historia de todos los d{as.

 

La historia humana se hace historia de encuentro con Dios en el propio coraz6n, en la comunidad y en la creación 0 cosmos. Es una historia de encuen­tro con Dios amor (In 3,16; 1 In 4,8.16). Nuestro, historia se hace al compás de nuestra capacidad de encuentro con Dios y de donación a los hermanos.

 

El evangelio se sigue realizando en nuestras cir­cunstancias, donde experimentamos la mirada, la llamada y la cercanía cariñosa de Cristo. Es allí don­de resuena de modo nuevo la palabra inspirada de los textos escriturísticos. En este encuentro de todos los d{as.. Cristo nos declara su amor, que no tuvo principio ni tendrá fin. Desde el día de la Anuncia­ción

 

 somos una página de su biografía. Este encuen­tro vivencial da inicio a un "más allá", que ahora es solo proyecto de "vida eterna", pero que un día será visión y plenitud. De este encuentro inicial hay que hacer un programa de vida para siempre, que co­mience, ya desde ahora, a unificar el corazón, relacionándolo sin complejos ni reservas con Dios y con los hermanos. Esta unidad de vida es el camino y la meta de la contemplación según el evangelio de Juan.

 

La vida se va haciendo encuentro y donación a Cristo, que vive en cada ser humano y que aguarda en cada acontecimiento. La existencia se vive en cla­ve de donación: en Cristo, don de Dios amor para todos los hombres, se aprende a abrir la propia exis­tencia al amor (Jn 3,16; 4,10). El propio "yo" se abre al mundo nuevo de la caridad. El hombre reencuen­tra su propia identidad dándose (GS 24).

 

La aventura de aprender a amar a Cristo día a día es un estreno permanente del amor. Las exigencias de la vida cristiana solo se pueden entender y vivir a la luz y al calor de esta aventura de encuentro coti­diano con Cristo.

 

Auscultar y vivir en sintonía con el amor de Cris­to equivale a restaurar el propio corazón, la propia comunidad, la propia cultura y el propio pueblo, ayudando a salvar a todos de caer en la gangrena de una dispersión estéril. A la creación, a las culturas y a los pueblos se les comienza a destruir cuando falta la interioridad de un corazón unificado. Pero esta unificación solo es posible a partir del encuentro vi­vencial y cotidiano con Cristo, que nos hace capaces de realizar el mandamiento del amor.

 

Para saber pasar las páginas de un período histó­rico como es la encrucijada de un milenio hay que reestrenar continuamente un encuentro con Cristo que haga fecundo el salto en el "vado" de arriesgar­

 

lo todo por él. Esta opción fundamental vale la pena, porque dejara huellas indelebles en la historia de la humanidad.

 

Hemos visto su gloria es el resumen de la expe­riencia de Juan, el discípulo amado. Y es también el resumen de nuestra experiencia cristiana. Es una experiencia semejante a Hemos conocido el amor (1 In 3,16). En Jesús descubrimos al Hijo de Dios, el Verbo, que desde nosotros y en nosotros hace de su vida y de la nuestra una mirada amorosa y comunitaria al Pa­dre. Es la vida nueva en el Espíritu.

 

Jesús construye esta unidad del "si" a Dios y a los hermanos haciendo primero de "los suyos" la trans­parencia, el testimonio y el instrumento para que toda la humanidad sea partfcipe del don de Dios. Somos la Iglesia "sacramento", es decir, el espacio en que Cristo continua haciéndose presente y cerca­no bajo "signos" pobres, a fin de que todos los hombres puedan experimentar el encuentro con él:

 

Hemos visto su gloria.

 

Jesús se hace camino para cada uno en un proce­so contemplativo que, en el Espíritu Santo, lleva ha­cia el Padre. La vida de cada persona, como conti­nuación del evangelio, es un camino de amistad con Cristo, de contemplaci6n del Verbo como expresión

 

o "gloria" de su amor, bajo los "signos" pobres de nuestras circunstancias personales y comunitarias.

 

La historia salvífica que  nos narra Juan, el discí­pulo amado. comenzó hace dos mil años, pero reco­giendo unos amores y una mirada eterna en el seno de Dios: la Palabra siempre "vuelta hacia el Padre". Es la Palabra que, desde el principio de la creación, ha dirigido la historia humana; que es, por ello mis­mo, historia de salvación. Desde el día en que esta Palabra fue anunciada a María, la Palabra 0 Verbo se hizo carne (hombre), es decir, hermano nuestro. El "si" de María fue el "si" querido por Dios, como

 

figura y anticipación de todos los "sies" de personas y comunidades que posteriormente se encontrarían con Cristo, elHijo de Dios hecho hombre.

 

He elaborado este "comentario" al evangelio se­gún san Juan intentando describir cómo el Verbo encarnado penetra, en cada época, en el corazón de cada hombre que se abre al amor. Me parece ver, en todas partes que el evangelio del discípulo amado se sigue viviendo y realizando en esos casi innume­rables corazones que se han decidido a hacer de la vida un camino de contemplaci6n, es decir, de amor esponsal, de amistad, de totalidad y de compromiso radical. En estos corazones, que se transparentan en tantos rostros anónimos, he ido releyendo el texto inspirado del evangelio de Juan. A partir de esta "relectura", he puesto en unas pobres líneas algo de lo mucho que he aprendido de ellos y que yo mismo no se corno explicar. Pienso en tantas vidas an6ni­mas en el seno de las familias, comunidades, claus­tros, campos de misión, investigación teológica, su­frimiento, marginación, olvido... Su vida se está escribiendo como un nuevo evangelio, no con pala­bras "inspiradas", pero si con palabras imborrables, en el corazón de Dios, a quien sólo conoceremos de verdad en el "más allá".

 

He aprendido también a leer a san Juan a través de la vivencia de los santos, que resumí en una pu­blicación anterior (Testigos del encuentro). He apro­vechado las reflexiones de los mejores comentaristas actuales, a los que cito en la orientación bibliográfi­ca. He redactado mis reflexiones intentando leer el evangelio "hecho carne" en el misterio de tantas vi­das cristianas, casi siempre anónimas, de toda cultu­ra, raza y condición, en cuyas pupilas he visto refle­jado el gozo indecible de haber encontrado a Cristo.

 

El año 2000 es un nuevo hito y, a la vez, un reto, en el camino humano y eclesial, cuando los hombres

 

de todas las latitudes buscan a Dios en el rostro de Jesús, que vive en su Iglesia. Hoy, en el cruce de dos

 

Introducci6n a la lectura contemplativa de Juan

 

milenios, san Juan escribiría de nuevo la frase llena de sentido contemplativo, comunitario y misionero:

 

Hemos visto su gloria.

 

Cristo sale al encuentro

 

Juan es una voz cualificada en el coro de los testi­gos del encuentro con Cristo. Es verdad que en cada documento escriturístico resuena la misma palabra de Dios, que se encuentra en todos los demás escritos inspirados. Por esto a san Juan hay que leerlo en armonía con toda la revelaci6n cristiana, que ahora encontramos en la Sagrada Escritura y en la tradi­ción de la Iglesia. Pero en élencontramos algo pe­culiar: la insistencia en "ver" a Cristo, encontrarle, estar con él, conocerlo, tenerlo, amarlo, tocarlo, per­manecer en él... Juan nos cuenta retazos de vida que son otros tant6s encuentros con Cristo.

 

El evangelio según san Juan está escrito para que cada uno de nosotros descubra y encuentre a Cristo en su propia circunstancia. A "Jesús de Nazaret" le encontramos en nuestro "Nazaret" (Jn 1,45-51). Cristo se hace presente e interlocutor aquí y ahora; deja resonar su palabra y se deja entrever bajo sig­nos, en el propio corazón y en la comunidad en que uno vive. Pero hay que saber leer y ver, aleccionados en la escuela del Espíritu de amor: "Si alguno me ama, yo me manifestare a él" (Jn 14,21). La expe­riencia de encuentro contemplativo y amistoso con Cristo no es exclusiva de nadie, puesto que Jesús es "la luz que ilumina a todo hombre" (Jn 1,9).

 

13

 

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El evangelio del "discípulo amado" refleja el ca­minar de la Iglesia peregrina, que aprende a encon­trar a Cristo en cada recodo del camino. Hay que saber leer el evangelio para creer y tener vida en Cristo Un 20,31). Y hay que releerlo prolongado en cada época, en cada comunidad, en cada situaci6n humana y en la vida irrepetible de cada persona. Hay que leerlo como lo han leído los "místicos", es decir, los "enamorados" de Jesús.

 

Los servicios técnicos y las reflexiones teol6gicas, asi como la exegesis textual y estructural, deben res­petar la iniciativa siempre actual de la palabra de Dios, sin condicionamientos personalistas y "cultu­rales". La verdadera exegesis y teología deja siempre abierto el paso al encuentro personal de cada uno con el Verbo hecho carne. A Cristo, la palabra del Padre, se Ie encuentra en armonía y "comuni6n" con la predicaci6n, celebraci6n y vivencia de la Igle­sia, donde el se esconde y se manifiesta, ahora tam­bién bajo "signos" pobres de humanidad prolonga­da en el tiempo. El Verbo 0 Palabra, meditada así en el coraz6n y en el grupo de hermanos, no hace secta, sino que construye la comunidad universal.

 

Cada palabra del evangelio es una mirada de Cris­to, un latir de su coraz6n, una Hamada actual a en­tablar una relaci6n amistosa y a tomar una opci6n fundamental. El evangelio se hace siempre lectura "apasionada", porque es nuestra misma historia que se va escribiendo en los diferentes encuentros con Cristo. Juan escribi6 el evangelio para impreg­nar el mundo con la palabra de Dios amor. El hom­bre, la historia y el mundo ya no tienen sentido sin Cristo, que es el centro de todas las cosas.

 

Juan escribi6 .el evangelio para dejarnos la pala­bra viva de Cristo resucitado, que sigue presente en­tre nosotros. Escribi6 para que creyéramos en el Hijo de Dios /Jn 20,31), es decir, a fin de que nues­tra vida se hiciera encuentro y aceptaci6n vivencial

 

de la persona y del mensaje de Jesús. La palabra "creer", que se repite unas den veces en el evangelio de Juan, es una tensi6n que se va manteniendo a lo largo de toda la narraci6h, como interpelando a cada uno desde lo hondo del propio ser.

 

Juan nos cuenta propiamente la "glorificaci6n" de Jesús en su carne. Jesús se hace "visible" a los creyentes, como única revelaci6n plena, para trans­formarlos en hermanos suyos e hijos de Dios, parti­cipantes de su misma vida divina. La caridad, como vida divina comunicada, libera y diviniza al hom­bre. Cada uno se siente llamado por su nombre a participar en esta vida (Jn 10,3ss). La comuni6n con Dios se hace comuni6n con los hermanos.

 

El evangelio de Juan da a entender la presencia actual de Cristo en nosotros y de nosotros en el, que invita a la armonía y equilibrio entre la vida con­templativa y activa, asi como entre los dones recibi­dos de Dios y la c:omunidad 0 instituci6n creada y animada por el mismo Cristo y por su Espíritu en­viado por eI.

 

En toda época y situaci6n humana, los problemas nuevos encuentran nueva luz en la palabra de Dios, que es el mismo Jesús. Pero Dios sigue teniendo la iniciativa sobre su Palabra y no la deja manipular por nadie. Para hacer entrar la Palabra en una cul­tura ("inculturaci6n") o en una situaci6n y proble­ma humano ("encarnaci6n"), hay que profundizar primero la misma Palabra a la luz de la fe con una actitud de contemplaci6n. El evangelio, escrito, pre­dicado, leído y meditado, procede siempre de la es­cuela del Espíritu Santo.

 

Contenido doctrinal

 

EI mensaje de Juan es transparente: Dio$ nos ama porque es amor Un 13,16; 1 In 4,8.16); hay que creer

 

en el arnor, aceptando a Cristo Hijo de Dios hecho nuestro hermano Un 1,14; 1 In 4,16); nuestra fe y encuentro con Cristo se demostrani en el amarnos como el nos amo (Jn 13,34; 1Jn 4,l1ss). Este es el "conocer" amando o conocer "contemplativo", que libera a la persona de toda opresión interna y externa.

 

Todo el mensaje joánico se resume en el mismo Jesús, que es el Hijo y la Palabra de Dios, hecho hombre por nosotros. El es la Palabra y revelación definitiva de Dios a la humanidad. El es el revelador y la revelación (Jn 1,18). Viene a nosotros como unigénito del Padre, para transmitirnos la vida nueva en el Espíritu Santo. EI mismo Jesús es el don de Dios a todo hombre; pero hay que acogerlo con fe, desde lo hondo del coraz6n y comprometiendo toda la existencia. Es el salvador del mundo (Jn 4,42). Nos revela el misterio de Dios y el misterio del hombre. Personifica y lleva a plenitud la ley, los profetas y todos los valores del Antiguo Testamento.

 

Jesús, revelándonos al Padre y comunicándonos el Espíritu Santo, reafirma su identidad. Su ser mas intimo es siempre de "mirada" u orientaci6n hacia e Padre en el Espíritu (Jn 1,1). Su retorno al Padre es a través de su muerte, expiatoria de nuestros pecados, y a través de su resurrecci6n, fuente de nuestro nuevo nacimiento. A la luz de su "pascua" (paso al Padre), Jesús anuncia y comunica la nueva creación

 

o vida nueva en  e1 Espíritu para todos los hombres de todas las épocas. Jesús sale al encuentro de cada hombre para decirle: "Yo soy..... la luz, el pan, la vida, la verdad, el camino, la puerta, el buen pastor, la resurrecci6n... La encarnaci6n del Verbo (Jn 1,14) ha hecho posible el misterio de la pascua y el envío del Espíritu Santo (Jn 20,22).

 

La Iglesia o comunidad de creyentes, creada por Jesús y animada por su Espíritu, es como su prolongación en el tiempo y la expresi6n de su amor: es su

 

grey 0 rebaño (Jn 10), los sarmientos de la vid (Jn 15), su esposa (cfr. Jn 3,29 yAp). En esta comunidad, Jesús deja unos signos de su presencia activa y amo­rosa: Pedro, la misi6n apost6lica de los doce, el bau­tismo, la eucaristía, el perd6n, la palabra... Pero Jesús sigue siendo siempre el centro imprescindible de su comunidad ("los suyos"), que debe pasar con él hacia el Padre.

 

 La Iglesia enraíza en la encarnaci6n del Verbo yes, por ello mismo, el signo visible del desposorio del Verbo con la humanidad y el signo portador de la presencia de Dios entre nosotros (Ap 21,3-4; Ex 33,7-11).

 

La narraci6n evangélica de Juan se desenvuelve a través de un dinamismo en forma de espiral. Las ideas se profundizan para llegar al centro (Cristo re­sucitado, Hijo de Dios) y luego elevarse indefinida­mente mas y mas. Lo importante es presentar continuamente a Dios, que nos da a su Hijo por amor, y que reclama nuestra fe de encuentro con ély de do­nación a el y a los hermanos. En su "carne"  humillada y glorificada (muerte y resurrecci6n) descubri­mos su divinidad. EI hombre es llamado a entrar en la vida intima de Dios amor. EI amor viene de arri­ba, Se recibe gratuitamente, para hacerse compromiso de donaci6n a los hermanos y lugar de encuentro con la Trinidad.

 

El dramatismo del evangelio de Juan aparece en las reacciones diferentes ante la persona y el mensaje de Jesús. A veces es la lucha entre la luz las tinieblas. Siempre es el drama de la fe, que continua en la Iglesia como signo de contradicci6n. María personifica a la Iglesia como "la mujer" creyente, asocia­da esponsalmente a Cristo.

 

La fe viva

 

Desde el pr6logo (Jn 1,7) hasta la conclusi6n (In 20,31), Juan urge continuamente a la fe como en­cuentro

 

vivencial con Cristo y como aceptaci6n in­condicional de su mensaje. La palabra "creer" se re­pite casi cien veces. EI problema que se plantea al creyente es e1 de aprender a discernir los "signos" en los que Cristo muestra su "gloria", es decir, su rea­lidad de hijo de Dios y salvador. Hay momentos dramáticos en la narraci6n evangélica que reflejan las situaciones del existir humano, también el nuestro.

 

La fe de que habla Jesús es iniciativa de Dios y don suyo. Pero reclama una respuesta que compro­mete todo el ser, a modo de opd6n fundamental para siempre. Es una ((mirada" relacional a Cristo, a su persona y a su mensaje. En Cristo, la historia ha tomado definitivamente el rumbo de una nueva creaci6n. A Cristo se Ie descubre en su humanidad e historia concreta: se hace encontradizo en nuestro caminar hist6rico y circunstancial. Cristo espera el "si" de nuestro coraz6n a sus palabras y hechos sal­vificos, que tienen valor permanente y actual. Jesús origina la "crisis" de los "ultimos" tiempos para reorientar toda la historia humana hacia el amor.

 

Por la fe, la vida humana recupera su sentido pro­fundo, como vivencia existencial de un presente que comienza a seT vida para siempre. Dios, hecho hom­bre, hace posible este paso continuo hacia el "más allá", desde la raíz del aquí y del ahora. Es el cami­no de todo el hombre y con todas sus circunstancias hacia la verdad y la vida eterna.

 

El programa de la fe, que a veces se hace drama, lo ha trazado el mismo Jesús: creer que el Hijo de Dios se ha hecho hombre para perdonar nuestros pecados y para. darnos una vida nueva en el Espíritu por medio de su muerte expiatoria, que florece en resurrecci6i1 gloriosa. Esta fe se expresa en el man­damiento del amor, porque es adhesi6n personal al mensaje y a los amores de Cristo, que hace de su vida

 

una donaci6n sacrificial al Padre y a los hermanos.

 

Es, pues, un proceso de irtomando conciencia de Cristo resucitado presente, para entrar en una amis­tad comprometida con el. Vamos "pasando" de la muerte a la vida, de las tinieblas a la luz, de la nada a la vida nueva, de la incredulidad a la fe, porque caminamos con Cristo en su paso pascual hacia la cruz y la glorificaci6n. Nos apoyamos en los "sig­nos" que el mismo Jesús nos ha dejado de su pre­sencia actual: su palabra, su eucaristía, sus testigos... Así nos vamos haciendo comunidad de creyentes (Iglesia), que reflejan la "comuni6n" de amor y uni­dad entre el Padre, e1 Hijo y el Espíritu Santo.

 

La fe fundamenta nuestra esperanza, porque nace del amor de Dios y lleva a su amor y al amor de los hermanos. Así es la síntesis del evangelio según san Juan: "EI Padre os ama porque me amáis" (Jn 16,27). Por esto hay que dejar hablar a los textos evangélicos sin interpretaciones anacr6nicas ni téc­nicas atrofiantes. Basta con dejar "encarnar" o reso­nar la palabra de Dios en nuestras circunstancias, como palabra pronunciada para todos los hombres y para todos los tiempos, que debe crear una comu­ni6n de hermanos sin antagonismos ni fronteras. Dios sigue pronunciando su palabra en un tiempo y en un espacio concreto, pero para trascender al mundo, que debe edificarse sobre el mode1o de la donaci6n sacrificial de Cristo buen pastor. Sólo por estas líneas maestras del evangelio de Juan es posi­ble hacer la relectura de la Palabra en cada situaci6n hist6rica concreta.

 

EI testimonio apost6lico de Juan el evangelista (Jn 20,31; 21,24), como el nuestro, se convierte en instrumento del Espíritu, para que otros crean en Jesús y entren en la comuni6n de vida divina por el bautismo (el agua) y la eucaristía (la sangre) (IJn 5,6-8).

 

No se puede encontrar a Cristo a1 margen de los signos pobres de su presencia, que é1 mismo ha dejado en 1a Iglesia, y cuya eficacia él mismo garan­tiza por medio del pastoreo o testimonio apostólico. "Queremos ver a Jesús" (In 12,21) es el grito y e1 deseo de todo hombre de buena vo1untad que nece­sita e1 servicio o ministerio de los apósto1es.

 

Cronología, vocabulario, distribución del texto

 

El texto joánico refleja también el ambiente eclesial de fi­nales del siglo I: algunas dificultades internas de la comunidad (¿las primeras sectas?) y la persecución por parte de los opositores. En realidad deja entrever la prob1ematica fundamental de todos los tiempos.

 

La tradición ha localizado la última redacción del evangelio hacia e1 ano 90, tal vez en Éfeso. Si ante­riormente haya habido diversas redacciones del texto, Juan ha sido siempre la autoridad apostólica res­ponsable. Esta tradición se basa en san Ireneo (naci­do hacia 130-140) y se hace opinión común hacia e1 ano 180. Juan, el autor del evangelio, es el "discípu­lo amado" (In 13,23; 19,27; 20,3-8; 21,7.20-23).

 

Se le ha llamado "evange1io espiritua1" (Clemente de Alejandria), como de quien ve mas allá de los "signos". Es el "ver" guiado por el Espíritu de amor. Por esto el lenguaje de Juan es el de todos los "misticos". Usa las pa1abras de 1a amistad y del amor: ver, creer, amar, acoger, venir, seguir, encon­trar, mirar, permanecer, experimentar... De este mo­do, en la humanidad de Cristo se descubre su "glo­ria" de Hijo de Dios hecho nuestro hermano. Por .esto e1 vocabulario de Juan es peculiar, y hay que entenderlo en su propio contexto: camino, verdad, pan, 1uz, vida, hora, mundo, gloria, signos, parácli­

 

to (consolador, abogado...), Palabra, "yo soy"...

 

El contexto cultural de Juan es veterotestamenta­rio

 

y judaico, con algunas expresiones helénicas, que no desvirtúan 1a línea de 1a reve1ación cristiana.

 

En e1 orden o distribuci6n del texto evangélico se observan unos fragmentos o partes muy claras: el pr6logo (In 1,1-18), los signos de la vida de Cristo, la pascua, e1 epílogo (c. 21). Es difici1 precisar los limites exactos, tal vez porque ha habido transposi­ción de textos. Todo e1 evangelio sigue e1 hilo con­ductor de Jesús que va a la pascua (su hora: muerte y resurrección), donde realizará 1a nueva alianza, para conseguirnos una nueva creaci6n  o vida nueva en e1 Espíritu. Los signos de la nueva creación (du­rante 1a vida de Jesús) ya anuncian la pascua.

 

Algunos autores distribuyen el texto según 1a te­mática: los signos (¿siete?), los discursos, las fiestas, la hora... De hecho, todos estos datos se entrecruzan. Los discursos principa1es se relacionan con algún signo; pero, como veremos en e1 capitulo segundo, las palabras de Jesús son también signos.

 

No sería admisible una división anacr6nica del texto a 1a luz de una "ideologia" posterior (por ejemplo, 1ucha de "clases" contra e1 poder constitui­do), que quisiera presentar a Jesús rechazando las instituciones (cc. 2~4) para liberar al hombre de la opresión institucional (cc. 4-11), e incluso presen­tando un Juan evange1ista "carismático" en oposi­ción a Pedro e1 "jerarca"...

 

Cua1quier división del texto debe tener en cuenta el dinamismo en espiral de círculos concéntricos. Viene a ser una repetición de la temática en forma siempre nueva. Jesús es el Verbo hecho hombre que asume nuestra realidad para hacerla nueva creaci6n

 

o vida nueva por medio de un paso o pascua, que es donación sacrificial: lo que la cruz es para Jesús, es para nosotros e1 mandamiento del amor.

 

En cada fragmento del evangelio se manifiesta Jesús como palabra divina creadora y como e1 espo­so

 

 de la nueva alianza. Todo gira en torno a la nue­va creaci6n (por Cristo y en el Espíritu) y en torno a la Pascua definitiva (nueva alianza). El momen­to culminante es la "exaltaci6n" de Cristo en la cruz: derramando su sangre, ya puede comunicar el agua viva del Espíritu. Así nace el hombre nuevo y la nueva comunidad (la Iglesia, "eclesiogenesis"), como prolongación (sarmiento) del mismo Cristo.

 

"En el evangelio de Juan resplandecen los dones de la vida contemplativa, pero sólo para quienes sean capaces de reconocerlos" (san Agustín). Nos hacemos capaces cuando abrimos el corazón a la mi­rada y a la voz de Jesús de Nazaret, el Verbo hecho nuestro hermano.

 

Orientaci6n bibliografica

 

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Nota: El lector podra encontrar mas abundante bibliografia en estos mismos estudios aqui citados. Hemos tenido en cuenta la linea contemplativa de estudios hist6ricos clásicos: Orígenes, san Juan Cri­s6stomo, san Cirilo de Alejandría, san Agustín, san­to Tomás de Aquino, san Juan de Ávila (para las cartas), etc.

 

 

SEGUNDA PARTE

 

 

ENCUENTRO DE FE, SIGNOSDE NUEVA CREACION Y PALABRAS DE VIDA

 

In 1,19-12,1-50

 

Cuando encontramos a Cristo descubrimos en el todo el misterio de Dios y todo el misterio del hom­bre. Toda la vida del Señor es un conjunto de signos de la nueva creaci6n. Y en e descubrimos nuestro destino definitivo como participación en la vida íntima 0 "comunión" de Dios Amor.

 

Los signos de la vida de Cristo nos invitan a pasar con él hacia esta realidad de una restauración plena. A Cristo no se Ie encuentra si uno no va con el corazón en la mano. "Pasar" con e equivale a vivir su "pascua". No hay nueva creación sin "pasar" acompañando a Cristo por la cruz hacia la resurrección. Solo el amor de amistad descubre esta pers­pectiva grandiosa. Las exigencias cristianas de este encuentro solo se comprenden a partir de un ena­moramiento. Jesús es exigente porque nos quiere hacer participes de su misma vida divina.

 

Desde el capítulo primero al doce, Juan nos resu­me una serie de signos, que son también encuentros de Ie con Cristo y de comunión con Dios y con los hermanos. Los signos de la vida de Cristo son sus mismas palabras y gestos como declaración de amor (In 3,16). Son signos del encuentro. EI encuentro inicial de los primeros discípulos (In 1,19-51) se va haciendo encuentro para toda clase de personas sin discriminación.

 

Un signo fuerte, el de Cami, quiere ser prome­sa del don definitivo del Espíritu Santo, que es el "vino" de las promesas mesiánicas (cc. 2-4). En

 

la vida de Jesús todo suena a "fiesta" de pascua, a modo de bodas 0 desposorio con la humanidad

 

(cc. 5-10). Cada vez se hace más fuerte la orientación de toda la vida de Cristo hacia "su hora" (cc. 11-12), en la que, después de dar la vida en sacrificio, ya podrá comunicar el agua viva del Espíritu Santo.

 

La persona, las palabras y las obras de Jesús dejan entrever su divinidad. Son como el sello del Padre en la "carne" de su Hijo hecho hombre. Son los nuevos signos de un nuevo éxodo (cc. 1-12). Se trata siempre del mismo Jesús, que es Dios con nosotros (Emmanuel) bajo el signo del tabernáculo, la ser­piente de bronce, el cordero pascual, la roca que mana agua, etc.

 

Jesús obra como el Padre On 5,17). Sus obras son signos transparentes de esta realidad. Todo lo que dice y hace es para mostrar que su palabra es eficaz, para cambiar el mundo desde sus rakes. Es como un drama de amor entre Dios y los hombres, que tendrá su punto culminante en el buen pastor muerto en cruz, con su costado abieno manando sangre y agua. Es el inicio de la glorificación de Jesús y del hombre creyente.

 

Siempre son los signos de la gloria del Verbo he­cho hombre. Pero el clima de estos signos es el de la sencillez de la vida cristiana y circunstancial. Jesús nos hace abrir los ojos a la realidad objetiva con una luz nueva: es el mismo como compafiero de viaje.

 

El evangelio de Juan deja entrever geografía y ciena cronología como parte integrante del misterio de la encarnación. No nos cuenta imaginaciones ni impresiones subjetivistas, sino la gran experiencia del encuentro con Cristo. Jesús es el "sacramento" visible y portador de la vida divina a través de sig­nos concretos, históricos y plenamente humanos.

 

Estamos ante el "evangelio espiritual", es decir, ante Cristo, que, haciéndose encontradizo, también

 

ahora en nuestras circunstancias concretas nos co­munica el Espíritu Santo. Asimismo, el Espíritu del Padre y del Hijo nos conduce a la fe como vida en Cristo y como participación de la vida divina. Cristo nos comunica el Espíritu del Padre y el Espíritu nos conduce a Cristo.

 

Los acontecimientos que se describen en el evan­gelio son ahora los signos de Iglesia, que se entre­cruzan en nuestra vida cotidiana. En los aconteci­mientos evangélicos de hace veinte siglos se puede leer todo el mensaje de Jesús; en los acontecimientos de la Iglesia, que es el Complemento" 0 prolonga­ción de Jesús (Ef 1,23), podemos releer el mismo evangelio. La presencia de Cristo fue y sigue siendo fuerza y vida nueva en el Espíritu. Este es el origen fontal de nuestro nuevo nacimiento On 3,3ss).

 

Sólo el Espíritu del Padre y del Hijo nos puede capacitar para entrar en la revelación de Jesús, as! como para poder encontrarle y escucharle como Pa­labra del Padre. Entonces "interiorizamos" la Pala­bra, dejándola entrar hasta lo más hondo de nues­tro corazón bajo la acción del Espíritu Santo. En cada circunstancia podemos volver al pozo de Jacob On 4,6).

 

((Ver" y escuchar al Verbo a través de sus gestos equivale a la actitud mariana de meditar en el corazón (Lc 2,19.51) 0 de reclinar la cabeza sobre el pe­cho de Jesús On 13,23). Hoy los gestos y signos de Jesús constituyen la Iglesia, que es, por ello mismo, la que garantiza que, estos mismos signos sean "sa­cramentos" de la fe y del encuentro.

 

Dios sigue llegando al hombre por su Palabra y por su Espíritu, que ablanda nuestro corazón para abrirlo totalmente al amor. Dios, por medio de Cris­to, su Hijo, ha hecho al hombre capaz de una aper­tura total al mismo Dios y a los hermanos. EI Soplo" de Dios en el rostro del hombre para hacerle

 

su imagen (Cen 2,7; Sab 15,11) es ahora la comuni­cación de la filiadon divina participada de Jesús por obra del Espíritu.

 

En cada fragmento evangélico aparece el objetivo global de Cristo: manifestar su gloria 0 su realidad de Hijo de Dios, salvador del mundo On 1,51; 2,II; 4,42). En Cristo encontramos la nueva y definitiva manifestadon de Dios en el mundo.

