ESCRITOS Y PASTORALES DE OBISPOS (168)
(IL SACERDOTE PASTORE E GUIDA DELLA COMUNITA' NELLA PARROCCHIA. Dopo la parte dogmatica, pastorale, giuridica, sociologica: parte spirituale)
Escrito por Super User(IL SACERDOTE PASTORE E GUIDA DELLA COMUNITA' NELLA PARROCCHIA.
Dopo la parte dogmatica, pastorale, giuridica, sociologica: parte spirituale):
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SPIRITUALITA' PROPRIA DEL SACERDOTE IN QUANTO GUIDA DELLA COMUNITA'. SPIRITUALITA' DELLA PARROCCHIA
Carità pastorale, spiritualità specifica del sacerdote che guida la comunità parrocchiale
La spiritualità propria del sacerdote viene descritta come "carità pastorale" e "ascetica propria del pastore d'anime" (PO 13). In modo particolare questa spiritualità si attua da parte dei sacerdoti che guidano la comunità parrocchiale, nello spazio e tempo, cioè nelle circostanze salvifiche-teologiche, pastorali, ecclesiali, culturali e sociologiche. In queste circostanze di grazia, geografiche e storiche, i sacerdoti attuano la loro realtà soprannaturale di essere "prolungamento visibile e segno sacramentale di Cristo nel suo stesso stare di fronte alla Chiesa e al mondo" (PDV 16).
Essere prolungamento del Buon Pastore significa diventare "segni viventi e portatori della misericordia" (Il Presbitero, Maestro... IV, n.2). Il sacerdote vive la sua configurazione a Gesù Cristo Capo e Pastore per mezzo della carità pastorale. "La vita spirituale del sacerdote viene improntata, plasmata, connotata da quegli atteggiamenti e comportamenti che sono propri di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa e che si compendiano nella sua carità pastorale" (PDV 21). In questo modo i sacerdoti diventano "strumenti vivi di Cristo Sacerdote" (PO 12).
La carità pastorale fa del sacerdote un segno e imagine viva di Gesù, Capo, Pastore e Sposo della Chiesa. Così diventa "capace di amare la gente con cuore nuovo, grande e puro, con autentico distacco da sé, con dedizione piena, continua e fedele, e insieme con una specie di «gelosia» divina (cfr. 2 Cor 11,2), con una tenerezza che si riveste persino delle sfumature dell'affetto materno, capace di farsi carico dei «dolori del parto» finché «Cristo non sia formato» nei fedeli (cfr. Gal 4, 19)" (PDV 22).
Le dimensioni della carità pastorale aprono la parrocchia e i suoi servitori nella prospettiva cristologica-teologica, ecclesiologica, sociologica. I sacerdoti che guidano la comunità sono la visibilità di Cristo in mezzo alla Chiesa e nelle circostanze storiche e culturali-sociologiche. Per mezzo di essi, Cristo vive presente "in mezzo" ai fratelli (cfr. Mt 18,20), come segno di unità che riflette la Trinità di Dio Amor: "Siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17,21).
I servizi ministeriali nella parrocchia, esigenza, espressione e mezzo privilegiato di santità:
La guida e costruzione della comunità parrocchiale per mezzo dell'annuncio de la Parola (dimensione profetica), della celebrazione dei sacramenti (dimensione liturgica) e dei servizi di carità (dimensione diaconale), spinge i sacerdoti responsabili della parrocchia a lasciarsi modellare secondo le esigenze della stessa parola predicata, del mistero di Cristo celebrato e del commando dell'amore vissuto in mezzo ai fratelli.
Questi servizi pastorali vengono attuati dal sacerdote ministro, in collaborazione con tutte le altre vocazioni (laicali e di vita consacrata). E' spiritualità di comunione ecclesiale, che domanda un'educazione permanente nel mistero della Chiesa, comunione missionaria. "La funzione di pastore non si limita alla cura dei singoli fedeli: essa va estesa alla formazione di un'autentica comunità cristiana" (PO 6). E' "la comunione (koinonìa) che incarna e manifesta l'essenza stessa del mistero della Chiesa" (Novo Millennio Inneunte 42).
Il sacerdote ministro si santifica nell'esercizio dei ministeri, attuati secondo lo spirito di Cristo: "I presbiteri raggiungeranno la santità nel loro modo proprio se nello Spirito di Cristo eserciteranno le proprie funzioni con impegno sincero e instancabile" (PO 13).
Tra la vita spirituale del sacerdote e l'esercizio dei ministeri sacerdotale, esiste uno stretto legame. L'identità sacerdotale scaturisce dall'armonia e "unità di vita" tra le esigenze di vita interiore e di azione apostolica. Il sacerdote vive la carità pastorale, a imitazione di Cristo Buon Pastore e in unione con lui. "La vita spirituale, altro non è che l'accoglienza nella coscienza e nella libertà, e pertanto nella mente, nel cuore, nelle decisioni e nelle azioni, della «verità» del ministero sacerdotale come amoris officium" (PDV 24; cfr. S. Agostino, In Ioannis Evangeliun Tractatus 123,5: PLS 2,637).
Gli stessi ministeri sacerdotali tendono, per sua natura, a far diventare santi i fedeli membri della comunità ecclesiale. Si tende a "formare Cristo" nella vita dei credenti (cfr. Gal 4,19). Lo scopo dell'azione pastorale dei sacerdoti consiste nel "condurre al suo pieno sviluppo di vita spirituale ed ecclesiale la comunità loro affidata" (Il presbitero, Maestro... IV, n.3).
L'Eucaristia è la sorgente da dove scaturisce la carità pastorale ed è anche la garanzia dell'unità di vita. Nel sacramento e sacrificio eucaristico, il sacerdote impara che, "il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo Capo e Pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo" (PDV 23).
Nell'Eucaristia, il sacerdote impara a "vivere quale dono per il propri fratelli" (Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri n.48), e a "diventare pure hostia" in sintonia con "gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù" (Fil 2,5; Il Prebitero, Maestro... IV, 2).
Nella Chiesa particolare e universale
Il dono di sé, come espressione della carità pastorale, non ha confini. I limiti della parrocchia non sono delle frontiere chiuse, ma delle concretizzazioni di una realtà di grazia molto più larga. "All'interno della comunità ecclesiale la carità pastorale del sacerdote sollecita ed esige in un modo particolare e specifico il suo rapporto personale con il presbiterio, unito nel e con il Vescovo, come esplicitamente scrive il Concilio: «La carità pastorale esige che i presbiteri, se non vogliono correre invano, lavorino sempre nel vincolo della comunione con i Vescovi e gli altri fratelli nel sacerdozio» (PO 14)" (PDV 23).
Sentire con la Chiesa si concretizza nel vivere la comunione ecclesiale come fonte ed espressine di spiritualità. "Il rapporto con il Vescovo nell'unico presbiterio, la condivisione della sua sollecitudine ecclesiale, la dedicazione alla cura evangelica del Popolo di Dio nelle concrete condizioni storiche e ambientali della Chiesa particolare sono elementi dai quali non si può prescindere nel delineare la configurazione propria del sacerdote e della sua vita spirituale" (PDV 31).
L'appartenenza a la Chiesa particolare significa diventare custode di una storia di grazia e di una eredità apostolica, di cui la comunità parrocchiale è una concretizzazione privilegiata. "È necessario che il sacerdote abbia la coscienza che il suo «essere in una Chiesa particolare» costituisce, di sua natura, un elemento qualificante per vivere una spiritualità cristiana" (PDV 31).
La spiritualità della carità pastorale è di comunione viene vissuta con profondità. "L'appartenenza del sacerdote alla Chiesa particolare e la sua dedicazione, fino al dono della vita, per l'edificazione della Chiesa «nella persona» di Cristo Capo e Pastore, a servizio di tutta la comunità cristiana, in cordiale e filiale riferimento al Vescovo, devono essere rafforzate da ogni altro carisma che entri a far parte di un'esistenza sacerdotale o si affianchi ad essa" (PDV 31).
La parrocchia riecheggia tutta la Chiesa particolare (che presiede un successore degli Apostoli, in collaborazione col suo Presbiterio) e anche tutta la Chiesa universale (in comunione con Successore di Pietro en con la Collegialità Episcopale). "Per fomentare opportunamente lo spirito comunitario, bisogna mirare non solo alla Chiesa locale ma anche alla Chiesa universale" (PO 6).
Se la missione sacerdotale ha "la stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli" (PO 10), ciò significa che non ci può essere spiritualità sacerdotale senza la prospettiva missionaria universale: "La vita spirituale dei sacerdoti dev'essere profondamente segnata dall'anelito e dal dinamismo missionario" (PDV 32). Per ciò, la carità pastorale si concretizza nel far diventare missionaria tutta la comunità e quindi, tutte le vocazioni e istituzioni.
Al servizio della costruzione dell'unità
Il parroco è padre a pastore di tutti, come servizio di unità, animazione e coordinamento. La sua autorità è quella di dirigere senza cercare il proprio interesse. Il sacerdote è al servizio di tutta la comunità, di tutti carismi e di tutte le vocazioni, privilegiando l'attenzione alle persone più bisognose: gli ammalati, i poveri, i giovani, le famiglie... In questo senso è "il servo di molti" (S. Agostino, Sermo Morin Guelferbytanus 32,1: PLS 2,637), seguendo ed imitando la vita de Cristo Servo (cfr. Mt 20,24ss; Mc 10,43-44).
Il pastore della comunità parrocchiale "chiama le sue pecore una per una" (Gv 10,3-4), suscitando la conoscenza e la relazione di amicizia con tutte le persone e tutte le famiglie. In questo rapporto deve apparire sempre molto chiaro che "le anime appartengono a Cristo" (Il presbitero, Maestro... cap.IV, n.3).
Nel riunire la comunità parrocchiale, i sacerdoti cercano di servire tutti senza discriminazioni, per portare tutti a l'unità. "Esercitando la funzione di Cristo capo e pastore per la parte di autorità che spetta loro, i presbiteri, in nome del vescovo, riuniscono la famiglia di Dio come fraternità viva e unita e la conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo" (PO 6)
Il servizio dell'autorità si concretizza nel costruire l'unità della comunità. L'umiltà nell'atteggiamento di servizio no diminuisce la responsabilità di prendere delle decisioni senza condizionamenti. "Nell'edificare la comunità cristiana i presbiteri non si mettono mai al servizio di una ideologia o umana fazione, bensì, come araldi del Vangelo e pastori della Chiesa, si dedicano pienamente all'incremento spirituale del corpo di Cristo" (PO 6).
Il sacerdote diventa pane spezzato come Cristo; appartiene a tutti ed è disponibile in tutto quanto riguarda l'evangelizzazione della comunità. "Pastore della comunità, il sacerdote esiste e vive per essa: per essa prega, studia, lavora e si sacrifica, per essa è disposto a dare la vita, amandola come Cristo, riversando su di essa tutto il suo amore e la sua stima" (Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri n.55).
Gli spazi "vuoti", dove non arrivano i servizi parrocchiali (profetici, luturgici, diaconali), sono i luoghi deboli dove entrano le sette e le tendenze materialistiche. L'azione del parroco suscita la collaborazione attiva e responsabile di tutte le vocazioni e carismi.
La spiritualità sacerdotole nel guidare le comunità parrocchiali, comporta che la casa del sacerdote sia la casa di tutti, anche con i segni di povertà: "Sistemino la propria abitazione in modo tale che nessuno possa ritenerla inaccessibile, né debba, anche se di condizione molto umile, trovarsi a disagio in essa" (PO 17).
La vicinanza e prossimità dei sacerdoti a tutti i componenti della comunità, si esprime nel modo di vivere, vestire e parlare, secondo lo stile di vita di Cristo povero e servitore, sempre vicino a tutti e disposto ad ascoltare ed accompagnare tutti.
Comunità parrocchiale, scuola di preghiera-contemplazione, perfezione e missione
La guida della parrocchia si concretizza nel cammino della contemplazione della Parola (comunità, scuola di preghiera), nel cammino della perfezione (comunità, scuola di santità), nel cammino di missione (comunità, scuola di missionarietà).
La comunità parrocchiale diventa scuola di preghiera, comunità che ascolta la parola, prega, ama, evangelizza, secondo il modello della Chiesa primitiva: "Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere" (At 2,42).
Nel servire alla comunità i presbiteri privilegiano la meditazione della Parola (lectio divina), la celebrazione dell'Eucaristia, la celebrazione della liturgia delle ore, l'itinerario dell'anno liturgico (intorno al Mistero Pasquale e alla domenica). "Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche « scuole » di preghiera, dove l'incontro con Cristo non si esprima soltanto in implorazione di aiuto, ma anche in rendimento di grazie, lode, adorazione, contemplazione, ascolto, ardore di affetti, fino ad un vero «invaghimento » del cuore" (Novo Millennio Ineunte 33).
La comunità parrocchiale diventa scuola di santità, dove tutti i servizi, vocazioni e carismi tendono alla configurazione con Cristo, imitando i suoi criteri, la sua scala di valori e i suoi atteggiamenti. "La chiamata alla missione deriva di per sé dalla chiamata alla santità... L'universale vocazione alla santità è strettamente collegata all'universale vocazione alla missione: ogni fedele è chiamato alla santità e alla missione" (RMi 90).
L'itinerario parrocchiale è itinerario battesimale e quindi, itinerario di santità: "Chiedere a un catecumeno: « Vuoi ricevere il Battesimo? » significa al tempo stesso chiedergli: « Vuoi diventare santo? ». Significa porre sulla sua strada il radicalismo del discorso della Montagna: « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt 5,48)... Le vie della santità sono molteplici, e adatte alla vocazione di ciascuno" (Novo Millennio Inneunte 31).
La comunità parrocchiale è scuola di missionarietà e carità. Il cammino di preghiera e di santità si rivolge verso l'annuncio del vangelo a tutti gli uomini. "Il mandato missionario ci introduce nel terzo millennio invitandoci allo stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora: possiamo contare sulla forza dello stesso Spirito, che fu effuso a Pentecoste e ci spinge oggi a ripartire sorretti dalla speranza « che non delude » (Rm 5,5)" (Novo Millennio Inneunte 58).
I programmi di pastorale tendono a costruire delle persone e delle comunità dove Cristo sia nel centro del modo di pensare, di sentire e valutare, di amare e di agire.
In questo modo, la comunità diventa "un cuore solo e un anima sola" (At 4,32), sempre attenta ai bisogni di tutti i fratelli e sorelle, con l'atteggiamento di "una nuova « fantasia della carità », che si dispieghi non tanto e non solo nell'efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione" (Novo Millennio Inneunte 50).
La parrocchia diventerà una concretizzazione della Chiesa particolare e universale, mistero di comunione per la missione, mediante un processo permanente di rinnovamento, a imitazione degli Apostoli raggruppati "con Maria la Madre di Gesù" (At 1,14), figura e Madre della Chiesa. Maria è "il modello di quell'amore materno, dal quale devono essere animati tutti quelli che, nella missione apostolica della Chiesa, cooperano alla rigenerazione degli uomini" (LG 65; cfr. RMi 92).
La presenza attiva e materna di Maria nell'itinerario di contemplazione, perfezione e missione, assicurerà alla comunità parrocchiale, con la sua intercessione, l'atteggiamento di apertura ai piani salvifici di Dio (Lc 1,28‑29.38), di fedeltà all'azione dello Spirito (Lc 1,35.39‑45), di contemplazione della Parola (Lc 1,46‑55; 2,19.51), di associazione sponsale a Cristo (Lc 2,35; Gv 2,4), di donazione sacrificale a Cristo Redentore (Gv 19,25‑27) e di tensione escatologica verso l'incontro definitivo di tutta l'umanità con Cristo (Ap 12,1; 21‑22).
SAN PABLO Y LOS NUEVOS AREÓPAGOS
(Material entregué para posible “Instrumentum Laboris”: Plenaria de la Congregación para la Evangelización de los Pueblos, 16-19 noviembre 2009; posteriormente se amplió, renovó, etc., con aportaciones de los Asistentes y observaciones)
Sumario:
1.- INVITACIÓN A DISCERNIR Y AFRONTAR LOS NUEVOS AREÓPAGOS DE NUESTRO TIEMPO
2.- LOS NUEVOS AREÓPAGOS, RETOS PARA LA EVANGELIZACIÓN “AD GENTES”
3.- AFRONTAR LOS NUEVOS AREÓPAGOS DE LA EVANGELIZACIÓN CON EL “ESPÍRITU” DE SAN PABLO
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PRESENTACIÓN:
La celebración del año jubilar dedicado a San Pablo ha ayudado a reflexionar sobre los “nuevos areópagos” que hoy debe afrontar la Iglesia especialmente en el campo de la evangelización “ad gentes”. Constatar y discernir estos “nuevos areópagos” es hoy una tarea urgente para poder programar adecuadamente el modo específico de la actuación apostólica. Nuestro trabajo se encuadra en el contexto actual de legar para el futuro de la evangelización el fruto del año dedicado a San Pablo.