 

Precisamente por este amor desbordante de Dios, el hombre y la humanidad entera quedan profunda­mente cuestionados. El corazón humano, dividido por el egoísmo, ya puede comenzar la tensión por recuperar su unidad perdida. Esta lucha interna di­vide la humanidad en dos, según la opción funda­mental que cada' uno haga por Cristo. No es pro­piamente la lucha de clases ni son las dialécticas históricas, sino el drama de todo corazón humano, sin excepción, que se refleja en el devenir concreto histórico y social. La victoria solo se puede conse­guir por la puesta en práctica del mandato del amor. Otro tipo de "lucha" originaria una división mayor. Cristo nos ha liberado de la esclavitud de Egipto, es decir, del pecado, amando y dando la vida; así ha podido liberar a todos sin hacer vence­dores ni vencidos. Cristo se acerca al "corazón in­quieto" de cada hombre, donde se desarrolla el dra­ma del amor,. todo hombre esta oprimido por este drama y lo refleja en la opresión y en la falta de amor a los hermanos.

 

Jesús revela al Padre entregándose a si mismo 0 haciendo de su vida un don. El ha recibido el Espíritu en plenitud (Jn 3,35) para poder comunicarlo a todos. El clima necesario de esta revelación de la Pa­labra y de la comunicación del Espíritu es el en­cuentro de amistad con él, que compromete a amar efectivamente a todos los hombres como hermanos.

 

En el decurso del evangelio de Juan aparecen

 

unas figuras femeninas, como "tipo" de la Iglesia creyente, redimida y asociada al Redentor. María, "la mujer", es el prototipo 0 personificación de la Iglesia. Ella ha sido siempre fiel, "vestida de sol" (Ap 12,1), "llena de gracia" (Lc 1,28), en sintonía de amor y de vivencia con su Hijo. Lo que Cristo re­dentor ha conseguido en María desde su. concepción inmaculada, lo quiso conseguir paulatinamente en la samaritana y en la Magdalena y ahora en toda la Iglesia como comunidad de creyentes.

 

Con la actitud de fe esponsal de "la mujer" (María), la Iglesia entera aprende a pasar de las realida­des temporales alas espirituales, sin destruir ningún valor autentico, como "paso" 0 "pascua" hacia una nueva creación transformada por Cristo resucitado.

 

Por los "signos" y la "carne" del Verbo hecho hombre y prolongado en la Iglesia y en la humani­dad, descubrimos su realidad de Hijo de Dios y cola­boramos en la construcción de la realidad final, cuando todas las' cosas serán restauradas en Cristo Por obra del Espíritu, que es prenda de la nueva creación y de nuestra filiación divina participada (Jn 3,3ss; Ef 1,10-14).

 

Hay que aventurarse a releer el evangelio de Juan en la propia vida, como si se escribiera por primera vez. Esta relectura es una meditación u oraci6n con­templativa que ve "mas allá" de la superficie de los acontecimientos externos. La pauta de esta contem­placi6n nos la ha trazado e1 Espíritu Santo, que ha inspirado las pa1abras bib1icas. Como el Verbo se ha' hecho carne por obra del Espíritu Santo, así la pala­bra de Dios entra en nuestro corazón por obra del mismo Espíritu; solo falta una actitud de pobreza y de apertura total resumida en el "si" de la vida coti­diana. Es 1a actitud contemplativa de Juan.

 

Al leer de nuevo el evangelio, nuestra vida se con­vierte en biografía del mismo Jesús~ "el Verbo hecho

 

carne" Un 1,14) y "el pan de vida" Un Q,35ss). Transformamos nuestra vida en eucaristía en Ya me­dida en que dejemos entrar en ella "la palabra de la vida" (1 In 1,1). La vida y la historia humana han comenzado a recuperar ~u sentido y su rostro origi­nal. La fe se hace opción fundamental y definitiva por Cristo. La pobreza radical, experimentada en la oración contemplativa, se convierte, gracias a Cris­to, en capacidad de amar con todo el corazón a Dios ya Io~ hermano~. Ha comenzado la unidad del corazón, de la humanidad y del cosmos. Solo faltan los "contemplativos" que sepan releer el evangelio con los mismos ojos de Juan "el discípulo amado".

 

1. EI primer encuentro (Jn 1,19-51)

 

1. En medio de vosotros

 

Yo soy la voz del que clama en el desierto..., en medio de vosotros estd uno a quien vosotros no conocéis... He aquí el  cordero de Dios que quita el pecado del mundo... Yo he visto al Espíritu posarse sobre el... EI es quien bautiza en el Espíritu Santo. Y yo vi y doy testimonio de que este es el Hijo de Dios.

 

(In 1,23-34)

 

A Cristo siempre se leencuentra en relación al signo del hermano. Cada persona tiene un rasgo de la fisonomía del Señor. Hemos encontrado a Cristo gracias a algún. mensajero y apóstol suyo. Necesita­mos siempre a algún hermano que nos haga obser­var mejor algún signo de la presencia de Cristo en­tre nosotros. EI Señor está ya presente asumiendo nuestra vida como propia. Es el cordero pascual que

 

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nos hace salir del pecado para "pasar" al encuentro esposa con e1 Dios de la alianza 0 Dios amor.

 

Jesús es el cordero 0 siervo inocente que se res­ponsabiliza de nuestros pecados y de todo nuestro existir (Is 53,7; Heb 8,32). A Jesús solo se le encuen­tra escondido en nuestras circunstancias. EI personi­fica a toda la humanidad, cargando sobre si los ava­tares históricos, el sufrir y el gozar, los éxitos y los fracasos.

 

Sobre Jesús, siervo inocente que representa a todo el pueblo, descendió el Espíritu del Padre (Jn 1,32; Is 61,1-3). Jesús es el Hijo de Dios que, comunicándonos su Espíritu por el bautismo, nos hace partici­pes de su filiaci6n divina. EI Señor nos hace men­sajeros y transmisores de esta realidad de gracia. Somos su voz, su signo personal y testigos de su encuentro.

 

2. Venid y ved

 

Los dos disépalos siguieron a Jesús. Volviéndose Jesús a ellos, viendo que le  seguían, les dijo: ,Que buscáis? Dijeron ellos: ... Maestro, ,d6nde moras? Les dijo: Venid y ved. Fueron, pues, y vieron d6nde moraba, y permanecieron con él aquel día. Era como la hora décima.

 

(In 1,37-39)

 

La dinámica del seguimiento y del encuentro con Cristo tiene tres momentos: ir, ver, permanecer. Es un examen de amor. Jesús continua teniendo la ini­ciativa de hacerse encontradizo, pero pide un c1ima de desierto, de escucha y de generosidad; espera que Le sigamos sin condicionamientos. Jesús, con su mi­rada amorosa, alienta nuestro caminar hacia él; pero no nos dispensa de desprendernos de una etapa an­terior. Quiere que le busquemos a él, no principal­

 

mente sus dones. Nuestro tiempo va a valorarse solo según el peso de nuestro amor a él.

 

Ir es dejar otras cosas y personas..Es la orientación de toda la vida según el amor a Cristo. Ver es la ciencia que nace del amor y que cree en el misterio de Cristo escondido bajo signos pobres. Es la actitud contemplativa que supone el ir y que exige el permanecer.

 

Permanecer es relacionarse vivencialmente, a mo­do de desposorio y de amistad para siempre. La vida queda orientada hacia Cristo, que es luz, verdad y amor, por ser la Palabra del Padre. La vida se hace respuesta a su invitación permanente, para encon­trarse con él en cada acontecimiento. Desde este mo­mento en que nos hemos decidido a permanecer en él, ya no vivimos nunca solos.

 

3. Sígueme

 

Andrés... dijo a Simón: Hemos encontrado al Mesías, qtte quiere decir el Cristo... Le condujo a Jesús, que fijando en ella vista dijo: Tú eres Simón..., te llamaras Pedro. Al otro día... encontró Jesús a Felipe y le dijo: Sígueme...

 

(Jn 1,41-43)

 

La llamada de Jesús es mirada hasta el fondo del corazón, como llamándonos por el nombre, que solo Dios ha podido grabar en la profundidad de nuestro ser Un 1,42). Es declaración de amor para invitar ,a un seguimiento que se hace misión y servi­cio. Solo se comprende a Jesús de Nazaret a la luz de la fe y de la alegría del encuentro.

 

Las exigencias evangélicas de la fe solo se com­prenden a partir del enamoramiento. Los baremos y cálculos humanos cuentan poco. La experiencia

 

cristiana de Dios es siempre a partir de la realidad, en la que Cristo se nos ha hecho encontradizo.

 

La identidad de esta experiencia no se comerciali­za con argumentos y explicaciones petulantes. La experiencia contemplativa es siempre camino de po­breza y misericordia. Nos basta con haber recibido el perdón de Cristo y el encargo de amarle en los her­manos sin excepción y de hacerle amar sin fronteras. De esta experiencia nos queda la decisión perma­nente de compartir la vida con él.

 

4. Tít. eres el Hijo de Dios

 

Felipe encontr6 a Nataniel y le dijo: Hemos ha­llado a aquel de quien escribi6 Moisés en la Ley y los Profetas, a Jesús, hijo de. José, de Nazaret... Ven y veras. Vio Jesús a Natanael, que venía hacia él, y dijo: ... Antes que Felipe te llamara..., te vi. Nata­nael le contest6: Tu eres el Hijo de Dios... Jesús le dijo: Has de ver cosas mayores.

 

(Jn 1,45-49)

 

Jesús no oculto nunca su identidad de Hijo de Dios. Pero no hizo de ella propaganda intempestiva, sino que prefirió que los suyos la descubrieran a la luz de la palabra de Dios y de los deseos de salva­ción que Dios ha sembrado en nuestro corazón. A Natanael le costó mucho descubrir al Hijo de Dios en los signos pobres de Jesús de Nazaret. Pero dio el paso definitivo tomando una opción fundamental por Cristo. A partir de esta opción, la vida recobra su verdadero sentido.

 

Jesús se manifiesta a los que aman Un 14,21). En todo corazón humano late un deseo de infinito, que solo comienza a hacerse realidad en el encuentro con Cristo. Todo encuentro con él es un paso más y una invitación a un encuentro, que será definitivo en el mas alía.

 

En esta vida los amigos de Cristo caminan de sor· presa en sorpresa. Lo que parece paso fugaz y ausencia, se va haciendo posesión y encuentro definitivo. A la luz de. esta trascendencia, la vida "pasajera" aparece como un don de Dios, que es solo anticipo de una donación total. Las palabras y los gestos de la vida de Cristo son siempre nuevos y actuales, como torrentes de luz y de vida que iluminan y dan sentido a todo acontecimiento personal y colectivo. La palabra de Jesús sólo se deja poseer de los que no quieren otra riqueza que el mismo Jesús.

 

2. El primer signa (Jn 2,1·12)

 

1. No tienen vino

 

A I tercer día, se celebraba una boda en Cand de Galilea, y estaba allí la madre de Jesús. Fue invita­do a la boda también Jesús con sus disépalos. Y como faltara el vino, le dijo a Jesús su madre: No tienen vino.

 

(Jn 2,1-3)

 

La vida merece vivirse cuando se afronta con realismo. Cada circunstancia se hace mensaje de un Dios que vive con nosotros. Las cosas más sencillas se hacen nueva creación y pascua renovada. Desde la encarnación, Jesús, el Emmanuel (Dios con. nos· otros), hace de nuestras vidas su propia biografía.

 

María vivía la vida con esta sencillez de gozo, con· vivencia y apertura a los demás. Si falta e1 vino 0 el pan, la casa 0 el amor, a Jesús le interesa más que a nosotros. Pero quiso oír de María, y ahora quiere oír de nuestros labios, que ya no podemos prescindir

 

 de él. Entonces acepta y afianza nuestra identidad, iniciativa y responsabilidad, para hacernos partícipes de sus signos salvíficos.

 

Cuando la oración parte de 1loinmediato, reflexionado bajo la mirada de Dios amor, las cosas y circunstancias más pequeñas se van haciendo vida eterna. En todas las cosas se encuentra una nueva ocasión para colaborar en los planes salvíficos de Dios. Jesús ha venido para llevar a plenitud nuestra vida. cotidiana; el trae el vino mesiánico de las pro· mesas.

 

El "tercer día" de Cana es una invitación a recordar que todo se hace "pascua" 0 paso de la muerte a la vida, de la contingencia a la trascendencia. Jesús nos pide s6lo que obremos con e1 corazón abierto a las necesidades de los hermanos, donde se esconde el. Si se le encuentra en ese "Cana" de la convivencia humana comprometida, se le encuentra también en su palabra y en su eucaristía.

 

2. La mujer fiel

 

Díjole Jesús:. Mujer, ¿qué nos va a mí y a ti? Aun no ha llegado mi hora. Dijo la madre a los servido­res: Haced loque él os diga.

 

(Jn 2,4-5)

 

La vida se hace sorpresa de Dios. Nosotros hacemos planes para realizarnos y para servir a los hermanos. Pero Dios nos ama mas allá de nuestros planes. Nuestra vida la asocia a sus planes salvíficos en bien de todos los hombres. María es la {mica madre que ha quedado asociada esponsalmente y para siempre al ser y a la misión de su hijo. Es "la mujer" madre del Mesías (Gen 3,15), asociada a su obra redentora. Jesús quiere dar el "vino nuevo" de la

 

vida nueva, haciendo suya nuestra suplica y ponien­do sus· manos en las nuestras.

 

EI evangelio de Juan habla veintiséis veces de "la hora" de Jesús. Es el momento culminante de su misterio pascual de muerte y resurrecci6n. María, como figura de la Iglesia, forma parte de esta hora (In 19,25-27). Jesús pide un "si" de asociación plena.

 

La virginidad de María, como fidelidad esponsal, se hace capacidad de maternidad universal. La máxima Virgen se hace la máxima Madre. Todo depen­de de un "si" a oscuras y en las circunstancias coti­dianas. Es el "si" de toda la comunidad eclesial a la nueva alianza de Dios con su pueblo: "Haremos lo que él nos diga" (Ex 24,7). Es nuestro "si" de Iglesia esposa de Cristo y peregrina hacia la pascua, que ahora alcanza orando el vino nuevo de la gracia para todos los hombres.

 

3. Creyeron en él y le siguieron

 

Este fue el primer milo.gro que hizo Jesús, en Cand de Galilea., y manifestó su gloria y sus discípulos creyeron en él. Después baj6 0. Cafarnaúm con su madre y los hermanos...

 

(Jn 2.11-12)

 

Creer en Cristo trae consigo compartir la vida con él. Jesús se ha manifestado, a través de su carne débil, como Hijo de Dios amor. El salta a la fe hipote­ca toda la existencia, convirtiéndola en asociación, como en María "la mujer" creyente, madre de Jesús y modelo de la comunidad de los seguidores de Jesús. Esta fe ira madurando al contacto con cada sig­no, gesto y palabra de la vida de Cristo. Es fe que se traducirá en confianza, cercanía, encuentro, dialogo, re1acioQ" entrega, amor. A veces será Tabor y ave­

 

ces Getsemaní; pero siempre será una vida compar­tida esponsalmente con Cristo.

 

A Jesús se le descubre en la medida en que se comparte la vida con él. El amor es así. La persona se da en un clima de reconocimiento y entrega mu­tuos. La debilidad no es un estorbo. Jesús educa a los suyos para transformar la propia debilidad en dona­ción, servicio y sintonía con los que sufren.

 

En la debilidad de la carne de Cristo se descubre su filiación divina. Nuestra debilidad de pecado y desorden queda asumida esponsalmente por el amor de un Dios todopoderoso que se ha hecho nuestro hermano. Ya podemos hacer de la vida un reflejo de Dios amor; basta con seguir a Cristo para vivir día a día de su presencia y de su palabra. La vida de Jesús, Verbo encarnado, se refleja y prolonga en nos­otros cuando imitamos su cercanía a los pobres, a los que sufren y a los débiles. Entonces somos el reflejo de la gloria del mismo Hijo de Dios (Ef 1,6).

 

3. Una nueva presencia de Dios (In 2,13-15)

 

1. La casa de mi Padre

 

Estaba. próxima. la pascua de los judíos y subi6 Jesús 0. Jeruso.len. Encontró en el templo 0. los ven­dedores de bueyes, de ovejas y de. palomas...,' les dijo: Quitad de o.qui todo eso y no hagáis de la casa de mi Padre co.sa de mercado.

 

(Jn 2.13-16)

 

La casa solariega de Jesús es la creación entera, que ha sido creada y renovada en él y por él (Jn 1,3). La encarnación es la venida del Verbo a "su casa"

 

. Cada coraz6n humano y la humanidad en­tera es el lugar del encuentro de la humanidad con Dios por medio de Jesucristo. La historia humana se hace templo del Emmanuel 0 Dios con nosotros. Los acontecimientos y las situaciones no son más que la vida del hombre en el tiempo y en el espacio, como lugar del encuentro con Cristo.

 

Los templos y altares materiales no son más que signos y expresiones del gran templo del Espíritu Santo, que es la Iglesia convertida en cuerpo místico y esposa de Cristo. Jesús en medio de los suyos es el nuevo templo de Dios. Los templos pasajeros van dejando paso al verdadero templo, que es Jesús in­molado por nosotros en el fuego 0 amor del Espíritu (Mt 27,51; Heb 9,14). Jesús purifica nuestros tem­plos cuando estos no manifiestan el universalismo del sacrificio de la cruz y de la evangelización de los pobres.

 

Jesús invita a hacer de todas las cosas y de todos los momentos una "pascua" 0 paso hacia el Padre (Lc 2,19). El seno de María y Nazaret eran ya la casa del Padre. El mismo templo de Jerusalén era el lu­gar en que se inmolaba el cordero de la pascua, que simbolizaba al mismo Jesús, cordero de Dios, que quita el pecado del mundo. Pero todos los templos de este mundo son contingentes y pasajeros, como hitos de un caminar y de una transformaci6n en el único templo de Dios, que es el mismo Jesús resuci­tado y toda la humanidad y toda la creaci6n restau­rada en el (Ap 21,22).

 

2. Destruid este templo

 

Los judíos entonces le replicaron diciendo: ¿Qué señaldas para obrar así'? Respondi6 Jesús: Destruid este templo y en tres días lo levantare.

 

(Jn 2,18·19)

 

Nuestras vidas se van haciendo lugar del encuen­tro definitivo con Dios si adoptamos, ya desde aho­ra, la actitud relacional de oración 0 dialogo con él (Lc 19,45). Dios habita en nosotros según la medida de nuestro amor (In 14,23). Lo que no suena a dia­logo amoroso 0 contemplativo con Dios y con los hermanos está condenado a la ruina.

 

La presencia del Espíritu en la persona y en la vida de Jesús nos lo manifiesta como único templo de Dios, el Emmanuel 0 Dios con nosotros. Los hombres construimos "templos" y seguridades hu­manas que son, a veces, como torre de Babel, a modo de proyección de nuestro interior dividido por ambiciones y ansias de poder. Los templos solo va­len en la medida en que expresen 0 construyan la unidad del corazón y de la comunidad humana. La donación de Cristo en la cruz, hecha presente en la eucaristía y prolongada en el mandamiento del amor, es la única razón de ser de los templos mate­riales. La construcción de un templo material ha de ir a la par con la edificación de la comunidad ecle­sial, que es familia de hermanos y "piedras vivas" en el Espíritu (1 Pe 2,5).

 

A veces nos empeñamos en construir, con grande dispendio, lo que no tiene valor, mientras olvida­mos 0 destruimos lo único que vale ante Dios: hacer de la vida una donaci6n. A Cristo le crucificaron los poderes de este mundo, enraizados en corazónes con­vencidos que obraban según la ley, según la religi6n y según la cultura. Los falsos mesianismos siguen crucificando a Jesús; así sucede cuando buscamos nuestro interés personalista en la oraci6n, en la con­vivencia humana y en la acci6n apostólica. Pero Jesús resucita convirtiendo en cenizas nuestros casti­llos fantásticos y títulos de adorno. Es doloroso compartir con él esta pascua 0 paso por la cruz a la resurrecci6n. Pero el nos ama así, por ser epifanía personal de Dios amor. Dios nos quita nuestras co

 

para dársenos él mismo. Hay que ir aprendiendo este camino contemplativo que pasa de la "ausen­cia" a la presencia más profunda. Entonces nos da­mos cuenta que su amor es mayor que nuestro corazón y que nuestros planes (I In 3,20). Jesús, viviente en cada hombre que sufre, es más importante que todos nuestros templos humanos (Mt 12,6).

 

3. Creer en su nombre

 

Mientras estuvo en Jerusalén por la fiesta de la pascua. muchos creyeron m su nombre viendo los milagros que hada; pero Jesús no se confiaba a ellos porque los cómoda a todos... El conocía loque hay en el hombre.

 

(Jn 2.23-25)

 

Creer equivale a dejarse mirar par la mirada de Cristo, que llega hasta lomás hondo de nuestro corazón. Es mirada de quien nos conoce amándonos. Su mirada suscita nuestra respuesta de escucha y de aceptación amorosa de su persona y de su mensaje. Entonces la mirada y el conocimiento de amor es mutuo, como de quienes comparten la propia exis­tencia para afrontar esponsalmente el camino de la vida. Creer "en su nombre" es entregarse a su perso­na y a su obra evangelizadora.

 

Creer en Cristo significa recibirle a él como pala­bra de Dios pronunciada en nuestras circunstancias. Al escuchar a Cristo con el coraz6n abierto, prolon­gamos, en cierto modo, la encarnaci6n, puesto que nos hace su "complemento" y su "cuerpo" místico (Ef 1,22-23).

 

Nuestra vida se hace nueva creaci6n gracias a la palabra de Dios, que es e1 mismo Jesús, y que nos invita a celebrar con el este misterio de pascua en la eucaristía. El asume nuestras vidas y las hace su pro­pia biografía en este paso hacia la cruz y la resurrección

 

. Jesús es "palabra de vida" (l In 1,1) y "pan de vida" (In 6,48). La fe hace posible que nuestra vida se convierta en humanidad de Cristo prolongada en el tiempo.

 

4. Un nuevo nacimiento (In 3,1-21)

 

1. Renacer por el agua y el Espíritu

 

En verdad, en verdad te digo que quien no nacie­re del agua  y del Espíritu no puede entrar en el reino de los delos... El viento sopla donde quiere y oyes su voz, pero no sabes de d6nde viene ni ad6n­de va; as{ es todo el que nace del Espíritu.

 

(Jn 2.5.8)

 

Por' e1 Espíritu· Santo, que Cristo nos envía, so­mos engendrados a una vida nueva, que es la misma vida del Hijo de Dios. Somos nacidos de Dios (I In 5,1-4), engendrados por la semilla de su palabra (1 Pe 1,22). Estos planes salvíficos de Dios amor des­montan nuestras previsiones. La vida divina que Dios nos comunica nos purifica de otros modos de pensar, sentir' y obrar.

 

EI que nace del Espíritu entra en otra 16gica y en otra escala de valores, donde todo se mueve a la luz del amor. En cualquier circunstancia, es siempre posible amar y transformarse en hijo de Dios. Es un proceso hacia el infinito, en el que se avanza por' un encuentro amistoso y cotidiano con Cristo.

 

El hombre busca siempre luz, vida, pan, verdad..., aunque sea a tientas y de noche. Jesús ofrece un nuevo nacimiento, como inicio de una vida nueva que se hace proceso indefinido. Para "ver''' y encon­trar

 

a Cristo en nuestra vida cotidiana hay que decidirse a renacer continuamente sintonizando con sus criterios, valores y quereres. El agua del bautismo ~hace posible nuestra vida nueva en el Espíritu. Dios infunde en nosotros un "corazón nuevo" que pueda responder a la declaración de amor que es el despo­sorio 0 nueva alianza sellada en Jesús salvador (Jer 31,33-34; Ez 36,26). Es ya un corazón que vive en sintonía con Cristo resucitado presente.

 

2. Testimonio del Hijo

 

En verdad. en verdad te digo: nosotros hablamos de Lo que sabemos y damos testimonio de Lo que hemos visto; pero vosotros no recibís nuestro testi­monio... Nadie sube al cielo sino el que baj6 del cielo. el Hijo del hombre, que está en el cielo.

 

(Jn 3.11-13)

 

La experiencia cristiana de Dios no se basa en una conquista psicológica, sino en la vivencia y testimo­nio del Hijo de Dios. Solo el es la Palabra "vuelta" al Padre (In 1,1), que refleja siempre a Dios amor. Solo él puede dar a conocer al Padre (Mt 11,27). Cristo, como Hijo unigénito de Dios, nos ha conta­do lo que él ha vivido en el seno del Padre (Jn 1,18). Toda la vida de Jesús consiste en venir del Padre y volver al Padre, guiado por el amor del Espíritu Santo (In 16,28). Pero Jesús ahora vuelve al Padre con nosotros, ya transformados en el.

 

La fuerza evangelizadora de Jesús no radica en poderes humanos de sistemas y de ideologías, aun­que estas cosas tuvieran U.na fachada religiosa. Su fuerza es la autenticidad de manifestar a Dios amor. Su testimonio es verdadero porque solo busca cum­plir los designios salvíficos del Padre que lo ha en­viado (Jn 5,30). La identidad de Jesús queda reafir­mada por el hecho de transparentar personalmente

 

al Padre. Gracias a él y unidos a él, ya podemos comenzar, en cualquier circunstancia, nuestra experiencia. de Dios. Basta con reconocer nuestra pobreza y a Cristo salvador que asume nuestra vida en la suya.

 

3. La exaltaci6n del crucificado

 

Como Moisés levant6 La serpiente en el desierto, así es preciso que sea levantado d Hijo del hom­bre, para que todo el que crea en el tenga la vida eterna.

 

(Jn 3,14-15)

 

La verdadera "conversión" del hombre consiste en un cambio radical de orientación en los criterios, es­cala de valores y actitudes. Es una reorientación de la vida hacia el amor. Si la cruz es la máxima epifanía del amor, la conversión del hombre consiste en orientar toda la vida hacia Cristo crucificado. Su vi­vir y su morir amando ha cambiado radicalmente la historia. Cristo crucificado se transparenta encada hermano que sufre; nuestra vida se pone en camino de salvación cuando, después de mirar a Cristo cla­vado en cruz, le descubrimos también escondido en el hermano. Entonces nuestra existencia se realiza amando.

 

Dios ha dejado siempre signos de su presencia y de su palabra en cada cultura, pueblo y religión. En el pueblo de Israel, peregrino por el desierto, dejo unos signos más fuertes que anticipaban la realidad de Cristo como luz, roca, pan de vida, serpiente de bronce (salvador) (Num 21,4-9). La fe cristiana ha sido preparada con todos estos signos de historia de salvación; pero ya ha llegado a la realidad que es Jesús.

 

Los signos de la vida de Cristo producen una pd­

 

impresión de escándalo, porque todavía esta­mos aferrados a nuestro modo de concebir la salva­ción. Jesús nos invita a pasar con él 0 a compartir con él su pascua hacia Dios amor por medio de la cruz. EI sufrimiento humano ya ha quedado vencido en su raíz, puesto que ya se puede transformar en una ocasión de compartir la existencia con Cristo, como donación al Padre y a los hermanos. Este "mas alía" de una superficie que espanta solo se descubre en el dialogo y encuentro con Cristo.

 

4. Así ama Dios

 

De tal manera am6 Dios al mundo que le dio a su Hijo unigénito. para que todo el que crea en el no perezca. sino que tenga la vida eterna... EI jui­cio consiste en que vino la luz al mundo. y los hombres amaron mas las tinieblas que la luz. por­que sus obras eran malas.

 

(In 3,16-19)

 

EI amor que Dios nos tiene es don e iniciativa suya (I Jn 4,10). Nos ama porque es Dios amor; por esto nos ama tal como somos. La máxima expresión de este amor es el habernos dado a su Hijo como sacrificio por nuestra salvación. EI sacrificio de Abrahán de disponerse a inmolar a su querido hijo unigénito se realiza efectivamente en Jesús, hijo de Dios. Dándonos a su Hijo inmolado, Dios "nos lo ha dado todo con el" (Rom 8,32). Recibiendo a Cris­to, nuestra vida pasajera y quebradiza se hace "vida eterna". Nuestro tiempo, convertido en relación per­sonal con Cristo y en amor a los hermanos, pasa a participar de la eternidad de Dios amor.

 

La iniciativa del amor de Dios se expresa en ha­bernos enviado a su Hijo para comunicamos la vida nueva en el Espíritu (Jn 7,37-39). Esta es la clave para entender y vivir cada deta11e del evangelio y

 

cada detalle de nuestra vida. Toda la misión y razón de ser de Jesús consiste en salvamos de una vida ca­duca y egoísta, para hacernos pasar a la vida y a la luz perdurables.

 

Nos examina el amor. Dios nos pide que ponga­mos en sus manos nuestro barro, para modelarlo según la fisonomía de su Hijo. Nuestro ser caduco y pasajero se convierte en luz indeficiente cuando de­jamos que Dios imprima su mirada amorosa en lo más hondo de nuestro corazón. Jesús mira a cada uno con esta mirada eterna y transformante, que no humi11a, sino que restaura desde las raíces (Jn 1,42).

 

5. Testigo del encuentro (Jn 3,22-36; cfr. 1,6-34)

 

1. El don de la misión (Jn 3,27-28)

 

Juan le respondió diciendo: No debe el hombre tomarse nada si no le fuere dado del cielo. Vosotros mismos sois testigos de que dije: Yo no soy el Me­s(as, sino que he sido enviado delante de él.

 

(Jn 3.27-28)

 

Juan Bautista, el precursor, había señalado a Cris­to como el protagonista de nuestro existir, el corde­ro de Dios, portador de un bautismo de vida nueva en el Espíritu Santo (Jn 1,29-34). Juan era solo la voz y el signo de una presencia de Cristo escondido y desconocido (Jn 1,23-26). La identidad del "apóstol" y precursor se basa solo en esta misión: ser en­viado. La 11amada a la misión es don inmerecido, que hay que recibir con gratitud. La mejor expre­sión de este agradecimiento es el gozo de ser amado y de poder amar y hacer amar a Cristo.

 

La identidad no nace construyendo un castillo de naipes sobre arenas movedizas del propio ser. En Cristo se fundamenta la historia y, por tanto, la identidad de cada persona. Preguntarse sobre la identidad sin orientar la propia existencia hacia la relación personal con Cristo es dejarse caer en el abismo sin fondo de la nada.

 

La identidad se siente y se vive cuando se orienta la propia vida hacia el amor de Cristo y de los her­manos. Nuestra razón de ser es la misión de dejar en el mundo la huella imborrable de que hemos encon­trado a Cristo. La "comunión" entre todos los se­guidores de Cristo, por encima del espacio y del tiempo, construimos la humanidad entera en el amor.

 

2. El gozo del amigo

 

El que tiene la esposa es el esposo; el amigo del esposo, que le acompaña y le oye, se alegra grande­mente de oír la voz del esposo. Así mi gozo es cum­plido. Es preciso que II crezca y que yo mengüe.

 

(Jn 3,29-30)

 

Cuando se ha estrenado de verdad la amistad con Cristo, uno ya no se busca a sí mismo, sino los inte­reses de Cristo amigo. El precursor se califica siem­pre como el amigo del esposo, es decir, el que hace que la esposa (el pueblo) se encuentre con el esposo (Cristo). Su único gozo es que Cristo sea conocido y amado. Como premio, le basta el mismo Cristo, su presencia, su palabra y su amor. En la oración, en la convivencia y en el apostolado no se busca nada más que lo que agrada al Señor.

 

En los momentos iniciales del seguimiento y de la misión, el apóstol se alegra por el cargo, los colabo­radores, los disépalos, los hitos, las propias cuali­dades, etc., para poder servir mejor a Cristo y a la

 

extensión de su reino. Luego el gozo se hace más profundo y autentico, aun cuando fallen todas esas casas que también eran dones de Dios. Es el gozo pascual de saber que, en cualquier circunstancia, el triunfo de Cristo resucitado es seguro. Ya solo se goza en orar, servir y amar tal como gusta al Señor, en hitos y fracasos, en soledad y compañía, en plenitud de fuerzas y en suma debilidad...

 

Cristo amigo y esposo no abandona. Cuando el amor es más maduro, el apóstol se goza en desapare­cer para hacerse solo cristal que transparente la luz de Cristo.

 

3. Transparentar al que viene

 

El que viene del cielo da testimonio de lo que ha visto y oído, pero su testimonio nadie lo recibe. El que acepta su testimonio certifica que Dios es veraz. Porque aquel a quien Dios ha enviado habla palabras de Dios, pues Dios no Le dio el Espíritu con medida. El Padre ama al Hijo y ha puesto en su mano todas las cosas. El que cree en el Hijo tiene la vida eterna.

 

(Jn 3,31-36)

 

Cristo es el Hijo amado de Dios, enviado para comunicaros la vida nueva en el Espíritu. El ser, el obrar y la vivencia de Jesús son siempre misi6n para predicar la palabra bajo la fuerza del Espíritu (Jn 3,34). Los mensajeros de Cristo son sus precursores y sus enviados para preparar el camino del encuentro. La fuerza de la evangelización no procede de nues­tras ideas geniales y de nuestros planes maravillosos. El Señor quiere que pongamos a su servicio todo lo que tenemos y que él mismo nos ha dado. Pero la verdad, la luz y la vida es solo el. Nos hacemos transparencia suya cuando reconocemos que todo lo bueno que tenemos procede de él.

 

Nuestra experiencia de Dios s6lo es autentica cuando participamos de la interioridad de Cristo. S6lo el, como Hijo, ha visto a Dios, y solo el nos lo puede revelar (In 1,18). Solo el tiene el Espíritu San­to en plenitud. Su experiencia se nos comunica en la medida en que nos vaciamos de nuestras seguri­dades y audacias, para dejar que su Espíritu viva en nosotros y haga de nosotros un "si" a Dios y a los hermanos.

 

La garantía de reflejar el rostro de Jesús ante el Padre y ante los hombres consiste en reconocer nuestro propio ser como regalo e imagen de Dios amor. En este nuestro barro Dios ha infundido y es­tampado e1 beso de su Espíritu, que nos hace trans­parencia de su Hijo Jesús y, por tanto, transparen­cia suya y "alabaza de su gloria" (Ef 1,6).

 

6. Beber del propio pozo (In 4,1-42)

 

1. Dame de beber

 

Jesús, fatigado del camino, se sent6 junto al pozo; era como la hora sexta (mediodía). Llega una mujer de Samaria a sacar agua, y Jesús le dice: Dame de beber.

 

(Jn 4.5-6)

 

El evangelio de Juan narra una serie de encuen­tros con Cristo, que es luz y vida y que se acerca a cada persona en su propia circunstancia. Las figuras femeninas de los textos evangélicos dejan entrever a la Iglesia redimida por Cristo y asociada a la reden­ción. La samaritana pasa de una vida hecha jirones a participar en la vida nueva de la gracia y a hacerse

 

anunciadora de Cristo. El Señor tiene siempre la iniciativa del encuentro. Es él quien nos espera en nuestro viejo pozo de Jacob para ofrecernos una nueva fuente de agua viva: el mismo. Solo nos pide que reconozcamos nuestra sed (Is 55,1; Jn 7,37). Así comienza el camino de fa contemplaci6n.

 

La pedagogía de Jesús es desconcertante. Llega hasta nuestro pozo agrietado, donde solemos ir a buscar sucedáneos, y nos pide agua de nuestro mis­mo pozo. Jesús tiene sed propiamente de nosotros, de nuestra autenticidad, es decir, de que nos demos cuenta que nuestro pozo no nos puede saciar la sed. Jesús tiene sed de nuestra fe, que es experiencia de que solo él puede dar sentido a nuestro existir.

 

En su humanidad pobre, que siente el frio, el can­sancio, e1 dolor y la humillación más que nosotros, Jesús se manifiesta tal como es: el Hijo de Dios amor. Se presenta pobre y necesitado, para decirnos que el único don que nos ofrece y que puede dar sentido a nuestra existencia es el mismo. ~Para que perder la salud y los nervios buscando sucedáneos?

 

2. E1 don de Dios

 

Si conocieras el don de Dios y quien es el que te dice dame de beber, tu le pedirías a él y él te daría agua viva.

 

(Jn 4,10)

 

Jesús es la luz, la verdad, la vida, la Palabra, la· plenitud de la reve1adon. Dios se ha manifestado como amor, dándonos a Jesús, su Hijo (In 3,16; 1 In 4,8). Por medio de Jesús, Dios nos hace parti­cipar de su misma vida divina. Así nos comunica el agua viva del Espíritu Santo. Dios es e1 sumo bien que se da a todos. Jesús es el don del Padre a los hombres. El Espíritu Santo, que Dios nos comuni­

 

, es el don "personal" o nexo de amor entre el Padre y el Hijo. Ya desde nuestro primer encuentro con Cristo, Dios se muestra sorprendente: nos ama tal como somos para hacernos tal como él es.

 

Dios tiene la iniciativa en el amarnos y salvarnos, pero respeta nuestra libertad de apertura y dona­ción. Habla y ama lo suficientemente claro para que nos sintamos estimulados por su palabra y amor; pero nos deja toda la iniciativa para buscarle y para abrirle nuestro corazón. Quiere que nos enteremos por propia experiencia de que solo él puede Henar nuestro corazón.

 

La oración contemplativa es la actitud de pobreza, de sentir necesidad de Dios que nos ama; pero esta actitud es solo posible cuando nos enteramos de que el nos ama como Padre amoroso. Entonces la ora­ción se hace actitud filial. En este modo de orar des­cubrimos que la experiencia de Dios es gratuidad, porque "el nos ha amado primero" (1 In 4,10).

 

3. Fuente de agua viva

 

Quien bebe de esta agua volverá a tener sed; pero el que beba del agua que yo Le daré no tendrá jamás sed, sino que el agua que yo le daré se hará en él una fuente que salte hasta la vida eterna. Díjole la mujer: Señor, dame de esa agua...

 

(Jn 4,13-15)

 

Jesús ofrece infinitamente más de lo que el hom­bre esperaba y buscaba. El nuevo pozo de Jacob es el mismo Jesús (Ap 7,17; 22,1), en quien se cumplen las esperanzas mesiánicas. E1 corazón humano pasa a participar de la vida divina, que es fuente de toda vida. El salto es a1 infinito; pero Jesús lo hace posi­ble. Solo nos pide reconocer que el agua de nuestro pozo no puede saciar nuestra sed. Por medio de esta actitud de pobreza bíblica pasamos a descubrir que

 

hemos sido amados eternamente por Dios y que par­ticipamos de la filiaci6n divina de su Hijo.

 

Basta con acercarnos como "sedientos" a la fuente que es Cristopara recibir gratuitamente el agua Viva del Espata (Ap 21,6). Hay que pedir esta agua presentando nuestra "tierra árida, sedienta y sin agua" (Sal 62,2).

 

Nuestro encuentro con Dios en Cristo es un pro­ceso de vaciarse de lo que no es autentico en nos­otros, para dejarnos Henar de Dios amor. Solo así nuestra vida se hace don para Dios y para los hermanos. El proceso pasa  a veces, por la noche que deja sensación de vacilo. Hay que reafirmarse en Cristo, en su presencia y en su amor: "Que bien se yo la fonte que mana y corre, aunque es de noche" (san Juan de la Cruz).

 

4. En Espíritu y en verdad

 

Ya llega la hora, y es esta, en que los verdaderos adoradores adorarán al Padre en espíritu y en verdad, pues tales son los adoradores que el Padre desea. Dios es Espíritu, y los que le adoran han de adorar­le en .espíritu y verdad.

 

(Jn 4,23-24)

 

En Jesús, la creación, el hombre y la historia lle­gan a la plenitud. Las religiones con sus ritos y sus templos dejan paso a la gran realidad, que es Jesús como Emmanuel (Dios con nosotros) y Verbo 0 Pa­labra de Dios. El templo de Jerusalén fue una pre­paración más inmediata, que venía a resumir el Antiguo :testamento: signo especial de la cercanía y epifanía de Dios. El templo samaritano del monte Garizim sirvi6 también de cauce religioso a un pue­blo. Ahora ya solo cuenta la actitud de dejar que Dios habite y hable en nuestros corazónes por me­dio de Jesús. Los templos y los ritos son signos pasajeros-­

 

 Dios quiere habitar en corazónes que se abran a él con autenticidad para recibir su Espíritu (Rom 5,5).

 

Jesús se hace encontradizo con cada persona para imprimir en ella su propia fisónoma de Hijo de Dios. No estorba el pecado y la debilidad cuando se reconocen y se quieren superar. Con la autenticidad de presentarse ante Dios tal como uno es y con el corazón sediento de amor basta. Entonces la ora­ción se hace actitud filial participada del mismo Jesús. Sentimos la necesidad de Dios, como tierra rese­ca y sedienta que somos, y nos abrimos a sus planes de amor sobre nosotros. A él le dejamos la iniciativa de darnos lo que quiera, porque, en el fondo, lo que buscamos es a él: "denos el lo que quisiere, siquiera haya agua, siquiera sequedad', (santa Teresa de Ávila).  

 

5. Soy yo

 

Díjole la mujer: Yo se que el Mesías, el llamado Cristo. Está para venir... Dijole Jesús: Soy yo, el que contigo habla.

 

(Jn 4.25-26)

 

La historia de salvación discurre siempre en torno a la presencia y palabra de Dios. Esta cercanía y epifanía divina tiene una afirmación clave desde el Sinaí: "Yo soy" (Ex 3,14). En el evangelio de Juan, Jesús se apropia continuamente esta afirmación di­vina. En él está la plenitud de la revelaci6n y el cumplimiento de las promesas mesiánicas. Jesús es el Señor, "el que habla" (Is 52,6). Su misterio se ma­nifestara plenamente cuando sea exaltado en la cruz (In 8,28). Ahora Jesús resucitado sostiene el caminar eclesial de cada creyente y de toda la comunidad eclesial (Lc 24,36). Una sola palabra suya en el fon­

 

do de nuestro corazón basta para disipar las dudas, las tinieblas y las tempestades (Jn 6,20).

 

Del encuentro con Cristo se pasa siempre a la mi­sión, es decir, a comunicar a otros la experiencia de este encuentro de gracia. La samaritana y la Magda­lena son figuras de una Iglesia creyente, que se hace misionera precisamente por ser contemplativa (Jn 4,29; 20,17). Morfa, "la mujer" siempre fiel y creyen­te, es tipo de esta Iglesia evangelizada y evangeliza­dora, redimida y asociada a la redención (Jn 2,4-5; 19,25-27). En nuestras cenizas y en nuestro barro ha resonado de nuevo la palabra de Dios, que nos hace su imagen y nos encarga ser testigos de la nueva creaci6n.

 

6. Mi comida

 

Mi alimento es hacer la voluntad del que. me en­vía a terminar su obra... Uno es el que siembra y otro el que siega. Yo os envío a segar lo que no tra­bajasteis...

 

(Jn 4.34.37-38)

 

La realidad humana de Jesús se expresa tal como es; pero en la debilidad de su carne aparece la gloria del Hijo de Dios. Los signos pobres de su humani­dad se convierten en signos de gracia. Su cansancio se hace búsqueda (In 4,6). Su mirada es declaración de amor (In 1,42). Su hambre y su sed (In 19,28) son sus amores y su sintonía con los intereses salvíficos del Padre respecto a todos los hombres. La vivencia más honda de Jesús es la fidelidad generosa a la vo­luntad del Padre (In 5,30), que le lleva a "la hora" en que dar la vida por nuestra salvación. Nuestra amistad e intimidad con el comparten la sintonía con sus amores.

 

Jesús alecciona a "los suyos" porque son ellos los

 

que continuaran la misión recibida del Padre. Parti­cipar en la misión supone compartir el estilo de vida de Jesús enviado por el Padre, que busca siem­pre su gloria. La gloria del Padre consiste en glorifi­car a su Hijo y a todos los que creen en él (Jn 17,10).

 

Estos ideales y vivencias de Jesús desmoronan to­dos nuestros andamios artificiales de medrar y de conseguir una eficacia inmediata. Es Jesús quien se prolonga en nosotros, aunque dejando que cada uno aporte todo lo que es y tiene. Así nos convierte en instrumento de comunión fraterna y de salvación universal. Entonces ya da lo mismo que seamos nosotros 0 sean otros los que recojan el fruto de las se­millas sembradas por la caridad del buen pastor.

 

7. Salvador del mundo

 

Decían (los samaritanos) a la mujer: Ya no cree­mos por tus palabras, pues nosotros mismos hemos oído y conocido que este es verdaderamente el Sal­vador del mundo.

 

(Jn 4,42)

 

La primera semilla evangélica en Samaria la sembró esa pobre mujer que se ha quedado con el nom­bre de "la samaritana". Gracias a ella sus connacionales comenzaron a creer en Jesús "salvador del mundo". La verdadera experiencia de encuentro con Cristo y de contemplación se demuestra en el com­promiso misionero: "amar y hacer amar al Amor" (santa Teresa de Lisieux).

 

Juan evangelista, precisamente por su experiencia de encuentro con Cristo, dejan constancia del mis­mo testimonio: .el "salvador del mundo" es Jesús, el Hijo de Dios enviado para redimirnos (1 In 4,14). No hay oración contemplativa sin ansias misione­ras, ni existe verdadera misión que no conlleve el deseo eficaz de contemplación y de encuentro.

 

Dios ha sembrado en todos los pueblos, en todas las culturas y en todos los corazones alguna semilla de evangelio. Casi siempre se manifiesta por el deseo de salvación integral del hombre, que nunca pierde totalmente el sentido de la trascendencia. El Señor quiere hacer fructificar esta semilla a través de quie­nes ya le han encontrado. Pero se necesita transparencia, coherencia, testimonio e incluso audacia, por encima de las modas y de los falsos mesianis­mos. La experiencia de encuentro con Cristo no la regala el apóstol, sino que es un don de Dios que exige apertura del corazón. A todo anuncio del evangelio ha de seguir nuevamente la contempla­ción del apóstol para regar loque se sembró, para preparar lo que otros segaran y para continuar abriendo nuevas puertas al evangelio.

 

7. Aquí y ahora Un 4,43-54)

 

1. EI galileo de Nazaret

 

El mismo Jesús declar6 que ningún profeta es honrado en su propia patria. Cuando lleg6 a Cali­lea, los galileos le hicieron un buen recibimiento, pues habian  visto todo loque habia hecho en Jeru­salén durante la fiesta.

 

(Jn 4,44-45)

 

Jesús no rechazo nunca si se escandalizo de las circunstancias humanas de geografía e historia. Es el Verbo que asume nuestra existencia tal como es. No se desdeño de ser galileo de Nazaret. Se lo echa­ron en cara como desprecio Un 1,56; 6,42). Para sus discípulos, no obstante, sería un titulo de gloria (Jn 1,45). En la cruz, el titulo de "Nazareno" quedaría

 

para siempre unido al título de rey (Jn 19,19). Nues­tras circunstancias humanas concretas ya pueden hacerse lugar de encuentro con Dios, sin necesidad de huidas y añoranzas.

 

La visita de Jesús a Nazaret, "donde se había cria­do" (Lc 4,16), sería un escándalo para los que espe­raban un Mesías a su gusto. Es el mismo escándalo de las bienaventuranzas, de la eucaristía y de la cruz. A través de la historia se va repitiendo el mismo he­cho desconcertante: "Vino a los suyos, pero los su­yos no le recibieron" (Jn 1,11). Jesús no viene para ser un adorno 0 una cosa útil. Viene pobre a com­partir nuestra pobreza; para indicarnos que se da a S1 mismo en persona con todo lo que es. Dios amor ama aS1, con este modo de amar sin modo y sin me­dida.

 

2. Milagros para creer?

 

Jesús le dijo: Si no viereis señales y prodigios, no creéis. Dijole el funcionario real: Señor, baja antes de que mi hijo muera. Jesús le dijo: Vete, tu hijo vive. Crey6 el hombre en la palabra que le dijo Jesús...

 

(Jn 4,48-50)

 

Jesús, el Verbo encarnado, vive en sintonía con todos nuestros problemas. El deja entrever siempre su presencia, que nos ayuda a pasar a una nueva creación donde reina solo el amor. EI paso es siem­pre "pascua", es decir, misterio de cruz y de resu­rrección. Todos los gestos y palabras de Jesús son signos que dejan entrever su realidad de Hijo de Dios hecho nuestro hermano.

 

Jesús hizo milagros para fortalecer nuestra fe débil; pero nos ayuda a purificar nuestra actitud de fe, que no debería necesitar más signos que los de su presencia y su palabra. Jesús trata con ternura tanto

 

a las personas favorecidas por un milagro como a los demás que aparentemente no reciben ninguna gracia extraordinaria.

 

EI funcionario de Cafarnaúm experimento el amor tierno de Jesús en la curación de su hijo; creyó, contagiando de esta fe a toda su familia. Lo importante es siempre descubrir la realidad y el amor de Jesús en los signos de nuestro caminar humano. Ningún ser humano queda abandonado a su realidad. Pero a sus amigos Jesús les educa para que le descubran a él en el silencio y en la ausencia, donde el siempre deja entrever un signa 0 una huella de su presencia y de su palabra. Los amigos de Jesús necesitan esta mirada de fe contemplativa que nace del amor.

 

8. Sufrir sin un porqué? (Jn 5,1-47)

 

I. . ¿Quieres curar?

 

Jesús, viendo al enfermo tendido y conociendo que llevaba ya mucho tiempo, le dijo: ¿Quieres cu­rar? Respondi6 el enfermo; Señor, no tengo a nadie que me meta en la piscina cuando se agita el agua... Dijole Jesús: Levántate, toma tu camilla y anda. A1 instante qued6 sano.

 

(Jn 5,6-9)

 

Sera difícil adivinar las circunstancias históricas de esa piscina llamada "Probática", que tenía cinco pórticos. Aquellas aguas medicinales atraían multi­tud de enfermos. Podría ser incluso un lugar de cul­to pagano. La realidad es que Jesús no tiene com­plejos cuando se trata de acercarse a un hombre que sufre, sobre todo por' su soledad. Para curar e infun­dir la paz, Jesús escucha sin prisas, como deseando

 

oír de nuestros labios o de nuestro corazón lo que él ya conoce y vive más que nosotros mismos. La verdadera curación comienza cuando uno descubre que Jesús es el único que no abandona y que solo el da sentido a nuestra vida. Una sola palabra suya basta para encontrar luz y vida: "Levántate".

 

Cuesta mucho reconocer la propia pobreza y, al mismo tiempo, creer confiadamente en la mirada amorosa de Jesús, que penetra hasta lo más hondo de nuestro ser. Las maravillas de la gracia y del apostolado comienzan a realizarse cuando vamos aprendiendo a vivir, como única riqueza, de la pala­bra y de la presencia de Cristo. Pero esto supone echar por la borda todas nuestras seguridades, que nos roban el tiempo y que todavía nos parecen im­prescindibles. Solo cuando nos arriesgamos a per­derlo todo en aras del amor salimos ganadores de lo único que cuenta en nuestras vidas: el amor y la cercanía de Cristo.

 

2. Transparentar al Padre

 

Mi Padre sigue obrando todavía, y por eso obro yo también... El Padre ama al Hijo yle muestra todo loque él hace, también el Hijo, a los que quiere les da la vida . El que escucha mi palabra y

 

 cree en el que me envió tiene la vida eterna... Lle­ga la hora en que cuantos están en los sepulcros oirán mi voz... Mi juicio es justo, porque no buco mi voluntad, sino la voluntad del que me ha en­vido.

 

.

 

(Jn 5,17-30)

 

Desde nuestras circunstancias históricas, asumidas con protagonismo de hermano y esposo, Jesús si.gue siendo la Palabra "vuelta" al Padre (Jn 1,1): Viene de Dios y vuelve a Dios, con nosotros y con toda la creación. Toda la vivencia de Jesús consiste en hacer de nosotros, por obra del Espíritu de amor, su pro­longación,

 

como transparencia y esplendor del Pa­dre. Jesús es transparencia de Dios amor precisa­mente por su cercanía a los pobres. Para él son pobres Nicodemo, la samaritana, el hijo enfermo, el paralitico, el ciego, la pecadora... A todos les hace capaces de recuperar, con creces, el rostro primitivo del hombre como imagen e hijo de Dios.

 

A Jesús se le descubre como Hijo de Dios, escon­dido y amándonos en nuestras mismas circunstan­cias de pobreza. Su palabra amorosa nos hace pasar de nuestra contingencia y limitación al horizonte infinito de una vida eterna.

 

Jesús transparenta los designios salvíficos de Dios. La sintonía con la voluntad del Padre es garantía de su misión; No existe misión sin comunión. En sus gestos y en sus palabras podemos experimentar los latidos. del corazón de Dios. Para transparentar ese amor no necesita aparatos y fachadas; le basta con hacerse encontradizo, como quien comparte todo nuestro existir cotidiano para hacerlo pasar a una existencia definitiva de plenitud.

 

3. La Palabra del Padre

 

Las obras que yo hago dan testimonio en favor mío de que el Padre me ha enviado..., este da testi­monio de mi. Vosotros no habéis oído jamás su voz, .ni habéis visto nunca su rostro, ni tenéis su Palabra en vosotros, porque no habéis erado en aquel que él ha enviado... Investigad las Escrituras, ya que en ellas eréis tener la vida eterna; ellas son las que dan testimonio de mi.

 

(Jn 5.36-39)

 

Todas las obras de Jesús manifiestan su "gloria"

 

o su realidad de Hijo de Dios. El evangelio sigue siendo palabra viva y actual de Cristo. La creación, la historia, las culturas y, de modo peculiar, la Es­-

 

critura santa hablan a gritos de Jesús salvador. El deseo 'de salvación y de trascendencia que anida en todos los corazones y en todos los. pueblos solo en­cuentra solución en Cristo. Basta abrir el evangelio y dejar entrar en nuestro interior sus palabras todavía recientes.

 

Toda nuestra vida está jalonada de signos de la presencia de Cristo. Cuando leemos la palabra evangélica, estos signos se hacen transparentes. Jesús continua mirando, hablando, actuando, amando. Todo es don de Dios. Todo es signo de su cercanía y de su palabra. Pero esos dones se hacen opacos cuando los manipulamos para nuestros intereses bastardos.

 

A la luz de la palabra de Jesús, todas las cosas y todos los acontecimientos se hacen mensaje de Dios amor. Esos signos pobres de nuestro caminar son capullos, que solo se abren si nos dejamos mirar por Cristo. Contemplar a Dios en Cristo equivale a mi­rarle y dejarse mirar por el

 

4. Encontrar a Cristo

 

No queréis venir a para tener la vida. Yo no recibo gloria de los hombres. pero os conozco y sé que no tenéis en vosotros el amor de Dios. Yo he venido en nombre de mi Padre... ,Cómo vais a creer vosotros, que recibíis la gloria unos de otros y no buscáis la gloria que procede sólo de Dios?... Moisés escribi6 de mí.

 

(Jn 5,40-47)

 

El encuentro con Cristo, por una fe que compro­mete toda la existencia, es posible para todos. Jesús es quien toma la iniciativa y es el primer interesado en concedernos este don de la fe y de la contempla­ción. Su mirada amorosa penetra hasta lo hondo del corazón. Precisamente por esto no admite otros

 

amores egoístas. Su mirada es un examen de amor Los interlocutores de, Cristo, si buscan principalmente el propio interés, aunque sea con la pantalla de oración y apostolado, no encontrarán más que al pobre artesano de Nazaret, hijo de José y María (Jn 6,42). Solo la autenticidad y el deseo de amar en­cuentran al Hijo de Dios hecho nuestro hermano en las circunstancias de Nazaret y de todos los días.

 

A Jesús se le encuentra cuando se sabe leer en

 

cada cosa, en cada acontecimiento y en cada persona

 

el "mas allá" de un amor eterno. Desde el momento

 

en que uno quiera apropiarse egoístamente 0 utili­zar

 

 mal un don de Dios, se queda con las cenizas en

 

las manos. La misma palabra de Dios, contenida en

 

la revelación, solo se deja captar de quien lee y escu­cha

 

con corazón de pobre. Entonces cualquier don

 

de Dios nos abre al horizonte infinito de la gratitud

 

y del amor.

 

9. Pan de vida en el desierto Un 6,1-71)

 

1. Éxodo de Jesús

 

Parti6 Jesús al otro lado del mar de Galilea de Tiberiades, y le seguía una gran muchedumbre, porque velan los milagros que hacía con los enfer­mos. Subi6 Jesús a un monte y se sent6 con sus disépalos. Estaba cerca la Pascua... Contemplando la granmuchedumbre que venía a él, dijo a Felipe: ¿Dónde compraremos pan para dar de comer a es­tos?.. Jesús, conociendo que intentaban forzarle para hacerle rey, se retir6 otra vez al monte él solo (Jn 6,1-15)

 

La vida de Jesús es un camino de pascua (Jn 6,4). Su cammar es el de la humanidad entera, en su

 

"exodo" por el desierto hacia la tierra prometida. La liberaei6n cristiana es un proceso de nueva crea­don. Jesús se hace mana, "pan de vida" para todos, sin excepción. Pasa llamando a las muchedumbres y a cada uno en particular para compartir la vida con el. Toda su vida, gestos y palabras son un signa de un amor trascendente y eterno. Pero quiere tambien ser signo de Dios amor poniendo sus manos en las nuestras; sólo nos pide nuestro pequeño todo, que quedará convertido para siempre en su complemen­to y transparencia.

 

A sus discípulos y apóstoles Jesús les pide que sintonicen con su compasión y su preferencia por los pobres y por los que sufren (Mt 15,32). Nuestro pequeño todo se hace instrumento del "pan de vida" solo cuando es sintonía con el amor de Cristo, que hace de su propia vida un desposorio.

 

Jesús, como signa de Dios amor, se esfuma y des­aparece cuando queremos utilizarlo a la medida de nuestro egoísmo. No admite ser utilizado por exclu­sivismos de grupos, ideologías y sistemas, y ni aun por técnicas de "contemplación". Necesitamos los desiertos de la "ausencia" y del "silencio" de Dios para curarnos de muchas tonterías. La caridad con los más pobres y con los que conviven con nosotros es el único termómetro de la oración. La montana de la oración lleva el título de "bienaventuranzas" y "mandamiento del amor". Entonces la Iglesia espo­sa se decide a subir al monte con Cristo para descu­brir la contemplaci6n como oración y el camino de los pobres.

 

2. Presencia en la tempestad

 

Ya había oscurecido y no había vuelto a ellos Jesús, y el mar se había alborotado por el viento fuerte que soplaba... Vieron a Jesús que caminaba sobre el mar y se acercaba ya a la barca, y temieron. Pero él les dijo: Soy yo, no temáis (Jn 6,16-20)

 

 

 

 

 

Unas pinceladas de colores fuertes caracterizan la superficie del navegar humano: atardecer, oscuridad, aparente ausencia de Jesús, huracán, tempestad... Lo que creíamos ser verdad y belleza parece desatarse y convertirse en un pozo de dudas y en puñado de hojas secas. Y, no obstante, Dios esta más cerca que nunca, convertido en consorte y caminante.­

 

 

 

La vida es hermosa porque Dios es bueno. Si pa­san

 

las. cosas, que son dones de Dios, ¿no será por­

 

que Dios se nos quiere dar a sí mismo?

 

Si Jesús se nos muestra con todo su poder, nos parece un sueño. Por esto es mejor dejar entrar su palabra en nuestro corazón, sin pedir ni exigir privi­legios. El salto de confianza en su amor y en su pre­sencia aleja todo miedo a los fantasmas. A través de la eucaristía, de su palabra revelada, de sus sacra­mentos, de la comunidad eclesial, de cada persona y de cada acontecimiento, Jesús nos dice: "Yo soy". Es él que sostiene nuestra existencia porque nos ama. Los temores desaparecen cuando nos decidimos a no desear nada más que a él, dándole la bienvenida en cada uno de los signos pobres de su presencia.

 

3. Creer en el enviado

 

. Vosotros me buscáis no porque cabéis visto los signos ,sino porque habéis comido· de los panes y os habéis saciado. Procuraos no el alimento perece­dero, sino el que permanece hasta la vida eterna, el que el Hijo del hombre os da, porque Dios Padre le hasellado con su sello... La obra de Dios es que creáis en aquel que él ha enviado.

 

(Jn 6,26-29)

 

Nos empeñamos en apreciar y valorar lo inmedia­to y lo eficaz, muchas veces al margen de Jesús: nuestras lucubraciones (como Nicodemo), el agua de nuestro pozo (como la samaritana), nuestras espe­ranzas tangibles (como el paralitico), el alimento te­rreno y los bienes superficiales (como la muchedum­bre)... Todo eso es bueno si se coloca en la perspec­tiva de Jesús: para amar al Padre y a los hermanos.