A casi veinte años de la publicación de la encíclica misionera Redemptoris Missio (7 diciembre 1990), sigue siendo apremiante la invitación de Juan Pablo II cuando describía la situación histórica del momento, que debía inspirarse en el modelo evangelizador del Apóstol de las gentes: “Pablo, después de haber predicado en numerosos lugares, una vez llegado a Atenas se dirige al areópago donde anuncia el Evangelio usando un lenguaje adecuado y comprensible en aquel ambiente (cfr. Hech 17, 22-31)” (RMi 37).
El presente “instrumento de trabajo”, en vistas la reunión Plenaria de la Congregación para la Evangelización de los Pueblos, ha aprovechado las aportaciones enviadas por pastores y expertos de las diversas Iglesias locales dependientes de nuestro Dicasterio. También ha tenido muy en cuenta los contenidos de las catequesis y de otros documentos del Papa Benedicto XVI durante el año jubilar dedicado a San Pablo. Toda esta documentación es un verdadero arsenal que está en armonía con los contenidos de los documentos conciliares del Vaticano II y con otros documentos postconciliares de estos últimos años, mientras, al mismo tiempo, ofrece abundante luz y ayudas para discernir y afrontar la situación misionera actual.
Después de discernir y analizar lo nuevos areópagos de hoy, lo más importante será afrontarlos con las mismas actitudes y con el mismo espíritu del Apóstol de las gentes, para llevar a efecto una programación adecuada en el campo de la evangelización. Éste será un buen servicio que la Congregación para la Evangelización de los Pueblos puede ofrecer a la acción evangelizadora actual, como fruto de la celebración del bimilenario de San Pablo.
1.- INVITACIÓN A DISCERNIR Y AFRONTAR LOS NUEVOS AREÓPAGOS
Pablo VI, en su exhortación apostólica Evangelii Nuntiandi (1975), hizo un fuerte llamado a ir más allá de las fronteras de la fe, hacia los nuevos campos de la evangelización: “Para la Iglesia no se trata solamente de predicar el Evangelio en zonas geográficas cada vez más vastas o poblaciones cada vez más numerosas, sino de alcanzar y transformar con la fuerza del evangelio, los criterios de juicios, los valores determinantes, los puntos de interés, las líneas de pensamiento, las fuentes inspiradoras y los modelos de vida de la humanidad, que están en contraste con la Palabra de Dios y con el designio de salvación” (EN 19). Son los puntos neurálgicos o nuevos areópagos de nuestra sociedad.
La encíclica misionera de Juan Pablo II, Redemptoris Missio (1990), fue una invitación a discernir y afrontar las nuevas situaciones de la misión, porque “Dios abre a la Iglesia horizontes de una humanidad más preparada para la siembra evangélica” (RMi 3). Por esto, “el renovado impulso hacia la misión ad gentes exige misioneros santos... Es necesario suscitar un nuevo «anhelo de santidad» entre los misioneros y en toda la comunidad cristiana” (RMi 90).
Esta invitación, llena de esperanza, se concretaba de modo especial en discernir los nuevos “areópagos”, aludiendo explícitamente al hecho de la predicación de Pablo en la explanada del areópago de Atenas, ante el “tribunal” que juzgaba asuntos de importancia cívica. La mención final a Jesús resucitado no tuvo allí muy buena aceptación, salvo en el caso de la conversión del areopagita Dionisio y de una mujer llamada Dámaris.
Después de explicar las tres situaciones de la misión (“ad gentes” o de primera evangelización, pastoral ordinaria y nueva evangelización), Juan Pablo II recuerda y reafirma la importancia y urgencia de la “actividad misionera específica o misión ad gentes” (RMi 34). Es en este contexto donde aparece la invitación a analizar y afrontar los diversos ámbitos de la misión: territoriales, fenómenos sociales y áreas culturales (cfr. RMi 37). Aludiendo a la predicación de Pablo en el areópago de Atenas, Juan Pablo II hace hincapié en los “areópagos modernos”: “El areópago representaba entonces el centro de la cultura del docto pueblo ateniense, y hoy puede ser tomado como símbolo de los nuevos ambientes donde debe proclamarse el Evangelio” (RMi 37).
Entre los “areópagos” de nuestro tiempo, el Papa señalaba ya entonces: “el mundo de la comunicación” o medios de comunicación social en un mundo que es ya “una «aldea global”, “la evangelización de la cultura moderna” o de “la nueva cultura”, “la paz, el desarrollo y la liberación de los pueblos”, “los derechos del hombre y de los pueblos sobre todo los de las minorías”, “la promoción de la mujer y del niño”, “la salvaguardia de la creación”, “las relaciones internacionales”. Lo más importante es que éstos y otros areópagos “han de ser iluminados con la luz del Evangelio” (RMi 37).
Esta descripción de los nuevos areópagos se presenta como invitación a una actitud de esperanza misionera: “Nuestro tiempo es dramático y al mismo tiempo fascinador. Mientras por un lado los hombres dan la impresión de ir detrás de la prosperidad material y de sumergirse cada vez más en el materialismo consumístico, por otro, manifiestan la angustiosa búsqueda de sentido, la necesidad de interioridad, el deseo de aprender nuevas formas y modos de concentración y oración” (RMi 38). Así se comprende la intuición profética del final de la encíclica: “Veo amanecer una nueva época misionera, que llegará a ser un día radiante y rica en frutos, si todos los cristianos y, en particular, los misioneros y las jóvenes Iglesias responden con generosidad y santidad a las solicitaciones y desafíos de nuestro tiempo” (RMi 92).
La carta apostólica Tertio Millennio Adveniente (1994) de Juan Pablo II, al invitar a preparar la acción evangelizadora del nuevo milenio, fue una llamada a la esperanza cristiana, que se apoya en el misterio del Verbo Encarnado: “El Jubileo deberá confirmar en los cristianos de hoy la fe en el Dios revelado en Cristo, sostener la esperanza prolongada en la espera de la vida eterna, vivificar la caridad comprometida activamente en el servicio a los hermanos” (TMa 31). En este contexto describía los retos o areópagos del momento histórico en medio de “muchas luces y no pocas sombras” (TMa 36).[1]
Las invitaciones a discernir los nuevos retos o areópagos del presente, se presentan a la luz del misterio de Cristo: “Verbo Encarnado es, pues, el cumplimiento del anhelo presente en todas las religiones de la humanidad: este cumplimiento es obra de Dios y va más allá de toda expectativa humana. Es misterio de gracia” (TMa 6).
Estas invitaciones se han hecho más apremiantes con ocasión del año paulino (junio 2008-2009). Ya en el anuncio de este evento (28 de junnio de 2007), el Papa Benedicto XVI había indicado a San Pablo como modelo para afrontar las nuevas situaciones: “El Apóstol de los gentiles, que se dedicó particularmente a llevar la buena nueva a todos los pueblos, se comprometió con todas sus fuerzas por la unidad y la concordia de todos los cristianos”.[2]
El mensaje del Santo Padre para le Jornada Mundial de las Misiones (año 2008), encuadrado dentro de la celebración del año paulino, es una llamada urgente a afrontar las nuevas situaciones de la misión “ad gentes”: “Es el Año paulino nos brinda la oportunidad de familiarizarnos con este insigne Apóstol, que recibió la vocación de proclamar el Evangelio a los gentiles, según lo que el Señor le había anunciado: «Ve, porque yo te enviaré lejos, a los gentiles» (Hech 22, 21). ¿Cómo no aprovechar la oportunidad que este jubileo especial ofrece a las Iglesias locales, a las comunidades cristianas y a cada uno de los fieles, para propagar hasta los últimos confines del mundo el anuncio del Evangelio, «fuerza de Dios para la salvación de todo el que cree?» (Rom 1, 16)”.[3]
Durante las audiencias del Papa Benedicto XVI, con ocasión del año dedicado a San Pablo, sus 20 catequesis paulinas han sido una llamada urgente a imitar la disponibilidad misionera del Apóstol ante las nuevas situaciones que se le presentaron: “Sólo la preocupación por el crecimiento en la fe de aquellos a los que había evangelizado y la solicitud por todas las Iglesias que había fundado (cfr. 2 Cor 11,28) lo impulsaban a ralentizar la carrera hacia su único Señor, para esperar a los discípulos de modo que pudieran correr con él hacia la meta”.[4]
La llamada que había hecho Juan Pablo II al iniciar su pontificado (1978), fue asumida, comentada y actualizada por Benedicto XVI. Es una indicación clave para la evangelización actual: “«¡No temáis! ¡Abrid, más todavía, abrid de par en par las puertas a Cristo!» El Papa (Juan Pablo II) hablaba a los fuertes, a los poderosos del mundo, los cuales tenían miedo de que Cristo pudiera quitarles algo de su poder, si lo hubieran dejado entrar y hubieran concedido la libertad a la fe. Sí, él ciertamente les habría quitado algo: el dominio de la corrupción, del quebrantamiento del derecho y de la arbitrariedad. Pero no les habría quitado nada de lo que pertenece a la libertad del hombre, a su dignidad, a la edificación de una sociedad justa... Y todavía el Papa quería decir: ¡no! quien deja entrar a Cristo no pierde nada, nada –absolutamente nada– de lo que hace la vida libre, bella y grande... ¡No tengáis miedo de Cristo! Él no quita nada, y lo da todo. Quien se da a él, recibe el ciento por uno. Sí, abrid, abrid de par en par las puertas a Cristo, y encontraréis la verdadera vida”.[5]
El Papa Benedicto XVI, en su primera encíclica, Deus Caritas Est (2005) reiteraba la línea de esperanza misionera, basada en un transparente testimonio de caridad evangélica. Cuando la Iglesia “muestra la universalidad del amor” (DCe 25), entonces “la fuerza del cristianismo se extiende mucho más allá de las fronteras de la fe cristiana” (ibídem, 31). Es la idea que ha recalcado también en su segunda encíclica, Spe Salvi (2007): “Dios mismo se ha dado una « imagen »: en el Cristo que se ha hecho hombre. En Él, el Crucificado... Ahora Dios revela su rostro precisamente en la figura del que sufre y comparte la condición del hombre abandonado por Dios, tomándola consigo. Este inocente que sufre se ha convertido en esperanza-certeza: Dios existe” (Spe Salvi 43).
Verdaderamente nuestro tiempo es una llamada urgente a descubrir, discernir y afrontar los nuevos areópagos, imitando, como Pablo, “los mismos sentimientos de Cristo Jesús” (Fil 2,5), que son siempre de “compasión” (Mt 15,32) ante las multitudes hambrientas y sedientas de esperanza (cfr. Jn 7,37).
La recta aplicación del concilio Vaticano II dependerá de la respuesta generosa a estas invitaciones postconciliares, que vienen a ser una aplicación de los contenidos paulinos del concilio Vaticano II. En efecto, la doctrina del Apóstol se encuentra citada ampliamente en los documentos conciliares. Respecto a la misión “ad gentes”, basta recordar estos pasajes directamente misioneros:
Rom 15,16 “La oblación de los gentiles” (citado en AG 23; GS 38; PO 2).
1Cor 9,16: “Ay de mí si no evangelizare” (citado en AG 7 y 13; LG 17; AA 6).
1Cor 9,19: “Me he hecho esclavo de todos para ganarlos a todos” (citado en AG 24; PO 10; OT 4).
1Cor 10,33: “Yo me esfuerzo por agradar a todos en todo, sin procurar mi propio interés, sino el de la mayoría, para que se salven” (citado en AG 41; DH 11).
2Cor 8,9: “Nuestro Señor Jesucristo, siendo rico, por vosotros se hizo pobre a fin de que os enriquecierais con su pobreza” (citado en AG 3; LG 8 t 42; PO 17; PC 13).
Ef 1,10: “Recapitular todas las cosas en Cristo” (citado en AG 3; GS 38, 45,58; LG 48).
Fil 2,7: “Se anonadó tomando la forma de siervo” (citado en AG 24 al hablar de la vocación misionera: “el enviado entra en la vida y en la misión de Aquel que «se anonadó tomando la forma de siervo»”; cfr. LG 8, 36, 42; PO 15; PC 14).
Col 1 ,18: “Para que sea él el primero (la primicia) de todas las cosas” (citado en AA 7).
2Tes 3,1: “Orad por nosotros para que la Palabra del Señor siga propagándose y adquiriendo gloria, como entre vosotros” (citado en AG 1; DV 26).
1Tim 2,4: “Dios quiere que todos los hombres se salven y lleguen al conocimiento pleno de la verdad” (citado en AG 7 y 42; SC 5 y 53; LG 16; DH 14; NAe 1).
1Tim 4,6: “Serás un buen ministro de Cristo Jesús, alimentado con las palabras de la fe y de la buena doctrina que has seguido fielmente” (citado en AG 26, formación misionera).
El concilio Vaticano II, en la constitución Gaudium et Spes (proemio y exposición preliminar, nn.1-10), invitaba a observar los aspectos positivos, que son “gozos y esperanzas” de la sociedad actual.
La invitación a discernir y afrontar los nuevos areópagos, como nuevas situaciones de la misión “ad gentes”, no significa echar en olvido el ámbito geográfico de esta misma misión, sino que la misión “a todos los pueblos” implica hoy también el ámbito cultural y sociológico. La misión de Cristo comunicada a la Iglesia es siempre sin fronteras geográficas y culturales. En este sentido la misión eclesial tiene que ser siempre misión “ad gentes” como la de Pablo (cfr. Hech 9,15; 13,46; 18,6), como misión del primer anuncio, que puede darse también en lugares de antigua tradición cristiana. En estos países, como afirma el concilio, “pueden originarse condiciones enteramente nuevas. Entonces la Iglesia tiene que ponderar si estas condiciones exigen de nuevo su acción misionera” (AG 6; cfr. AG 23, 27). Pero queda en pie que la misión “ad gentes” es “una actividad primaria de la Iglesia, esencial y nunca terminada” (RMi 31; cfr. n.34).
El concilio Vaticano II describe la misión “ad gentes” con estas palabras, que siguen siendo de apremiante actualidad: “La misión, pues, de la Iglesia se realiza mediante la actividad por la cual, obediente al mandato de Cristo y movida por la caridad del Espíritu Santo, se hace plena y actualmente presente a todos los hombres y pueblos para conducirlos a la fe, a la libertad y a la paz de Cristo por el ejemplo de la vida y de la predicación, por los sacramentos y demás medios de la gracia, de forma que se les descubra el camino libre y seguro para la plena participación del misterio de Cristo” (AG 5).
2.- LOS NUEVOS AREÓPAGOS, RETOS PARA LA EVANGELIZACIÓN “AD GENTES”
A la lista de los areópagos que ofrece la encíclica Redemptoris Missio y otros documentos magisteriales (que hemos enumerado sucintamente en el primer apartado), hay que añadir otros, y especialmente hay que descubrir la peculiaridad con que se presentan hoy todos estos nuevos areópagos. Así lo han indicado los estudios competentes que han llegado a la Congregación para la Evangelización de los Pueblos, en vistas a la presente reunión Plenaria, como se intenta resumir a continuación.[6]
Precisamente por esta novedad de los areópagos, en parte inéditos hasta el presente, y de sus nuevas circunstancias, se amplía el ámbito geográfico de la misión, que ya no es siempre equivalente a “países de misión”. Podemos observar las grandes urbes (las “megalópolis”), donde las multitudes son plurirreligiosas y pluriculturales, que proceden de migraciones de todo tipo, y que hacen muy complejas las situaciones actuales. Pero también hay otros sectores que reclaman un primer anuncio: las nuevas situaciones de pobreza e injusticia, la familia, la juventud, los medios de comunicación, las nuevas formas de cultura y de educación, etc. Parecen los mismos areópagos de hace veinte años, pero, en realidad, las circunstancias son muy novedosas.
Cada uno de los nuevos areópagos se puede encuadrar en el conjunto de los diversos ámbitos: sociopolítico, sociocultural, socioeconómico. Al mismo tiempo, cada nuevo areópago encuentra resonancia en los demás.
Quizá el ámbito cultural o de valores es el más complejo y urgente, puesto que se trata de hacer llegar el evangelio hasta el “corazón” de los pueblos, de la familia, de la juventud, de los centros educativos y de investigación científica que hoy están condicionados más por intereses económicos y políticos. Los núcleos culturales y artísticos son puntos neurálgicos de nuestra sociedad, a los que hay que llegar con el tono característico de la “esperanza” cristiana.
Estas nuevas situaciones son como “signos de los tiempos”, según la afirmación conciliar, cuando invita a toda la iglesia a “auscultar a fondo los signos de la época e interpretarlos a la luz del Evangelio” (GS 4), “con la ayuda del Espíritu Santo” (GS 44), como nuevos paradigmas de la evangelización.
La misión de Cristo empezó hace ya veinte siglos, pero “está aún lejos de cumplirse... se halla todavía en sus comienzos” (RMi 1). Allí están las “semillas del Verbo”, que comenzaron a sembrarse desde los inicios de la historia humana y en todos los pueblos y culturas, y que, bajo la acción del Espíritu Santo, esperan llegar a su maduración en Cristo.