 

A Jesús se le encuentra en todas las circunstancias, a condición de buscarle para un encuentro de fe comprometida. Quien le desea y le busca es que ya ha comenzado a encontrarle. Encontramos a Cris­to cuando le buscamos en la línea de los signos esco­gidos por él, que son siempre signos del amor salvífico de Padre. Jesús es el don de Dios al mundo, el cruce de caminos de toda la historia y de toda la revelación. La Escritura (la ley, los profetas, la sabiduría) solo hablan de él y del hombre y del mundo salvado por él.

 

La obra más grande que Dios ha hecho es el en­cuentro vivencial del hombre con Cristo, Hijo de Dios y hermano nuestro. Este es el encuentro de la fe, que nos transforma en él. Jesús es el enviado del Padre, que se hace encontradizo en todos nuestros cruces de camino. ¿Por qué no aprender, por la ex­periencia de nuestro pasado, que Jesús no nos ha dejado ni a sol ni a sombra?

 

4. La fe, don de Dios

 

Es mi Padre el que os da el verdadero pan del cielo... Yo soy el pan de vida; el que viene a mí ya no tendra más hambre. y el que cree en mí jamás tendrá sed... Al que viene a mí yo no le echaré fuera, porque he bajado del cielo no para hacer mi voluntad. sino la voluntad del que me ha enviado... Porque esta es la voluntad de mi Padre. que

 

todo el que ve al Hijo y cree en el tenga la vida eterna. y yo le resucitare en el ultimo da... Nadie puede venir a mí si el Padre. que me ha enviado, no le atrae...  el que ha venido de Dios. ése ha visto al Padre... EI que cree en mí tiene la vida eterna.

 

(Jn 6.32·47)

 

Jesús se presenta como "pan de vida", el don de Dios al mundo, la palabra personal de Dios, que es luz de verdad y vida. Dios nos da a Jesús, su Hijo, y la posibilidad de creer en él.  El pan de nuestro cami­nar es ahora la persona y el mensaje de Jesús. Creer es abrirse a esta realidad de Dios hecho hombre por amor nuestro. La creación y la historia recobran su sentido con la encarnación del Verbo.

 

Encontrar a Cristo y creer en el equivale a encon­trar la única agua que puede saciar nuestro corazón sediento. En los éxitos aprendemos a dar gracias a Dios y a compartir con los hermanos caminantes. En las dificultades nos damos cuenta de que la vida se hace donación para construir el camino común que lleva a la salvado de todos y a la "vida eterna".

 

La palabra personal de Dios resuena y habita en­tre nosotros bajo signos pobres. Jesús de Nazaret, el hijo de José y María, es, a la luz de la fe, el Hijo de Dios nacido de la Virgen por obra del Espíritu San­to. Creer es dejarse atraer por esta Palabra del Padre, pronunciada eternamente en el amor del Espíritu, y comunicada ahora como inicio de restauración, re­surrección y vida eterna. La fe es recibir a Cristo tal como es, bajo los signos pobres de la encarnación y de la Iglesia. Dios nos da a su Hijo en el "Tabor" de nuestra vida cotidiana. El don de la fe se recibe tal como es; a nosotros nos toca abrir el corazón para hacer de cada situación y de cada acontecimiento una "comunión" y un encuentro con Cristo.

 

5. El pan de vida

 

Yo soy el pan de vida. Vuestros padres comieron el mana en el desierto y murieron... Yo soy el pan vivo bajado del delo; si alguno come de este pan, vivirá para siempre, y el pan que yo le daré es mi carne, por la vida del mundo... El que come mi carne y bebe mi sangre tiene la vida eterna y yo le resucitare el ultimo día.

 

(Jn 6,48-55)

 

Jesús es el verdadero mana, el pan de vida en nuestro caminar de Iglesia peregrina hacia la nueva Jerusalén. El mismo en persona, todo su ser, se con­vierte para nosotros en comida y bebida bajo los signos eucarísticos de pan y vino. Como Verbo 0 Pala­bra del Padre, se inserta en nuestras circunstancias para hacerse encontradizo con cada ser humano.

 

Encarnación y eucaristía responden a aspiraciones profundas que Dios había sembrado en el corazón de cada hombre: encontrar la vida verdadera y per­durable, compartir el pan y la existencia con todos los hermanos... En Cristo estos deseos se hacen rea­lidad, que supera infinitamente nuestras aspiracio­nes. Así, en cierto modo, la encarnación se prolonga en la eucaristía, para hacer que toda la humanidad se convierta en Iglesia, cuerpo místico y "comple­mento" de Cristo (Ef 1,23).

 

En la carne humilde de Jesús encontramos al Ver­bo, el Hijo de Dios hecho hombre. En los signos eucarísticos encontramos el cuerpo y sangre de Jesús como comida y bebida, es decir, todo su ser en cuan­to manifestación externa (cuerpo) y en cuanto viven­cia e interioridad (sangre). Es presencia de enamo­rado, que da la vida en sacrificio (Jn 10,II; 15,13) y que nos hace ·consortes y participes de todo su ser. Comulgar a Cristo equivale a compartir la vida con él y sintonizar con sus amores de inmolarse por comunicar una vida nueva a toda la humanidad (Jn 6,51).

 

6. Vivir en Cristo

 

El que come mi carne y bebe mi sangre estd en mí y yo en el. 4si como me ha enviado el Padre que vive, y yo vivo por mi Padre, así también el que me come vivirá por mí.

 

(Jn 6,56-57)

 

Permanecer en Cristo, vivir en el, de él y para él es el hilo conductor de todo el evangelio de Juan. El encuentro con Cristo, presente ahora bajo signos eucarísticos, se hace "transformación misericordiosa y redentora del mundo en el corazón del hombre" (Dominicae Cenae 7). Caminando con Cristo hacia la pascua de muerte y resurrección, hacemos de la propia existencia la prolongación del mismo Cristo. Del encuentro vivencial pasamos a la misión de compartir con todos los hombres el pan de vida.

 

Cristo ha tornado nuestro pan y nuestro vino para hacerlo su cuerpo y su sangre. En realidad, quiere asumir todo nuestro trabajo, nuestra vivencia y con­vivencia humana para convertirlas en cuerpo mistito.

 

Comulgando el pan eucarístico nos hacemos "un solo cuerpo" de-Cristo (I Cor 10,17). Vivimos de su misma vida, como el sarmiento vive de la vid (Jn 15,5). Somos "los suyos" (Jn 13,1), sus "amados" (Jn 15,9-14). Comulgando a Cristo y compartiendo su vida con él, el Padre nos ama como a él (Jn 17,23). En nuestro barra, Dios, comunicándonos su Espíritu, ha impreso el rostro de su Hijo querido.

 

7. Opci6n personal. par Cristo

 

El Espíritu es el que da la vida..: Las palabras que yo os he hablado son Espíritu y vida; pero hay algunos de vosotros que no creen... Por esto os dije que nadie puede venir a mi si no Ie es dado de mi Padre.

 

Desde entonces muchos de sus discipulos se retiraron y ya no Ie seguian. Jesús dijo a los doce: ,Quereis iros vosotros también? Respondió Simón Pedro: Señor. ,a quien iríamos? Tt1 times palabras de vida eterna, y nosotros creemos y sabemos que tu eres el Santo de Dios...

 

(Jn 6,63-69)

 

El amor de Cristo es exigente. Se nos acerca a to­dos y a cada uno para comunicarnos la palabra de Dios, que es él mismo como "pan de vida". El evan­gelio se hace encuentro comprometido con Cristo y opción personal y definitiva por él. La debilidad de Nicodemo, de la samaritana y del paralitico no fue obstáculo para la fe y el encuentro. El verdadero obstáculo consiste en los ídolos ,0 becerros de oro fabricados en la mente y en el corazón del hombre. A Dios hecho hombre hay que recibirle tal como es; Dios es siempre sorprendente porque desborda nues­tros planes y deseos.

 

Las palabras de Jesús son fuerza de vida para el creyente; son caridad divina y vida en el Espíritu, que se comunica por Cristo, que viene de Dios, y vuelve con nosotros a Dios. Lo peculiar de la vida cristiana es precisamente aquello que desborda al hombre sin fe: Cristo hecho donación por una muerte de cruz.

 

La persona y el mensaje de Cristo, al cuestionar nuestra fe, se nos hacen examen de amor y de segui­miento. Los que siguieron a Cristo por la moda del momento originaron la primera crisis de la historia cristiana. El punto de referencia de nuestra fe es la actitud de Pedro como piedra sobre la que Cristo fundo su Iglesia (Mt 16,18). Cuando el seguimiento de Cristo se hace encuentro personal y amistad de desposorio, se desvanecen las dudas sobre el sentido de la existencia.

 

10. Tienda de peregrino (Jn 7-8,1l)

 

1. El tiempo de Cristo

 

Estaba cerca la fiesta de los tabernáculos (tiendas)... Mi tiempo no ha llegado aun, pero vuestro tiempo siempre está pronto... Aun no se ha cum­plido mi tiempo... Subió también él a la fiesta. no manifiestamente. sino en secreto. Los judos lo bus­caban en la fiesta ... Nadie hablaba libremente de el por temor de los judíos.

 

(Jn 7,2-13)

 

Para Cristo, el tiempo equivale a peregrinación hacia .el Padre. La vida se hace fiesta de peregrinos que Viven bajo tiendas transitorias. El Verbo ha es­tablecido ~u tienda de peregrino entre nosotros (Jn 1,14). El tlempo es un ensayo de una llegada y fiesta definitiva. El presente es un encuentro con Dios que vive en los hermanos y que se nos acerca en losacontecimientos. Lo importante es acertar en el en­foque ,de .la vida aquí y ahora. Para Jesús, el tiempo es autentico cuando lleva a la pascua de dar la vida por los hermanos.

 

Los acontecimientos son signos que nos ayudan a orientar la vida hacia la donación. Los aconteci­mientos son "signos de los tiempos" (Mt 16,3) sólo cuando dejan entrever la voluntad salvífica del Pa­dre. Sin esta perspectiva, el tiempo se diluye en pri­sas, ganancia, nerviosismo y modas del momento.

 

Amar siguiendo fielmente los "signos de los tiem­pos", que son signos de la pascua, comporta pasar por el ridículo y ser destruido por una crítica al margen del evangelio. Correr la suerte de Cristo, que es el cordero pascual, es un riesgo que solo afrontan los enamorados. Siempre se encuentra tiempo para cumplir lo que agrada al Padre; basta con no perder tiempo en nuestras preferencias.

 

2. £1 mensaje sobre el Padre

 

Mi doctrina no es mía. sino del que me ha envia­do... Yo no he venido de mi mismo; pero el que me ha enviado es veraz... Yo le conozco. porque proce­do de él y él me ha enviado... Aun estaré con vos­otros un poco de tiempo. y me iré al que me ha enviado. Me buscareis y no me hallareis. y a donde yo voy. vosotros no podéis venir.

 

(Jn 7.16-34)

 

El misterio de Jesús se transparenta a través de su persona y de su mensaje. Sus gestos y palabras dejan entrever los planes de Dios amor sobre el hombre. Por esto la palabra de Jesús penetra hasta lo más profundo de nuestro ser. No es doctrina de hombre, sino experiencia personal del Hijo de Dios, que nos explica lo que él ha visto y oído eternamente en el corazón del Padre (Jn 8,38). Jesús no es un simple expositor 0 transmisor de una experiencia religiosa adquirida dentro de su conciencia. El ser de Jesús es la expresión personal del Padre, la mirada pura y eterna al Padre en el amor del Espíritu Santo. Y en este su mirar ha injertado nuestra mirada de oraci6n filial y contemplativa.

 

La garantía de la doctrina y experiencia de Cristo se encuentra también en el hecho de que responde a los deseos y anhelos más profundos del hombre, pero trascendiéndolos de modo infinito. Solo Dios ha podido insertar en el corazón humano esta sed de trascendencia y de infinito. Y solo la doctrina que viene de Dios, es decir, la revelación, que es el mis­mo Cristo, puede responder adecuadamente a esas ansias de felicidad y de "mas alía".

 

La doctrina de Cristo se resume en anunciar que Dios es amor, que el hombre es amado por él y que ya puede amar a los hermanos con el mismo amor con que él es amado por Dios. La misión de Cristo quedara cumplida cuando llegue "la hora" señalada

 

por el Padre para dar la vida. Jesús vive pendiente. del amor al Padre y a los hombres, y llama a los suyos a transformar la vida en ese mismo amor de donación total.

 

3. Las aguas vivas

 

El ultimo día de la fiesta, el más solemne, Jesús, puesto en pie, grit6: Si alguno tiene sed, que venga a mí y beba. El que cree en mí, como dice la Escri­tura, correrán de su seno ríos de agua viva. Esto dijo del Espíritu que habían de recibir los que cre­yeran en el, pues aun no había sido dado el Espíritu porque Jesús no había sido glorificado.

 

(Jn 7,37-39)

 

En el templo y a voz en grito, Jesús resume todo el mensaje de los profetas y lolleva a plenitud (Is 44,3). Sólo Jesús, el Hijo de Dios, puede ofrecer los torrentes de agua viva 0 la vida nueva en el Espíritu a todos los hombres (Ap 22,1). De su corazón abierto en la cruz, como signo de glorifica­ción, brotara esa agua que sacia la sed (In 19,34; Is 12,3). Es el nuevo nacimiento (In 3,5) y "la fuente que salta hasta.la vida eterna" (In 4,14). Jesús, el nuevo templo y el verdadero cordero pascual, ofrece a todos esta experiencia de Dios, que ya comienza en esta tierra (Ap 21,22). Basta con tener sed y sentirse pobre ante el amor.

 

La sed de Dios es un tema frecuente en la Biblia (Sal 62; Is 55,1). Esta sed deja transparentar nuestra realidad humana. Es la autenticidad de sentirse crea­tura zarandeada por el sufrimiento, la injusticia, el pecado 0 la propia pobreza radical. Es la actitud que nos hace transparentes ante Dios y que .no ahuyenta a ningún hermano.

 

Solo entonces se descubre a Dios tal como es: Dios amor, que nos ama porque somos sus hijos en el

 

Hijo, que ha asumido nuestra existencia como pro­pia. La glorificación de Jesús, ya desde la cruz, fun­damenta nuestra fe y da sentido a ~odas las circuns­tancias de nuestro existir.

 

4. Disensi6n

 

Algunos decían; Este es el Mesías; perootros replicaban; ¿Acaso el Mesías puede venir de Galt­lea?... Se originaron disensiones entre La gente por su causa. Algunos de ellos querían apoderarse de él.

 

(Jn 7.41-44)

 

De nuevo el escándalo sobre Jesús, que es siempre escándalo de la cruz. La vida y las palabras de Jesús ponen al descubierto los recovecos ocultos del corazón. No es que el Señor produzca desuni6n, sino que es el egoísmo humano el que siembra las discor­dias y las guerras. Lo que más subleva al hombre son las circunstancias por las que Dios se manifiesta y acerca. EI hombre quiere tener en todo la iniciati­va y la capacidad de manipular ideas, sistemas y personas; pero Dios se reserva siempre el derecho de escoger las circunstancias de la revelaci6n y del en­cuentro con él Es que nos ama muy por encima de nuestras aspiraciones y deseos.

 

En las discusiones humanas sobre la fe y sobre los valores evangélicos se barajan muchas veces términos que no concuerdan con los planes amorosos de Dios. El hombre sigue fabricándose sus ídolos, también en el campo de las ideas teo16gicas y de ~~s preferencias espirituales y apostólicas. Toda plamfI­caci6n que no nazca de la fe y de la esperanza y que no conduzca al "amor camina por derroteros ajenos al evangelio.

 

No se puede aspirar al encuentro con Dios tenien­do el corazón lleno de ídolos camuflados de raz6n,

 

de derechos y de religiosidad. Hacerse con el tesoro escondido y con la perla preciosa del encuentro con Cristo exige desprenderse de todo lo que no suene a servicio y a caridad.

 

5. No peques mas

 

Mujer. nadie te ha condenado? Dijo ella: Nadie. Señor. Jesús dijo: Ni yo te condeno tampoco; vete y no peques mas.

 

(Jn 8.10-11)

 

La encarnación del Verbo y su cercanía a los hombres manifiestan la ternura y la misericordia de Dios amor. Los hombres nos empeñamos en clasificar a las personas según nuestros esquemas. Para Cristo cada persona es irrepetible; es una historia y un milagro de amor. Cada uno es recuperable..Jesús ama asumiendo la realidad humana como propia, para salvarla, haciendo que el hombre recupere su verdadero rostro.

 

La fuerza de la palabra y de la presencia de Jesús es capaz de arrancar de cuajo todas las lacras, para comunicar una vida y un nacimiento nuevo. Nico­demo, la samaritana, el paralitico y la adultera son los rostros con los que Cristo se encuentra todos los días. Nuestra careta nos sirve de poco, si es que sirve de algo. Hay que decidirse a dejarse mirar por Cris­to con esa mirada que ama, sana y llama a reestre­nar la vida todos los días. Es una mirada que no se olvida jamás.

 

El mismo amor que comprende y perdona es exi­gente y sin rebajas. Jesús comprende nuestro barro quebradizo, pero quiere imprimir en él el esplendorde su mirada y la hermosura de su rostro de Hijo de Dios. Solo podemos sanar decidiéndonos a caminar por este camino de dialogo con Dios y de amor a los

 

hermanos. Jesús sigue viviendo en nosotros y cami­nando con nosotros. De un estropajo, Jesús puede sacar una túnica de bodas (Ap 3,17-18; 7,14). Solo es­ posible recuperarse cuando se quiere compartir la vida can Cristo, transformándola en amistad pro· funda, desposorio y compromiso de caridad.

 

11. ¿Caminar sin una luz? (Jn 8,12-9,41)

 

1. Yo soy la luz

 

Yo soy la luz del mundo; el que me sigue no anda en tinieblas, sino que tendrá luz de vida... Mi testimonio es verdadero porque se de d6nde vengo y ad6nde voy.

 

(Jn 8,12-14)

 

Jesús es el Hijo de Dios, el centro de la creación, el Señor de la historia. Su voz continua hoy tan joven como hace veinte siglos: "Yo soy la luz" (In 9,5; 12,35-36; 12,46). Es él quien, por amor, ha dado ori­gen a la luz y a la vida. Por esto es la verdad y el camino hacia ella. En Cristo el hombre encuentra el verdadero renacer: desde las tinieblas del error y del pecado hasta la luz de Dios y la vida en e1 Espíritu.

 

Jesús no habla solo a partir de unas ideas 0 de una simple experiencia interior, sino a partir de su realidad de Hijo enviado, que viene del Padre y vuelve al Padre; por esto comparte con nosotros todo lo que es y todo lo que tiene.

 

Jesús no es s6lo una luz, sino La luz. En el vemos a Dios amor (In 14,9). En Cristo, "esplendor de la gloria" del Padre (Heb 1,3), encontramos a Dios en su realidad divina y en sus amores par los hombres.

 

Los designios salvíficos de Dios sobre el hombre se manifiestan en la persona y en la obra de Jesús. Esos designios serian imaginarios si Cristo no fuera el Hijo de Dios. La historia humana ya ha cambiado de rumba. "En tu luz hemos visto la luz" (Sal 35,10). Ya nos es posible vivir en la dominica de Cristo, que conduce todo hacia Dios amor: "Llévame, luz admirable" (Card. Newman).

 

2. No estoy solo

 

. Mi juicio es verdadero, porque no estoy solo, sinoyo y el Padre que me ha enviado... El Padre que me ha enviado da testimonio de mí.  Si me conocierais a mí, conoceríais también a mi Padre... El que me envi6 no me ha dejado solo, porque hago siempre lo que es de su agrado... Muchos creyeron en el.

 

(Jn 8,16-30)

 

La vida de Jesús es siempre una relación y una mirada personal al Padre en el amor del Espíritu Santo, que le lleva a dar la vida por todos los hom­bres. Jesús no necesita puntos de apoyo en aprecios humanos 0 en actitudes egoístas. Su ser es darse, precisamente porque es reflejo personal de Dios amor. Dios se manifiesta en el. En cada gesto y en cada palabra de Jesús se puede escuchar la voz del Padre: "Este es mi Hijo amado..., escuchadle" (Mt 17,5). Toda su vida está orientada hacia el momento de su máxima epifanía en la cruz, cuando realizara el gesto supremo de morir amando.

 

Mirando a Cristo y unidos a él, aprendemos a ha­cer de la vida una relación personal con Dios y una donación a los hermanos. La identidad, como la fe­licidad, no se encuentra buscándose directamente a sí mismo, sino mas bien realizando en la propia vida la misión de servir a los demás.

 

La soledad y la depresión comienzan cuando el corazón se encierra en sí mismo, como queriendo hacerse el centro imprescindible de todo. Este sentimiento de soledad se supera presamente no buscando sucedáneos al amor. Jesús, que vive en nos· otros, es amado por el Padre, ama al Padre y puede hacer amar al Padre. Es esta nuestra misma identi­dad, que es posible gracias a él. La frustración y el fracaso son solo aparentes cuando la vida se resuelve en cumplir la misión encomendada por Dios amor, que es siempre de servir sin esperar recompensas ca­ducas ni éxitos inmediatos.

 

3. Yo soy

 

Cuando levantéis en alto al Hijo del hombre. en­tonces exoneréis que yo soy. y no hago nada de mí mismo. sino que. según me enseii6 el Padre, as hablo... En verdad. en verdad os digo: antes que Abrahán naciese era yo.

 

(In 8.28 Y 58)

 

Jesús es el Emmanuel (Dios con nosotros), el Hijo de Dios que nos ama hasta dar la vida en sacrificio por nuestra salvación. "Yo soy" es el título que Dios se dio a sí mismo en el Sinaí (Ex 3,14). Dios es fiel al amor creando, sosteniendo y salvando nuestra exis­tencia. Dios ha creado todo y conserva todo porque nos ama. Y con este mismo amor nos comunica su Palabra (Is 52,6). Jesús, exaltado en la cruz, aparece como la Palabra personal de Dios amor Un 8,28; 12,32). Dios se revela a si mismo amando; su amor imprime en nuestro barro los rasgos de la fisonomía de su Hijo Jesucristo.

 

La fe de Abrahán conduce a la fe en Jesús. Dios nos ha amado hasta darnos a su Unigénito en sacri­ficio por nuestros pecados Un 3,16). Lo que en Abrahán fue solo un gesto de disponibilidad, en

 

 

 

Dios es una realidad: su Hijo ha sido inmolado por amor nuestro (Rom 8,32).

 

EI nuevo Moisés es ahora Jesús, el Hijo de Dios levantado en cruz para sanarnos de nuestras heridas Un3,14-l5; 8,28). El gozo y la liberación de la verda­dera pascua solo Se encuentran en Jesús, que es "el principio" y el centro de la creación y de la historia. Los gestos y las palabras de Jesús son narración dramática del amor eterno de Dios por los hombres. En cada expresión de Jesús se contiene toda la historia del amor divino por cada uno de nosotros.

 

4. La verdad que libera

 

Si permanecéis en mi palabra, seréis en verdad mis disépalos y conoceréis la verdad y la verdad os hará  libres... Yo hablo de lo que he visto en mi Padre... Yo he salid .y vengo de Dios..., es él quien me ha enviado... ¿Por qué no entendéis mi lengua­je?  Porque no podéis escuchar mi palabra... Yo no busco mi gloria... Es mi Padre quien me glorifica.

 

(In 8.31-54)

 

La libertad nace de participar en la filiación divi­na de Jesús, haciendo de todo una vida nueva, un sacrificio de donación a los hermanos y una pascua

 

o paso hacia Dios amor. La humanidad liberada de las injusticias que dimanan del pecado es aquella que vive en la comunión de vida eterna 0 vida nueva con Dios y con todos los hermanos.

 

Somos liberados porque hemos renacido en Cris­to, Hijo de Dios, por obra del Espíritu de amor.. Jesús es la verdad, el portador d~ los planes salvíficos de Dios. El que cree en Jesús es de la verdad, nace del Espíritu, camina en la verdad, ora en la verdad y es liberado y santificado por la verdad. Ser libre equivale a realizarse en Cristo: conocerle amando.

 

Cristo es el camino de la salvación 0 liberación

 

integral y verdadera, porque sólo él es capaz de ayudarnos a transformar nuestra vida en donaci6n a los hermanos. El proceso del encuentro y amistad con Cristo es proceso de contemplaci6n de la verdad, que es el mismo, aceptando su persona y su doctri­na, como proceso de unificación en el amor. Todo lo que no lleva a este amor en Cristo se considera basura (Fil 3,8). El drama humano de la búsqueda de la verdad solo se resuelve cuando se ama al hom­bre en su totalidad; no por lo que tiene, sino por lo que es. Pero este amor nace solo del encuentro con Cristo. Conocer a Cristo amándole es el conocer "contemplativo" que nos libera del pecado y nos une a Dios y a todos los hermanos.

 

5. "Crees en el Hijo de Dios?

 

Mientras estoy en el mundo, soy la luz del mun­do... ~Crees en el Hijo del hombre? Respondi6 el (ciego curado) y dijo: ¿Quién  es, Señor, para  que crea en él? Díjole Jesús: Lo estás viendo; es el que habla contigo. Dijo él: Creo, Señor, y se postr6 ante él.

 

(Jn 9,5-38)

 

Jesús salva a todos los que se presentan tal como son y se abren a su luz y a su verdad. Un ciego de nacimiento se convirti6 en testigo y signo portador de la luz. Los criterios y valores humanos al mar­gen de Cristo pierden todo su valor, porque dejan de ser plenamente humanos. Jesús sigue realizando los mismos milagros, hoy como siempre, porque ha venido a evangelizar a los pobres (Lc 4,18) para ha­cerlos transmisores de este mensaje de amor y de perd6n.

 

Para encontrar a Cristo basta con abrir el co­raz6n, manifestando nuestra búsqueda de verdad (como Nicodemo), nuestra ansia de algo mas (como

 

la samaritana), nuestro anhelo de curaci6n total (como el paralitico) 0 nuestro deseo de ver, que en Cristo todo se hace destello de Dios amor. Cerrarse a la verdad, a la vida y a la luz conduce a la ruina. Basta con abrir nuestro ser y dejarle ver, oír, sentir, palpar a Dios, presente en todas las cosas porque nos ama. En Cristo, el Verbo hecho carne, Dios se ha hecho visible, sensible y palpable. Los signos de su presencia y cercanía son signos pobres, porque son el reto a nuestros ídolos. Creer es dejar que nuestro ser sea lo que es ante la mirada y la gracia de Dios amor. Entonces nos hacemos su gloria 0 su reflejo, como Jesús. Creer en Dios amor solo es posible des­cubriendo a Cristo presente en los signos pobres de los hermanos, de la Iglesia y de nuestra misma existencia.

 

12. La vida es un "sí" (In 10,1-42)

 

1. Yo soy la puerta

 

El que entra por la puerta, ese es el pastor de las ovejas. A este le abre el portero, y las ovejas oyen su voz, y llama a sus ovejas por su nombre..., va delan­te de ellas, y las ovejas le siguen porque conocen SU voz... Yo soy la puerta de las ovejas..., el que por mí entrare se salvará... Yo he venido para que tengan vida, y la tengan en abundancia.

 

(Jn 10,2-10)

 

La imagen del buen pastor resume todo el evange­lio de Juan. Cristo es el salvador, por ser e1 Hijo de Dios que ha venido a dar la vida por los hombres. Los suyos, sus ovejas, forman la comunidad de creyentes que siguen su voz. A Cristo se le encuentra

 

presente en la comunidad eclesial. Un Jesús sin esos signos pobres de Iglesia, que constituyen el testimo­nio apost6lico, sería una ficci6n y una quimera.

 

La comunidad eclesial nace de la palabra de Jesús y de su sacrificio redentor. Una Iglesia (o una ecle­siología) sin palabra de Jesús predicada por los apóstoles, sin eucaristía y sin .pastores, serla una abstracción producto de laboratorio. Seguir a Cristo supone aceptar los signos pobres de Iglesia, donde él se hace presente, dejando de lado los ídolos que na­cen al margen de los planes de Dios amor.

 

La "puerta" de la comunidad es el mismo Jesús. Cada uno ha entrado en el redil porque ha sido lla­mado por su nombre. Jesús nos mira y conoce hasta lo hondo del corazón; y nos ama por lo que somos, no por lo que tenemos. En nuestro corazón, sediento como tierra reseca, Cristo infunde una vida nueva, que es participación en su filiación divina. Nos saca

 

o libera de la pobreza y opresi6n, que es producto del pecado, para hacernos pasar a la pobreza evangélica de tener como único tesoro la fe en Cristo, es decir, compartir la vida con él y con los hermanos.

 

2. Amar hasta dar la vida

 

Yo soy el Buen Pastor; el Buen Pastor da la vida por sus ovejas... Conozco a las m{as y las m{as me conocen a m{, como el Padre me conoce y yo co­nozco a mi Padre, y pongo mi vida por las ovejas. Tengo otras ovejas que no son de este aprisco, y es preciso que yo las traiga, y oirán mi voz, y habrá un solo rebaño y un solo pastor... Mis ovejas oyen mi voz, y yo las conozco y ellas me siguen.

 

(In 10,11-16 y 27)

 

Jesús describe su vida con la figura del buen pas­tor, atribuyéndose las cualidades de Dios, pastor de su pueblo Israel (Ez 34,1I-31). El posesivo "mis ove­jas",

 

"sus ovejas", se va repitiendo como nota de ternura y de verdadera posesión y enamoramiento mutuo. Jesús pertenece a sus ovejas y sus ovejas le pertenecen a él como parte integrante de su ser.

 

Cristo da la vida en sacrificio para comunicar la vida divina a sus ovejas. Es la máxima expresión del amor divino Un 3,16), que es el mismo amor de Jesús como amigo y como esposo (Jn 15,13). Es un conocer amando, que reclama relación, amor de re­torno, presencia intima, comunión, sintonia y com­prensión. Este amor y posesión mutua en Cristo es el sentido esponsal de la nueva alianza.

 

El amor del buen pastor es de totalidad y de uni­versalismo. Su vida entera está dedicada a llamar, guiar y defender a "los suyos". Cada una de sus ove­jas es irrepetible y acapara toda su atención y todo su amor de buen pastor. El grito "tengo otras ove­jas" equivale a "tengo compasión" (Mt 15,32), "ve­nid a mi todos" (Mt 11,28); "tengo sed" Un 19,28). La razón de ser de Cristo es la de "atraer" a toaos los hombres desde la cruz Un 12,32; 10,16) con su amor de esposo que da la vida, para formar una sola co­munidad humana de redimidos e hijos de Dios. Los que siguen a Cristo quedan contagiados de sus amo­res por la salvación de toda la humanidad; es l:lna exigencia del encuentro y del amor contemplativo.