La lista de areópagos que ofrecemos a continuación es sólo una síntesis que debería ampliarse y valorarse adecuadamente:
1º) El areópago de anunciar el evangelio íntegro y de la proclamación explícita de la Palabra con testimonio el de vida:
Se podría decir que el primer areópago (a partir del cual se llega a los demás) es el verdadero anuncio del Evangelio hoy, a partir del encuentro con Cristo resucitado, como en Pablo. Se trata propiamente de evangelizar el corazón de los apóstoles de hoy, llamados a vivir con autenticidad lo que van a anunciar. Es una llamada a mejorar el mismo modo de evangelizar, cuidando las expresiones (sin cambiar los contenidos), mejorando los métodos y especialmente ofreciendo el testimonio y la vivencia. Se anuncia a “alguien” que “vive”, Cristo resucitado presente.
La evangelización comporta la correlación viva del anuncio y de la respuesta, por parte de un sujeto que es a la vez persona y comunidad. Es el evangelizador quien primero debe purificar su memoria y curar sus heridas en contacto con Cristo crucificado y resucitado. El encuentro personal del evangelizador con Cristo es una prioridad pastoral.
Es, pues, una urgencia de la evangelización actual, el compromiso de todo apóstol por la santidad, como “perfección de la caridad” (LG 40) en el contexto de la verdad. Todos los bautizados están comprometidos en este proceso de santidad, que es parte integrante de la evangelización. “La llamada a la misión deriva de por sí de la llamada a la santidad. Cada misionero, lo es auténticamente si se esfuerza en el camino de la santidad” (RMi 90).[7]
En cuanto al testimonio, cabe observar que la sociedad actual es más “icónica”, en el sentido de necesitar y exigir signos y testigos creíbles del evangelio (cfr. EN 76; RMi 91). Los principios evangélicos necesitan concretarse en convicciones válidas y permanentes sobre la verdad, la libertad y el bien, así como sobre la ética personal, familiar y social. “Los cristianos, que viven y trabajan en esta dimensión internacional, deben recordar siempre su deber de dar testimonio del Evangelio” (RMi 37), porque “el hombre contemporáneo cree más a los testigos que a los maestros” (RMi 42; cita de EN 41).[8]
Se necesita en la sociedad actual una proclamación explícita de la Palabra evangélica como mensaje de la salvación. La novedad del mensaje evangélico se centra en Cristo muerto y resucitado, que es la Palabra viva y personal de Dios, celebrada en los sacramentos y en toda la acción litúrgica, como fuente y cima de la evangelización. La misión se centra en la Eucaristía, que es fuente y cima de la vida de la Iglesia. Entonces se encuentra la armonía entre anuncio, catequesis, sacramentos, testimonio, promoción, desarrollo integral, derechos humanos. El evangelio es novedad permanente de gracia.
En esta armonía de la evangelización (que es siempre y simultáneamente profética, litúrgica y diaconal), los areópagos tradicionales (predicación, catequesis, retiros, cartas pastorales, etc.) se afianzan y adquieren una novedad permanente. La catequesis diferenciada (según edad y formación) y también intergeneracional, apunta a fortificar la familia y ofrece una dimensión eclesial y misionera. Catequesis, liturgia y construcción de la comunidad eclesial se relacionan indisolublemente.
La Palabra es “viva y eficaz” (Heb 4,12; cfr. 1Pe 1,23; Is 49,2), para crear un corazón que se abre a ella con generosidad. “La Palabra de Dios no está encadenada” (2Tim 2,9), es “fuerza y sabiduría de Dios” (1Cor 1,24). Al ser anunciada, celebrada y vivida, la Palabra llama, convierte, transforma y crea nuevos enviados. Los sistemas políticos irrespetuosos de la dignidad humana no podrán nunca encadenar la Palabra de Dios.
Uno de los areópagos más urgentes es el de proponer, testimoniar y comunicar la fe, anunciando el evangelio que da sentido a la existencia humana. Hay que proponer claramente el corazón de la fe para llegar al corazón del hombre de hoy. El mensaje paulino expresa las vivencias de fe del mismo apóstol.
2º) El nuevo areópago de la “globalización”:
Aunque en cada pueblo y en cada cultura y situación sociológica los retos son peculiares, no obstante, hoy surge una situación global (“globalización”), que algunos llaman “holística”, muy parecida en todas partes, debido al sistema de educación estereotipada (a veces, sin valores permanentes) y también al influjo (positivo y negativo) de los cada vez más nuevos medios de comunicación. Es un influjo que intenta ser inmediato, universal y prevalentemente de impresiones o sensaciones. El resultado es un tono de pluralismo indiferenciado y de relativismo cultural, que se inserta en la raíz de todos los retos o nuevos areópagos actuales.
La “globalización”, con sus aspectos positivos y negativos, tiene diversos niveles: globalización sociológica, constituida por migraciones, medios de comunicación e informática; globalización cultural, a modo de encuentro entre culturas antiguas y con la cultura emergente de una sociedad postmoderna; globalización económica, de liberalización monetaria (bolsa financiera) que debería ser un camino de solidaridad universal, pero que corre el riesgo de convertirse en una nueva esclavitud a escala mundial.
La globalización tiene aspectos negativos, que llegan, a veces, a la mundalización de la apostasía o del agnosticismo moderno y postmoderno e incluso de un “laicismo” que destruye la misma laicidad legítima. Pero conviene no olvidar los aspectos positivos de apertura potencial de los pueblos a los valores evangélicos. La globalización actual, después de la celebración del año paulino, puede convertirse también en el encuentro cotidiano de los cristianos con las “semillas del Verbo”.
3º) El nuevo areópago de las comunicaciones sociales:
Los temas cristianos necesitan ser captados y asimilados, sin rebajar las exigencias evangélicas. El arte del lenguaje es imprescindible. Se necesita el uso adecuado y pedagógico de los medios de comunicación social. Hay que tener algo que ofrecer y saber cómo ofrecerlo. Juan Pablo II decía: “El primer areópago del tiempo moderno es el mundo de la comunicación, que está unificando a la humanidad y transformándola - como suele decirse - en una aldea global. Los medios de comunicación social han alcanzado tal importancia que para muchos son el principal instrumento informativo y formativo, de orientación y de inspiración para los comportamientos individuales, familiares y sociales. Las nuevas generaciones crecen en un mundo condicionado por esos medios” (RMi 37).[9]
Los medios de comunicación social, cuando están bien utilizados, son una posibilidad extraordinaria para la evangelización. Somos invitados a seguir la línea del Vaticano II: “La Iglesia católica... considera parte de su misión servirse de los instrumentos de comunicación social para predicar a los hombres el mensaje de salvación y enseñarles el recto uso de estos medios” (Inter Mirifica 3).[10]
4º) Las diversas facetas del nuevo areópago de las migraciones:
La migraciónactual masiva o multitudinaria, es originada por diversas causas: guerras (con la secuela de los refugiados), trabajo, estudio, negocios, turismo, navegación (por comercio, pesca, etc)... “Entre los grandes cambios del mundo contemporáneo, las migraciones han producido un fenómeno nuevo: los no cristianos llegan en gran número a los países de antigua cristiandad, creando nuevas ocasiones de comunicación e intercambio culturales, lo cual exige a la Iglesia la acogida, el diálogo, la ayuda y, en una palabra, la fraternidad” (RMi 37). Todos estos tipos de migración pueden incluir un desplazamiento masivo de los creyentes fuera de sus comunidades eclesiales, que, al mismo tiempo origina un encuentro pluralístico y polifacético, permanente y universal entre culturas y religiones, que tiende a construir una humanidad pluralística en todos los sentidos (racial o étnica, cultural y religiosa).
Es un fenómeno polifacético, porque puede ser migración selecionada o escogida, clandestina, de refugiados políticos y económicos, desplazados por guerras o carencias sociológicas, etc. A veces es migración con accidentes dramáticos o traumáticos, especialmente en el mar.Pero es siempre una nueva posibilidad de evangelizar y una urgencia inaplazable, también por el modo cómo hay que ejercitar la caridad cristiana sin discriminaciones.[11]
El fenómeno actual de esta migración tan compleja y variada, ha hecho posible un encuentro pluralístico, permanente y universal entre culturas y religiones. Esta movilidad e itinerancia humana tiende a la construcción de una humanidad pluralística o polifacética en cuanto a razas, culturas y religiones. Ello constituye un nuevo “areópago” que cuestiona profundamente al cristianismo, puesto que se le pide presentar lo específico del mensaje cristiano y concretamente de su experiencia de Dios.
5º) El nuevo areópago de la cultura universal dominante (“postmoderna”):
La cultura dominante(llamada a veces “postmoderna”), privilegia a escala mundial el bienestar, la eficacia, lo útil, la experiencia, las impresiones fuertes, donde frecuentemente ya no hay lugar para los valores éticos y permanentes. En este sentido nace “una nueva época de la historia humana... una nueva forma más universal de cultura” (GS 54), que tiende al “secularismo”, al indiferentismo, al agnosticismo y al relativismo, pero que, al mismo tiempo manifiesta “una angustiosa búsqueda de sentido” (RMi 38) y de la experiencia de Dios. El “laicismo”, como tergiversación de la verdadera “laicidad”, adopta una actitud negativa y agresiva respecto a todo lo religioso. A veces, llega al ateismo práctico o ideológico. Los defectos de algunos creyentes, que “han velado más bien que revelado el genuino rostro de Dios y de la religión” (GS 19).
En un mundo “secularizado”, se necesita presentar mejor los valores humanos, a la luz del evangelio. Pero la cultura emergente presta atención casi excluyente al adelanto tecnológico prescindiendo de su valor ético.
Se tiende a construir una ciencia nueva sobre el hombre; el verdadero humanismo armoniza razón y fe. “Según la fe cristiana y la doctrina de la Iglesia, solamente la libertad que se somete a la verdad conduce a la persona humana a su verdadero bien. El bien de la persona consiste en estar en la verdad y en realizar la verdad” (VS 84).En un mundo secularizado el hombre es todavía y lo será siempre “capaz de Dios” (CEC 27), inmerso en la búsqueda y sed de Dios, aunque el concepto sobre Dios le queda difuminado.
El areópago de la tecnología reclama una atención especial a los valores de la creación. Los bautizados ya han entrado en esta “nueva creación” (2Cor 5,17). Ellos podría cuidar mejor de la creación que se está deteriorando, sin explotarla; entonces la productividad sería mejor y más auténtica.
La tecnología necesita ser encuadrada en la evangelización, para logar un proceso de paz y de desarrollo, que sea verdadera liberación de las personas y de los pueblos, con el respeto debido a las minorías.[12]
6º) El nuevo fenomeno de la proliferación de sectas de tono existencial:
Las sectas, aunque son un fenómeno de todas las religiones y de todas las épocas, tienden hoy a una fuerte experiencia subjetivista, con repercusiones de masa, de resultados inmediatos y de línea fuertemente sincretista y relativista, con gran ímpetu proselitista. Es necesario afrontar este reto instando en la catequesis, la vivencia del Misterio de Cristo (oración litúrgica, comunitaria y personal) y la acogida solidaria en la comunidad cristiana con fuertes derivaciones hacia los diversos campos de caridad. Los vacíos religiosos de nuestra sociedad son propicios para el éxito de las nuevas sectas y nuevos movimientos religioso (cfr. RMi 38).
Ningún creyente y ningún grupo religioso tiene que quedar aislado, a merced de estos embates sectarios, que hoy tienden a imponerse como una nueva escalvitud de tipo “pseudo carismático” y “pseudo pentecostal”.
Cabe incluir o relacionar con el fenómeno de las sectas de fuerte tono vivencial, el fanatismo religioso, bastante generalizado en casi todas las religiones actuales, cuando la razón queda obnubilada por una actitud pseudoreligiosa. Al mismo tiempo, se da un fuerte relativismo y secularismo cuando la razón mal interpretada soslaya la religión. Entonces el campo queda abierto a las supersticiones. La ruptura entre religión (fe) y razón puede tener consecuencias fatales para la vida social y también para la vida cristiana y la evangelización.[13]
7º) El nuevo areópago del diálogo interreligioso:
El diálogo interreligioso, entre el cristianismo y las otras religiones, necesita llegar al conocimiento mutuo y respetuoso, así como al intercambio sincero, leal y objetivo sobre las experiencias auténticas de encuentro con Dios (que es el objetivo de la “contemplación”). En toda actitud religiosa auténtica han una huella de humildad o realismo y, al mismo tiempo, de confianza en la bondad de Dios. El Señor ha puesto en culturas y religiones una “semilla” de actitud filial y una “preparación evangélica”, que sólo puede llegar a su plenitud en el “Padre nuestro” enseñado y vivido por Jesús.[14]
Las diversas religiones “reflejan no pocas veces un destello de aquella Verdad que ilumina a todo hombre” y “se esfuerzan por responder de varias maneras a la inquietud del corazón humano, proponiendo caminos, es decir, doctrinas, normas de vida y ritos sagrados” (NAe 2). En este contexto la Iglesia anuncia a Cristo, “en quien los hombres encuentran la plenitud de vida religiosa” (ibídem).
Esta relación interreligiosa es un “coloquio verdaderamente humano a la luz divina... para advertir en diálogo sincero y paciente las riquezas que Dios, generoso, ha distribuido a las gentes” (AG 11). Es actitud que manifiesta el “profundo respeto hacia todo lo que en el hombre ha obrado el Espíritu, que sopla donde quiere (cfr. Jn 3,8)” (RMi 56).[15]
8º) El nuevo areópago del diálogo intercultural:
El diálogo interculturalsupone un encuentro de personas que se expresan de modo distinto, aunque no opuesto, sobre las realidades del ser humano, del cosmos y de la trascendencia. Todos los seres humanos y todos los pueblos están insertados en una misma familia humana y en una historia providencial, como hijos del mismo Padre, quien hace salir “su sol” indiscriminadamente (cfr. Mt 5,45). Todas las culturas han dejado entrever que “en lo más profundo del corazón del hombre está el deseo y la nostalgia de Dios” (Fides et Ratio 24). “El hombre busca un absoluto que sea capaz de dar respuesta y sentido a toda su búsqueda” (ibídem, 27).
Es necesario evangelizar la cultura “hasta sus mismas raíces”, porque “la ruptura entre Evangelio y cultura es sin duda alguna el drama de nuestro tiempo” (EN 20). El diálogo es siempre y simultáneamente interpersonal, intercultural, interreligioso, social. Debe ser respetuoso de todos los destellos de verdad y de bien.
El diálogo entre culturas es una actitud evangelizadora permanente por parte de la Iglesia, la cual está en estado de inculturación continua. Al insertarse el evangelio en una cultura diferente, ésta es valorada, purificada y reorganizada. La Iglesia misionera, especialmente en la actualidad, está llamada a hacer este “paso” o “pascua” en la nueva cultura y en las culturas de todos los pueblos, sin mezcla, ni confusión, ni separación, siempre de camino hacia el Misterio de Cristo.
Se puede llegar al areópago del diálogo intercultural e interreligioso, solamente a través de una Iglesia en estado de inculturación consciente: quien escucha la Palabra guiado por el Espíritu Santo, queda tocado ontológicamente y movido por Cristo resucitado, enviado por el Padre, que ha comunicado a la Iglesia su misma misión universalista. “Todo ha sido creado por él y para él” (Col 1,16).
En estos fenómenos de relación interreligiosa e intercultural, San Pablo ha dejado una pista orientadora, citando en el areópago de Atenas una afirmación de la cultura griega: “Pues en él vivimos, nos movemos y existimos” (Hech 17,28). En toda religión y cultura, a pesar de las zonas obscuras (por el fanatismo pseudorreligioso o por el absolutismo de las ideologías), siempre quedan detalles imborrables de un amor eterno, que ya nada ni nadie podrá borrar jamás.
El diálogo interreligioso e intercultural sólo lo puede realizar adecuadamente un creyente o una comunidad, que hayan sido tocados por Cristo resucitado. Así la inculturación llega a la persona y a la comunidad “de manera vital y en profundidad” (EN 20). La persona humana, en todo su contexto cultural y primordial, queda tocada por Cristo muerto y resucitado.
Un pueblo al que se llega usando su cultura, está inquieto y abierto a algo más, para encontrar el verdadero sentido de la vida, que sólo puede darse en Cristo. Una fe viva en el Resucitado abre este proceso de transformación de la cultura en todas sus dimensiones.
Es un pueblo entero y no sólo algún individuo, quien se inculturaliza: los valores culturales auténticos se transforman integrándolos en el cristianismo. En este sentido se puede hablar de enraizamiento del cristianismo en las culturas (cfr. EAf nn.55-70).