 

3. El mandato del Padre

 

Por esto el Padre me ama, porque yo doy la vida para tomarla de nuevo. Nadie me La quita, soy ya quien la doy de m{ mismo. Tengo poder para darla y poder para volverla a tomar. Tal es el mandato que he recibido del Padre.

 

(In 10,17-18)

 

Jesús viene del Padre y vuelve al Padre después de haber cumplido su obra Un 17,4). La vida de Jesús

 

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se hace inmolación, es decir, donación sacrificial e incondicional. Dar la vida en aras de la voluntad del Padre es ya el inicio de la glorificación. Jesús se sabe amado por el Padre, y por esto transforma todo en amor al Padre y a los hombres. Su vida es un "sí" desde la encarnación hasta el delo, pasando por la muerte y resurrección (Heb 10,7; 7,25). La vida de los seguidores de Cristo es siempre un proceso de vaciarse de sí para llenarse de Dios y darse a Dios y a los hermanos. Este es el camino de perfección y de contemplación.

 

Por ser el Verbo encarnado, Jesús tiene potestad sobre la vida y sobre la muerte. Ningún aconteci­miento ni ninguna injusticia van a destruir esta fuerza del amor. Nadie le puede quitar nunca la ca­pacidad de vivir y de morir amando. Su misma muerte será el gesto de dar la vida sin esperar a que se la arrebaten Un 19,30). Así es el morir amando del buen pastor, para poder comunicar el agua viva de su Espíritu Un 19,34). Imitando esta actitud de Jesús de convertir todo en ocasión de dar la vida amando, nos hacemos transparencia del evangelio.

 

4. La unión con el Padre

 

Yo y el Padre somos una misma cosa... ¿De aquel a quien el Padre santijic6 y envi6 al mundo decís vosotros que blasfema por haber dicho: Soy Hijo de Dios?... Creed en las obras, para que sepáis y conozcáis que el Padre Está en m{ y yo en el Pa­dre... Y muchos creyeron en él.

 

(In 10,30-42)

 

La persona, los gestos y las palabras de Jesús re­flejan a Dios amor. Es el Hijo de Dios, el "esplendor de su gloria" (Heb 1,3). Es el Hijo hecho hombre por obra del Espíritu Santo y enviado para dar la vida eterna a todos los que creen en él (Jn 10,27-28).

 

II6

 

Encontrar a Jesús es encontrarse con Dios y con sus planes de salvación.

 

Dios no es una idea, sino "Alguien" cercano, que vive con nosotros y en nosotros. Los signos de la presencia de Jesús nos hablan de la cercana y epifanía de Dios. Son los signos pobres de la Iglesia y del hermano. La unión con Dios comienza aceptando estos signos por amor a Cristo que se esconde en ellos. Otra "unión" con Dios sería sólo fruto de imaginación.

 

La interioridad de Jesús se resume en una mirada amorosa al Padre. Vive en él y de él. Toda su ilusión es hacer que cada hombre refleje el rostro del Padre. Jesús esta empeñado en llevar a término esta empre­sa deslumbrante, que tiene sus inicios en el amor eterno de Dios. En el amor del Padre, Jesús encuen­tra el esbozo de nuestra historia. Cristo da la vida en sacrificio para cumplir esta misión t9talizaIlte. Por esto se presenta como ungido y enviado (Jn 10,36). EI que cree en Cristo y le ama comparte con él sus amores y su vida entera.

 

13.       Transformar el presente en vida eterna  

 

I. El que amas está enfermo

 

Había  un enfermo, Lázaro, de Betania, de la al­dea de María y su hermana... Enviaron, pues, las hermanas a decirle: Señor, el que amas está enfer­mo. A I oírlo Jesús, dijo: Esta enfermedad no es de muerte, sino para gloria de Dios, para que el Hijo de Dios sea glorificado par ella.

 

(In II,H)

 

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Jesús educa a sus seguidores por un camino de amistad. A partir del conocimiento amoroso de Jesús, es mas fácil dar el salto a las últimas consecuen­cias de la fe. En todo acontecimiento humano, aun­que sea la muerte, Cristo se hace presente para convertirlo en pascua 0 paso hacia el Padre. Cristo trata a sus amigos con amor tierno, aunque ese amor parezca abandono, ausencia y silencio. EI ca­mino de la oraci6n contemplativa es así.

 

La curación más profunda es la de saber transfor­mar todos los acontecimientos, y especialmente el dolor, en amor aDios y a los hermanos. EI amigo de Jesús participa de su misma vida como "esplendor"

 

o gloria del Padre (Heb 1,3; Ef 1,6). Ese es el mejor premio de Cristo a sus amigos cuando se encuentran en soledad, sufrimiento y marginación.

 

La oración es camino de pobreza 0 de autentici­dad. Se ora en la medida en que uno se presenta ante Dios tal como es. La iniciativa es siempre de Dios, puesto que es él quien habla, ama y llama a través de nuestras circunstancias. La oraci6n con­templativa comienza cuando, como la samaritana a  Lázaro, reconocemos lo que somos y creemos en el amor de Dios por nosotros. Los amigos de Cristo son invitados a profundizar esta actitud de pobreza convirtiéndola en actitud filial, como la de Cristo, y, por tanto, en confianza plena. Entonces se ora espe­rando la sorpresa de Dios y dejándole a ella iniciati­va del como: "denos él lo que quisiere, siquiera haya agua, siquiera sequedad" (santa Teresa).

 

2. Vayamos a morir con el

 

. Aunque oy6 que estaba enfermo, permaneci6 en el lugar en que se hallaba dos días más; pasados los cuales dijo a sus disépalos: Vamos otra vez a Ju­dea... Lázaro, nuestro amigo, está dormido, pero

 

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voy a despertarle... Dijo Tomas a los compañeros: Vamostambién nosotros a morir can él.

 

(Jn 11,6-16)

 

EI evangelio de Juan describe la vida de Jesús como una marcha hacia "la hora" que le ha señala­do el Padre. Es el momento de "dar la vida y volver­la a tomar" (Jn 10,18). La decisión de Jesús de vol­ver a Judea cuando se <<<<acercaba la pascua se traduce en la subida a Jerusalén para dar la vida en sacrifi­cio (Jn 10,7). Los amigos de Jesús se deciden a co­rrer esponsalmente su suerte. Quien comparte la vida con Cristo afronta las dificultades con la espe­ranza de encontrarle a él como amigo que nunca abandona. La propia debilidad no es obstáculo cuando se reconoce con humildad y cuando se deja a Jesús ser el protagonista de nuestra existencia.

 

Jesús dejo morir a su amigo Lázaro. No obstante, con toda seguridad, se dejo sentir veladamente a su lado en ese momento decisivo. No era necesario que muriera pensando que tal vez resucitaría a los cua­tro días; le bastaba con morir creyendo en la vida futura y en la resurrección final.

 

Jesús no promete éxitos inmediatos a los suyos. Correr la suerte de Cristo equivale a ser, como él, el granito de trigo que muere en el surco esperando el fruto en el momento oportuno (Jn 12,24). En la vida espiritual y en la vida apostólica hay que aprender a arriesgarlo todo por Cristo. Perder es ganar cuando lo único que se busca es construir la propia existen­cia según el amor (Mc 8,35).

 

3. Yo soy la resurrecci6n y la vida

 

Yo soy la resurrecci6n y la vida; el que cree en mi, aunque muera, vivirá; y todo el que vive y cree en mi no morirá para siempre. ¿Crees tú esto? ..

 

(Jn 11,25-26)

 

Ante un cadáver de cuatro días y poco antes de su propia muerte, Jesús proclama lo que ningún hu­mano se ha atrevido a decir. EI acento esta en las palabras "Yo soy", porque él es Yavé, el Señor, el que es fiel al amor y a su creaci6n, el que sostiene nuestra existencia, la luz, la verdad, la resurrección, la vida... A los que aman a Jesús les basta con escu­char el "Yo soy", aunque sea en medio de la tempes­tad (Jn 6,20).

 

Jesús nos deja experimentar nuestros miedos, nuestras dudas y ansiedades, con tal de que no vaci­lemos en la fe y que no desconfiemos de su amor. La fe es, al mismo tiempo, oscuridad y luz. Nuestro modo de pensar se queda a oscuras. A veces se nos convierte en queja de enamorado. Pero siempre debe ser convicci6n inquebrantable de que nos ama y de­cisi6n de seguirle, amarle y hacerle amar.

 

El Hijo de Dios ha venido para asumir nuestras circunstancias y hacerlas su propia biografía. Su protagonismo y sensibilidad de consorte y hermano supera nuestros cálculos. A veces nos libera de la enfermedad, de la persecución y de la muerte; pero entonces es solo para ayudarnos a pasar a una fe más profunda en su presencia oculta, que supone más amor cuando parece más ausencia y silencio. ¿No nos basta él? ~No tenemos bastante con el pre­mio de correr su misma suerte de muerte y resurrec­ci6n? Nuestra vida se va haciendo desposorio y amistad profunda con Cristo en la medida en que nos fiamos más de su amor; "Se a quien me he confiado" (l Tim 1,12).

 

4. Esta aquí y. te llama

 

Llamó María a su hermana, diciéndole en secre­to: EI Maestro está aquí y te llama. Cuando oy6 esto, se levant6 al instante y se fue a él... Se ech6 a sus

 

pies, diciendo: Señor, si hubieras estada aquí{, mi hermano no hubiera muerto.

 

(In 11,28-32)

 

No hay circunstancia ni acontecimiento humano que deje de ser un signa de la presencia y cercanía de Jesús. María de Betania estaba sumida en el do­lor, olvidando que "alguien" vivía su dolor más in­tensamente que ella. La voz de Cristo, que lleg6 a través de su hermana Marta, fue un despertar. Del sonambulismo de un dolor masticado a solas, comenzó a pasar a la luz de un nuevo día de amor eterno. Es una dinámica que sirve de modelo de ora­ci6n contemplativa, que es siempre la oraci6n de los pobres: oy6, se levantó, se  fue a él... La vida queda amorosamente relacionada con quien no nos deja ni a sol ni a sombra.

 

La oraci6n, cuando es autentica, se hace búsqueda, gemido, queja, grito y silencio. Es quejarse de la "ausencia" del amado, para descubrir que esa mis­ma queja y búsqueda es ya un signo de su presencia activa. Ante este modo original de amar que tiene Cristo, nuestra mejor actitud es la de estar con él, callar, dejarse mirar por él, quererle mirar de una vez y para siempre.

 

Poco a poco se va aprendiendo que la oscuridad de la fe es el lugar privilegiado del dialogo y del encuentro amoroso con Cristo. Los pobres no piden privilegios. Se le deja al tomar la iniciativa de es­coger la pedagogfa y el modo del encuentro. Precisa­mente a partir de este encuentro de signos pobres la propia existencia se hace misi6n. A Cristo le gusta comunicarse así, en la oraci6n, en la santificaci6n .y en el apostolado.

 

5. Jesús llor6

 

Jesús se canmavi6 hondamente... y dijo: ¿D6nde. le habéis puesta? Dijéronle: Señor, ven y ve. Jesús

 

lloro... Nuevamente conmovido en. su interior, llegó al monumento... Dijo Jesús: Quitad la piedra... Díjole Marta: Señor, ya hiede, pues es el cuarto d(a. Jesús le dijo: ,No te he dicho que, si creyeres, veras la gloria de Dios? .

 

(Jn 11,33-40)

 

En las pupilas de Jesús se reflejaban todas las per­sonas con quienes se encontraba. Era un reflejo que le llegaba al corazón y quedaba ahí para siempre. Su mirada a Pedro Un 1,42) 0 al joven rico (Mc 10,21) era mirada de hermano, salvador, protagonista. De aquellos mismos ojos brotaron las higromas junto al sepulcro de su amigo Lázaro.

 

Las expresiones y gestos de Cristo eran manifesta­ción de su amor eterno. Su amor ahora sigue siendo el mismo a través de su mirada y su presencia eucarística. Entonces y ahora no es una mirada estoica, sino de un amor comprometido: lloro, fue al sepul­cro y mando quitar la piedra. Nuestros problemas los vive con nosotros y son mas suyos que nuestros. Un montón de miseria y un punado de cenizas no son obstáculo a Cristo cuando creemos en él.

 

Jesús manifestó su gloria a través de su carne débil como la nuestra. Y "hemos vista su gloria" de Hijo de Dios Un 1,14) en sus gestos y palabras tan humanas como las nuestras. Nuestra vida se ha con­vertido en biografía de Jesús prolongado en la histo­ria. Las ruinas y los sepulcros sirven para purificar la vida de toda clase de escorias, porque lo único que queda es la caridad, que nace del encuentro con Cristo y con los hermanos. El tiempo es una colabo­ración activa y responsable, en la oscuridad de la fe y en el gozo de la esperanza, para hacer que toda la humanidad y toda la creación quede restaurada en el amor de Cristo resucitado.

 

6. Gracias, Padre

 

Jesús, alzan.do los ojos al cielo, dijo: Te doy gra­cias, Padre, porque me has escuchado; yo se que siempre me escuchas, pero lo digo por la muche­dumbre que me rodea, para que crean. que tú me has enviado. Dicien.do esto, gritó con. voz potente: Ildara, sal fuera! Salió el muerto, atado de pies y manos con. ven.das, y el rostro envuelto en. un. sudario. Jesús les dijo: Soltadle y dejadle ir. Mu­chos judíos... vieron. lo que había hecho y creyeron. en. el.

 

(In 11,41-45)

 

La vida de Jesús es siempre una mirada amorosa al Padre. Muchas veces va acompañada de un gesto

 

o una oración de gratitud (Lc 1O,21s). Todo refleja el amor del Padre; también Getsemaní 0 la cruz. Jesús sabe que el Padre le ama y le escucha siempre, tanto al pedir la resurrección de Lázaro como al po­nerse él mismo, clavado en cruz, en sus manos pro­videntes (Heb 5,7-10). Nuestra fe se apoya en este gesto de Jesús en manos de Dios amor. Es mayor milagro morir amando en la cruz que devolver la vida a Lázaro. Por esto el gesto de Jesús de "entre­gar su espíritu" (Jn 19,30; 10,18) será un anticipo de su resurrección y de la nuestra, venciendo con nosotros el pecado y la muerte.

 

La voz imperiosa de Jesús sigue tan viva hoy como hace dos mil años. Es palabra que liega a la raíz de todos nuestros males, que él ha cargado como propios. El modo de vencer que tiene Jesús es desconcertante, porque lo mismo puede resucitar a Lázaro que convertir en martirio la muerte de Juan Bautista.

 

Lo que importa es nuestra fe; que lo sepamos descubrir cercano en cada uno de nuestros acontecimientos, y que en ellos descubramos el amor de su Padre, que lo es también nuestro. La fe en Jesús

 

unifica nuestro corazón, haciéndonos recuperar la fisonomía de hijos de Dios y el reflejo del Padre. Pero esta fe cuestiona, examina y purifica cuando nuestro corazón se ha encandilado con espejismos.

 

7. Tenía que morir por todos

 

Caifás dijo: ¿No comprendéis que conviene que muera un hombre por todo el pueblo y no que pe­rezca todo el pueblo? .. Como era pontífice aquel año, profetiz6 que Jesús había de morir por el pue­blo, y no s6lo por el pueblo, sino para reunir en uno todos los hijos de Dios que estaban dispersos. Desde aquel día tomaron la resoluci6n de matarle.

 

(Jn 11,49-53)

 

La perspectiva del evangelio de Juan es siempre de redención universal. Es la misma que respiran sus cartas (I In 2,2). Con este horizonte sin fronte­ras, las cosas más pequeñas y más "casuales" reco­bran su dimensión providencialista. Para Jesús no hay desgracias ni casualidad, sino que todo se con­vierte en ocasión querida por el Padre para dar la vida en rescate de todos (Mt 20,28). Jesús sabe perder lo inmediato para salvar a todos en su integridad. El camino de la Iglesia es de desposorio, es decir, de correr la misma suerte de Cristo.

 

La vida de Jesús es una oblación permanente que culmina en la cruz. Es el cordero pascual, el siervo inocente 0 siervo paciente del Señor (Is 42,1ss), que debe morir para llevar a efecto la nueva alianza de amor entre Dios y su pueblo. Al precio de su sangre, nos hizo participes de su filiación divina. En esta actitud de Jesús, que "nos amo y se entrego en sacri­ficio por nosotros" (Ef 5,2), se fundamenta la acti­tud generosa y martirial de santos y misioneros, que han hecho de sus vidas una sintonía con el amor esponsal y sacrificial que Cristo tiene a su Iglesia y a toda la humanidad (Ef 5,25-27).

 

14. Preludio de pascua (In 12)

 

I. Preparar su sepultura

 

Seis días antes de la Pascua vino Jesús a Beta­nia, donde estaba Lázaro, a quien Jesús había resu­citado de entre los muertos. Le dispusieron allí una cena, y Marta servía... María, tomando una libra de ungüento de nardo legitimo, de gran valor, ungi6 los pies de Jesús y los enjug6 con sus cabellos, y la casa se llen6 del olor del ungüento... Judas dijo: ¿Por qué este ungüento no se vendi6 y se dio a los pobres?... Jesús dijo: '" lo tenía guardado para el día de mi sepultura...

 

(Jn 12,1·7)

 

Toda la vida de Jesús está orientada hacia la pas­cua. Era "la hora" en que, muriendo y resucitando, "pasaría" al Padre y obtendría nuestra salvación. El mensaje de Jesús es una "fiesta" de nueva creación y de nuevo nacimiento. Hay que reorientar toda la vida según el amor. La liberación que Cristo anuncia, comienza en el corazón.

 

María de Betania había ofrecido a Jesús un cam­bio total de vida, expresado principalmente en la de­cisión de dejar para siempre una vida disipada. Este amor de seguimiento evangélico se expresa con ges­tos y compromisos de donación, que solo compren­den los enamorados de Cristo. Ser "olor" de Cristo (2 Cor 2,15) comporta previamente saber acompa­ñarle hasta su muerte y sepultura.

 

Aguafiestas los habrá siempre, con apariencia de actitudes bien intencionadas. Jesús vino para evan­gelizar a los pobres. La fiesta de la pascua, para Cristo, consiste en arriesgarlo todo para liberarnos de nuestras pasiones y de toda opresión que derive de ellas. A los pobres hay que acercarse con el corazón de pobre. Es la actitud de Jesús desde Nazaret y Belén hasta el Calvario. El amor a los hermanos

 

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solo se aprende en diálogo y amistad con Cristo. María de Betania emprendió el camino sin retorno que la llevada a la cruz, al sepulcro vado y, por tanto, a la misión de evangelizar a los pobres. EI amor le sostuvo y le hizo capaz de anunciar a Cristo a los hermanos. Este es el "perfume" que se hace signo y anuncio de Jesús resucitado.

 

2. Bendito el que viene

 

Al día siguiente. la numerosa muchedumbre que había venido a la fiesta, habiendo oído que Jesús llegaba a Jeruza, tomaron ramos de palmera y salieron a su encuentro gritando: ¡Hosanna! ¡Ben­dito el que viene en nombre del Señor, el Rey de Israel!... No temas, hija de Si6n; he aquí que viene tu rey montado en un pollino... Los fariseos se de­cían: ... ya veis que todo el mundo se va tras él.

 

(Jn 12,13-19)

 

EI pueblo autentico acoge siempre a Jesús con en­tusiasmo, porque en él se cifran y cumplen todas las esperanzas mesiánicas y los deseos más hondos del corazón del hombre. A Jesús le gusta acercarse con autenticidad y transparencia, siempre bajo signos pobres. Así puede llegar al corazón de cada ser hu­mano que se siente pobre, como quien entra en su propia casa.

 

Jesús es "el que viene", el esperado, el salvador, el que da sentido a nuestra existencia humana. En todo corazón y en toda situación humana hay algu­na semilla de evangelio, como un deseo implícito de la venida de Cristo. Por esto cuando, por fin, se en­cuentra al Señor, se le descubre como el esperado desde siempre. .

 

Jesús es signo de contradicción porque desmante­la los planes humanos que nacen del egoísmo. No basta con tener en las manos y en la cabeza algunos

 

textos de Escritura, si el corazón está lejos del amor. Jesús es capaz de suscitar discípulos y seguidores por encima de todo calculo y previsión humanos. Las conversiones y vocaciones son un don de Dios, no un derecho ni el resultado de una computadora. Jesús ira suscitando siempre la fe y la entrega gene­rosa entre los que no tienen otra riqueza y otra segu­ridad que el deseo de encontrarle.

 

3. Queremos ver a Jesús

 

Algunos griegos, que habían subido a adorar en la fiesta..., se acercaron a Felipe y le rogaron...: Queremos ver a Jesús... Andrés y Felipe vinieron y se lo dijeron a Jesús... Jesús les respondi6: Es llega­da la hora en que el Hijo del hombre será glori­ficado.

 

(Jn 12;20-23)

 

,Ver a Jesús! ,Ver su gloria! Es el hilo conductor del evangelio de Juan. Es la propia teología y expe­riencia de fe del discípulo amado (1 In 1,lss). No hay que exigir signos extraordinarios, puesto que basta la palabra de Jesús y el testimonio apostólico (Jn 20,27-29). La filiación divina de Jesús se mani­fiesta a través de su carne débil y de los signos po­bres de la comunidad eclesial.

 

A Jesús no se le descubre clasificándolo como su­perhombre ni como el portador de un simple ideal filantrópico. Jesús resucitado vive entre nosotros con su mismo ser de hombre y de Hijo de Dios. Sólo le descubre quien quiere entablar re1aciones perso­nales con él y no reducirle a mero adorno 0 paréntesis. Solo así es posible amar a los hermanos, espe­cialmente a los más pobres, con el mismo amor de Jesús.

 

Jesús ha dado la vida por todos (Jn 11,52; 1 In 2,2). EI piensa siempre en todas sus ovejas que toda­

 

vía están lejos (Jn 10,6). En el corazón de cada hom­bre y de cada pueblo hay un deseo ardiente de salva­ción, que solo puede saciar Jesús. La "sed" de Jesús en la cruz es la expresión de esta sed universal, que Jesús hace suya porque ha asumido nuestros proble­mas como propios. Es la sed de ver a Dios especial­mente cuando parece que calla y está ausente. El evangelio de Jesús ya llega a todas partes, ya lo co­nocen más 0 menos indirectamente todos; pero no lo han "visto" en el testimonio apostólico de los cre­yentes en Cristo. Jesús ha querido necesitar de sus apóstoles para dar pan a la multitud inmensa de los redimidos (Mt 14,16). Necesita nuestras manos y nuestra mirada, transformados por la fe y el amor, para que los hombres encuentren la mirada y el amor de Jesús.

 

4. Como e1 grana de trigo

 

Si el grano de trigo no cae en la tierra y muere, quedará  solo; pero si muere, llevará mucho fruto. El que ama su vida, la pierde; pero el que aborrece su vida en este mundo, la guardará  para la vida eterna. Si alguno me sirve, que me siga... Ahora mi alma se siente turbada. ,Y que diré? ¿Padre, líbra­me de esta hora? ¡Mas para esto he venido yo a esta hora! Padre, glorifica tu nombre.

 

(Jn 12,23-28)

 

La vida de Jesús camina hacia la pascua. Es her­moso vivir día a día mirando a la glorificación del Padre y al cumplimiento de sus planes salvitos universales. Hay momentos de sombra e incluso de marginación; pero todo lleva a la luz indeficiente. La lógica del Espíritu es así: conduce al "desierto" de la prueba y del dolor, para hacer posible una donación fecunda y la vida imperecedera. Jesús quie­re compartir con los suyos su glorificaci6n; por esto les invita también a compartir su Nazaret y su pa­sión.

 

 Compartir es cosa de enamorados. El "éxtasis" de amor consiste en "salir" de nuestro egoísmo (Gal 2,20).

 

Jesús experiment6 la debilidad humana ante el dolor, la humillación y la muerte (In 12,27-28; Mt 26,38). Esta experiencia forma también parte de la redención. Lo importante es no disminuir la tensión hacia el amor, es decir, la sintonía con la voluntad del Padre. Porque no hay otra forma de amor y de unión con Dios y con los hermanos.

 

La gloria de Dios equivale a la glorificación de Jesús a través de la muerte; por esto la salvaci6n del hombre forma parte de la glorificación del nombre de Dios y de Jesús, su Hijo. "La hora" de Jesús es el momento culminante de su gloria, porque también es el momento culminante de su donación. Es el paso pascual hacia el Padre (In 14,12). Cualquier momento de nuestra vida puede ya transformarse en "la hora" y "la gloria" de Jesús. Todo depende de un "si" tembloroso en la totalidad.

 

5. Cuando fuere levantado

 

Cuando yo sea levantado de la tierra, atraeré a todos hacia mí. Esto lo duda indicando de que muerte había de morir.

 

(Jn 12,32-33)

 

El "éxtasis" de amor, como máxima donación de sal mismo, se convierte en la máxima epifanía de Dios amor (In 8,28; 3,14). Jesús es el Hijo de Dios, cuya gloria es eterna (Jn 17,24). En su máxima hu­millaci6n se realiza la máxima exaltación, dejando entrever su filiación divina (Fil 2,5-11).

 

Ante Cristo clavado en cruz, nadie queda indife­rente. El corazón del hombre, la convivencia social, las leyes humanas y la cultura pueden encontrar la

 

luz y la verdad plena solo en Jesús. Todo cuanto no esté orientado hacia él, al menos indirectamente, está destinado al fracaso y a la ruina. En la cruz de Cristo se escucha la misma voz de quien es el centro de la creación y que dirige la historia: "Yo soy" (In 8,28). Es la única voz que infunde aliento a los se­guidores y apóstoles de Cristo.

 

La obediencia de Jesús a la voluntad del Padre, manifestada a través de las situaciones de gozo y de dolor, se convierte en glorificación del Padre y del Hijo en el Espíritu 5anto,que es la expresión divina del amor. La máxima unidad eterna, que es Dios uno y trino, se revela en la máxima unidad de un corazón humano: el de Cristo, Hijo de Dios y her­mano nuestro. Esta unidad de amor en la Trinidad y en Cristo clavado en cruz tiene una fuerza irresis­tible que atrae a todo corazón humano hacia él. En Cristo se unifican las cosas del cielo y de la tierra (Ef 1,10). En Cristo ha comenzado a edificarse la unidad de toda la familia humana y de todo el cosmos. Es la unidad que Cristo contagio a los que quieren vivir sólo para amarle y para hacerle amar. Esta unidad del corazón y este amor fraterno de la comunidad es sig­no eficaz de evangelización (In 17,23). Esta unidad de vida es fruto de la contempLaci6n.

 

6. Caminad en La Luz

 

Caminad mientras tenéis luz..., creed en la luz, para ser hijos de la luz. Esto dijo Jesús y, marchan­do. se ocult6 a su vista. Aunque haba hecho tan grandes señales en medio de ellos, no creían en él... porque amaban mas la gloria de los hombres que la gloria' de Dios.

 

(In 12,35·43)

 

La misma actitud de servicio y de dar la vida es la que hace decir a Jesús, sin complejos, que él es la luz,

 

la verdad, la vida. Buscando el bien autentico e inte­gral del hombre, Jesús no teme presentarse como Hijo de Dios, el "esplendor" del Padre. 5i Jesús no fuera el Verbo hecho hombre y si su resurrección no fuera real y verdadera, su mensaje no se diferenciaría del de tantos fundadores de religiones y de ideologías.

 

Jesús se presenta tal como es y exige una fe de encuentro personal y de entrega sin reservas. Es el único camino para salvar al hombre de toda oscuri­dad. A los que dan el paso hacia la aventura de la fe, Jesús les llama "hijos de la luz". Nos encontramos ante la "nube luminosa" (Mt 17,5) que, dejando en­trever la divinidad de Jesús, ilumina la vida y la his­toria humana.

 

Es el amor el que descubre a Cristo escondido y manifestado bajo' signos (In 14,21). Es la fe que quiere hacerse encuentro, relación personal. y en­trega incondicional. A Cristo se le encuentra en la medida en que uno se quiere vaciar de todo lo que no suene a amor. Nuestras audacias ideológicas y nuestros planes maravillosos, al margen del amor, valen poco. Con un corazón que busca segundas in­tenciones y ventajas temporales no se encuentra a Cristo. Hay que escoger entre "la gloria" de Cristo (el Verbo del Padre y el Emmanuel) y la gloria apa­rente 0 los ídolos que el hombre se construye en cada época histórica también con la etiqueta de "re­ligión" y de modernidad.

 

7. Quien me ve a mi ve al que me ha enviado

 

Jesús grit6: El que cree en mí no cree en mí, sino en el que me ha enviado; y el que me ve, ve al que me ha enviado. Yo he venido al mundo como luz, para que todo el que crea en mí no permanezca en tinieblas... He venido para salvar al mundo... Yo

 

rio he hablado de mí mismo... Las cosas que yo hablo, las hablo según el Padre me ha dicho.

 

(Jn 12,44·50)

 

Jesús fue siempre consciente de su filiaci6n divina. Se alegra de ser quien es porque nos ama hasta haceros participes de todo lo que es él. Si toda creatura, y especialmente toda persona humana, es una expre­sión de Dios, Jesús es la epifanía personal del Padre, su Verbo 0 Palabra, "la irradiaci6n de su gloria y la impronta de su sustancia" (Heb 1,3). Su gran alegría consiste en hacer que los hombres descubran al Padre a través de sus gestos y palabras (In 14,9). A "los suyos" les exige este amor de retorno, que consiste principalmente en creer vivencialmente en el, conocerla amando y amarle en los hermanos.

 

Precisamente porque se presenta como enviado del Padre, Jesús se siente siempre servidor y salva­dor. La humilIaci6n del servicio hace posible el amor de quien, siendo Dios, se ha hecho hombre por nosotros. La búsqueda de la verdad y de la luz solo encuentra solución en Cristo, que no se reserva nada para sí, sino que comparte con nosotros toda su existencia.

 

La sed y el hambre de verdad y de amor solo se puede saciar en Cristo (In 6,35). Por el entramos en la fuente de donde brota el agua viva de la vida eter­na (In 4,14). En el momento de la prueba y de la noche oscura, él es el único que no abandona; pero deja entrever su presencia amorosa en la medida en que nos preocupemos de sus intereses y de las nece­sidades de los hermanos.