Ante la realidad de una nueva cultura naciente, los países de antigua cristiandad están llamados a aceptar con humildad que, al menos algunos de ellos, se han convertido en verdaderos países de misión “ad gentes”. Así sabrán captar mejor que la inculturación de las jóvenes Iglesias está iniciando dentro de un proceso normal de la inserción de la Revelación. Este proceso de inculturación invita y ayuda a establecer estructuras más sólidas para que duren más, también con sus expresiones artísticas.
Actualmente la inserción del evangelio en las culturas (inculturación) y más concretamente en la cultura emergente, es una prioridad inaplazable, que supone un proceso de aprecio, de purificación y de invitar a pasar a la plenitud en Cristo. Propiamente es la inculturación del amor de Cristo que murió por todos.[16]
Así lo resume el instrumento de trabajo para el 2º Sínodo de África: “El Evangelio se inserta en el tejido humano de la cultura... La Iglesia puede formar cristianos auténticos sólo asumiendo seriamente la inculturación del mensaje evangélico... El Apóstol (Pablo) ha sido un excepcional artífice de la inculturación del mensaje bíblico dentro de las nuevas coordenadas culturales... La Iglesia debe hacer penetrar la Palabra de Dios en la multiplicidad de las culturas y expresarla según sus idiomas, sus conceptos, sus símbolos y sus tradiciones religiosas”.[17]
9º) El nuevo areópago de la “esperanza” ante el desánimo y la falta de esperanza en las comunidades:
La esperanza cristiana es una respuesta alentadora al areópago del desánimo. Ante ciertos desánimos de la sociedad y también dentro de la misma Iglesia, es necesario presentar la esperanza cristiana como propuesta definitiva sobre el sentido de la vida. Es la esperanza que ahonda más sus raíces en las realidades humanas para transformarlas desde dentro, puesto que “la esperanza escatológica no merma la importancia de las tareas temporales” (GS 21).
El tono de la acción evangelizodra ha de ser siempre de esperanza: “Los gozos y las esperanzas, las tristezas y las angustias de los hombres de nuestro tiempo, sobre todo de los pobres y de cuantos sufren, son a la vez gozos y esperanzas, tristezas y angustias de los discípulos de Cristo” (GS 1).
En la vida de Pablo y en su doctrina encontramos esta orientación profunda de quienes, por estar enraizados en Cristo, viven “gozosos en la esperanza” (Rom 12,12). Es la afirmación tendría que plasmarse en testimonio concreto y vivencial: “Hemos puesto nuestra esperanza en el Dios vivo” (1Tim 4,10). San Pedro invitaba también así a los primeros cristianos:“Dad culto al Señor en vuestros corazones, siempre dispuestos a dar respuesta a todo el que os pida razón de vuestra esperanza” (1Pe 3,15).
Afirma Benedicto XVI: “San Pablo había comprendido muy bien que sólo en Cristo la humanidad puede encontrar redención y esperanza. Por ello, sentía apremiante y urgente la misión de «anunciar la promesa de la vida en Cristo Jesús» (2Tim 1,1), «nuestra esperanza» (1Tim 1,1), para que todas las gentes pudieran compartir la misma herencia, siendo partícipes de la promesa por medio del Evangelio (cfr. Ef 3,6). Era consciente de que la humanidad, privada de Cristo, está «sin esperanza y sin Dios en el mundo» (Ef 2,12)”.[18]
10º) El nuevo areópago de la juventud:
El areópago de la juventud actual debe afrontarse en esta línea de esperanza cristiana. “La crisis de esperanza afecta más fácilmente a las nuevas generaciones que, en contextos socio-culturales faltos de certezas, de valores y puntos de referencia sólidos, tienen que afrontar dificultades que parecen superiores a sus fuerzas”.[19]
La acción evangelizadora debe llegar especialmente al campo de la juventud y de la infancia, donde se fragua el futuro de la humanidad actual. Es un campo que se entrelaza con los nuevos areópagos de la cultura emergente y de los medios de comunicación social. “Los jóvenes en numerosos países representan ya más de la mitad de la población” (RMi 37).
La crisis en la juventud de cada época origina ordinariamente un alejamiento inicial de la religión, para descubrir posteriormente, de un modo más personal, la religión como encuentro comprometido con Cristo, a quien se acoge como a amigo personal e insustituible, el único que da sentido a la vida a la historia humana. De ahí la importancia de una educación catequística adecuada y vivencial.
Ante los nuevos cambios culturales y sociales, la sensibilidad reformista y universalista del joven puede orientarse hacia el redescubrimiento de los valores auténticos del evangelio, todavía no puestos en práctica suficientemente. El concilio Vaticano II invita a los jóvenes a reaccionar según el ideal reformador del evangelio: “Edificad con entusiasmo un mundo mejor que el de vuestros mayores. La Iglesia os mira con confianza y amor” (Pablo VI, Mensaje a los jóvenes, en la clausura del Vaticano II).
La juventud es “causa de esperanza” (Santo Tomás I-II, q.40, a.6) por su capacidad de afrontar y construir la vida porque siempre se puede hacer lo mejor. Los jóvenes son portadores de esperanza. San Juan alienta a los jóvenes a aprovechar sus cualidades para responder a la vocación cristiana: “Os escribo, jóvenes, porque sois fuertes, y la palabra de Dios permanece en vosotros, habéis vencido al maligno” (1Jn 2,14). Por esto, hay que presentarles a “Cristo, el héroe verdadero, humilde y sabio, el Profeta de la verdad y del amor, el compañero y amigo de los jóvenes” (Pablo VI, Mensaje a los jóvenes, en la clasura del Concilio Vaticano II).
Al presentar a los jóvenes las situaciones actuales, conviene plantearles esta pregunta clave: “¿Cómo hacer llegar el mensaje de Cristo a los jóvenes no cristianos, que son el futuro de Continentes enteros?” (RMi 37). Si responden generosamente a la llamada, “tendrán ante sí una vida atrayente y experimentarán la verdadera satisfacción de anunciar la «buena nueva» a los hermanos y hermanas, a quienes guiarán por el camino de la salvación” (RMi 80).[20]
11º) El nuevo reto y areópago de hacer misioneras a todas las Iglesia particulares y comunidades:
Un gran reto, de carácter intraeclesial es el fortalecimiento de “las Iglesias particulares”, que tienen que llegar a ser “suficientemente fundadas y dotadasde energías propias y de madurez” (AG 6), para afrontar ellas mismas, con sus propios medios más adecuados, las situaciones y retos con herramientas propias y más eficaces.
La falta de personal apostólico en una Iglesia particular cuestiona y compromete a toda la Iglesia universal y a cada comunidad eclesial. No es adecuada la actual distribución de apóstoles y de recursos económicos, que origina una dependencia excesiva del exterior. Mientras hay que prestar especial atención a las grandes urbes, al mismo tiempo no puede olvidarse la importancia de la acción misionera en las zonas rurales más marginadas.
Las Iglesias particulares o locales necesitan potenciarse para afrontar las propias situaciones culturales y sociológicas, sin perder la perspectiva de la comunión universal. Mientras se tiende a utilizar los elementos culturales propios, hay que guardar la unidad y la universalidad, porque “solamente una Iglesia que mantenga la conciencia de su universalidad y demuestre que es de hecho universal, puede tener un mensaje capaz de ser entendido, por encima de los límites regionales, en el mundo entero” (EN 63).
“La «Iglesia de Dios» no es sólo la suma de distintas Iglesias locales, sino que las diversas Iglesias locales son a su vez realización de la única Iglesia de Dios. Todas juntas son la «Iglesia de Dios», que precede a las distintas Iglesias locales, y que se expresa, se realiza en ellas”.[21]
La Iglesia particular es sujeto y no sólo objeto de la misión. Por esto, está llamada a reconocerse como familia y comunidad misionera, que parte también de un “camino de Damasco”, como encuentro con Cristo resucitado. La Iglesia se pone al servicio de la reconciliación, de la justicia y de la paz, cuando se edifica como familia de Dios local y universal. Los apóstoles son siempre enviados por la comunidad eclesial o en su nombre; ésta garantiza la autenticidad de la misión recibida del Señor.
La “aldea global” (”village global”) interpela a la “catolicidad” y a la Colegialidad Episcopal. Hay que hacer misionera a toda la Iglesia y a todas las Iglesias particulares; no basta con instituciones concretas o particulares, aunque éstas son siempre necesarias. Los creyentes en Cristo están llamados a vivir el “sentido de Iglesia”, como Cuerpo de Cristo, que se construye en comunión. No se pueden separar los dos polos: Cristo y su Iglesia. “Quien tiene espíritu misionero siente el ardor de Cristo por las almas y ama a la Iglesia, como Cristo… Para todo misionero y toda comunidad « la fidelidad a Cristo no puede separarse de la fidelidad a la Iglesia” (RMi 89).
La misión “a todas las gentes” es connatural a la Iglesia particular: “Todo el misterio de la Iglesia está contenido en cada Iglesia particular, con tal de que ésta no se aísle, sino que permanezca en comunión con la Iglesia universal y, a su vez, se haga misionera” (RMi 48). Así se llega a una consecuencia lógica: “Como la Iglesia particular debe representar lo mejor que pueda a la Iglesia universal, conozca muy bien que ha sido enviada también a aquellos que no creen en Cristo y que viven en el mismo territorio, para servirles de orientación hacia Cristo con el testimonio de la vida de cada uno de los fieles y de toda la comunidad” (AG 20).[22]
12º) El nuevo areópago de las vocaciones en su dimensión misionera:
El areópago intraeclesial tal vez más urgente y desafiante es el de la vocación cristiana y de las vocaciones específicas (laical, religiosa, sacerdotal) en su dimensión misionera. La respuesta a la vocación es “una respuesta positiva que presupone siempre la aceptación y la participación en el proyecto que Dios tiene sobre cada uno; una respuesta que acoja la iniciativa amorosa del Señor y llegue a ser para todo el que es llamado una exigencia moral vinculante, una ofrenda agradecida a Dios y una total cooperación en el plan que Él persigue en la historia”.[23]
La vocación laical es inserción y participación de los laicos especialmente en las estructuras sociales, con su propia responsabilidad y en comunión de Iglesia. Ellos son ciudadanos insertados en la realidad y en las estructuras concretas, ejerciendo sus deberes profesionales y religiosos sin divorcio, ya en el presente mundo (cfr. GS 43). A ellos toca en particular el difícil y muy noble arte de la política (cfr. GS 75 y ChL 42). Están llamados a compartir la responsabilidad de la misión universal en comunión con la Iglesia particular y siguiendo las indicaciones y oportunidades de la Congregación para la Evangelización de los Pueblos.
El testimonio de santidad es de inserción responsable y comunional (eclesial) en las estructuras humanas. La inserción misionera del laicado en las estructuras humanas dependerá e su capacidad de ser fermento evangélico y de vivir la comunión eclesial.[24]
Por parte de la vida consagrada, el testimonio de santidad es de radicalismo evangélico. La Iglesia necesita siempre la santidad, la profecía, la actividad evangelizadora y de servicio de las personas consagradas, para ser “visibilidad los rasgos caracterçisticos de Jesús –virgen, pobre y obediente- en medio del mundo” (VC 1). “Verdaderamente la vida consagrada es memoria viviente del modo de existir y de actuar de Jesús como Verbo encarnado” (VC 22).[25]
Por parte de los sacerdotes ministros, el testimonio de santidad es de ser signo claro del Buen Pastor. Por el sacramento del Orden, se configuran a Cristo Cabeza y Pastor, para prolongar su misma misión y su mismo estilo de vida evangélica. “El don espiritual que recibieron los presbíteros en la ordenación no los dispone sólo para una misión limitada y restringida, sino para una misión amplísima y universal de salvación «hasta los extremos de la tierra» (Hech 1,8), porque cualquier ministerio sacerdotal participa de la misma amplitud universal de la misión confiada por Cristo a los Apóstoles” (PO 10).[26]
En las exhortaciones postsinodales y demás documentos postconciliares, al hablar de cada vocación o estado de vida, se describe la situación mundial, presentando los retos, de signo negativo o también positivo. En estos signos (positivos y negativos) se inserta cada vocación cristiana con su peculiar característica.[27]
En el conjunto de vocaciones cristianas destaca hoy la colaboración peculiar de la mujer (dignidad, colaboración responsable y misionera). “En las enseñanzas de Jesús, así como en su modo de comportarse, no se encuentra nada que refleje la habitual discriminación de la mujer, propia del tiempo... Este modo de hablar sobre las mujeres y a las mujeres, y el modo de tratarlas, constituye una clara «novedad» respecto a las costumbres dominantes entonces” (Mulieris Dignitatem 13). “En María, Eva vuelve a descubrir cuál es la verdadera dignidad de la mujer, de su humanidad femenina” (ibídem 11).[28]
La Palabra encuentra una acogida y sensibilidad especial en la mujer, que puede llegar a ser, como la Magdalena, “apóstol de los apóstoles” (MD 16, citando a Santo Tomás de Aquino). Es significativo que Pablo compare su acción ministerial a la maternidad (Gal 4,19), de la que es modelo María (cfr. Gal 4,4) y que Jesús haya invitado a superar las dificultades no tanto con la agresividad del varón cuanto con la generosidad de la mujer-madre (cfr. Jn 16,20-22). “El apóstol hombre siente la necesidad de recurrir a lo que es por esencia femenino, para expresar la verdad sobre su propio servicio apostólico” (MD 22).[29]
13º) El nuevo areópago de los nuevos pobres y nuevos tipos de pobreza:
El desarrollo humano integral tiende a liberar a los pobres de la opresión y de la marginación, por un proceso constructivo y reconciliador de la justicia y de la paz. La misión cristiana es siempre misión hacia los pobres y hacia los ricos indiscriminadamente. Se trata de liberar a los pobres de su miseria y opresión, para recuperar la dignidad humana, mientras se ayuda a los hermanos mejor situados (bienestantes) a compartir los bienes con los demás, siguiendo el ejemplo de los primeros cristianos (cfr. Hech 4,32).
La colaboración en el desarrollo y progreso humano para liberar a los pobres, no debe ser una mera filantropía ni una mera variante de la acción social. “El amor al prójimo enraizado en el amor a Dios es ante todo una tarea para cada fiel, pero lo es también para toda la comunidad eclesial, y esto en todas sus dimensiones: desde la comunidad local a la Iglesia particular, hasta abarcar a la Iglesia universal en su totalidad” (DCe 20).
En la caridad cristiana transparentan las bienaventuranzas. Los cristianos somos la Iglesia de las bienaventuranzas. La caridad evangélica se practica especialmente con los más pobres. La “opción preferencial por los pobres” (NMi 49) es una dimensión necesaria del ser cristiano y del servicio al Evangelio.
Jesús vivió la misión de “evangelizar a los pobres” (Lc 4,18). Es la nota característica de los tiempos mesiánicos, según la profecía de Isaías: “Los pobres son evangelizados” (Mt 11,5; Is 61,1). Jesús “siendo rico, por vosotros se hizo pobre, a fin de que os enriquecierais con su pobreza” (2Cor 8,9). “A todas las víctimas del rechazo y del desprecio Jesús les dice: «Bienaventurados los pobres » (Lc 6, 20). Además, hace vivir ya a estos marginados una experiencia de liberación, estando con ellos y yendo a comer con ellos (cfr. Lc 5, 30; 15, 2), tratándoles como a iguales y amigos (cfr. Lc 7, 34), haciéndolos sentirse amados por Dios y manifestando así su inmensa ternura hacia los necesitados y los pecadores (cfr. Lc 15, 1-32)” (RMi 14).
La encíclica misionera de Juan Pablo II insiste en este aspecto: “El testimonio evangélico, al que el mundo es más sensible, es el de la atención a las personas y el de la caridad para con los pobres y los pequeños, con los que sufren” (RMi 42). Por esto, “la actividad misionera lleva a los pobres luz y aliento para un verdadero desarrollo, mientras que la nueva evangelización debe crear en los ricos, entre otras cosas, la conciencia de que ha llegado el momento de hacerse realmente hermanos de los pobres en la común conversión hacia el « desarrollo integral », abierto al Absoluto” (RMi 59).
Esta atención a los pobres y especialmente a los más pobres, es decir a los que no tiene la fe, indica que la caridad no tiene fronteras. Por esto, “la Iglesia en todo el mundo quiere ser la Iglesia de los pobres... quiere extraer toda la verdad contenida en las bienaventuranzas de Cristo y sobre todo en esta primera: «Bienaventurados los pobres de espíritu...». Quiere enseñar esta verdad y quiere ponerla en práctica, igual que Jesús vino a hacer y enseñar”.[30]
14º) El nuevo areópago de atención pastoral a los enfermos y a las nuevas enfermedades:
La pastoral de los enfermos tiene en cuenta que en estos momentos de dolor, donde queda implicada toda la familia, se suscita la pregunta sobre el sentido de la vida. Por esto, el cuidado de los enfermos ha de ser una de las prioridades en la Iglesia y en la sociedad humana. La pastoral de la salud abarca muchas facetas, sin olvidar ofrecer a los paciente una ayuda espiritual especial, que supone cercanía fraterna y escuha.
Jesús resucitado sigue presente en el mundo para salvar al ser humano en toda su integridad y unidad de cuerpo y alma (cfr. GS 14). Su acción salvífica se actualiza en cada período histórico: “Pasó haciendo el bien” (Hech 10,38) y “cargó con nuestras enfermedades” (Mt 8,17).
Frecuentemente la enfermedad expresa o también produce la división interna del corazón humano, que necesita ser sanado desde la raíz (cfr. GS 13). A la luz de la fe, el creyente descubre que Jesús se describe a sí mismo en la parábola del buen samaritano (cfr. Lc 10,33-34). La sanación forma parte de la misión confiada por Jesús a sus apóstoles: “sanad a los enfermos” (Mt 10,8; cfr. Mc 16,18). El sacramento de la unción es un signo portador de gracia para la salud integral del enfermo.
La realidad de las enfermedades y de la muerte, a la luz de la fe, se convierte en mayor aprecio de la salud y de la vida terrena, para transformarla según el espíritu de las bienaventuranzas y del mandato del amor. Entonces la vida y la salud recuperan su pleno sentido: el de servir amando a Dios y a los hermanos. Las realidades humanas de salud y enfermedad, pasan a ser, por medio de los sacramentos, prolongación de la misma vida de Cristo en su caminar hacia la Pascua.
Hoy como en toda época histórica, “Jesús se identifica con los pobres: los hambrientos y sedientos, los forasteros, los desnudos, enfermos o encarcelados. « Cada vez que lo hicisteis con uno de estos mis humildes hermanos, conmigo lo hicisteis » (Mt 25, 40). Amor a Dios y amor al prójimo se funden entre sí: en el más humilde encontramos a Jesús mismo y en Jesús encontramos a Dios” (DCe 15). Por esto, “la Iglesia es la familia de Dios en el mundo. En esta familia no debe haber nadie que sufra por falta de lo necesario. Pero, al mismo tiempo, lacaritas-agapé supera los confines de la Iglesia; la parábola del buen Samaritano sigue siendo el criterio de comportamiento y muestra la universalidad del amor que se dirige hacia el necesitado encontrado « casualmente » (cf. Lc 10, 31), quienquiera que sea” (DCe 25).[31]
15º) El nuevo areópago de la familia:
La familia es el areópago tal vez más en más alto riesgo. La familia está llamada a ser la primera comunidad misionera, de la que depende el futuro del mundo y de la Iglesia, como célula fundamental de la sociedad.
En una perspectiva sociológica auténtica, la familia es “escuela de humanidad más completa y más rica” (GS 52). La familia es “la célula primera y vital de la sociedad” (AA 11). Es un dato constatable que “el futuro del mundo y de la Iglesia se fragua en la familia” Familiarisi consortio 75).
Para encuadrar a la familia en su dimensión misionera, “los padres han de ser para con sus hijos los primeros predicadores de la fe, tanto con su palabra como con su ejemplo, y han de fomentar la vocación propia de cada uno, y con especial cuidado la vocación sagrada” (LG 11). Por esta realidad eclesial, “la familia está llamada a anunciar, celebrar y servir el Evangelio de la vida” (Evangelium vitae 92). La familia “tiene la misión de custodiar, revelar y comunicar el amor” (FC 17).
Su acción evangelizadora es, pues, intrafamiliar, intraeclesial, interfamiliar y hacia toda la sociedad. La familia es un campo preferencial, tanto para evangelizarla como para hacerla evangelizadora, defensora de sus derechos inalienables, tanto en sí misma como en el campo de la educación donde ella colabora con su propia e inalienable responsabilidad. En este campo educacional, la familia cristiana está llamada a ser testimonio creíble del Evangelio de la esperanza. “También la familia humana, hoy más unida por el fenómeno de la globalización, necesita además un fundamento de valores compartidos, una economía que responda realmente a las exigencias de un bien común de dimensiones planetarias”.[32]
16º) El nuevo areópago de la formación humana, cristiana, misionera:
El areópago de la educación en las escuelas y universidades se enmarca en el contexto de la formación y desarrollo humano integral. Así se llega a la juventud, a las comunicaciones sociales, a todo el ambiente cultural y social.
Las exigencias de la evangelización actual requieren una formación adecuada. Esta formación capacita a los apóstoles de hoy para confrontarse críticamente con la cultura emergente. La formación catequética es imprescindible en este proceso de formación de personas y comunidades, ofreciendo un acompañamiento espiritual permanente, en un itinerario “mistagógico” que presente los contenidos de la fe para celebrarlos, vivirlos y anunciarlos.[33]
La teología de la misión, la misionología, necesita una clarificación y divulgación mejor. La misión es cuestión de fe y necesita absolutamente un clima de oración. “Sin la misión ad gentes esta dimensión misionera de la Iglesia quedaría privada de su significado fundamental” (RMi 34). Hay que evangelizar los estudios de teología (la misma formación teológica): cuando la Escritura es alma de toda la teología y de toda la pastoral, a la luz del Misterio de Cristo, entonces el Señor resucitado se muestra misionero del Padre (cfr. EN 7) que confía y continúa su misión en la Iglesia. Por esto, la “missio Dei” es al mismo tiempo “missio Ecclesiae”.[34]
El misterio de salvación según los planes de Dios tiene perspectiva “holística”: se evangeliza teniendo en cuenta la integridad de la creación, así como la situación concreta histórica, a la luz de la revelación de Jesucristo presente y activo en su Iglesia. Entonces se hace patente que la misión (como la fe) no es una ideología.
A partir de una buena teología sobre la misión, la Iglesia afronta la historia (y el sentido de la historia) como un areópago por evangelizar. En el paradigma y areópago de la historia de la Iglesia y de la sociedad, se discierne lo propiamente auténtico y la estrecha relación entre todos los pueblos.El centro del horizonte histórico es siempre Jesús, testimoniando por las grandes figuras misioneras.
La evangelización es plenamente humana (integral) cuando se realiza según el plan de Dios para toda la humanidad. Hoy se necesita afrontar diversas estrategias, potenciando a los agentes de pastoral (también en su formación inicial y permanente). Toda la Iglesia es misionera.[35]
17º) El aareópago de la “Nueva Evangelización”:
El areópago de la nueva evangelización supone un cambio de métodos y expresiones, aunque no de contenidos evangélicos; pero es sobre todo una llamada a un nuevo fervor por parte de los apóstoles. La Nueva Evangelización es una llamada eclesial “ad intra” para una auténtica renovación.
La “nueva evangelización” se orienta a “una situación intermedia, especialmente en los países de antigua cristiandad, pero a veces también en las Iglesias más jóvenes, donde grupos enteros de bautizados han perdido el sentido vivo de la fe o incluso no se reconocen ya como miembros de la Iglesia, llevando una existencia alejada de Cristo y de su Evangelio” (RMi 33).
La “nueva evangelización” es un punto de referencia, a modo de necesidad urgente, en la que hay que comprometerse, sin confundirla con el proselitismo. Debe incluir el testimonio y un diálogo interreligioso profundo e inteligente, así como aprovechar el valor evangelizador de los bienes culturales.[36]
La atención a las pequeñas comunidades cristianas es imprescindible en este momento de globalización. Es una atención particular que afecta a parroquias, asociaciones, grupos bíblicos y de oración, peregrinaciones, movimientos apostólicos, nuevas comunidades, para encontrar nuevos caminos en vistas a afrontar la evangelización actual.
La evangelización en zonas urbanas necesita una acción pastoral más insertada y coordinada, por medio de una presencia (“itinerancia”) apostólica, que se concreta en disponibilidad, adaptabilidad, gratuidad en los servicios.
18º) El nuevo areópago de la Iglesia perseguida y martirial:
Las situaciones actuales de persecución y martirio recuerdan la época martirial de la Iglesia primitiva: “Por muchas persecuciones, hemos de entrar en el Reino de Dios” (Hech 14,22). Podríamos decir que se actualiza la situación permanente de la vida apostólica de San Pablo: “Somos perseguidos” (2Cor 12,11). Entonces aparece que “la sangre de los mártires es semilla de Cristianos” (Tertuliano). No se trata de complejo de persecución, sino de afrontar con espíritu de fe, con esperanza inquebrantable y con verdadero amor de donación y de perdón, que asegure la reconciliación en la verdad y la caridad.
Esta situación y actitud martirial forma parte de la Kenosis de Cristo, que es siempre misterio de cruz (cfr. Fil 2,6ss). La encíclica Redemptoris Missio, después de citar el texto de filipenses, añade: “Se describe aquí el misterio de la Encarnación y de la Redención, como despojamiento total de sí, que lleva a Cristo a vivir plenamente la condición humana y a obedecer hasta el final el designio del Padre. Se trata de un anonadamiento que, no obstante, está impregnado de amor y expresa el amor. La misión recorre este mismo camino y tiene su punto de llegada a los pies de la cruz” (RMi 88).
El encuentro con las culturas y religiones, por parte del cristianismo, tiene que ser siempre con actitud “kenótica” de humildad y de cruz, en la perspectiva del mando del amor (“en esto conocerán que sois mis discípulos”: Jn 13,35). El misterio de Cristo es así, para transformar el sufrimiento y la humillación en renovación interior de los misioneros, disponibles para la persecución, la cruz, el sufrimiento (la misión no es turismo), y, de este modo, reflejar la actitud de Cristo de morir amando y perdonando.
Una nota característica de la evangelización será siempre la disponibilidad “martirial”. En efecto, el martirio es la encarnación suprema del Evangelio.[37]
19º) El nuevo areópago de construir la comunión eclesial (fundada en la Eucaristía) y de continuar promoviendo el ecumenismo misionero:
La comunión eclesial es de eficacia misionera. Sólo viviendo esta comunión eclesial, se podrá transformar en unidad verdadera el fenómeno de la interculturalidad. “El Evangelio fue el fermento de la libertad y del progreso en la historia humana, incluso temporal, y se presenta constantemente como germen de fraternidad, de unidad y de paz” (AG 8).
La “comunión” eclesial se realiza y se concretiza en el amor a la Iglesia, a imitación de Cristo, según la instancia de Pablo (cfr. Ef 5,25). La comunión de los Apóstoles orando con María, figura de la Iglesia, es factor de unidad (cfr. Hech 1,14).
La comunión eclesial es signo eficaz de evangelización. Así manifiesta, como signo eficaz, el misterio de Cristo resucitado presente en la Iglesia, misterio de salvación universal. “El es quien nos revela que «Dios es amor» (1Jn 4.8), a la vez que nos enseña que la ley fundamental de la perfección humana, y, por tanto, de la transformación del mundo, es el mandamiento nuevo del amor. Así, pues, a los que creen en la caridad divina les da la certeza de que abrir a todos los hombres los caminos del amor y esforzarse por instaurar la fraternidad universal no son cosas inútiles” (GS 38).
El testimonio evangélico de la caridad se expresa de modo especial en la “comunión” eclesial. La fuerza del anuncio del Evangelio de la esperanza será más eficaz si se une al testimonio de una profunda unidad y comunión en la Iglesia; la eficacia de la evangelización depende del testimonio de unidad por parte de los cristianos.
La “comunión” eclesial realiza la unidad pedida por Jesús: “Como tú, Padre, en mí y yo en ti, que ellos también sean uno en nosotros, para que el mundo crea que tú me has enviado” (Jn 17,21). Puesto que la “comunión” eclesial es un signo eficaz de evangelización y un “camino e instrumento de evangelización” (EN 77), la falta de unidad entre los cristianos es “uno de los grandes males de la evangelización”; por esto, “la suerte de la evangelización está ciertamente vinculada al testimonio de unidad dado por la Iglesia” (ibídem).
La Iglesia se hace realidad de “comunión”, a partir de la Eucaristía, puesto que es la “fuente y cumbre de toda la vida cristiana” (LG 11), la “fuente y culminación de toda la evangelización” (PO 5). Ella “contiene todo el bien espiritual de la Iglesia, es decir, Cristo mismo, nuestra Pascua” (PO 5). La Eucaristía es, pues, “el compendio y la suma de nuestra fe” (CEC 1327). Por esto, “no se edifica ninguna comunidad cristiana si no tiene como raíz y quicio la celebración de la santísima eucaristía... Esta celebración, para que sea sincera y cabal, debe conducir lo mismo a las obras de caridad y de mutua ayuda que a la acción misional y a las varias formas del testimonio cristiano” (PO 6).
“La eucaristía construye la Iglesia” (RH 20) y la Iglesia hace posible la eucaristía. Al comer de mismo pan, llegamos a ser un mismo cuerpo por la comunión fraterna y eclesial: “porque aun siendo muchos, somos un solo pan y un solo cuerpo, pues todos participamos de un solo pan” (1Cor 10,17). La Eucaristía es “el signo de la unidad y vínculo de caridad” (SC 47).
En el campo de la evangelización, “los trabajos apostólicos se ordenan a que, una vez hechos hijos de Dios por la fe y el bautismo, todos se reúnan, alaben a Dios en medio de la Iglesia, participen en el sacrificio y coman la cena del Señor” (SC 10).
La construcción de la comunión eclesial a partir de la Eucaristía, es la clave de la misión: “La Eucaristía, construyendo la Iglesia, crea precisamente por ello comunidad entre los hombres” (Ecclesia de Eucharistia 24). “La Eucaristía es fuente de unidad eclesial y, a la vez, su máxima expresión” (Mane nobiscum domine 21). “La comunión tiene siempre y de modo inseparable una connotación vertical y una horizontal: comunión con Dios y comunión con los hermanos y hermanas. Las dos dimensiones se encuentran misteriosamente en el don eucarístico” (Sacramentum Caritatis 76). “Por eso la Eucaristía no es sólo fuente y culmen de la vida de la Iglesia; lo es también de su misión: Una Iglesia auténticamente eucarística es una Iglesia misionera” (ibídem 84).[38]
El camino ecuménico salva la peculiaridad de los dones recibidos, evitando el sincretismo y el relativismo. El intercambio de dones recibidos supone una actitud de autenticidad y de fidelidad. “La unidad debe ser el resultado de una verdadera conversión de todos, del perdón recíproco, del diálogo teológico y de las relaciones fraternas, de la oración y de la perenne docilidad a la acción del Espíritu Santo, que es también el Espíritu de reconciliación” (RP 9). “El auténtico ecumenismo no se da sin la conversión interior” (UR 7) y sin la “renovación de la Iglesia” (UR 6) puesto que se tiende a “una vida más pura según el evangelio” (UR 7); “esta conversión del corazón y santidad de vida, junto con las oraciones... han de considerarse como alma de todo el movimiento ecuménico” (UR 8).[39]
El proceso de reconciliación y paz se realiza en armonía (cfr. 1Cor 13,11), primordialmente como reconciliación con Dios (cfr. 2Cor 6,18-20), que se concreta siempre en reconciliación con los hermanos, consigo mismo y con el cosmos. Es proceso de conversión personal y estructura. La Iglesia necesita presentar esta reconciliación en su mismo proceso de comunión interna.
20º) La peculiaridad de los nuevos areópagos en los diversos Continentes:
Los cinco Continentes son ya en realidad país de misión, con diversas tonalidades. Hay que intercambiar misioneros en las múltiples direcciones. La responsabilidad “presente” (en “tiempo real”, como se exige en los “medios”), tiene que ser responsabilidad solidaria, “tiempo favorable... tiempo de salvación” (1Cor 6,2).
Durante la segunda mitad del siglo XX, además de la celebración del concilio Vaticano II y de innumerables encuentros internacionales, han tenido lugar los Sínodos Episcopales “Continentales”. En esas celebraciones se ha reflexionado sobre la realidad de las Iglesias de cada Continente y el Papa ha publicado la respectiva exhortación apostólica postsinodal, donde se refleja todo el trabajo realizado colegialmente, también con la aportación de todas las Iglesias particulares.
Las circunstancias de cada Continente son diversas, pero, en realidad, la situación evangelizadora universal se está convirtiendo en una situación “global”, que invita a una “nueva evangelización”.[40]
Las situaciones misioneras frecuentemente son hoy parecidas a nivel universal, debido al fenómeno de la globalización y a la fuerza masiva de medios de comunicación. Los documentos sobre las situaciones en cada Continente, al describir la realidad peculiar y diferenciada a la vez, lo hacen con un tono de realismo y esperanza, así como de urgencia de santificación y misión.