 

Caminos de contemplaci6n(In 1,19-12,1-50)

 
  • EI encuentro con Dios es así: reconocer nuestra rea­lidad "opaca" cuando falta Cristo. Pero en ella Cristo nos ama para transformarnos en un "yo" que sea reflejo del suyo.
  • En el ansia de verdad, en la sed de algo mas, en la búsqueda de salvación y de luz, dejar entrar a Cris­to verdad, agua viva, vida nueva, luz, camino ha­cia el Padre.
  • Solo Jesús hace posible nuestro "sí' de vida nueva o vida en el Espíritu.
 

 

  • Pendientes de Cristo, pan de vida, palabra y eucaristía, reestrenar todos los días la vida como dona­ción al Padre y a los hermanos.
  • Confianza  inquebrantable en la cercanía amorosa de Cristo.
  • Ayudar a todos los hermanos a descubrir la cercanía de Cristo en los signos de la propia existencia. De este modo asumiremos la opci6n preferencial por los pobres, que lleva siempre el signo de la pascua.
 

 

  • Nuestra  liberación y la de los hermanos comien­za en un corazón pobre, es decir, libre para amar (Jn 8,32).
  • EI signo de autenticidad de nuestra experiencia .de Dios es la disponibilidad de amar como el granito de trigo en el surco, de camino hacia la pascua.
  • La dinámica de la contemplación es así: escuchar la Hamada de Cristo, levantarse, ir a su encuentro (In 1l,29). Así podremos decir: hemos visto su gloria.

 

 

 

 

 
Lunes, 11 Abril 2022 10:27

1ª Parte: DIOS AMOR EN NUESTRO CAMINAR

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1ª Parte:

DIOS AMOR EN NUESTRO CAMINAR

 

In 1,1-18 1 In 1-5

 

EI pr6logo del evangelio de Juan es un himno a Dios amor, que nos ha enviado a su Hijo para ha­cerse nuestro camino y nuestro consorte en el mismo caminar. Dios amor se ha hecho presente en nues­tras circunstancias para vivirlas desde dentro y con nosotros.

 

Juan, creyente y testigo, contempla la verdad, sin querer manipularla. Por esto comienza su evangelio con un himno a Jesús, que es la Palabra (el Verbo) del Padre, su transparencia, que "ilumina a todo hombre" y que es don de Dios para todos los hombres.

 

Cinco veces se usa la expresión "Verbo" (Logos) como intentando resumir en este título todo lo que es Jesús: es el Hijo, la relación personal 0 mirada al Padre, que revela el rostro de Dios amor y que señala al hombre el camino del retorno al amor, la luz, la verdad, la vida... Al presentar esta "Palabra" del Padre, ya se anuncia todo el evangelio. En el Apocalipsis (Ap 19,13) Y en su primera carta, Juan volverá a recordar con entusiasmo este título de Je­sús: "el Verbo de la vida" (l In 1,1).

 

EI discípulo amado nos sitúa en el· corazón de Dios.. A través de la "carne" 0 humanidad de Cristo descubre su "gloria" de filiación divina. Por la "car­ne" de Cristo y la cercanía de sus pasos y signos descubrimos la proximidad y benignidad de Dios. Del Dios "desconocido" (porque "a Dios no Ie ha visto nadie") ya podemos pasar a la "visión" y

 

encuentro con él, que es Dios amor hecho hombre, nuestro hermano. Dios, que "habita una luz inacce­sible" (1 Tim 6,16), se nos ha hecho luz diáfana en Jesús. Descubrimos la trascendencia de Cristo a través de la transparencia de su humanidad concreta.

 

Dios, por la encarnaci6n del Verbo, ya ha entrado a formar parte de nuestra realidad concreta hist6rica' y c6smica. Jesucristo es el "Dios con nosotros", pre­sente bajo nuestro techo, enraizado en nuestras cir­cunstancias, que son ya su "mundo" amado entra­ñablemente (In 3,16). Desde la encarnaci6n se ha realizado un corte en la historia. Ahora todos los acontecimientos humanos están centrados en Cristo como protagonista, porque el tiempo queda asumi­do por la eternidad del Verbo. La historia humana es ya parte de la realidad divina como historia de amor eterno.

 

Gracias a esta inmanencia 0 inserci6n del Verbo en la historia humana, ya es posible nuestra inma­nencia 0 inserci6n en Dios. El Dios trascendente se ha hecho infinitamente pr6ximo. El hombre y el mundo han adquirido una visi6n 0 perspectiva nue­va. La presencia nueva de Dios por medio de su Ver­bo (su Hijo) hecho hombre es la revelaci6n defini­tiva de su "gloria". Ya podemos encontrar a Dios en nuestras circunstancias. La espiritualidad 0 vida en Dios es ya camino hacia la realidad concreta en toda su trascendencia. El "Tabor" cristiano ya tiene lu­gar en nuestra vida ordinaria: "Mi Hijo os envio; sabedle mirar" (san Juan de Ávila).

 

En Cristo, palabra de Dios, leemos continuamente el pensamiento eterno y amoroso de Dios hacia nos­otros. Y, al mismo tiempo, en Cristo encontramos también nuestra respuesta al Padre. Jesús nos revela un Padre a quien Ie devuelven sus hijos arrebatados por el pecado, pero ya regenerados por la fe en el Hijo de Dios (In 1,12). El pr6logo de san Juan anti­

 

cipa toda la dinámica del evangelio: Jesús, que vie­ne del Padre, ahora vuelve al Padre con nosotros ya transformados en hijos de adopci6n. Descubriendo el misterio de Cristo se descubre el misterio del hombre, que, renovado en el Espíritu, debe caminar con los hermanos para transformar el cosmos en una nueva creaci6n por medio de la "pascua" 0 paso definitivo hacia el Padre. Esa es la aventura hist6rica de discernir entre luz y tinieblas, fe e incredulidad.

 

Dios nos manifiesta y comunica su Palabra, que es Cristo. Juan tiene en la mente la sabiduría de Dios amor, que se personifica en Jesús: existe en Dios como reflejo de su luz eterna (In 1,1; Sab 7,26; Prov 8,22-23; Heb 1,3); desciende del cielo (In 1,14; Sab 9,10; Gal 4,4) para enseñarnos 0 revelarnos las cosas de arriba, es decir, el amor afectivo y efectivo del Padre al hombre y al mundo (In 1,18; 3,11-16; Sab 9,16-18); busca a los hombres para comunicarles las riquezas de la filiaci6n divina (In 1,11-12; 7,18; Sab 6,16). Esta es también la doctrina paulina sobre Cristo, sabiduría de Dios (1 Cor 1,24-30; 2,7-9).

 

La palabra de Dios es siempre creadora y salvífica, viviente y eficaz. Juan presenta a Cristo como la Pa­labra personal de Dios, el Hijo Unigénito de Dios; de este modo da el salto de la palabra hist6rica de la revelaci6n a la Palabra transhist6rica y sustancial del Padre. Este es el tema básico de Juan: "El Verbo ha asumido la carne para que nosotros pudiéramos recibir el Espíritu Santo" (san Atanasio). Gracias a la encarnaci6n (Jn 1,14), ya podemos ser renovados por la vida nueva ymisi6n del Espíritu (Jn 3,5; 20,22).

 

Todo el evangelio de Juan se mueve en la pers­pectiva del prólogo, que es una visi6n sapiencial y contemplativa de todo el misterio de Jesús y de todo el misterio del hombre y del mundo. Es el resumen

 

de toda la predicación cristiana: "Esta palabra se hizo temporal..., no habría necesidad de predicar otra cosa" (san Juan de Ávila). La fe consiste en sin­tonizar vivencialmente con la mirada de Cristo al Padre: "Miraos siempre, Padre e Hijo; miraos siem­pre sin cesar, porque asi se obre mi salud" (id). Se necesita la actitud cristiana de contemplación, como actitud de silencio activo, pobre y humilde: "Una sola palabra hablo Dios en eterno silencio, y en si­lencio ha de ser oída" (san Juan de la Cruz).

 

En Cristo descubrimos que nuestra vida es una historia de amor, que comenzó eternamente en el co­razón de Dios. La primera carta de san Juan viene a ser una continuaci6n del prologo del evangelio. A la 1uz de este prólogo y de la carta nos resultara más asequible hacer una "relectura" del evangelio en nuestras comunidades y en nuestras circunstancias.

 

De esta relectura autentica brotara la aplicación del mandamiento del amor y un sentido de comunión y misión eclesial sin fronteras.

 

El prologo del evangelio de Juan sirve de texto de bendici6n para los neobautizados, ya renacidos por el agua y el Espíritu. Antiguamente nuestras madres nos colocaban en el pecho una especie de escapula­rio que contenía este texto joánico. Es todo un pro­grama de vida cristiana para entrar en las intimida­des de Dios amor y para comprometerse a transfor­mar el mundo según el amor. Participamos de la filiación divina de Jesús, que nos hace entrar en sin­tonía con su dinamismo redentor y misionero: "Sali del Padre..., voy al Padre" (Jn 16,28). Es

 

 

 

 

 

la "pascua" o paso que restaura toda la creación en Cristo (Ef 1,10). Nuestra amistad con Dios empezó, por parte suya, desde la eternidad; en esa misma eternidad, donde ya no corre el tiempo, nos espera para un en­cuentro definitivo.

 

Comentamos Jn 1,1-18 (pr6logo) intercalando los

 

fragmentos básicos de la primera carta de Juan. Se­guimos este orden: identidad de Jesús, identidad cristiana, relectura del evangelio, fe contemplativa. Por esto nos permitimos un ligero cambio de orden en los versículos, para hacer resaltar la temática apuntada.

 

1. Identidad de Jesús

 

1. Mirada personal al Padre

 

Al principio era el Verbo, y el Verbo estaba en Dios, y el Verbo era Dios. El estaba al principio en Dios.

 

(In 1,1-2)

 

Encontrar a Cristo es encontrar a Dios: "quien me ve a mi ve al Padre" (Jn 14,9). En su humanidad, Cristo transparenta lo que es: el Hijo de Dios, el Verbo 0 Palabra del Padre. Jesús "es" desde siem­pre, antes de Abraham (Jn 8,57), porque es una sola cosa con el Padre (Jn 10,30), aun antes de la crea­ción (Gen 1,1), "desde el principio" (1 Jn 1,1).

 

Esta fue la experiencia de fe que tuvo Juan, el "disdpul0 amado" (Jn 13,23), auscultando la inte­rioridad de Cristo, del mismo modo que Cristo aus­culta y refleja las intimidades de Dios amor. La fe de Juan prevalece sobre todo sentimiento y teoría hu­manos; pero refleja un conocimiento experimental de Dios, al que todos están llamados (Jn 1,12). Es un don de Dios que capacita para auscultar a Jesús, como Palabra del Padre, que se hace encontradizo en la revelación y en nuestro caminar concreto.

 

 

Jesús viene del Padre y vuelve al Padre (Jn 16,28),

 

es "el esplendor de su gloria" (Heb 1, I), la Palabra 0 "mirada" personal siempre vuelta al Padre. Su vida y su mensaje son expresión de Dios y relación perso­nal con el Padre. Y en esta dinámica nos quiere en­rolar a todos para liberarnos de nuestro egoísmo y hacernos pasar a una vida nueva en el Espíritu de amor. Experimentando su cercanía e inmanencia, pasamos a su trascendencia de vida eterna. Ya no hay circunstancias vanas ni anodinas, porque siem­pre podemos encontrar a "alguien", Jesús, que da sentido a nuestra historia como historia de un amor eterno.

 

2. Centro de la creaci6n y de la historia

 

Todas las cosas fueron hechas por el, y sin el no se hizo nada de cuanto existe... Estaba en el mundo y por el fue hecho el mundo, pero el mundo no Ie conoci6.

 

(Jn 1,3.10)

 

En Cristo la historia humana ha cambiado de rumbo. La creaci6n, hecha por él y para éI, había tornado los derroteros del pecado. Pero ahora ya puede reorientarse hacia Dios. Los hombres y las co­sas ya pertenecen a Cristo (l Cor 8,6). El es el media­dor cósmico, porque "todo fue creado por éI y para él; él es antes que todo y todo subsiste en él" (Col 1,16-17).

 

En la narrati6n evangélica de Juan, Jesús se acer­ca al "aquí y ahora" de cada persona para asumir aquel retazo de historia y hacerlo una página irrepe­tible de su propia biografía. Los "signos" que reali­za Jesús son manifestativos de una nueva creación: el agua viva, el vino nuevo, el pan de vida, la luz y la vida verdadera... Jesús se posesiona de nuestro tiempo y de nuestro caminar para salvarlo y resti­tuirlo a los planes primigenios de Dios amor.

 

El presente, en cualquier circunstancia, pasa a ser, cuando se vive en Cristo, vida definitiva. Para ello basta con transformar el momento temporal en un encuentro con Cristo salvador, que invita a colabo­rar activamente en la nueva creaci6n orientada hacia la lUl, la verdad y el amor universal.

 

3. Luz y vida

 

En el estaba la vida, y la vida era la luz de los hombres. La luz brilla en las tinieblas, pero las ti­nieblas no la acogieron... Era la luz verdadera que ilumina a todo hombre que viene a este mundo.

 

(Jn 1,5-6.9)

 

Jesús es todo: la luz, la vida, la verdad, el amor, la gracia... Es "el don de Dios" Un 4,10); "con el, Dios nos lo ha dado todo" (Rom 8,32). La luz humana se extingue y la vida del hombre se acaba. En Jesús "aparece ya la luz verdadera" (I Jn 2,8) y se desvela el misterio del hombre. Jesús es Dios y "Dios es luz" (1Jn 1,5); es "el Verbo de la vida" (1Jn 1,1), que nos comunica la vida y filiación divinas.

 

Jesús se encontró con personas que buscaban la luz y ansiaban vivir; se hizo encontradizo con los ciegos, paralíticos, angustiados y moribundos. De­volviendo la luz, la vida y la paz, se hizo para todos luz y vida. Ahora ya no nos devuelve, como al ciego

 

o a Lázaro, una luz caduca y una vida pasajera, sino que nos hace pregustar en él la luz indeficiente y la vida eterna Un 6,47).

 

Jesús ilumina todos los corazones. No hay nadie que no haya sido "tocado" por Jesús. "La semilla del Logos esta en todo el género humano" (san Jus­tino); pero muchos se empeñan en ser tinieblas, pre­firiendo una luz que se agota y una vida que se va. Jesús enseño el camino para dejar de ser oscuridad y

 

material de derribo: basta con creer en el y amar a los hermanos. Solo los que "conocen" (amando) a Jesús se hacen expertos en el misterio del hombre. La lucha entre la luz y las tinieblas, entre el amor y el pecado, termina con la victoria de Jesús, que aso­cia a su madre como figura de la comunidad eclesial (Gen 3,15).

 

4. Palabra hecha carne

 

Y el Verbo se hizo carne y estableci6 su morada entre nosotros... .

 

(Jn 1,l4a)

 

Todo el evangelio de Juan gira en torno a esta afirmación. Dios se ha hecho hombre, asumiendo todo lo que es el hombre. Ya no hay contraposición entre el "mundo" del hombre y el "mundo" de Dios. En Cristo, a través de su "carne", de sus gestos y signos, ya se puede descubrir al Verbo 0 Palabra de Dios.

 

Jesús es el "Dios con nosotros" (Mt 1,23-14; Is 7,14), nacido de la Virgen María par obra del Espíritu Santo (Mt 1,18-21). Dios habita en medio de su pueblo, no ya con el símbolo de una tienda y de una nube (Ex 33,7-11), sino en la realidad de la carne humana asumida hipostáticamente (personalmente) por el Verbo. Jesús es la morada de Dios entre los hombres (Ap 21,3) y se complace en hacer de nuestra historia su propia biografía.

 

En la debilidad de la carne de Cristo ya podemos verla realidad 0 "la gloria" de Dios. En nuestra rea­lidad humana contingente ya podemos ver a Cristo como compañero de camino, consorte, esposo, res­ponsable, hermano, sensible a nuestros problemas porque son ya los suyos. Desde la encamación del Verbo ya nadie vive solo, porque todos tienen un puesto irrepetible en el corazón, en la "carne" de

 

Cristo, como "complemento" y cuerpo místico suyo (Ef 1,23).

 

5. Gracia y verdad

 

Pues de su plenitud hemos recibido todos gracia sobre gracia. Por que la Ley fue dada por medio de Moises; la gracia y la verdad nos han llegado por Jesucristo.

 

(Jn 1,16-17; cf 1,14)

 

Jesús es, él mismo, el don de la revelación plena, la "gracia", la manifestación y comunicación supre­ma de la bondad de Dios. Se da del todo y nos da todo, haciendo que nuestro ser se abra a este don divino que es el. En éI se realiza y encontramos el plan divino de salvación total y universal.

 

El es el resumen de las promesas, la expresión de la fidelidad de Dios: la "verdad" misma de Dios, el Verba del Padre. En el habita la plenitud de la divi­nidad y de todo lo que Dios nos ha revelado (Col 1,19). .

 

El Señor no se ha reservado nada para si, sino que ha querido compartir todo con nosotros. Se goza de ser lo que es, porque nos ama y nos puede y quiere transformar en el. El "discípulo amado" se goza de que Jesús sea así y de que al mismo tiempo se vea capacitado por éI para amarle con un amor de retor­no. Ya se puede entablar con Dios una amistad que no tiene fin, porque se apoya en quien no tiene principio ni desgaste y en quien es el único que sabe y puede amar sin medida.

 

6. Hijo Unigénito del Padre

 

A Dios nadie le ha visto jamás; el Hijo unigénito que está en el seno del Padre lo ha dado a conocer.

 

(Jn 1,18; cfr.1,14)

 

Jesús es el Hijo amado de Dios, es el Verbo engen­drado eternamente por el Padre. Es la Palabra pro­nunciada en el silencio de Dios amor. La trascen­dencia se ha hecho inmanencia.

 

El hombre anhel6 siempre ver a Dios, con un pre­sentimiento de que eso no era posible con las solas fuerzas naturales (Ex 33,18-21). Dios "habita una luz inaccesible" (I Tim 6,16). Por medio de Jesús y en &1 ya es posible comenzar aver y "conocer" viven­cialmente a Dios: "Quien me ve a mi ve al Padre" (Jn 14,9).

 

Dios ha pronunciado su Palabra. en nuestras cir­cunstancias. Ya es posible hacer de todos los días un "Tabor" donde se escuche la voz de Dios, que nos manifiesta a su Hijo en nuestras circunstancias: "Este es mi Hijo amado" (Mt 17,5). En la "nube luminosa" de la debilidad humana de Jesús ya po­demos vislumbrar a Dios.

 

La historia concreta de cada persona comienza a ser el ensayo de una visión y encuentro definiti­vo. En los desgarros de nuestra contingencia, enfer­medad y flaqueza ya amanece la trascendencia de Dios amor "nacido de la mujer" (Gal 4,4);

 

7. Propiciaci6n por nuestros pecados

 

Hijitos míos, os escribo esto para que no pe­quéis. Si alguno peca, abogado tenemos ante el Pa­dre a Jesucristo, el justa. El es la propiciación por nuestros pecados. Y no solo por los nuestros, sino por los de todo el mundo.

 

(1 In 2,1·2)

 

La encarnación del Verbo llega a las últimas con­secuencias: Jesús será victima de propiciación por los pecados de todos los hombres. Como cordero pascual y como siervo doliente que asume y personi­fica

 

a todo el pueblo, Jesús "dio su vida por nosotros" (I In 3,16). "Debía morir por el pueblo" (In 11,51-52).

 

Dios "nos ha amado hasta darnos a su Hijo como victima por nuestros pecados" (I In 4,10). Y puesto que ha derramado su sangre por nosotros, ya nos puede comunicar el Espíritu Santo por medio del agua del bautismo (I In 5,6ss).

 

Nuestra historia ya ha cambiado de sentido. En nuestra debilidad y contingencia, e inc1uso cuando gemimos reconociendo nuestros pecados, encontra­mos a Cristo como amigo y responsable. Nuestro barro quebradizo ya ha recibido el sello de una vida eterna.

 

En las debilidades y defectos de los hermanos hay que adivinar también la presencia de Cristo reden­tor, que puede y quiere restaurar a todos sin excep­ción. Cuando contemplemos el rostro de Cristo re­sucitado, reconoceremos en éI las facciones de todos y cada uno de los hermanos que se han cruzado en nuestro caminar. Conviene prepararse para esta sor­presa (Mt 25,40).

 

2. Identidad cristiana

 

1. Creer en el Hijo

 

El que cree en el Hijo de Dios tiene este testimo­nio en sí mismo... Y el testimonio es que Dios nos ha dado la vida eterna y esta vida está en su Hijo. El que tiene al Hijo tiene la vida...

 

(I Jo 5,10-15)

 

La fe es acercarse a Cristo, encontrarlo, entregarse a é1, aceptar vivencialmente su persona, su palabra y

 

sus obras. Este es el fundamento de una confianza incondicional en su amor y en su presencia. EI obje­tivo del evangelio de Juan (y el de sus cartas) es el de suscitar la respuesta 0 apertura a esta fe, que es don de Dios (In· 1,12; 20,31). Esta fe es ya vida eter­na, como conocimiento vivencial e inicial de Cristo que conduce a la visión y al encuentro definitivo (In 17,3).

 

La garantía de creer en Cristo y de participar en la vida eterna consiste en el cumplimiento del manda­miento del amor. Esta es la victoria sobre el egoísmo y el pecado (1 In 5,4). "Sabemos que hemos pasado de la muerte a la vida, porque amamos a los herma­nos" (1 In 3,14). Vale la pena optar definitivamente por esta aventura de la fe en el amor que Dios nos manifiesta en Cristo su Hijo. Entonces la vida cam­bia de sentido 0, mejor, recobra su sentido mas profundo.

 

A la luz de las palabras siempre jóvenes del evan­gelio y con la ayuda del testimonio y afecto de los hermanos que ya creen, nos sentimos enrolados en una vida de comunión 0 de familia con Dios amor. Entonces se descubre a Cristo cercano, en cada acon­tecimiento, en cada persona y en nosotros mismos. Ya podemos hacer de cada acontecimiento una "comunión" con Cristo y con los hermanos.

 

2. Hemos visto su gloria

 

Hemos visto su gloria, gloria como de Unigénito del Padre, lleno de gracia y de verdad.

 

(Jn 1,14b)

 

Para Juan, gracias a la fe, cada gesto y cada paso de Jesús es una epifanía de su filiación divina como Verbo del Padre (In 1,14a). En la debilidad de la carne del Señor aparece la divinidad del Hijo de una manera

 

 más profunda que cuando se manifestó la gloria del Señor sobre el tabernáculo (cfr. Ex 24,16; 25,8).

 

La gloria de la divinidad de Jesús aparece a través de su humanidad y de los signos pobres de la encar­nación. Su vida, a la luz de la fe, es un "Tabor" permanente. EI apóstol ha experimentado la belleza maravillosa de 1ainterioridad de Cristo y la quiere comunicar a todos dando testimonio de ella; pero sólo Cristo puede desvelar esta realidad y comunicar esta experiencia de fe.

 

En Jesús conocemos a Dios (1 In 5,20), porque es Ia expresión personal del Padre (1 In 2,14; In 14,9). En el encontramos la gracia y la verdad, es decir, la plenitud de la revelación y la participación en la vida divina. A Juan se Ie llena de gozo el corazón, y la boca de alegría, al poder anunciar a todos con su testimonio apostólico: "Os anunciamos lo que he­mos visto y oído..., el Verbo de la vida" (1 In 1,1-3). Desde el día de la encarnación ya es posible a todo ser humano encontrar a Cristo en la propia circuns­tancia.

 

3. Hijos en el Hijo

 

Vino a los suyos (a su casa), pero los suyos no lo recibieron. Mas a cuantos lo recibieron les dio po­der de llegar a ser hijos de Dios, a los que creen en su nombre.

 

(Jn 1,11-12)

 

Cristo nos ha hecho participes de todo lo que él es y tiene (In 1,16); por esto participamos de su filia­ción divina. EI amor es así: hace iguales a los aman­tes, respetando y salvando la identidad de cada uno. Es 1a consecuencia de la encarnación, como máxima epifanía de Dios Amor: "Ved que amor nos ha mos­trado el Padre, que seamos llamados hijos de Dios, y que lo seamos" (1 In 3,1).

 

Esta filiad6n divina participada ("adoptiva") nos eleva por encima 0 mas allá de toda raza y naci6n. La dignidad humana ya no se cuenta por las cosas que uno tiene, sino por el ser que es imagen viva de Dios mas allá de las circunstancias.

 

En el coraz6n de cada hombre se realiza un dra­ma, que es de apertura a la filiaci6n divina y que tendrá éxito 0 fracaso según se acepte 0 se rechace el amor. Juan queda asombrado ante el hecho de que, en el decurso de la historia, pueda haber seres hu­manos que rechacen a Cristo, el Hijo de Dios.

 

 

Jesús es el Verbo 0 Hijo de Dios encarnado por obra del Espíritu Santo en el seno de la Virgen María. Nuestra filiaci6n divina participada es también obra del mismo Espíritu, que nos conduce a Dios amor, mas allá de lo que suene a "carne y sangre", poderes humanos y bienes de la tierra (In 1,13). Nos hacemos hijos de Dios en la medida en que recono­cemos esta realidad en los hombres de cualquier raza y condici6n.

 

4. Nacidos de Dios

 

Quien ha nacido de Dios no peca, porque la si­miente de Dios estd en el...

 

(1 In 3,9)

 

Tenemos en nosotros la semilla de Dios, su mis­ma vida eterna. Aquel soplo y beso de Dios en el barro 0 en la nada del primer hombre (Gen 2,9) es ahora infusi6n plena del Espíritu Santo gracias a Jesús, que habita en nosotros y que es la Palabra engendrada eternamente por el Padre.

 

Somos hijos nacidos de Dios porque tenemos en nosotros su Palabra (l Pe 1,23; Sant 1,18) y su Espíritu (In 3,5; Gal 4,47). Hemos sido engendrados por amor (l In 3,1). Las aguas de este "bautismo" (es­ponjarse

 

en Cristo) han de llegar a todos los cora­zones.

 

La semilla de Dios en nuestros corazones es su Espíritu de amor (Rom 5,5), y también su Palabra (Mc 4,14). Se nos hace filiaci6n divina participada, que crece continuamente hasta una transformaci6n por la visi6n y encuentro definitivo con el Padre (1 J n 3,2). La misma creaci6n, que es obra de la palabra de Dios, nos habla a gritos de la ternura de nuestro Padre. Pero en el mismo Cristo encontramos el es­bozo y la maqueta que Dios ha programado eterna­mente sobre el proceso de nuestra filiaci6n divina. Esta programaci6n puede realizarse gracias a la re­dención de Jesús y al envío del Espíritu Santo (Ef 1,3-14). Dios, dándose a sí mismo, nos ha dado todo lo que tiene.

 

5. Testigo fiel

 

Hubo un hombre enviado par Dios, de nombre Juan. Vino como testigo a dar testimonio de la luz, para que todos creyeran en él. No era él la luz.

 

(In 1,6-8; cf 1 In 1,1-2)

 

Juan evangelista no oIvid6 nunca a Juan Bautis­ta, que Ie había orientado hacia Jesús. Es verdad que no nos puede suplir nadie en el encuentro con Cristo, ni nadie Ie puede suplir a Cristo en nuestro coraz6n. Pero precisamente por ello se aprecian y se agradecen mas los signos pobres del hermano, como signos transparentes y portadores de Jesús. La iden­tidad del precursor y del testigo fiel consiste en la humildad de desaparecer para dejar paso a Cristo redentor.

 

El "discípulo amado" también supo ser testigo fiel: "Lo que hemos visto y oído os lo anunciamos..., el Verbo de la vida" (l In 1,1-2). Su experiencia de

 

Cristo no era para convertirse en pantalla y pedestal de los propios intereses. EI testigo del encuentro con Cristo transparenta su mirada, su amor y su llama­da. Se mira a los demás sin segundas intenciones de medros personalistas. Se ama a los demás sin utili­zamos y sin apropiarse de ellos. Se llama a los demás con el convencimiento de que todos ocupan un Iugar peculiar en el coraz6nde Cristo.

 

Juan aprendi6 de María la Virgen a ser s6lo trans­parencia de la Palabra meditada fielmente en el co­raz6n. La identidad se recobra en el ejercicio de esta humildad de reconocer que todo es gracia y miseri­cordia. Entonces no se necesitan artificios para amar y evangelizar, sino solamente la autenticidad, la ale­gría y el agradecimiento del Magnifica-t.

 

6. Amar a los hermanos

 

Sabemos que hemos pasado de la muerte a la vida porque amamos a los hermanos.

 

(1 }o 3.14)

 

El amor es el signa de garantía de la fe, del en­cuentro con Cristo y de la verdadera experiencia de Dios. No hay otro signo de garantía. Falsificaciones las habrá siempre; pero el mandato de Cristo de que nos amemos como el nos ha amado es parte esen­cial del primer anuncio del evangelio (l ]n 3,11; 2]n 6; 1n 13,34-35). Si queremos "permanecer en la luz" (l ]n 2,10), hay que amar a los hermanos "como Dios nos ha amado" (l ]n 4,1l).

 

Pasar de la muerte a la vida equivale a dejar atrás el odio camuflado y las venganzas solapadas. Es el amor de quien mira a todos como redimidos por Cristo y amados entrañablemente por él. Los quila­tes del encuentro contemplativo con Cristo se miden por el amor del pr6jimo, traducido en respeto a su

 

misterio, escucha de su mensaje y necesidades, com­prensi6n de sus limitaciones y aceptaci6n de su ca­risma y misi6n.

 

EI amor no busca componendas con el error, pero salva siempre a la persona, que es un misterio de amor etemo por parte de Dios. La caridad fraterna y el compromiso de servir a los hermanos, especial­mente a los mas pobres, es consecuencia de la con­templaci6n, es decir, de haber entrado en el coraz6n de Dios. Al mismo tiempo, el amor a los hermanos es la escuela que prepara mejor nuestra oraci6n como actitud dialogal con Dios.

 

3. Relectura del evangelio

 

I. Discernimiento para darse meJor

 

Carísimos. no creáis a cualquier espíritu, sino examinad los espíritus si son de Dios.

 

(1 }o 4,1)

 

,EI evangelio y las cartas de Juan fueron escritas en un momento muy difícil para las primeras comu­nidades eclesiales. En un contexto de gran vitalidad había también apóstatas, falsos profetas, tensiones entre comunidades e incluso grupos exclusivistas que reducen el evangelio a su mirada achatada. La vitalidad de la Iglesia habrá que contar, en cada épo­ca, con la posibilidad de esas lacras. Por esto hay que discernir para creer y para hacer de la vida una verdadera donaci6n. Juan escribi6 para ayudarnos a creer (Jn 20,31). EI evangelio no puede bascular ha­cia personalismos pietistas o secularizantes. Creer es apertura sincera a los planes salvíficos de Dios.