En África, los nuevos areópagos están enmarcados en un contexto de gran vitalidad eclesial en vocaciones y organización pastoral, acentuando la responsabilidad laical, la inculturación y la formación. Estas situaciones actuales son también consecuencia de una problemática anterior a modo de nuevo colonianismo: guerras por competencia de poderes políticos y económicos multinacionales (suscitadas desde fuera y aprovechando las diferencias étnicas), grandes masas migratorias también hacia fuera de Africa, inestabilidad de los regímenes políticos, corrupción administrativa, substracción de las materias primas y empobrecimiento de la población, nuevas enfermedades, desempleo, neocolonianismo cultural... Por esto, se insta a la formación inicial y permanente (sacerdotes, religiosos, laicos), para realizar la inculturación en comunión eclesial, con la responsabilidad de laicos bien formados y el uso más adecuado de los medios de comunicación social, etc.[41]
En América, distinguiendo entre la parte septentrional, central y meridional, se constata la gran fuerza de la religiosidad popular, el sentido de Dios, la solidaridad, la sensibilidad respecto a los problemas sociales; al mismo tiempo, se insta a afrontar los problemas de la injusta distribución de los bienes, la inestabilidad administrativa, etc.[42]
En Asia se subraya su gran sentido de religiosidad, la riqueza de sus culturas milenarias, su capacidad de contemplación y organización, etc. Al mismo tiempo, se observan en la actualidad tendencias materialistas, fanatismos de algunos sectores religiosos, falta de misionariedad en algunas comunidades, lentitud o también defectos en el proceso de inculturación, etc. Últimamente se ha acentuado el fenómeno de la religión como fuente de disturbios. Es una realidad cuestionadora la existencia de injusticias, diferencias socioeconómicas, desequilibrio entre diversas religiones, pobreza... El diálogo se presenta como un camino conjunto con otras religiones en comprensión mutua. La ruptura de esta comprensión ha producido persecuciones contra la Iglesia. Por parte de la Iglesia, se necesita emprender un nuevo camino de evangelización que salvaguarde la dignidad de pueblos y personas, el respeto a las diversas religiones, una promoción de diálogo que mejore la relación con la cultura y sociedad.[43]
En Oceanía, por parte de innumerables islas del Pacífico, se puede observar un cristianismo bastante arraigado en poblaciones indígenas, con cierto riesgo de aislamiento y dispersión, así como de falta de inculturación; Australia y Nueva Zelanda (de mayoría cristiana) tienen una problemática parecida al Occidente, también respecto a las masas migratorias y el proceso de descristianización.[44]
En Europa, se señalan algunos signos negativos de mucha trascendencia para la evangelización, que tienen repercusión a nivel universal, debido a la influencia cultural, económica y política. Destacan los siguientes: el agnosticismo práctico, la indiferencia religiosa, el laicismo, la pérdida del sentido de la vida, el descenso de la natalidad, la disminución de las vocaciones al sacerdocio y a la vida consagrada, la inestabilidad del matrimonio (crisis familiares), las divisiones, las actitudes racistas, las tensiones interreligiosas, la indiferencia ética general, la búsqueda obsesiva de los propios intereses (individualismo, hedonismo), la marginación de los más débiles, el aumento del número de los pobres, nuevas formas de agresividad y violencia. Entre los signos positivos de esperanza se destacan: mayor sentido de la religiosidad en grupos selectos, toma de conciencia de la misión de cada bautizado, respeto de la dignidad de la mujer, unión entre los pueblos europeos, testimonio de los mártires, numerosos santos (antiguos y modernos), nuevos movimientos y comunidades, afianzamiento del movimiento ecuménico, etc.[45]
En todos los Continentes se señalan signos negativos: Afán desorbitado de lucro y de consumo, valorizar en sentido absoluto el progreso y la técnica, acentuar exageradamente la eficacia y utilidad, marginar a personas y pueblos, el menoscabo de la vida y dignidad humana también en la institución familiar, los brotes de racismo, el hambre de grandes multitudes, la mortalidad infantil, nuevas enfermedades (medicinas insuficientes), la degradación del ecosistema y de la atmósfera, la drogadicción, las guerras más o menos declaradas, la falta de educación cualificada para millones de personas (especialmente niños), las injusticias en el sistema económico, las corrupción administrativa, el aborto, la eutanasia, la manipulación de los embriones humanos, etc.
Pero los signos de esperanza son también parecidos en todas partes. Ecclesia in America: identidad cristiana (n.14), frutos de santidad (n.15), piedad popular (n.16), presencia católica oriental. Ecclesia in Africa: momento histórico alentador por los signos de esperanza (nn.9-29). Ecclesia in Asia: realidad pasada y presente (nn.5-9), la gracia de los mártires (n.49). Ecclesia in Oceania: actividad caritativa (nn.75-84). Ecclesia in Europa: posibilidad de una nueva evangelización (nn.11-17).
Los nuevos areópagos dejan entrever signos de esperanza: toma de conciencia universal sobre los derechos humanos, valoración de culturas y pueblos (rescate cultural), sentido de la libertad y dignidad humana, encuentro positivos de religiones, respeto del ambiente (ecología), ventajas de las comunicaciones inmediatas y globales, resurgir religioso y de interioridad, respeto a la dignidad y derechos de la mujer, “opción preferencial por los pobres” (NMi 49), nuevos movimientos y comunidades eclesiales, etc. Todo ello es un llamado urgente a evangelizar desde el Evangelio.
La misión “ad gentes”, en sus diversos niveles (geográfico, sociológico y cultural) será la nota característica para discernir si la evangelización local sigue el ritmo evangélico querido por el Señor y realizado especialmente por San Pablo. Muchos retos y problemas de la situación actual en el campo evangelizador local, no tienen solución si la Iglesia particular y toda comunidad cristiana no se abre a la misión “ad gentes”.
3.- AFRONTAR LOS NUEVOS AREÓPAGOS DE LA EVANGELIZACIÓN CON EL “ESPÍRITU” DE SAN PABLO
A) La figura de Pablo como punto de referencia:
Pablo, a partir de su encuentro con Cristo resucitado en el camino de Damasco, quedó transformado de perseguidor en evangelizador. La frase clave de esta transformación queda reflejada en las palabras de Jesús: “Yo soy Jesús, a quien tú persigues” (Hech 9,5). El amor de Cristo le transformó en un amigo y en un apóstol iluminado por su amor.
Después de unos doce años de experiencias apostólicas iniciales, de oración y de contacto con las diversas comunidades eclesiales y también con quieres presidían la Iglesia, siguieron otros diez o doce años de viajes misioneros. Su llamada divina quedó también garantizada por la mediación de la Iglesia en Jerusalén y en Antioquía.
Sus tres grandes viajes fueron una labor constante para insertar el evangelio, que él había recibido, en diversas situaciones culturales y religiosas, tan complejas como en nuestro tiempo. El precio de esta inserción, que hoy llamaríamos inculturación, fue de continuas “flaquezas, ultrajes, dificultades, persecuciones y angustias” (2Cor 12,10). Él mismo describe sus grandes deseos de evangelizar el mundo entero, escribiendo la carta a los romanos, donde manifiesta su deseos de llevar el Evangelio al límite de Occidente (cfr. Rom 15,14-33).
Su mundo “globalizado” se concretó en las zonas del imperio romano en torno al Mediterráneo. Era un mundo cruzado por calzadas y vías marítimas, frecuentadas por mercaderes, soldados, peregrinos piadosos, esclavos (como mercancía o también porque huían de sus amos), prisioneros con sus guardianes, correos, funcionarios del gobierno, predicadores de nuevas doctrinas “mistéricas”... Al recordar sus viajes, no podemos menos de imaginar una amalgama de culturas y experiencias religiosas en torno a aquel pequeño mundo del Mediterráneo.
La estancia en las grandes urbes se prolongó a veces por largo tiempo, para poder enraizar allí el evangelio y expandirlo a sus alrededores. Sabemos, al menos, que estuvo un año y seis meses en Corinto (cfr. Hech 18,11), dos años en Éfeso (cfr. Hech 19,10, ó tres años años según Hech 20,31). Se calcula que recorrió durante sus viajes misioneros entre 15 y 16 mil km. En estos viajes fueron muchos los colaboradores que le ayudaron en la inserción adecuada del evangelio según las diversas situaciones.
Su acción evangelizadora se concretaba en crear células vitales (inicialmente pequeñas en número) en gran parte del Imperio, situadas a lo largo de la calzadas, donde se hablaba el griego “koiné” (común), aparte de sus propios idiomas. A estas mismas comunidades creadas o animadas por él, las informaba sobre la situación de comunidades hermanas y las formaba, siempre con la colaboración de sus discípulos.
Después de dos años en la cárcel de Cesarea y del viaje marítimo hacia Roma (por haber apelado al César), pasando por Malta, y después de un período de encarcelamiento y una probable libertad pasajera, entre los años 64 y 67, fue decapitado en Roma, capital del imperio romano.
Verdaderamente, “de perseguidor se transformó en testigo y misionero; fundó comunidades cristianas en Asia Menor y en Grecia, recorriendo miles de kilómetros y afrontando todo tipo de vicisitudes, hasta el martirio en Roma. Todo por amor a Cristo”.[46]
Pablo sigue siendo hoy maestro de los pueblos. Él mismo resume, casi al final de su vida, su itinerario apostólico: “Yo he sido constituido... maestro de los gentiles en la fe y en la verdad” (1Tim 2, 7). “Pero su mirada no se dirige solamente al pasado. «Maestro de los gentiles»: esta expresión se abre al futuro, a todos los pueblos y a todas las generaciones. San Pablo no es para nosotros una figura del pasado, que recordamos con veneración. También para nosotros es maestro, apóstol y heraldo de Jesucristo”.[47]
Pablo pudo inculturar el evangelio y proclamarlo en diversos “areópagos” culturales y sociológicos, porque, a partir de la gracia y vocación de su encuentro personal con Cristo, supo recibirlo y vivirlo en comunión con las comunidades eclesiales y especialmente con los Doce que eran “las columnas” de la Iglesia: con Pedro durante quince días (cfr. Gal 1,18), Santiago “el hermano del Señor” (Gal 1,19) y Juan (cfr. Gal 2,9). “La importancia que san Pablo confiere a la Tradición viva de la Iglesia, que transmite a sus comunidades, demuestra cuán equivocada es la idea de quienes afirman que fue san Pablo quien inventó el cristianismo: antes de proclamar el evangelio de Jesucristo, su Señor, se encontró con él en el camino de Damasco y lo frecuentó en la Iglesia, observando su vida en los Doce y en aquellos que lo habían seguido por los caminos de Galilea”.[48]
El universalismo de Pablo se concreta en la apertura a toda las gentes, puesto que Jesucristo, el crucificado y resucitado, ha dado la vida por todos. Su objetivo consiste en “que todas las naciones respondan a la fe” (Rom 1,5). La conversión de Pablo había sido un proceso de cambiar su perspectiva, más allá de las fronteras étnicas y religiosas de Israel, porque Cristo, como “luz de los gentiles”, aporta “la salvación hasta el fin de la tierra” (Hech 13,47; cfr. Is 49,69). La predicación del evangelio va más allá de toda frontera cultural y religiosa.[49]
En este proceso de inculturación y encuentro global, la Iglesia, por ser el “Cuerpo” de Cristo, muestra que las personas que la componen forman una sola familia. La diversidad de dones, cuando reina el amor, se hace un solo cuerpo, del que Cristo es “la cabeza” (Col 1,18). La diversidad de piedras vivas que componen la Iglesia como “templo del Espíritu Santo”, constituyen en Cristo una “ofrenda viva, santa y agradable a Dios” (Rom 12,1). Pablo quería “ser para los gentiles ministro de Cristo Jesús, ejerciendo el sagrado oficio del Evangelio de Dios, para que la oblación de los gentiles sea agradable, santificada por el Espíritu Santo” (Rom 15,16).
B)En Pablo, la misión es cuestión de amor:
Todo su empeño evangelizador brota de un triple amor, a Cristo, a la Iglesia y a toda la humanidad redimida por el Señor: “Vivo en la fe del Hijo de Dios que me amó y se entregó a sí mismo por mí” (Gal 2,20). Sin este amor a Cristo, no tiene explicación humana el celo misionero de Pablo para afrontar las nuevas situaciones culturales y sociológica: “Su fe consiste en ser conquistado por el amor de Jesucristo, un amor que lo conmueve en lo más íntimo y lo transforma. Su fe no es una teoría, una opinión sobre Dios y sobre el mundo. Su fe es el impacto del amor de Dios en su corazón. Y así esta misma fe es amor a Jesucristo”.[50]
La misión de hoy necesita apóstoles enamorados de Cristo como Pablo: “Es, pues, un deber urgente para todos anunciar a Cristo y su mensaje salvífico. «¡Ay de mí —afirmaba san Pablo— si no predicara el Evangelio!» (1Cor 9,16). En el camino de Damasco había experimentado y comprendido que la redención y la misión son obra de Dios y de su amor. El amor a Cristo lo impulsó a recorrer los caminos del Imperio romano como heraldo, apóstol, pregonero y maestro del Evangelio, del que se proclamaba «embajador entre cadenas» (Ef 6,20). La caridad divina lo llevó a hacerse «todo a todos para salvar a toda costa a algunos» (1Co 9,22). Como el apóstol san Pablo, está llamado a preocuparse de las personas lejanas que todavía no conocen a Cristo, o que todavía no han experimentado su amor, que libera”.[51]
Imitar a Pablo es imitar a Cristo (cfr. 1Cor 11,1). Pablo se sabía amado por Jesús (cfr. Gal 2,20) y se movía sólo por su amor (2Cor 5,14). Ningún reto o nuevo areópago le podía separar del amor a Cristo (cfr. Rom 8,35-39). Se movía bajo la acción del Espíritu Santo (cfr. Hech 20,22), como conquistado por el Señor (cfr. Fil 3,12). Era sólo instrumento y colaborador de Cristo para proclamarlo entre las gentes, urgido por su amor.
La vida de Pablo es la de un “convertido” al Evangelio, al que se ha abierto totalmente y al que pertenece incondicionalmente para anunciarlo aún con riesgo de la propia vida. Su amor a Cristo resume los trazos de su estilo apostólico. “Así pues, en vida o en muerte, pertenecemos al Señor” (Rom 14,8).
C)A partir del encuentro transformante con Cristo resucitado.
En encuentro con Cristo resucitado en el camino de Damasco fue trascendental: “Jo soy Jesús, a quien tú persigues” (Hech 9,5). La comunidad cristiana (la “ecclesia”) es la familia, el “cuerpo” de Jesús. Pablo respondió al esta gracia con suma fidelidad: “¿Qué quieres que haga?” (Hech 22,10). En Cristo encontró que las promesas hechas por Dios se cumplen en la plenitud de los tiempos (cfr. Gal 4,4; Mc 1,15). Pero esto comportará para Pablo un cambio radical de actitud religiosa, que se concretará en conocimiento personal de Cristo resucitado presente en su Iglesia, que es su Cuerpo. “No soy yo el que vivo, sino que es Cristo quien vive en mí” (Gal 2,20).
A Pablo el hecho de haber sido educado en la fe y teología judaica, como hebreo nacido de hebreos (cfr. Fil 3,5), y el haber vivido “sin reproche” (Fil 3,6) las exigencias de la ley, le sirvió para que, una vez recibido el don de la fe en Jesús, se abriera a los nuevos horizontes de la salvación. Su “conversión” fue propiamente una apertura generosa a estos nuevos planes del mismo Dios que había establecido la primera alianza.
También para nuestra reforma apostólica, conviene no olvidar que Pablo, antes de este paso o conversión a la fe cristiana, era honesto y devoto, pero no podía aceptar que Dios quisiera hacer algo tan nuevo. Por esto colaboró en el martirio de Esteban. Podríamos decir que su “arrogancia” espiritual sólo podrá ser vencida por el don de la nueva gracia de Dios. Una vez abierto totalmente a Cristo, empleó el mismo celo de antes, pero ahora en anunciar el evangelio. Estaba bien preparado para inculturar la fe cristiana: como judío, como ciudadano romano y como conocedor de la cultura hebrea, griega y latina.
Su apostolado se concretaba principalmente en la enseñanza y testimonio (como Jesús), para construir la comunidad o familia de Jesús. Estaba urgido por el amor y, por esto, no buscaba su propio interés ni la posesión de bienes de esta tierra. Trabajó con sus propias manos, para no depender de ningún mecenas.
San Pablo se dedica a sembrar el evangelio donde todavía no ha sido sembrado. Predica la salvación en dimensión mundial. El evangelio es servicio de la reconciliación (“katallassein”, reconciliar: vocablo citado frecuentemente en sus escritos). Se trata de llevar el evangelio a pueblos que tienen otro concepto de Dios, del hombre, del mundo, aunque Dios es siempre el mismo y la familia humana es una sola. Pablo se dedicó a engendrar y nutrir a las Iglesias jóvenes recién fundadas por él.
Su vida consiste en una proclamación continuada y profundizada para presentar el único fundamento que es Cristo. La vida apostólica de Pablo se mueve armónicamente entre el encuentro con Cristo y el compromiso de la misión, como participación en la misma misión de Cristo: Jesús le espera en todo corazón humano para construir la comunidad eclesial como “cuerpo” de Cristo. Pablo entra a formar parte de la misma Iglesia de Jesús, a quien él había perseguido. Y transmite lo que ha recibido: el cuerpo eucarístico de Cristo resucitado presente en la Iglesia. Bajo la acción del espíritu, comunica este mensaje o Palabra de salvación: Cristo muerto por nuestros pecados, resucitado para nuestra justificación, vive presente entre nosotros.
D)Su estilo apostólico:
La norma pastoral de San Pablo sigue siendo vigente: “Examinadlo todo y quedaos con lo bueno” (1Tes 5,21). Si “Dios hace salir su sol sobre malos y buenos” (Mt 5,45), es señal de que hay dones de Dios en todos los pueblos, que preparan la aceptación de Jesús como único Salvador. La misión sigue urgiendo como en tiempo de Pablo: “¡Ay de mí si no predicara el Evangelio!” (1Cor 9,16).
El muro entre los pueblos ha sido abatido, gracias al encuentro con Cristo en el camino de Damasco. Es un mensaje armónico: resurrección de Cristo, bautismo, Eucaristía, Iglesia. El “no pueblo” se hace “pueblo”, gracias al cuerpo crucificado, resucitado y eucarístico de Cristo. El Dios de Israel, el único Dios revelado, se manifiesta como Dios de todos los pueblos. Pablo fue elegido gratuitamente por el Señor para ser “vaso de elección para llevar el nombre de Cristo a los gentiles” (Hech 9,15). Y así se mostró especialmente desde que Bernabé fue a buscarlo a Tarso para llevarlo a Antioquía (cfr. Hech 11,25ss).
Pablo salva toda la herencia religiosa y cultural de cada pueblo (y especialmente la revelación del Antiguo Testamento), anunciando (como “apóstol de las gentes”) que Cristo ha muerto y resucitado para salvar a todos. Jesús (vivo, resucitado) hace irrupción en la vida y en la cultura. “¿Cómo creerán en aquel a quien no han oído? ¿Cómo oirán sin que se les predique? Y ¿cómo predicarán si no son enviados?... Por tanto, la fe viene de la predicación, y la predicación, por la Palabra de Cristo. Y pregunto yo: ¿Es que no han oído? ¡Cierto que sí! Por toda la tierra se ha difundido su voz y hasta los confines de la tierra sus palabras (cfr. Sal 19,5)” (Rom 10,14-15.17-18).
Dios ama a todos los pueblos. Cristo comunica una plenitud de vida que no anula los dones que ya se han recibido de Dios como preparación evangélica. Jesús es “la luz de las gentes” (Lc 2,32), en quien se cumplen todas las promesas y todos los anhelos. El desafío para la misión de Pablo eran las diferencias culturales y religiosas. Él intenta garantizar la cohabitación de estas diversidades, presentándose como “deudor” de griegos y bárbaros (Rom 1,14). Lo importante es que, a partir de la fe, “todos vosotros sois uno en Cristo Jesús” (Gal 3,28).
Pablo se siente libre para evangelizar, porque todo lo que no sea para amar y hacer amar a Cristo, es “pérdida” (Fil 3,7). Continúa la misma misión de Cristo, como “siervo” y “apóstol” (Rom 1,1; Ef 1,1; Col 1,23). Y así puede afrontar la universalidad de situaciones, con la fuerza del mismo Cristo, con quien todo lo puede (cfr. Fil 4,13). Al Reino de Dios sólo se puede entrar “por muchas persecuciones” (Hech 14,22) y persecuciones (cfr. 2Cor 12,11). Su fuerza estriba en Cristo resucitado y en su Palabra viva.
La misión de Pablo se mueve entre la “kenosis” y la comunión, como camino crucial, camino de la cruz y de la resurrección, para entrar en el areópago de la interculturalidad y transformarlo en vivencias y realidades de comunión eclesial y humana.
El secreto del éxito estriba en su amor a Cristo que lo apremia a anunciar la buena nueva (cfr. 2Cor 5,14). Manifestó siempre un amor entrañable a judíos y paganos, dispuesto a sufrir amando por todos, imitando así la ternura del corazón de Cristo. Después de haber proclamado el evangelio en gran parte de la cuenca del Mare Nostrum (“desde Jerusalén hasta la Iliria”: Rom 15,19), expone a los romanos su deseo de llegar hasta el extremo de occidente: “como hace ya muchos años que deseo veros, confío en que, al fin, de paso para España, se logre mi deseo. Así lo espero… Partiré para España pasando por vuestra ciudad” (Rom 15,23-24.28). Probablemente llegó a España como exiliado, poco antes de ser apresado nuevamente y sufrir el martirio en Roma.
Él es sólo siervo y deudor del evangelio (cfr. Fil 2,22). Su “evangelio” es el mismo de todos los Apóstoles, pero insertado en situaciones culturales y sociológicas distintas (cfr. Rom 2,16; 16,25; Gal 2,2; 1Cor 1,17). Busca la “reconciliación” de todos con Dios en Cristo: “En nombre de Cristo os suplicamos: ¡reconciliaos con Dios!” (2Cor 5,20).
Su “kerigma” o primer anuncio es como la síntesis de toda su predicación: Cristo, Hijo de Dios hecho hombre, por obra del Espíritu Santo, muerto y resucitado, Mediador y Salvador, vive en su Iglesia y en el corazón de los bautizados (cfr. Rom 1,1ss; Gal 4,4-7, etc.). Dios nos ha elegido en Cristo ya antes de la creación del mundo y nos ha hecho hijos en el Hijo, perdonándonos los pecados en virtud de la sangre derramada de Jesús (cfr. Ef 1,3-14; Col 1,13-20). El objetivo de su acción pastoral consiste en “formar a Cristo” en cada creyente (Gal 4,19). En el Espíritu Santo y unidos a Cristo, ya podemos decir “Padre” a Dios, con el mismo amor de Cristo (cfr. Rom 8,5; Gal 4,6).
Se necesitan misioneros y pastores animados por el amor apasionado hacia Cristo, como Pablo. Pastores que conozcan, amen y anuncien a Cristo apasionadamente. Pastores que se entreguen a un celo apasionado por Cristo. Conocer y amar a Cristo íntimamente, agradecidamente y apasionadamente. Esto supone una actitud de relación y amistad, meditación constante e imitación (cfr. Gal 2,20; Fil 2,5). El apóstol no se predica a sí mismo, sino a Cristo (cfr. 2Cor 3,5-6; 4,2-6).
Puesto que el Espíritu Santo es quien sostiene la misión (cfr. Rm 5,5; 8,14-15), es posible adoptar hoy una total disponibilidad y creatividad para el servicio evangélico, también con el espíritu de mortificación, obediencia, perseverancia de Pablo.
E) La construcción de las comunidades eclesiales en la comunión:
Vinculado a Cristo y al evangelio, Pablo funda y visita comunidades. Tiende a crear células vitales (inicialmente pequeñas en número) en gran parte del Imperio: situadas a lo largo de las calzadas, donde se hablaba el griego “koiné” (común), aparte de sus propios idiomas.
El interés del apóstol se muestra especialmente en crear comunidades con la colaboración de todos, e informarlas sobre la situación de todas las demás. Así va formando una conciencia eclesial comunional y misionera.
En sus cartas se pueden encontrar descripciones bastante detalladas de las comunidades que él había fundado, para hacer realidad en ellas la salvación de Cristo, Hijo de Dios enviado por el Padre bajo la acción del Espíritu Santo. Distingue entre la asamblea o comunidad doméstica (cfr. 1Cor 16,19; Rom 16,5) y toda la Iglesia (cfr. 1Cor 14,23; Rom 16,23). También la “Iglesia” puede ser el conjunto de fieles de una ciudad (cfr. 1Cor 5,4-5), o una región (Gál 1,2) o el conjunto de todos los creyentes (cfr. Rom 16,16; 1Cor 11,16.22). Esta integración de las comunidades concretas, más bien pequeñas, en la gran comunidad eclesial, suponía romper con la mentalidad de creencias opuestas y de clasificación social dentro de la Iglesia. Ordinariamente eran comunidades urbanas, donde llegaban gentes de diversas etnias, culturas, religiones, condición social. Los cristianos intentaban superar esas barreras y consecuentemente eran mal vistos por los no creyentes.
Además de esas Iglesia domésticas en las urbes, Pablo habla de “toda la Iglesia” que se componía por todas las Iglesias de una ciudad (cfr. 1Cor 14,23; Rom 16,23). Podían ser “la Iglesia de Dios que está en Corinto” (1Cor 1,2) o en Filipo, Tesalónica, Éfeso, etc. Pablo suscitaba la comunión con otros “Iglesias” de la misma ciudad y de otras ciudades. En las comunidades paulinas, lo más importante es que Cristo está presente con la acción del Espíritu Santo según diversos carismas, tendiendo siempre a la vida de comunión (cfr. Rom 12,4-8; 1Cor 12,4-11), a partir de la Eucaristía (cfr. 1Cor 11). En esas comunidades hay especialmente apóstoles, profetas y maestros (Ef 4,11-13).
Mantuvo siempre la unidad de esas comunidades con la comunidad madre de Jerusalén, especialmente por medio de la “colecta” para los pobres. Pablo es experto en comunión porque es apóstol por medio de la “kenosis”, es decir, por medio de su propia humillación y servicio, sin buscar su proprio interés. Funda o guía comunidades, presentándose él mismo como modelo de “kenosis”: “Sed mis imitadores como yo lo soy de Cristo” (1Cor 11,1; cfr. 1Cor 4,16). Esta actitud humilde le sostuvo en momentos de dificultad, afianzando su comunión con quienes “eran considerados como columnas” (Gal 2,9). Por esto afirma con gozo: “nos tendieron la mano en señal de comunión a mí y a Bernabé” (ibídem).
Esta misión, que podríamos llamar también “kenótica” y “comunional”, hizo posible la transformación de la comunidad cristiana de Corinto, ciudad cosmopolita, amalgamada de riqueza y pobreza, de miserias e injusticias (como hoy nuestras metrópolis interculturales, industrializadas y secularizadas). Con su testimonio humilde de imitación del crucificado, podía pedir y exigir con plena autoridad: “No haya entre vosotros divisiones; antes bien, estéis unidos en una misma mentalidad y un mismo juicio” (1Cor 1,10).
La ciudad de Filipo se desenvolvía en un ambiente cosmopolita y comercial como Corinto, reflejando una comunidad que daba un tinte intercultural a los neófitos cristianos. En este contexto intercultural afirma el Apóstol: “Por lo demás, hermanos, todo cuanto hay de verdadero, de noble, de justo, de puro, de amable, de honorable, todo cuanto sea virtud y cosa digna de elogio, todo eso tenedlo en cuenta” (Fil 4,8).
El camino de comunión, que Pablo predica y vive con los cristianos de Filipo y de Corinto, es el mejor medio para construir la comunión, superando tensiones culturales y así llegar a la “comunión” con la Iglesia madre de Jerusalén (cfr. Hech 2,42-47; 4,32-33). El “Cuerpo” de Cristo, que es la Iglesia, es fruto de su Cuerpo eucarístico (cfr. 1Cor 10,17). La expresión “Cuerpo” de Cristo, aplicada la Iglesia, es exclusiva de Pablo. Se trata de la armonía entre los miembros de este mismo cuerpo; pero sobre todo, tiene como punto de referencia a Cristo vivo en su Iglesia, como Cabeza de la misma (cfr. Col 1,24). Por esto, “bautizados en un mismo Espíritu, somos un sólo cuerpo” (1Cor 12,13; cfr. 12,27-26).
Aunque en la Iglesia hay ministerios diferenciados, existe una igualdad fundamental entre todos los bautizados: “Todos vosotros sois uno en Cristo Jesús” (Gal 3,28), “miembros de un solo cuerpo” (Col 3,15). Todos somos “coherederos” de Cristo (Rom 8,17). En la Iglesia actúa “la gracia de Nuestro Señor Jesucristo, el amor del Padre, la comunión del Espíritu” (2Cor 13,13). Los carismas para la edificación mutua y armónica (cfr. 2Cor 12,7). Somos “familiares de Dios” (Ef 2,19), “casa de Dios” (1Tim 3,14). La “comunión” (“koinonía”) era el elemento aglutinante de los primeros cristianos (cfr. Hechos 2,42). En Pablo, la koinonía deriva de la unión con Cristo: “Habéis sido llamados a la comunión con su hijo Jesucristo, Señor nuestro” (1Cor 1,9). Es la “comunión” de sintonía y vivencia con el resucitado presente, también como fruto de la participación eucarística (cfr. 1Cor 10,16-17).
La “comunión” eclesial es reflejo y participación de la comunión trinitaria (cfr. 2Cor 13,13). Pablo suscitaba la “comunión” (“koinonía”) entre las diversas Iglesias y la Iglesia madre de Jerusalén (cfr. Rom 15,27). La “colecta” era expresión de koinonía y también agradecimiento por la acogida recibida en la Iglesia madre: “Santiago, Cefas y Juan, que eran considerados como columnas, nos tendieron la mano en señal de comunión a mí y a Bernabé: nosotros nos iríamos a los gentiles y ellos a los circuncisos” (Gal 2,9).
Para el Apóstol, la Iglesia es la comunidad de aquéllos que se reúnen en nombre de Cristo, la reunión de los que viven la santidad de hijos y el amor de hermanos en la plenitud del Espíritu. Es “la casa que Dios edifica” (1Cor 3,9). “Hay diversidad de dones, pero el Espíritu es el mismo. Hay diversidad de funciones, pero uno mismo es el Señor. Son distintas las actividades, pero el Dios que lo activa todo en todos es siempre el mismo” (1Cor 12,4-6).
F)Una Iglesia renovada por el espíritu apostólico de Pablo:
El amor de Cristo a su Iglesia, tal como lo describe Pablo (cfr. Ef 5,25-27), es una invitación constate a ver la realidad cultural e histórica, valorarla a la luz del evangelio y actuar en consecuencia, en vistas a una renovación o conversión pastoral y espiritual: “Dejaos reconciliar con Dios” (2Cor 5,20). La Iglesia es armonía de ministerios y de ministros diferenciados (Apóstoles, doctores o maestros y profetas...), guiados por la acción del mismo Espíritu Santo comunicado por Jesús resucitado presente.
Los nuevos areópagos de hoy dejan entrever los designios de Dios en Cristo Jesús, que reclaman una Iglesia que sea transparencia y signo portador de Jesús, “sacramento universal de salvación” (LG 48; AG 1). Ante estos nuevos areópagos, es necesario presentar un nuevo rostro de Iglesia, según el Espíritu de Jesús. Su centro es Jesús presente en sus diversos signos, también en el corazón de cada pueblo y cultura. Al apóstol y a toda la Iglesia, Jesús “le espera en el corazón de cada hombre” (RMi 88).
La Iglesia “peregrina” o “escatológica”, es “itinerante”, una Iglesia más libre y solidaria, desprendida de cargos y privilegios, plenamente dispuesta a evangelizar, porque todos sus miembros son discípulos y misioneros de Cristo. Evangelizar es su razón de ser. “Evangelizar constituye, en efecto, la dicha y vocación propia de la Iglesia, su identidad más profunda. Ella existe para evangelizar” (EN 14).
Ser Iglesia de Jesús, como expresión e instrumento suyo, es el gran desafío de nuestra época. “Aquí está el reto fundamental que afrontamos: mostrar la capacidad de la Iglesia para promover y formar discípulos y misioneros que respondan a la vocación recibida y comuniquen por doquier, por desborde de gratitud y alegría, el don del encuentro con Jesucristo. No tenemos otro tesoro que éste. No tenemos otra dicha ni otra prioridad que ser instrumentos del Espíritu de Dios, en Iglesia, para que Jesucristo sea encontrado, seguido, amado, adorado, anunciado y comunicado a todos, no obstante todas las dificultades y resistencias” (Documento conclusivo de Aparecida, V Conferencia General, CELAM, n.14).
La Iglesia se renueva en cada época para vivir con el entusiasmo de los primeros cristianos, siguiendo el ejemplo de Pedro y Pablo. En Pablo, la misión enraíza en el conocimiento humilde, en la confianza y en el amor de Cristo (cfr. 2Cor 5,14; Rom 8,35). “Finalmente, como si se tratara de un hijo nacido fuera de tiempo, se me apareció también a mí” (1Cor 15,8).
Pablo vive para transmitir lo que ha recibido (cfr. 1Cor 11,23). Esta “tradición” viene de Jesús y de los Apóstoles. “Un elemento típico del verdadero apóstol, claramente destacado por san Pablo, es una especie de identificación entre Evangelio y evangelizador, ambos destinados a la misma suerte”.[52]
La Iglesia es el signo portador de la presencia de Cristo a través del tiempo, en las diversas situaciones culturales y sociológicas. A la Iglesia se la renueva amándola como Cristo la ha amado (cfr. Ef 5,25). Amar a la Iglesia es servirla sin servirse de ella, buscando siempre no los propios intereses, sino “los intereses de Cristo Jesús” (Fil 2,21).