 

Releer el evangelio 0 la palabra de Dios significa interpretar los acontecimientos a la luz de esta mis­ma palabra; no viceversa. La palabra evangélica no puede ser filtrada ni manipulada por coyunturas históricas personales 0 comunitarias. Dios continua manteniendo su iniciativa sobre la palabra revelada.

 

Los signos de la acción del Espíritu Santo apare­cen en toda la vida de Jesús, que hace siempre lo que agrada al Padre (Jn 4,34; 5,30; 8,29). Jesús, buen pastor, da la vida por sus ovejas según el mandato del Padre (Jn 10,17-18). La paz y el gozo del Espíritu, en el corazón y en la comunidad, se fraguan ha­ciendo de toda dificultad un servicio de donación a los hermanos. La verdadera acción del Espíritu se mueve en las coordenadas de la "comunión" ecle­sial, de la esperanza y de la paz.

 

2. Caminar como Jesús

 

EL que guarda su palabra, en ése la caridad de Dios es verdaderamente perfecta. En esto conoce­mos que estamos en eé. Quien dice que permanece en  éldebe andar como él anduvo.

 

(1 In 2.5-6)

 

La experiencia de encuentro con Dios tiene como timbre de garantía la imitación y el seguimiento de Cristo. "Permanecer" en Dios significa, para san Juan, entablar relaciones filiales con el. El camino de nuestra relación con Dios es Jesús, el Hijo de Dios. Por Cristo entramos en la comunión con Dios amor. Es una posesión mutua, en sentido esponsal de nueva alianza.

 

Caminar como Jesús es "sentir las cosas como el las siente" (san Juan de Ávila). Entonces se camina en la luz (Jn 12,35). Quien cree en Jesús camina en la verdad, iluminado por el Espíritu y confiado en la fuerza divina del amor.

 

La identidad cristiana es imitación, seguimiento, unión y configuración con Cristo. Entonces la pro­pia vida se hace relectura del evangelio para si y para los hermanos.

 

3. La caridad viene de Dios

 

Carísimos, amémonos unos a otros, porque La caridad procede de Dios, y todo el que ama ha na­cido de Dios y conoce a Dios.

 

(l In 4,7)

 

A Dios amor se le descubre y se Ie experimenta en las ansias de amor que el mismo ha sembrado en nuestro corazón. Necesitamos absolutamente amar y ser amados. La garantía de que este amor viene de Dios es el deseo profunda de amarle, de querer que todos lo amen y de que todos se sientan amados por eI. Para el que ama con este amor, ni Dios ni los hermanos se pueden reducir a una "cosa útil".

 

Esta caridad no es una simple ética ocomporta­miento humano, ya de suyo válido, sino que es espe­cialmente una participación real de la vida divina, que tiene sus repercusiones prácticas en el corazón y en la vida personal y social. Salo así se explica la caridad de los santos que dedicaron su vida a la libe­ración integral y a la evange1ización de los pobres, arriesgando su vida y sus cosas con actitud perma­nente de "martirio".

 

La ética 0 moral cristiana consiste en la práctica de la justicia y del amor como consecuencia de ha­ber nacido de Dios. Caminar en la luz y la verdad equivale a la comunión con Dios y con los herma­nos. Por este camino adquirimos la certeza de ser escuchados como hijos de Dios y tenemos la garan­tía de haber recibido su Espíritu.

 

4. Nos ha dado su Espíritu

 

En esto conocemos que permanecemos en el y el en nosotros. en que nos ha dado de su Espíritu.

 

(1 In 4.13)

 

El Espíritu Santo, que ha inspirado los textos escriturísticos, alienta nuestro corazón y nos capacita para comprender la palabra de Dios (l In 2,?0). La presencia y la acci6n santificadora del Espíritu son garantía para vivir en comunión con Dios y con .los hermanos. El conocimiento de la palabra de Dios, que ilumina los acontecimientos cotidianos, es par­ticipaci6n del conocer amoroso del buen pastor. Se conoce en la medida en que se ama.

 

Jesús, Palabra del Padre, nos comunica el EspírituSanto para hacernos hijos de Dios por adopci6n y por participaci6n en la filiaci6n divina del mismo Jesús. Gracias al Espíritu Santo, ya podemos aden­trarnos en el silencio divino, de donde brota eterna­mente la Palabra del Padre (Sab 18,14).

 

Dios se manifiesta a través de Jesucristo, su Hijo, que es "su Palabra que brota del silencio" (san Ig­nacio de Antioquia). El Espíritu Santo, enviado por el Padre y el Hijo, es testigo, valedor y portador del mensaje y de la persona de Jesús. Es e1 "padre de los pobres". Jesús se goza en e1 Espíritu, porque e1 Pa­dre revela su palabra a los "pequeños" (Lc 10,21).

 

5. £1 mundo pasa

 

El mundo paso" y también sus concupiscencias; pero quien cumple la voluntad de Dios permanece para siempre.

 

(1 In 2.17)

 

La creaci6n es amada por Dios y un don suyo para el hombre. La humanidad y el cosmos ya pue­

 

den responder a Dios agradeciendo el hecho de ha­ber sido creados por amor. Pero los dones de Dios son pasajeros, como una especie de ensayo para pre­pararnos a recibir el don definitivo que es el mismo Dios. Todas las cosas pasan, para dejar entrever el amor de Dios que no pasa. E1 hombre pasa cuando convierte en valor absoluto lo que es simplemente una cosa pasajera y relativa; entonces se hace esclavo de las cosas porque olvida la soberanía de Dios.

 

Jesús, como Palabra "vuelta" hacia el Padre y como hermano nuestro, es el salvador y liberador del mundo (In 4,42), la luz del mundo (In 8,12; 9,5), el cordero de Dios que quita el pecado del mundo (In 1,29), que reorienta al hombre y al cosmos ha­cia Dios.

 

Cuando el hombre se encierra en si mismo que­riendo convertirse en soberano abso1uto, destroza su propio ser, rompe la fraternidad humana y destruye la armonía del cosmos. Entonces este mundo, fabri­cado por el hombre, se vuelve contra Jesús y contra los valores evangélicos. Jesús se ha hecho piedra an­gular de la historia humana y del mundo, para reen­contrar en la obediencia de Dios el verdadero valor de las cosas, la dignidad del hombre y la construc­ci6n de la familia humana según la verdad, la justi­cia y el amor.

 

Los acontecimientos hay que leerlos asi, como una parte· de la biografía del mismo Jesús salvador del mundo. La f;ontemplaci6n cristiana se hace ca­mino hacia la realidad integral del hombre y de la historia, cuyo centro y sostén es el mismo Cristo. Si el mundo pasa (puesto que es contingente), ello es para indicarnos que Dios amor lo ha creado y lo ha restaurado en Cristo para irlo cambiando en "un cielo nuevo y una tierra nueva" (Ap 21,1).

 

6. Hacia la visi6n y encuentro definitivo

 

Carísimos. ahora somos hijos de Dios. aunque aun no se ha manifestado lo que hemos de ser. Sa­bemos que. cuando se manifieste. seremos semejan­tes a el. porque le veremos tal cual es.

 

(1 Jo 3.2)

 

La palabra de Dios resuena en el mundo y en nuestros corazones como un balbuceo de una reali­dad plena que ya se nos ha comenzado a comunicar. pero que un día será visión y posesión definitiva. Ese día moraremos en la misma "'fuente de agua viva", que es la vida divina (In 4,iO). Transforma­dos en Cristo por el Espíritu, nuestro ser será reflejo de Dios amor contemplado cara a cara. EI deseo que arde en todo corazón humano, aunque sea aho­ra bajo cenizas, será entonces realidad poseída eter­namente.

 

EI presente queda iluminado por la palabra de Dios, con tal que no perdamos la perspectiva de la esperanza, es decir, la confianza y la tensión hacia el encuentro definitivo. Los acontecimientos pierden su perspectiva y se convierten en espejismos de de­sierto cuando queremos manipular 0 "utilizar" el evangelio a nuestro aire.

 

En cada acontecimiento se realiza un "Tabor", en el que Dios nos dice: "Este es mi Hijo amado" (Mt 17,5). Pero hay que aprender a escuchar con actitud contemplativa, es decir, con actitud de pobre, de hijo y de amigo. La historia humana comenzó en el corazón de Dios amor y terminara en un encuentro definitivo de todos los hermanos en la visión de Dios, donde todos nos amaremos con el mismo amor con que Dios nos ama. Todos los bienes, ideas, leyes y sistemas humanos tienen un valor rela­tivo; si intentan convertirse en un valor absoluto, nos ocultan la realidad del misterio del hombre, que

 

sólo se desvela plenamente a la luz del misterio y la soberanía de Dios amor.

 

4. Fe contemplativa

 

1. La Palabra mora en nosotros

 

Os escribo... porque habéis conocido al Padre.... porque habéis conocido al que es desde el princi­pio.... porque la palabra de Dios permanece en vosotros.

 

(l Jo 2,13-14; cf Jo 1,18)

 

Cristo es la Palabra 0 Verbo del Padre, que habita en nuestros corazones con la fuerza y el amor del Espíritu Santo. EI Hijo nos ha hecho conocer al Pa­dre, a Dios que es amor (Jn 1,18). Gracias a el ya podemos leer los acontecimientos como signos y mensajes de Dios. Sin el todo seria oscuridad y con­fusión. La fe cristiana consiste en abrirse a la pala­bra de Dios para· amarle a ély a los hermanos.

 

Nuestra vida se hace encuentro con Cristo, que es la Palabra del Padre. Así nos hacemos testimonio suyo ante el mundo. Cristo nos ha contado los de­signios salvíficos de Dios sobre toda la humanidad (Jn 1,18). "Los secretos de Dios nadie los ha podido conocer, sino el Espíritu de Dios" (1Cor 2,11). Jesús nos comunica el Espíritu para que conozcamos vi­vencialmente a Dios.

 

El apóstol o evangelizador reclina su cabeza sobre el pecho de Jesús para captar su mensaje (Jn 13,23­25). S6lo Jesús nos puede revelar al mismo Dios tal como es. Otras experiencias religiosas contemplati­vas no nacen de la visi6n de Dios, por buenas que

 

sean. "Nadie conoce al Padre" sino Jesús Un 6,46). El nos invita a entrar en e1 camino de la contempla­ción, que es camino de silencio y camino de fe en los signos pobres de Iglesia, donde el se manifiesta y comunica.

 

Jesús es la sabiduría personal de Dios (Sab 9,1-9), que podemos captar en el silencio de la adoración y del servicio a los demás (Sab 18,14). El esplendor de la gloria del Padre (Heb 1,3) es Jesús, como Palabra que esta en e1 seno del Padre (Jn 1,18), y que ahora penetra y transforma toda la creación, toda la histo­ria y todos los corazones (Sab 18,15).

 

2. Dios es mayor que nuestro corazón

 

Si nuestro corll.t6n nos arguye, Dios es mayor que nuestro coraz6n y conoce todo.

 

(1 In 3,19)

 

La gran sorpresa de nuestra vida cociste en ir descubrien

 

do que Dios es mayor que nuestra conciencia y que

 

nuestro corazón. En Cristo, el Verbo hecho hombre,

 

nuestro barro queda asumido definitivamente para

 

hacerse transparente y poder reflejar el rostro de

 

Dios y la vida divina. Nuestra contingencia se hace

 

vida eterna. En Cristo, protagonista de nuestra his­

 

toria, descubrimos a Dios amor trascendente, que

 

hace entrar nuestra historia en la eternidad. "En él

 

vivimos, nos movemos y somos" (He 17,28). Pero

 

vamos a un "más allá" infinito, donde veremos lo

 

que hasta ahora "ni ojo vio, ni el oído oyó, ni vino

 

a la mente del hombre lo que Dios ha preparado .para los que Ie aman" (1 Cor 2,9).

 

A partir de nuestro barro y de nuestra realidad contingente, buscamos, pensamos, deseamos... A ve­ces nos entusiasma un pensamiento 0 un sentimien­to sobre Dios; pero Dios es siempre más allá. Cons­tatar

 

esta realidad es señal de que ya hemos comen­zado a encontrarle de verdad, sin espejismos.

 

De nuestro pensar, sentir y amar hemos de ir pa­sando a la adoración, admiración y silencio contem­plativo, que es siempre plenamente activo. Es la alegría filial del intuir las maravillas del amor de nuestro Padre Dios. Si nos apoyamos en nuestros fervores y conquistas momentáneas, la palabra de Dios y aun su presencia nos produciría sequedad; si admitimos gozosamente la infinitud del misterio de Dios, entonces su palabra y su presencia nos resulta­rán siempre nuevas, como si ya comenzaremos a es­trenar en nuestro presente una eternidad sin fin.

 

3. Dios es amor

 

EI que no ama no conoce a Dios, porque Dios es amor... Y nosotros hemos conocido y creído en el amor que Dios nos tiene. Dios es amor, y el que vive en amor permanece en Dios y Dios en el.

 

(1 Jo 4,8.16)

 

Dios es elsumo bien que sostiene nuestro ser por­que lo ha creado por amor. Dios es siempre fiel a este amor; su nombre es precisamente "Yavé", el que es fiel al amor, sosteniendo nuestro ser caduco con la fuerza de su ser eterno (Ex 3,14). Dios es amor, Dios es luz (1 Jn 1,5), Dios es Espíritu Un 4,25). El amor que Dios muestra al hombre tiene dimensión esponsal 0 de alianza. Es el amor del buen pastor, que conoce amando (Jn 10,14). Es amor de comunión entre el Padre, el Hijo y el Espíritu Santo, que invita al hombre a participar en esta misma comunión divina.

 

Dios se da a conocer amando. La máxima expre­sión de este amor consiste en habernos dado a su Hijo para que vivamos por el Un 3,16ss). Por este amor nacemos como hijos de Dios (1 In 4,7-8).

 

El amor divino es fuente de la divinización del hombre, que se demuestra en el amor a los herma­nos. Toda la acción de Dios en la creación y en la historia consiste en querer hacer del hombre una ex­presión libre de donación y amor. Gracias a la en­carnación, ya podemos vivir en Cristo y transformar toda nuestra vida en expresión del amor. Con Cristo hacemos que nuestras vidas se construyan como una actitud permanente de escucha y respuesta a la pala­bra de Dios amor.

 

Hasta los detalles mas pequeños de la vida y de las cosas dejan transparentar un amor eterno que se hace cercanía de Padre, madre, hermano y esposo, invitando a afrontar la vida y a convivir con los her­manos para construir el himno universal de res­puesta al amor.

 

4. £l nos am6 primero

 

En eso está el amor, no en que nosotros hayamos amado a Dios, sino en que el nos amó y envió a su Hijo como propiciación por nuestros pecados... Amemos a Dios, porque él nos amó primero.

 

(1 In 4,10.19)

 

Amar a Dios es posible. El tiene la iniciativa de este amor (Jn 3,16), pero espera una corresponden­cia libre del hombre: "Si alguno me ama, yo me ma­nifestare a él" (In 14,23). Podemos entrar en las inti­midades trinitarias de Dios porque Jesús nos ha comunicado el Espíritu Santo, que nos hace hijos de Dios. Jesús hace resonar en nuestro corazón su dia­logo con el Padre en el Espíritu Santo.

 

Dios mantiene la iniciativa de su palabra; no se deja manipular por nuestras planificaciones y nues­tras ansias de eficacia inmediata. Su palabra escapa a las construcciones de laboratorio y a los persona­lismos.

 

Dios sigue teniendo su iniciativa en el amar a cada persona y a cada comunidad, concediendo sus carismas como el quiere, sin ceder el liderazgo a los intereses de nadie. Pero su palabra resuena en el amor de los hermanos, especialmente de aquellos que reflejan el amor del buen pastor, inmolando al servicio de los demás los propios carismas. Al Padre no lo conoce nadie, sino el Hijo y aquellos a quie­nes el Hijo les comunica esta ciencia del amor (Mt 11,25-30). En el corazón de Dios solo se entra con actitud de hijo.

 

5. Todos invitados

 

El amor de Dios hacia nosotros se manifiesta en que Dios envió al mundo a $U Hijo unigénito para que nosotros vivamos por cl.

 

(I In 4,9)

 

Dios nos ha dado a su Hijo para que nuestra vida sea una participación en su ser y en sus vivencias. La vida se transforma en un encuentro vivencial con Cristo. No es posible este encuentro sino a través de los signos pobres de su "carne", que ahora se con­cretan en la eucaristía, palabra, sacramentos, comu­nidad de hermanos... El Verbo hecho hombre vive en su "complemento" que es la Iglesia (Ef 1,23). No es posible la contemplaci6n cristianasi no es a par­tir de una fe profunda en el misterio de la Iglesia, que se encuentra ya en germen en cada corazón humano.

 

Dios ha dado a su Hijo para la salvación del mundo, es decir, para el bien de todos. Jesús se ha ofrecido como protagonista y propiciación por los pecados de todos (1 In 4,1.0). El conocimiento viven­cial de Dios no es exclusivo de ningún grupo ni de ninguna persona concreta, por privilegiada que pa­rezca. El don de Dios aparece como tal cuando refleja ­

 

a Dios amor, padre de todos. Esta es la doctrina de Juan, el discípulo amado, en contra de las prime­ras sectas.

 

La comunión de los hombres con Dios tiene lugar en el encuentro con Cristo y en el cumplimiento de su mandato nuevo del amor. Entramos en el corazón de Dios, como hijos, solo cuando queremos vivir en sintonía con su Hijo amado y con todos los hom­bres, que están llamados a ser hijos de Dios. Sin­tonía quiere decir compartir responsablemente la vida, afrontando, como hermanos en Cristo, los acontecimientos de una historia que camina hacia el encuentro definitivo con Dios.

 

Caminos de contemplación (In 1,1-18; I In)

 
  • Dios ya ha tornado la iniciativa de este encuentro, que es don suyo. Hay que aprender a vivir sintién­dose llamado e interpelado por el amor.
  • Partimos de la   realidad concreta, donde Dios se muestra como amor. Aceptando gozosamente la realidad, comenzamos a conocer y a amar a Dios. Hemos visto su gloria.
  • En Cristo,        escondido en nuestra realidad, encon­tramos el "si" de Dios al hombre y la posibilidad de nuestro "si" a Dios.
  • Ya todo nos habla de el. Todo es mensaje, todo es gracia, porque Cristo, el Verbo (Palabra) hecho hombre, es el centro de la creación y de la historia.
  • Salir al encuentro de Cristo, que se nos acerca en cada acontecimiento, en cada cosa y, sobre todo, en cada hermano.
 

 

  • Actitud mariana           de espera, adoraci6n y apertura generosa a la palabra de Dios.
  • Caminar con la alegría de haber encontrado ya el camino hacia el infinito del amor.
  • Va es posible reorientar continuamente toda Ia vida hacia Dios amor: en el Espíritu Santo, por Cristo, al Padre.
  • Misión es compartir con los demás la experiencia de encuentro con Cristo (l In l,1ss).
  • Podemos amar y hacer amar al Amor. En Cristo aprendemos a vaciarnos de nuestro egoísmo, para llenarnos de Dios amor y hacer de nuestra vida un don para Dios y para los hermanos.
  • Nos realizamos en la medida en que encontramos a Cristo. En este "más allá" de nosotros mismos encontramos lo más profundo y autentico de nos­otros mismos, porque hemos visto su gloria.
 

 

CUARTA PARTE

 

LOS SIGNOS POBRES DE UNA IGLESIA CONTEMPLATIVA Y MISIONERA

 

Hay dos niveles básicos en el encuentra de los disépalos can Cristo resucitado: la constataci6n de su resurrecci6n (cf. Jn20,19-20) y la misi6n que Cristo les confía de anunciar su salvaci6n a todos los hom­bres (cf. Jn20,21-23). La comunidad de los creyen­tes en Cristo resucitado se hace prolongación del mismo Cristo en el mundo, can el dinamismo del Espíritu Santo. La Iglesia prolonga a Cristo porque participa de su misma misión. EI momento inicial más fuerte de esta Iglesia misionera es el encuentro con Cristo resucitado que comunica su Espíritu.

 

El sepulcro vacío lo vieran todos. Las palabras de Jesús sobre su resurrección eran todavía recientes. S6lo faltaba el salta a la fe. Si el sepulcro estaba vacío, es que Cristo había resucitado. Bastaba con creer en las palabras del Señor. Pera Cristo quiso también el signo eclesial del hermano: las apari­ciones, que reforzarían el testimonio apost6lico.

 

Efectivamente, cada uno que encuentra a Cristo resucitado se conviene en signa de su resurrección. EI Espíritu Santo continua suscitando esta fe en el corazón de los que escuchan humildemente el testi­monio apost6lico (He 2,32-38). Es el Espíritu Santo, enviado por Jesús, el que hace posible el encuentro personal y contemplativo de cada uno can Cristo re­sucitado; y es el mismo Espíritu el que actúa en las comunidades eclesiales, suscitando en ellas la comunión 0 fraternidad como signo portador de Cristo. Esta acci6n del Espíritu es siempre en relaci6n al

 

testimonio apostólico de los doce 0 de sus sucesores, como instrumento del mensaje y de la persona del Señor.

 

En la resurrección aparece todo el significado de la encarnación: "El Verbo ha asumido la carne para que nosotros pudiéramos recibir el Espíritu Santo" (san Atanasio). El camino del encuentro con Cristo,

 

en el campo de la contemplación, de la perfección y de la misión, será siempre "camino del Espíritu" (Rom 8,4), "vida según el Espíritu" (Rom 8,9), es decir, "caminar en el amor" (Ef 5,1).

 

Cristo resucitado se hace encontradizo con cada apóstol y discípulo bajo signos pobres. El camino del encuentro es siempre camino de pobreza. Jesús mismo ayuda a descorrer el vela de la fe. En cada época histórica, el Espíritu Santo, enviado por Jesús, comunica el don de la fe para encontrar al Señor en el "aquí" y "ahora" de todos los días y cir­cunstancias. Solo así se explica la ininterrumpida cadena de amigos, testigos y apóstoles de Cristo que, como él, están dispuestos a dar la vida por el evan­gelio. La fe necesita de la palabra de Jesús predicada por los testigos que lo han visto 0 encontrado. La Iglesia, como comunidad de creyentes, seguirá sien­do el lugar del encuentro del hombre con Cristo resucitado.

 

EI sepulcro vacío, constatado históricamente, ayu­da a leer, en la gran "ausencia", los signos de una presencia más honda de Cristo. Solo la fe, que es don de Dios y que necesita la palabra revelada y pre­dicada, puede dar el salto al encuentro con el Señor resucitado. Su presencia ya no está condicionada por el espacio y el tiempo, porque es e mismo, con su misma carne; el que ha resucitado: "Palpadme y ved" (Lc 24,39).

 

Jesús ha querido mantener en su cuerpo glorioso las señales de la crucifixión (Jn 20,20.25.27). La cruz

 

sigue siendo la fuerza victoriosa de nuestra redención. Solo ella da sentido a la vida "martirial" de tantos seguidores de Jesús que han dado la vida como él: amando y perdonando. La actitud raciona­lista y gnóstica de querer pasar de la cruz a pentecostés sin creer en la resurrección corporal de Jesús seria inconsistente y estéril. La fe, según el evange­lio de Juan, se basa en la carne humillada de Cristo, que se transforma en carne gloriosa para dejar en­trever su divinidad y para conseguir nuestra salvación de hombres de carne y hueso. Las teorías cómodas no ayudan a la fe ni a las exigencias evangélicas, porque quieren escapar del escándalo de la cruz, que se hace gloriosa sin dejar de ser cruz y carne humi­llada. No habría experiencia de Dios sin entrar en sintonía con el misterio del hombre desvelado por Jesús resucitado, que sigue siendo Dios y hombre verdadero.

 

Una fe 0 una oración contemplativa que fuera solo encontrarse con el "espíritu" de Cristo (sin su cuerpo resucitado) no se diferenciaría del encuentro con el "espíritu" de tantos fundadores de religiones que existieron en el pasado y que son "revividos" en la mente de sus discípulos. Solo Jesús es el Hijo de Dios hecho hombre, que nos puede hacer entrar en la experiencia de Dios amor. Y es por medio de su carne, ya gloriosa, como Cristo nos ha salvado (Jn 1,14).

 

La vida humana ya es hermosa, porque se descu­bre en ella a Dios amor, que es infinitamente bueno. EI miedo a los fantasmas, a las ideologías abstractas, a las intimidaciones y a las mismas fuerzas del mal se desvanece ante la luz de Jesús de Nazaret resucita­do. EI espíritu del mal no podría hacernos absoluta­mente nada si no encontrara en nosotros harapos de seguridades humanas 0 de gustos "espirituales" a los que hemos pegado el corazón.

 

"Cristo resucitado convierte la vida en una fiesta

 

continua" (san Atanasio). Pero es fiesta de pascua, que "pasa" por la cruz a la luz. La resurrecci6n de Jesús es la protesta de Dios contra la muerte y las opresiones, invitando a todos a pasar del odio. al amor de la muerte a la vida. Jesús ya ha vencido toda clasede mal; pero quiere nuestra colaboración de reaccionar en el amor para llegar a la victoria y glorificación definitiva. Este es el camino de Jesús liberador, resucitado con su mismo cuerpo, que anuncia y realiza la liberaci6n, transformando. la cruz y la opresión en el acto supremo de dar la vida por amor. Así se ha revelado Dios salvador del hom­bre en toda su integridad.

 

La fe pascual es pasar de la ausencia de un sepul­cro vacio a la presencia de Jesús resucitado. La. fe es don de Dios, que se apoya en la Escritura predicadapor el testimonio apostólico. Los apóstoles vieron el sepulcro vacio y al Señor crucificado vivo con. una vida gloriosa, que ya será eterna. El testimonio de Pedro y de los doce garantiza esta fe (aparición a Pedro). El testimonio de Juan, el discípulo amado, indica, al mismo tiempo, que no hay encuentro vivencial con Cristo sin la fe contemplativa, que es conocimiento y amor de amistad (Jn 14,21). Pedro y Juan se complementan en todo el evangelio del

 

"discípulo amado". Intentar contraponerlos sería hacer una caricatura del cuarto evangelio, que cerraría el paso a la fe, a la contemplación y al mandato del amor. La fe pascual es, al mismo tiempo, sumi­si6n a la palabra de Dios y comuni6n de amistad y de vida con Cristo resucitado.

 

El encuentro con Cristo, que es fe y contemplación a la vez, se hace misión por encargo del mismo Jesús resucitado:· "ve a mis hermanos" Un 20,17). Es la misma misi6n de Jesús, prolongada en la Iglesia (Jn 17,17-19), quien infundio ("soplando") su Espíritu (Jn 20,22) para indicar una transformación ra­dical, a modo de nueva creaci6n que recupera con

 

creces e1 rostro primigenio del hombre (Gen 2,7; Ez 37,9). Es la transformaci6n por la participación en su consagración 0 unción (Jn 10,36). No hay misión sin consagración, porque la misión de Jesús es tota­lizante y atrapa al enviado ("apóstol") para toda la vida.

 

No hay misión sin comunión eclesial. Jesús resu­citado se hace presente hoy a través de los signos pobres de una Iglesia misionera. A este sentido y amor de Iglesia no se llega sino a través de una acti­tud contemplativa que descubre a Jesús en los sig­nos pobres que el mismo se ha escogido para llegar a lo más hondo de cada corazón.

 

Apoyado en Cristo resucitado, el creyente y apóstol pasa del miedo a la paz y al gozo, del odio y del pecado al perdón. Por la fuerza del Espíritu envia­do por Jesús, el apóstol se hace anunciador del gozo, de la paz y del perdón de Cristo resucitado. Es la buena nueva 0 "alegre noticia", que necesita evan­gelizadores llenos de "gozo pascual". Es el gozo que el Espíritu Santo comunica cuando vamos pasando por el proceso contemplativo de desierto, de Naza­ret, de la cruz y del sepulcro vacio. Es el gola de una sorpresa: haber encontrado los signos del resucitado donde parece resonar sólo el silencio de un sepul­cro vacío.

 

Cristo resucitado, entonces y ahora, transforma a hombres deshechos por el miedo en hombres envia­dos ya rehechos por 1a fe, la esperanza y la caridad, plasmados en una vida de amistad e intimidad con e. El proceso que sigue Jesús para comunicar esta vida contemplativa y apostólica es siempre el mis­mo: cuando nos vamos despojando de todas nuestras seguridades humanas, el se deja entrever en un "su­dario" 0 en un movimiento del corazón...

 

1.         Pedagogía del encuentro con Jesús resucitado  (Jn 20,1-18)

 

1.         Sepulcro vacío

 

El día primero de la semana. María Magdalena vino al sepulcro muy de madrugada. cuando aún era de noche. y vio quitada la piedra del sepulcro. Corrió y vino a Simón Pedro y al otro discípulo a quien Jesús amaba, y les dijo: Se han llevado del sepulcro al Señor y no sabemos dónde lo han puesto.(Jn20.1-2)

 

En un sepulcro vacío apareci6 el destello de una nueva creaci6n. Fue la aurora de la nueva pascua. El sábado, como séptimo día, ha dejado "paso" al nue­vo día, el "domingo" 0 día del Señor. Sera ya el día definitivo. Para este primer anuncio Dios se vale de Magdalena, de Pedro y de Juan. En ellos ya había comenzado una vida nueva en el Espíritu y, por esto, podían comprender el significado de un sepulcro vacío, a la luz del coraz6n abierto de Cristo y de todo el mensaje evangélico. Las categorías humanas comienzan a tambalearse ante esta nueva luz con­templativa, que parece oscura porque deslumbra.

 

El "no saber" de una 16gica caduca comienza a ser fe de una 16gica totalmente nueva. Se desmoronan nuestros mejores planes para dejar paso a la gracia, que nos había urgido a elaborar esos mismos pla­nes. Dios salva al hombre por medio del mismo hombre, con tal de que este reserve para Dios la ini­ciativa de su palabra, de gracia y de la salvación.

 

En Jesús, los "tres días" de sepulcro fueron tan redentores como otros momentos de su existir. Por esto nos pertenecen; son nuestra misma biografía (Rom 6,4). Nuestros momentos de sepulcro vacío se pueden hacer destello de esperanza a la luz de la fe

 

en Cristo resucitado. Lo único que queda es la hue­lla imborrable del amor. El cuerpo de Jesús resucita­do ya no necesita lienzos, ni sudario, ni sepulcro, ni ungüentos; tan s6lo necesita los velos pobres de una Iglesia peregrina y de un caminar contemplativo y los ungüentos de nuestra fe de adhesi6n personal.

 

2.         Amar para creer

 

Salió. pues. Pedro y el otro discípulo y fueron al sepulcro... El otro discípulo llego el primero... e inclinándose, vio los liemos, pero no entró. Llegó Simón Pedro después de él, y entro en el sepulcro y vio las fajas allí colocadas, y el sudario que había estado sobre su cabeza... envuelto aparte. Entonces entro también el otro discípulo..., vio y creyó; aun no se habían dado cuenta de la Escritura. según la cual era preciso que el resucitase de entre los muertos.

 

(Jn       29.3-9)

 

Quien está enamorado descubre fácilmente las huellas de la persona amada. El amor tiene una lógica más profunda que se llama "intuici6n". En alas del amor, Juan lleg6 corriendo al sepulcro vacío; su respeto por el carisma de Pedro le hizo espe­rar, pero su amor contemplativo ya le hizo intuir una presencia de Cristo en las huellas de unos lien­zos plegados. Entr6 con Pedro y vio los signos po­bres que había dejado el Señor, y dio el salto a la fe. El amor es así. El verdadero conocer teológico arranca de una fe de enamorado. "Si alguno me ama, yo me manifestare a él" (Jn 14,2.1).

 

Pedro y Juan se complementan (He 3,1). Para creer se necesita apoyarse en el testimonio apost61i­co; pero la aventura de la fe viva en Cristo resucita­do presente sigue siendo obra del amor, que en cada uno es irrepetible e irreemplazable.

 

No conocían todavía el sentido de la Escritura so­bre

 

la resurrección del Señor, hasta que el mismo Jesús resucitado les concedi6 este don (Lc 24,45). Pero si recordaban sus palabras misteriosas sobre una muerte gloriosa (Jn 12,32) y una sepultura llena de perfumes (In 12,7). A Jesús le gusta darnos la sorpresa de manifestarse a través de signos pobres (los lienzos plegados), para despertar en nosotros la intuici6n que se llama amor contemplativo. De la noche pasamos al día verdadero. Y una soledad que parece vacía se nos hace presencia cariñosa del amado.

 

3. Llamados por el nombre

 

María se quedó junto al sepulcro, fuera, llo­rando... Han tomado a mi Señor y no sé dónde lo han puesto... Se volvi6 para atrás y vio a Jesús que estaba allí, pero no conoció  que fuera Jesús. Díjole Jesús: Mujer, ¿por qué lloras7, ¿a quién buscas7... ¡María! Ella, volviéndose, le dijo: ¡Maestro!

 

(Jn 20,11-16)

 

La búsqueda de Cristo se hace siempre dolorosa. Es el dolor y la queja de la esposa ante la ausencia del esposo (Cant 3,lss). Este dolor, que nace del amor, no se satisface ni se soluciona con nada ni con nadie, si no es can la presencia del amado. Hay que purificar el coraz6n para poder air en ese dolor del coraz6n, como una "brisa suave", el propio nombre pronunciado por Cristo resucitado. S6lo Dios amor nos conoce por este nombre (In 10,14), que él mismo grabó en lo más hondo de nuestro ser. Hay que aprender a beber en la fuente de su palabra y de su presencia, simplemente como un sediento, "denos 61 lo que quisiere, siquiera haya agua, si­quiera sequedad" (santa Teresa).

 

Hay que aprender a llamar a Jesús par su propio nombre, como él nos llama a nosotros. No se trata de simples palabras, todas ellas maravillosas: Jesús,

 

Cristo, Señor, Maestro... Lo único que le gusta al Señor es que, al dirigirnos a él, hablando o callan­do, sufriendo o gozando, vea en nuestros labios que le damos nuestro ser como propiedad esponsal.

 

"Maestro mío", para Magdalena, equivale a "mi amado para mí y yo para mi amado" (Cant 2,16). Así es la respuesta sencilla y sincera de quien se ha sentido interpelado y llamado también por su pro­pio nombre, como declaraci6n de amor. Pero esta respuesta s6lo la puede dar un coraz6n de pobre, que ya considera todo como paja 0 basura en com­paraci6n con la ciencia del amor a Cristo y a los hermanos (Flp 2,8s).

 

4. La misi6n de ir a los hermanos

 

Jesús le dijo: Déjame, pues aun no he subido al Padre; pero ve a mis hermanos y diles: Subo a mi Padre y a vuestro Padre, a mi Dios y a vuestro Dios. María Magdalena fue  a anunciar a los discípulos: He visto al Señor, y que le había dicho estas palabras.

 

(Jn 20,17-18)

 

El encuentro definitivo con Cristo se prepara en esta vida par un proceso de búsqueda y encuentro que purifica nuestro coraz6n de todo lo que no sue­ne a donación. Jesús nos invita a "pasar" con 61 al Padre. Es su pascua y la nuestra. Sus dones actuales son solo un ensayo pasajero que prepara una pleni­tud. Los dones de Dios no son Dios, pero ya contie­nen alga de vida eterna y definitiva.·

 

La vida se hace "Pascua" con Cristo cuando la gastamos al servicio de sus intereses, que son los del Padre y que tienen par objetivo la salvaci6n de los hermanos. Para encontrar definitivamente a Cristo hay que ensayar el encuentro con él en los signos pobres del hermano.

 

Del encuentro con Cristo se pasa a la misi6n. No se deja la uni6n y encuentro con él, sino que se le busca en otros signos escogidos por él. Los signos son diferentes, pero a nosotros nos interesa el. La misi6n es otro modo de encontrar a Cristo. Pero el encuentro de la misi6n se prepara en el encuentro de la contemplaci6n. Misi6n y contemplaci6n se com­plementan. Entrar en el coraz6n de Cristo es encon­trarse con sus amores que urgen a la misi6n. Servir a Cristo en el hermano reclama la meditaci6n de su palabra y la intimidad con él presente en la eucaristía. El apóstol es testigo de un encuentro que fue y sigue siendo experiencia vivencial (I In 1,ls; Jn 1,41; 20,25). Cristo comparte con nosotros todo lo que es y tiene; también su relaci6n filial con el Pa­dre. EI ap6stol de Cristo comparte generosamente con los hermanos todo lo que ha recibido de Cristo.

 

2.         Testigos de la palabra y de la presencia de Jesús (Jn 20,19-31)

 

1.         Paz y misi6n en el Espíritu

 

Vino Jesús y, puesto en medio de ellos, les dijo: La paz sea con vosotros. Y diciendo esto, les mostr6 las manos y el costado. Los discípulos se alegraron viendo al Señor. Díjoles otra vez: La paz sea con vosotros. Como me envi6 mi Padre, así os envío yo... Sop1ó y les dijo: Recibid el Espíritu Santo.

 

(Jn       20,19·22)

 

El mensaje de Jesús es siempre de paz, gozo y per­d6n (Jn 14,27). EI mismo es "nuestra paz" (Ef 2,14). El corazón y el rostro de los apóstoles comienzan a cambiar después de la experiencia de un sepulcro

 

vacío. La palabra de Jesús resucitado presente disipa todo género de dudas y desanimo. Para continuar la misma misi6n de Cristo hay que tener en el coraz6n el gozo pascual, que es don del Espíritu y que se recibe cuando intentamos transformar el sufrimien­to en donaci6n y servicio. La paz que comunica Jesús tiene un precio: disponerse a ser sembradores de la paz. Jesús regala su paz y su perdón; la actitud específicamente cristiana es la de vivir y morir amando, perdonando y anunciando la esperanza.

 

La fe en Cristo resucitado transforma la vida en confianza y dinamismo de perfección y apostolado. Ya poseemos "las primicias del Espíritu" (Rom 8,23) como agua viva y nuevo nacimiento. Jesús nos comunica el agua que brota de su costado (In 19,34) y que había prometido en el templo como fruta de su misterio pascual (In 7,37-39). Es la nue­va creaci6n, también ahora con el "soplo" del Espíritu (Gen 2,7). Nuestro barro se hace imagen de Dios participada de su Hijo Jesús. Nuestras cenizas y huesos resecos (Ez 37,9) reviven por la llama del Espíritu.

 

La misi6n apost6lica es participaci6n en la unción y misión de Jesús por obra del Espíritu (In 10,36; 17,19). Ser apóstol de Jesús supone tener en el coraz6n la paz y el gozo pascual, que se hace unidad de vida en el propio interior y en la comunidad.

 

2.         El regalo del perd6n

 

Recibid el Espíritu Santo. A quienes perdonareis los pecados, les serán perdonados; a quienes se los retuviereis, les serán retenidos.

 

(Jn       20,22·23)

 

EI evangelio de Juan esta siempre impregnado de perdón y compasión. EI Verbo encarnado se hace

 

encontradizo con unos recién casados en apuros

 

(c. 3), con un intelectual que busca la verdad (c. 3), con una pecadora que siente la nostalgia de una vida nueva (c. 4), con un pobre lisiado marginado por la sociedad (c. 5), con la muchedumbre que bus­ca pan, verdad y vida (cc. 6-7), con un ciego de luz natural y de fe (c. 9)... A todos y a cada uno se acerca Jesús sin discriminación alguna. Las prioridades del Señor están en los que buscan y sufren. El perdón de Jesús no humilla, sino que restaura y reconcilia has­ta hacer reencontrar el verdadero rostro de cada hombre, que debe reflejar a Dios amor.

 

El sacramento del perdón es regalo de pascua. El retorno al Padre ("conversión" 0 penitencia) lo describeJesús con el caminar esperanzado del hijo que ansía el reencuentro en la casa paterna. Ese hijo es el mismo Jesús que "pasa" con nosotros al Padre y que, para ello, vive en el corazón de cada hijo prodigo.

 

. La sorpresa del perdón que nos regala Jesús con­siste en que, en este nuestro encuentro "sacramen­tal", escuchamos su misma voz de buen pastor que perdona y l<i voz del Padre que nos llama, también a nosotros, "hijo amado" (Mt 3,17; 17,5). Así se ex­plica el gozo y la fiesta de las parábolas de la miseri­cordia (Lc 15). En el sacramento de la penitencia celebramos la pascua 0 paso al corazón de Dios. La voz del ministro que absuelve y el dolor y la contestón del penitente son ahora, bajo esos signos po­bres sacramentales, voz y gestos de Jesús resucitado presente.

 

3. Testimonio apost6lico y fe

 

Tomás no estaba con ellos cuando vino Jesús... Pasados ocho d(as, vino Jesús... Luego dijo a To­mas: Alarga acá tu dedo yaqui tienes mis manos, y

 

tiende tu mano y métela en mi costado, y no seas incrédulo, sino fiel. Respondi6 Tomas y dijo: Señor m(o y Dios mío! Jesús le dijo: Porque me has visto has creído; dichosos los que sin ver creyeron.

 

(Jn 20.24-29)

 

Los apóstoles habían visto al Señor resucitado y habían escuchado sus palabras. Era el mismo quien les mostro sus manos y sus pies con sus llagas glo­riosas (Lc 24,39-40) y les invito a tocar su mismo cuerpo glorificado. Es verdad que para creer no se necesitaban las apariciones, puesto que eran sufi­cientes las palabras del Señor, que ya había anun­ciado su resurrección. Pero Jesús quiso darles estos signos externos par<i ayudar a su debilidad y a los que creerían por medio de ellos,

 

El testimonio apostólico consiste en transmitir el mensaje y la vida de Jesús juntamente con la propia experiencia de encuentro con el ya resucitado. La fe se incrementa en las mismas palabras y gestos de Jesús, que llega a nosotros por el testimonio apostólico. Tomas, en un principio, no acepto estas reglas de juego y rechazo los signos pobres del testimonio fraterno. Luego, por la gracia misericordiosa de Jesús, él mismo se convirtió en pauta de la fe para los demás. Su oración se seguirá repitiendo hasta el fi­nal de los tiempos.

 

Jesús esperaba de "los suyos" que dieran el salto a la fe apoyados en sus palabras y en los signos po­bres de una presencia nueva: el sepulcro vacío, los lienzos plegados, el testimonio de los hermanos más humildes... Así lohizo el discípulo amado. Las bienaventuranzas evangélicas las resume Jesús en una sola: "Bienaventurados los que sin ver creen". El "ver" de la fe es más profundo que el "ver" de la constatación racional y empírica. Jesús quiere el "ver" de la fe, que compromete el corazón y que se concreta en amistad y adhesión personal a él y a su

 

mensaje. Es el compartir la vida con él. Es la fe de aceptar a Cristo tal como es, "meditando en el corazón" (Lc 2,19.51). La bienaventuranza evangélica so­bre la fe recuerda la fe de María, como modelo de la fe de la Iglesia, consorte de Cristo: "Bienaventurada tu que has creído" (Lc 1,42).

 

4.         Fe y vida

 

Muchas otras señales hizo Jesús en presencia de

 

los discípulos, que no están escritas en este libro; y

 

. estas fueron escritas para que creáis que Jesús es el

 

Mes{as. Hijo de Dios, y para que creyendo tengáis

 

vida         en su nombre.

 

(Jn       20,30-31)

 

Todos los signos de Jesús son expresión del Verbo hecho hombre. En la carne humillada y gloriosa de Jesús se transparenta la divinidad del Hijo de Dios. Por esta carne, ahora glorificada, Jesús nos ha salva­do. EI resumen de todos los signos evangélicos es el mismo cuerpo de Jesús, con sus llagas abiertas y gloriosas.

 

Juan ha auscultado los signos, es decir, los gestos y palabras de Jesús, reclinando su cabeza sobre su pecho, intuyendo sus amores y adorando su misterio (In 13,23). Es la actitud mariana de aceptar las pala­bras de Jesús, haciendo de la propia vida una asociación esponsal a su obra salvífica. María es "la mujer" modelo de esta fe y desposorio para la Igle­sia y para todo creyente (In 2,1-5). Vida cristiana contemplativa equivale a compartir esponsalmente los amores y el misterio de Cristo, a oscuras y en alas del amor..

 

Quien ha encontrado a Cristo en sus gestos y en sus palabras meditadas en el corazón bajo la acción del Espíritu descubre que todo lo que decimos so­bre

 

Cristo no es más que un balbuceo. Por esto prefiere el silencio 0 las pocas palabras, como invitan­do a otros a experimentar a Cristo por el camino de la fe contemplativa y de una amistad inquebranta­ble. Es como repetir las palabras de Jesús: "Venid y ved" (Jn 1,39), por las que Juan estrena su propia experiencia. Para pasar a esta fe hay que aceptar la propia "soledad" de los actos responsables. Nadie nos puede suplir, aunque todos los hermanos nos ayuden. Es la fe de admitir vivencialmente a Cristo como Hijo de Dios hecho hombre, resucitado, que nos comunica su propia vida divina y que nos hace parte integrante de su propio existir (In 15,lss). Es­crito el evangelio, Juan se sintió feliz porque su pro­pia existencia ya podía resolverse en ser huella im­borrable de Cristo resucitado.

 

3.         Presencia de Cristo en la comunidad eclesial (In 21,1-14)

 

1.         Caminar de hermanos

 

Díjoles Simón Pedro: Voy a pescar. Los otros le dijeron: Vamos también nosotros contigo... En aquella noche no pescaron nada. Llegada la mariana, se hallaba Jesús en la playa, pero los discípulos no se dieron cuenta de que era él. D{joles Jesús: Muchachos, ¿no tenéis a mano algo que comer? Le respondieron: No. El les dijo: Echad la red a la de­recha de la barca y hallareis. La echaron, pues, y ya no podían arrastrar la red por la abundancia de peces.

 

(Jn       21,2-6)

 

En el corazón de los apóstoles comenzaba a reinar el amor fraterno. Sentían necesidad de encontrarse

 

para compartir la fe y la vida de seguimiento apostólico. Se comenzaba a cumplir la oración sacerdotal de Cristo: ~'Que sean uno" (Jn 17,Iss). El camino es largo; por esto hay que saber pasar juntos noches oscuras, insomnios y fracasos. Lo importante es que Cristo se hace presente en e1 momento oportuno, con tal de que entre "los suyos" reine el amor de armonía fraterna y de comunican. En realidad, el Señor ya estaba presente al principio cuando decidie­ron trabajar y caminar juntos como los dos de Emaús (Lc 24,15).

 

Jesús se hace presente y habla por medio de acon­tecimientos y signos cotidianos. Sus palabras se en­tienden de verdad cuando, a su luz, afrontamos la vida con realismo y amor. Las situaciones humanas hay que vivirlas experimentándolas desde dentro y, desde allí, buscar la luz en las palabras y la presen­cia de Cristo. Buscar luz en otra parte seria entrar en un callejón sin salida, que produciría la ruptura de la comunican eclesial.

 

Los acontecimientos se hacen signos de la presen­cia y del mensaje de Cristo, con tal de que respete­mos la iniciativa de su palabra revelada. Un peregri­no 0 emigrante en las arenas del litoral y de la marginaci6n puede ser Jesús. Una palabra y una mana que se extiende hacia nosotros para pedir 0 para dar puede ser la suya. La comunidad de her­manos en Cristo esta siempre abierta a todos, los de dentro y los de fuera, porque cada uno de nuestros pr6jimos, sin excepci6n, es portador de un deseo y de un mensaje de Cristo.

 

2. Mirada contemplativa

 

Dijo entonces aquel discípulo a quien amaba Jesús: ¡Es el Señor! Así que oyó Simón Pedro que era el Señor, se ciñó la sobre túnica, pues estaba desnudo­

 

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 y se arrojo al mar. Los otros discípulos vinie­ron en la barca... tirando de la red con los peces.

 

(Jn 21,7-8)

 

Las personas que se aman se comprenden con una sencilla mirada. Es un mirar en el que se compro­mete todo el corazón y todo el ser. Es el "mirar de una vez" (san Francisco de Sales). Sin esta mirada amorosa, contemplativa, no descubriríamos a Cristo en los acontecimientos, en e1 hermano, en la Escri­tura, en la eucaristía, en los sacramentos, en la co­munidad, en nosotros mismos... Por esto nos perde­mos tantas veces el meollo y la clave de los aconte­cimientos. Entonces no vemos a Cristo en el rostro humilde de un hermano, y las palabras evangélicas nos menan a rutina y monotonía.

 

EI grito de Juan es su mirada amorosa, que descu­bre la "gloria" 0 divinidad de Cristo bajo los signos pobres de su carne. Todo el evangelio está redactado con esta luz de la fe: "¡Es el Señor!" Los mismos gestos y palabras de Jesús, que todos habían visto y oído, hay que repensarlos 0 releerlos con la luz de un enamorado que ya ha encontrado a Cristo: "He­mos visto su gloria".

 

No basta con mirar; hay que comprometerse. La mirada contemplativa lleva a la entrega y a la misión comprometida. Cada hermano sirve a los demás según su propio don 0 carisma, y reconoce go­zosamente en los hermanos los dones que ellos han recibido. Así es la "comunican de los santos" ya des­de esta tierra. Juan y Pedro se complementan siem­pre, como en la narración evangélica. Pedro no podía esperar más; necesitaba de la cercanía y mirada amorosa de Cristo. Los otros discípulos aportaron sus brazos con un gesto nacido también del corazón. Jesús ama a todos ya cada uno con un amor irrepe­tible, que se convierte en misión y responsabilidad irreemplazable. Las envidias y los celos son estériles

 

y destruyen los dones recibidos. Cada uno debe vivir su carisma en e1 "anonimato" de servir a todos para que todos se sientan amados y realizados. Seguir a Cristo dejándolo todo es, principalmente, esta acti­tud de servir a Cristo en cada hermano, sin hacer tantas cábalas. Se ama y se hace amar a Cristo cuan­do uno se olvida de sí mismo.

 

3. Signos de comuni6n

 

Así que bajaron a tierra, vieronunas brasas en­cendidas y un pez puesto sobre ellas. y pan. Díjoles Jesús: Traed de los peces que ahora habéis pescado. Subió Simón Pedro y arrastro la red a tierra, llena de ciento cincuenta y tres peces grandes; y con ser tantos. no se rompió la red. Jesús les dijo: Venid y comed... Se acercó Jesús, tomó el pan y se lodio, e igualmente el pez.

 

(Jn 21,9-13)

 

Jesús siempre reserva a1guna sorpresa a sus ami­gos. Un pez sobre unas brasas y pan serán ya un símbolo cristiano para siempre. Jesús se ofrece con­tinuamente como "pan de vida". Su existencia de resucitado continua siendo donaci6n, compartiendo su misma vida con nosotros. El mismo, ya resucita­do, seguirá siendo camino, verdad, vida, luz, ali­mento. En la eucaristía nos lo ha dado todo, pues­to que se da a sí mismo. Cada uno de sus discípulos ha preparado la eucaristía con su propio trabajo y convivencia comunitaria. Del encuentro con Cristo como Palabra se pasa a1 encuentro con él como "pan de vida". Es un encuentro personal y comunitario a 1a vez. Así aprendemos a compartir nuestra expe­riencia de Cristo con los hermanos.

 

La iniciativa la sigue teniendo el Señor: "Venid y comed". Su presencia de resucitado esta en relaci6n con los signos pobres de la Iglesia, de los hermanos,

 

de los acontecimientos. El cómo y el cuándo de su cercanía lo escoge él.

 

A veces descubrimos a Cristo en una palabra del evangelio que nos produce una luz y un movimien­to en el corazón. Entonces se redescubren las largas "noches" de espera activa como historia de un amor misericordioso que se acomoda a nuestra debilidad. Esta comunican contemplativa con Cristo se hace co­muni6n ec1esial con los hermanos. El velo que nos separa de Cristo se rasga con una actitud de escucha y comprensi6n respecto a los hermanos. Cuando tendemos la mano a a1guien, nos encontramos siem­pre con la mano de Cristo.

 

4. E:xamen permanente de amor (Jn 21,15'-25)

 

1. Amar es servir

 

Simón, hijo de Juan, ,me amas más que estos?... Por tercera vez le dijo: ,Me amas? Pedro se entristeció de que por tercera vez le preguntase..., y dijo: Señor, tú lo sabes todo, tu sabes que te amo. Díjole Jesús: Apacienta mis ovejas.

 

(Jn 21,15-17)

 

E1 evangelio no está escrito para diletantes, sino para enamorados y para quienes buscan sincera-' mente a Cristo. Se acierta a creer en Cristo cuando se lo lee con el corazón abierto. Cada palabra evangélica es un examen de amor. Y lo es también cada sig­no pobre en el que se esconde y se acerca el Señor. La figura de Jesús no admite ser reducida a 1a cari­catura de un líder político-social. Pedro fue escogi­do para ser nuestro guía en este camino de fe, como

 

quien "preside la caridad universal", es decir, la comunión eclesial de hermanos. Por esto primero le examinaron de amor, cuando parecía menos prepa­rado. En ocasiones anteriores, antes de experimentar su propia pobreza y limitación, tal vez hubiera res­pondido con un "SI" estruendoso y superficial. Aho­ra el "sí" le nace del corazón, como de quien ya no tiene nada más que dar que a sí mismo. Es lo que le pedía el Señor, para que luego pudiera "confirmar a los hermanos" (Lc 22,32).

 

Amor es servir a Cristo en los cargos y circunstan­cias mas humildes, que no están de moda 0 que son rechazados por todos. A Pedro le pidieron si estaba dispuesto a amar incondicionalmente, aceptando también este servicio sin compensaciones humanas que se llama el pastoreo. Porque el "sí" supondrá renunciar a ventajas temporales, a preferencias c6­modas y a éxitos inmediatos aplaudidos por la galería.

 

Amar es servir en los últimos puestos, sin pensar y sin comentar demasiado que son los últimos; basta con que Cristo este ahí y me haya encargando esta mi­si6n. Pedro dijo que "sí" y se convirti6 en elsigno principal de Cristo cabeza, que es modelo para toda la grey y para todos los pastores (1 Pe 5,1-5). Su punto de apoyo será ya s6lo la mirada amorosa de Jesús, que conoce perfectamente el coraz6n débil y grande de "los suyos". Todo cristiano tiene su parte en la colaboración con el pastoreo de Pedro y de sus sucesores: contemplaci6n, sufrimiento, misi6n, ser­vicio... La mirada y el "conocer" amoroso de Cristo sostienen nuestro "sí".

 

2. El ultimo "sígueme"

 

En verdad, en verdad te digo: cuando eras joven, tú te ceñías e ibas donde querías; cuando envejez­cas

 

 extenderás tus manos y otro te ceñirá y te lleva­ra a donde no quieras. Esto lo dijo para indicar con qué muerte había  de glorificar a Dios. Después añadió: Sígueme... Si yo quiero que éste permanez­ca hasta que yo venga, ,a ti qué? Tú sígueme.

 

(Jn 21,18-19.22)

 

Compartir la vida con Cristo significa hacer de la propia existencia una donaci6n. Se acabaron las ocurrencias y los ensayos; nuestras manos deben ex­tenderse generosas en la cruz de Cristo. EI vivi6 y muri6 amando. La cruz, para ell buen pastor, no es derrota, sino el momento supremo de dar la vida por amor (Jn 10,15). ASI es el amor de Cristo y así debe ser el de "los suyos". No existe la casualidad. Aunque otros nos arrastren, marginen y crucifi­quen, en realidad es Dios amor quien dirige la his­toria, la de su Hijo querido y la nuestra.

 

Hay que decidirse por ese "monaquismo" de afrontar los acontecimientos con la perspectiva del amor, encontrando siempre la oportunidad de servir a los demás olvidándonos de nosotros mismos. La vida se hace desposorio principalmente en las cir­cunstancias anodinas. "Sígueme". ¿ A dónde,  cómo, por qué? .. Después del examen de amor, ya no tie­nen sentido esas preguntas. Tenemos ya bastante con la presencia y la llamada de Cristo: Jerusalén, Antioquía, Roma... Ya se dejaron atrás los cálculos y miras humanas.

 

EI "sígueme" se hace misi6n ("id"), presencia, permanente ("estaré con vosotros") y promesa de en­cuentro definitivo ("volveré"). La vocaci6n y la misión mantienen su ritmo de desposorio gracias a la espera activa (Ap 22,20), que se entrena todos los días en la celebración eucarística (I Cor 1l,26). La crucifixión de Pedro en los jardines de Ner6n, mar­tirizado con unos centenares de cristianos, será siem­pre un signo que confirma la fe de los creyentes (Lc 22,32). Esta historia de amor de tantos cristianos que

 

dan la vida en el anonimato (contemplación, misión, servicios), forma, juntamente con Pedro y sus sucesores, el testimonio apostólico: "Nosotros so­mos testigos" (He 2,32). Es el camino fraterno y mi­sionero hacia el corazón de Dios amor.

 

3. Mucho más

 

Este es el discípulo que da testimonio de esto y que lo ha escrito, y sabemos que su testimonio es verdadero. Muchas otras cosas hizo Jesús, que, si se escribieran una por una, creo que este mundo no podría contener los libros.

 

(In 21,24-25)

 

Juan da testimonio de Cristo, el Verbo 0 Palabra de Dios, para llamar a la fe como encuentro y adhesión personal con el (Jn 20,31). Atestigua lo que ha visto y oído: "la Palabra de la vida" (I In 1,lss). A través de la carne 0 humanidad de Cristo y de sus signos ha descubierto al Hijo de Dios, el Señor re­sucitado, la "gloria" 0 esplendor del Padre. Su mi­rada de fe ha pasado de lo sensible e histórico a lo trascendente y eterno. Su testimonio se complemen­ta con el de Pedro y los demás apóstoles, que vieron en Cristo la gloria de su filiación divina y escucha­ron en él la voz del Padre (2 Pe 1,16-18). Ha encon­trado a Cristo quien ha visto y escuchado en el al Padre, a Dios amor (Jn 14,9).

 

Quien está enamorado de Cristo, cuando habla o escribe sobre él, siempre le parece que ha dicho poco, casi nada. Juan es testigo del infinito. La contem­placi6n es la oración de los pobres, que se sienten llamados a convertirse en hijos en el Hijo. Por esto se prefiere el silencio de la adoración y de la donación. Las palabras que se escriben 0 se dicen valen por lo que dejan entrever. Al orar y al hablar, el

 

silencio es más importante que las palabras, con tal que no sean silencio vacío y egoísta.

 

El silencio contemplativo vislumbra siempre un mas allá o un "mucho más" admirable. A los ena­morados de Cristo les parece que nunca llegan a de­cir lo mejor, pero intentan balbucearlo de nuevo. La oraci6n contemplativa es encuentro con Cristo, que ofrece el agua viva a los que se sienten pobres. Por esto llegamos a la fuente para beber en ella, pero aceptando con gozo la realidad de ese "mas allá", que es el "misterio" 0 el corazón de Dios amor y que un día será visión y posesión (l In 3,2).

 

Caminos de contemplación (Jn 20-21)

 
  • Hay que vivir diariamente aprendiendo la peda­gogía deCristo resucitado: nos hace pasar al gozo pascual (esperanza) a través del perdón, de la fe en los signos pobres de Iglesia y del hermano, del examen de amor y de la disponibilidad para la misión.
  • Nos basta el,    sea como fuere el modo con que el haya escogido acercarse a nosotros y hablamos. Su amor supera nuestros cálculos. Por esto nos educa para damos cuenta de que es él quien se entrega y se da por encima de sus dones.
  • Amar   a la Iglesia (personas e instituciones) es amar la humanidad pobre de Cristo que se pro­longa en el tiempo. ~Signos pobres? ~Que importa si le buscamos a él para amarle y hacerle amar?
 

 

•           Hay que dejarse cuestionar por el amor que Dios nos manifiesta en Cristo:

 

su mirada desde cada signo de la creaci6n, de

 

la historia y de la Iglesia;

 

escondido en el coraz6n del hermano;

 

esperando. desde cada pueblo y cultura, nuestra­

 

transparencia evangélica y evangelizadora;

 

su llamada a colaborar en la preparaci6n del

 

encuentro definitivo de toda la humanidad

 

con él.

 

•           En el encuentro cotidiano con Cristo resucitado descubrimos que Dios nos ama tal como somos, que le podemos amar y hacerle amar. EI gozo de este encuentro nos hace "evangelizadores", es de­cir, testigos de la esperanza, sembradores y cons­tructores de la paz.

 

• Vale la pena vivir intensamente el presente en la perspectiva de un "mas allá", "hasta que vuelva", porque "hemos visto su gloria".

 

 

 

 

 

 

 
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