El espíritu eclesial de San Pablo ayudaría a vivir la realidad de la Iglesia misterio de comunión misionera. La recta aplicación del Vaticano II necesita mucho amor a la Iglesia, de suerte que personas y comunidades se sientan como signo comunitario de Cristo resucitado presente. Las cuatro Constituciones conciliares son una pauta siempre actual, porque se trata de la Iglesia misterio o sacramento, expresión e instrumento de Cristo (LG), Iglesia de la Palabra (DV), Iglesia del misterio pascual (SC), Iglesia insertada en el mundo (GS). Así es la Iglesia como misionera por su misma naturaleza (AG).
Una Iglesia evangelizadora, como transparencia e instrumento de Cristo, es una Iglesia “santa e inmaculada” (Ef 5,27). En ella está presente y se proclama el misterio de Cristo: “El Misterio escondido desde siglos en Dios… para que la multiforme sabiduría de Dios sea ahora manifestada… mediante la Iglesia” (Ef 3,9-10).
G)La espiritualidad misionera de San Pablo:
Pablo no duda de su identidad. “No me avergüenzo del Evangelio, que es una fuerza de Dios para la salvación de todo el que cree: del judío primeramente y también del griego” (Rom 1,16-17; cfr. 2Tim 1,6). Pablo está dedicado de por vida anunciar el “misterio” de Cristo, “escondido” por los siglos y ahora “manifestado” (cfr. Ef 3,4-10). Cristo resucitado es poder, fuerza y salvación para todos.
Jesús resucitado daba sentido a su vida: “No tengas miedo, sigue hablando y no calles; porque yo estoy contigo y nadie te pondrá la mano encima para hacerte mal, pues tengo yo un pueblo numeroso en esta ciudad” (Hech 18,9-10). Es como si el mismo Cristo le llamara desde el corazón de cada ser humano y de cada pueblo: “Ven a ayudarnos” (Hech 16,9).
Al cristiano, llamado desde el bautismo a la santidad y al apostolado, se le ofrece esta pauta de “espiritualidad”: “Si vivimos según el Espíritu, obremos también según el Espíritu” (Gal 5,25). Para Pablo, el “mandato” o la “urgencia” misionera deriva del amor: “La caridad de Cristo me urge” (2Cor 5,14). “Os celo con el celo de Dios” (2Cor 11,2). “Como una madre cuida con cariño de sus hijos” (1Tes 2,7; cfr. Gal 4,19). “He sido yo quien, por el Evangelio, os engendré en Cristo Jesús” (1Cor 4,15). “Por mi parte, muy gustosamente gastaré y me desgastaré totalmente por vuestras almas” (2Cor 12,15). Dispuesto al martirio. “Amándoos, daros nuestra vida” (1Tes 1,8). “¿Quién nos separará del amor de Cristo? ¿la angustia?, ¿la persecución?, ¿el hambre?, ¿la desnudez?, ¿los peligros?, ¿la espada?... Pero en todo esto salimos vencedores gracias a aquel que nos amó” (Rom 8,35.37). Es la pauta trazada por el mismo Jesús para Pablo: “Instrumento escogido para llevar ni nombre antes las naciones” (Hech 9,15).
Vivir en Cristo equivale a relación íntima, imitación, transformación en él. Esta espiritualidad misionera de Pablo se concreta en compartir la misma vida de Cristo: Ser “prisionero de Cristo Jesús” (Fil 1,7), tenido “como un malhechor” (2Tim 2,9), para poder reflejar “en mi cuerpo las llagas de Jesús” (Gal 6,17). Es embajador en cadenas, haciendo de su vida una “libación” (Fil 2,17).
La fuerza de Pablo y de toda la misión cristiana consiste en la imitación de la actitud de Cristo, “quien, siendo rico, se hizo pobre a fin de que os enriquecierais con su pobreza” (2Cor 8,9). Esto supone “vaciarse” del propio interés, para hacerse uno con los demás, sea lo que sea de donde provengan. Así entra en los corazones y en las culturas el evangelio de la “kenosis” y de la comunión eclesial. Entonces toda comunidad cristiana se hace un himno de caridad (cfr. 1Cor 13), donde todos se esfuerzan por cumplir esta norma: “haced todo con amor” (1Cor 16,14)
Afirma Redemptoris Missio: “Al misionero se le pide « renunciarse a sí mismo y a todo lo que tuvo hasta entonces y a hacerse todo para todos: en la pobreza que lo deja libre para el Evangelio; en el despego de personas y bienes del propio ambiente, para hacerse así hermano de aquellos a quienes es enviado y llevarles a Cristo Salvador. A esto se orienta la espiritualidad del misionero: « Me he hecho débil con los débiles... Me he hecho todo para todos, para salvar a toda costa a algunos. Y todo esto lo hago por el Evangelio » (1 Cor 9, 22-23)” (RMi 88).
Por esto, a Pablo el servicio apostólico no le engríe, sino que le ayuda a ser agradecido a la misericordia divina, como “el menor de los Apóstoles” (1Cor 15,9). Todavía al final de su vida, se reconoce un “pecador”, ya renovado y enviado a los otros pecadores para anunciar el perdón. “La gracia de Dios no ha sido estéril en mí” (1Cor 15,10). “Cristo Jesús vino al mundo a salvar a los pecadores; y el primero de ellos soy yo” (1Tim 1,15).
Su intimidad con Cristo se refleja en su amor a la Iglesia. Vive en Cristo (cfr. Fil 1,21; Gal 2,20), imitando sus “sentimientos” (Fil 2,5), puesto que “Cristo amó a su Iglesia y se entregó a sí mismo por ella” (Ef 5,25).
La vida apostólica, para poder reflejar el evangelio de Jesús, tiene que ser de “gratuidad”: “Sé andar escaso y sobrado. Estoy avezado a todo y en todo: a la saciedad y al hambre; a la abundancia y a la privación” (Fil 4,12). Por esto se dedica a “predicar el evangelio entregándolo gratuitamente” (1Cor 9,18), “no he buscado oro ni plata” (Hech 20,33), porque, dice citando a Jesús: “Hay más felicidad en dar que en recibir” (Hech 20,35).
Así puede “servir” y “gastarse” por el evangelio y por el bien de los demás (cfr. 2Cor 12,15), llevando en su corazón y contagiando a los demás “la preocupación por todas las Iglesias” (2Cor 11,28), y “proclamar la Palabra... a tiempo y a destiempo” (2Tim 4,2), porque “la Palabra de Dios no está encadenada” (2Tim 2,9).
Su vida, en y con Cristo, fue un vaciarse de sí mismo en favor del Evangelio como enviado para anunciar a Jesucristo muerto y resucitado. “Pablo, apóstol no por disposición ni intervención humana alguna, sino por encargo de Jesucristo y de Dios Padre que lo resucitó triunfante de la muerte” (Rom 1,1). “Sé en quien he puesto mi confianza” (2Tim 1,12). Su vida no es suya, porque ya sólo pertenece a Jesús: “He sido conquistado por Cristo Jesús” (Fil 3,12). Así es la verdadera “autoestima” cristiana.
La misión encargada es la misma de Cristo y, por tanto, no tiene fronteras: “Dios me reveló a su Hijo y me dio el encargo de anunciar su mensaje evangélico a los que no son judíos” (Gál 1,16). “La fuerza salvadora de Dios alcanza a todos los creyentes por medio de la fe en Jesucristo. A todos sin distinción... por su benevolencia los restablece en su amistad de forma gratuita mediante la liberación realizada por Cristo Jesús” (Rom 3,22.24).
Las dificultades de la evangelización, transformadas en amor, se convierten en fecundidad apostólica. Es la “cruz” que manifiesta la fuerza de la debilidad. La “cruz” es poder salvador de Dios “para los llamados” (Rom 1,24). Ante los nuevos retos de la evangelización, la única fuerza eficaz deriva de la cruz, que es “fuerza de Dios y sabiduría de Dios” (1Cor 1,24). El “misterio de Cristo” (Ef 3,4) es “esperanza de la gloria” (Col 1,27), porque Cristo es “nuestra paz... por medio de la cruz” (Ef 2,14.18).[53]
A MODO DE CONCLUSIÓN:
La invitación de los documentos magisteriales, conciliares y postconciliares, sobre los nuevos areópagos de la actualidad, es una urgencia para responder por medio de un discernimiento y una programación misionera que se inspire en la figura del Apóstol de las gentes, como trasunto de Cristo Buen Pastor.
Ante los nuevos areópagos y teniendo en cuenta la figura de Pablo, se entiende mejor que “evangelizar es, ante todo, dar testimonio, de una manera sencilla y directa, de Dios revelado por Jesucristo mediante el Espíritu Santo. Testimoniar que ha amado al mundo en su Hijo” (EN 26). Los nuevos areópagos necesitan ser afrontados a partir de un encuentro personal y comunitario con Cristo. Sólo así aparece la armonía entre Cristo, que está presente en la Iglesia y en el mundo, y el apóstol que está llamado a dedicarse apasionadamente a la misión inculturada y sin fronteras.
El estilo “nuevo” de apóstol y de toda comunidad eclesial, es de una profunda relación personal e íntima con Cristo, de amor incondicional a la Iglesia, de disponibilidad sin fronteras, de gratuidad, servicio, humildad y de asociación a Cristo crucificado y resucitado. Esto se aprende especialmente en la celebración litúrgica del misterio pascual de Cristo y en la contemplación de su Palabra como proceso de “lectio divina”.
La Palabra de Dios, cuando da fruto abundante en el corazón de los apóstoles, puede cambiar profundamente el corazón del hombre. Es la Palabra que se hace “pan de vida” en la Eucaristía y que de este modo construye la comunidad como “Cuerpo” de Cristo, donde reina la caridad. La semilla evangélica es la Palabra de Dios que ya se empezó a sembrar en el corazón de los primeros padres y de toda la humanidad, pero que se ha hecho personalmente presente en la historia, por medio de Jesús de Nazaret, el Hijo de Dios hecho hombre, muerto y resucitado.
La “buena semilla” (Mt 13,24) necesita encontrar la “tierra buena”, el “corazón bueno” (Lc 8,15), donde pueda germinar. La comunidad del resucitado se tiene que caracterizar por la descripción que de ella hizo el mismo Jesús: “Mi madre y mis hermanos son... los que escuchan la Palabra de Dios y la cumplen” (Lc 8,21).
La respuesta de la Iglesia para afrontar los nuevos areópagos, es como el “sí” de María, a modo de nueva maternidad apostólica y eclesial (cfr. Gal 4,4.19.26). Es un proceso de dejarse sorprender como María, por el misterio de Dios Amor, que, “al llegar la plenitud de los tiempos, ha enviado a su Hijo nacido de la mujer” (Gal 4,4). La capacidad de contemplación y de asombro ante el misterio de Dios que irrumpe en la historia, se convierte en confianza y audacia de nuevos apóstoles, “gozosos en la esperanza” (Rom 12,12), “esperando contra toda esperanza” (Rom 4,18).
[1]La lista de retos que se describen (cfr. TMa 36-38) es parecida a la de la encíclica Redemptoris Missio (resumida más arriba) y a los retos que veremos en el apartado siguiente. La carta apostólica Novo Millennio Ineunte (2001), también de Juan Pablo II, invita a “ser testigos del amor” para afrontar estos retos del presente (NMi 42-57).
[2]BENEDICTO XVI, Homilía durante la celebración de las primeras vísperas de la solemnidad de San Pedro y San Pablo, 28 de junio de 2007, en la basílica de San Pablo.
[3]BENEDICTO XVI, Mensaje para la jornada mundial de las misiones 2008 (publicado el 11 mayo de 2008). Como Pablo, así también el apóstol de hoy “está llamado a preocuparse de las personas lejanas que todavía no conocen a Cristo, o que todavía no han experimentado su amor, que libera... La missio ad gentes se convierte así en el principio unificador y convergente de toda su actividad pastoral y caritativa” (ibídem).
[4]BENEDICTO XVI, Catequesis durante la Audiencia del miércoles 19 noviembre 2008.
[5]BENEDICTO XVI, Homilía en la inauguración de su Pontificado (24 de abril de 2005).
[6]La colaboración que se ha recibido de personas consultadas (Cardenales, Obispos, Consultores, Teólogos, Pastoralistas) proviene de los diversos sectores continentales. Se han presentado reflexiones sintéticas y prácticas, señalando realidades actuales (los nuevos “areópagos”), aplicaciones concretas al propio país, siempre teniendo en cuenta la actualidad de la figura y de la doctrina de San Pablo.
[7]Sobre la llamada actual a la santidad, ver las diversas exhortaciones apostólicas postsinodales sobre cada Continente: EEu n.14, EAm nn.30-31; EAf n.136; EO n. 30. Citamos estas exhortaciones (de gran valor misionero universal) indicando su sigla: Ecclesia in Africa EAf (1995); Ecclesia in America EAm (1999); Ecclesia in Asia EAs (1999); Ecclesia in Oceania EO (2001); Ecclesia in Europa EEu (2003).
[8] Cfr. EEu nn.3, 20), EAf nn.77, 106 (testimonio).
[9]Ver el mensaje que Benedicto XVI ha escrito para la Jornada Mundial de las Comunicaciones Sociales del año 2009, 24 mayo, sobre el tema: Nuevas tecnologías, nuevas relaciones. Promover una cultura de respeto, de diálogo y amistad.
[10]Cfr. IM (todo el documento); AG 26; EN 45; RMi 37; CEC 2493-2499; CIC 822-832; EEu n.63, EAm n.72, EAs n.48, EAf nn.52, 71, 124-125, EO n.21.
[11]Ver otros documentos: GS 6, 27, 66, 84, 87; AG 20; AA 10; ChD 16, 18. Carta Ap. Stella Maris (21.1.97). También: Carta conjunta a las Superioras y Superiores Generales de los Institutos de vida consagrada y de las sociedades de vida apostólica sobre los emigrantes (Ciudad del Vaticano, 13 de mayo de 2005); (Pont. Consejo Pastoral Emigrantes e Itinerantes) Orientaciones para una pastoral de los gitanos (8 diciembre 2005).
[12]El nuevo areópago de la postmodernidad está relacionado con el tema del diálogo intercultural (ver más abajo).
[13]La encíclica Fides et Ratio (1998) da pautas muy profundas y prácticas.
[14]“Semillas del Verbo” y “preparación evangélica”, son expresiones patrísticas citadas por el concilio Vaticano II (cf. AG 3, 11 y LG 16-17).
[15]Cfr. AG 3,9,11; LG 16; DH 2,10; NAE 1-5; ES 101; EN 53,77; RH 6,11-12; RMi 29,55-57; EAm nn.50-51, EAs n.31, EAf nn.65-67, EO n.25, EEu n.15.
[16]Cfr. LG 13,17; GS 44; AG 3,10-11,22; EN 20,53,63; RH 12; SA (todo el documento); RMi 52-54; CA 24,50,51; PDV 55; CEC 1204-1206; VC 79-80; Eu n.58 (necesidad de inculturación), EAs nn. 21-22; EAf nn.55-70 (urgencia, necesidad, fundamentos teológicos, criterios y ámbitos, campos de aplicación), n.78 (inculturar la fe); EO n.16.
[17]Instrumento de trabajo para el 2º Sínodo de África de 2009, n.73.
[18]BENEDICTO XVI, Mensaje para la jornada mundial de las misiones, 2008 (publicado el 11 mayo de 2008). Ver también: Mensaje a los jóvenes del mundo con ocasión de la XXIV Jornada Mundial de la Juventud 2009; este último mensaje termina con una oración mariana en la que, después de citar a San Bernardo, dice: “María, Estrella del mar, guía a los jóvenes de todo el mundo al encuentro con tu divino Hijo Jesús, y sé tú la celeste guardiana de su fidelidad al Evangelio y de su esperanza”.
[19]Mensaje a los jóvenes del mundo con ocasión de la XXIV Jornada Mundial de la Juventud 2009 (publicado el 21 de febrero de 2009).
[20]Cfr. AA 12; GS 7, 52, 75, 88; GE 1-6; ChD 14, 30; OP 6; IM 10-12; EN 72; RMi 37, 80; CEC 1632, 2688. Documento de Puebla 1166-1205; documento de Santo Domingo 111-120. EEu n.61; EAm n.47: esperanza de la Iglesia; EAs n.47, EAf n.93, EO, n.44.
[21]BENEDICTO XVI, Catequesis (paulina) durante la audiencia del miércoles 15 de octubre de 2008.
[22]Cfr. LG 23; ChD 11; AG 19-20; EN 62-64; RMi 48-49, 64, 89; OE 2-6; CEC 832-835, 1560; CIC 368-374. Ver también: Pastores Gregis n.65 (toda Iglesia particular debe abrirse responsablemente a la Iglesia universal).
[23]BENEDICTO XVI, Mensaje para la jornada sobre las vocaciones, 3 mayo 2009.
[24]Cfr. LG 30-38; AA; GS 38, 43; AG 2, 6, 13, 21, 41; EN 70-75; CFL 7-8, 64; RMi 71-74; CEC 897-913; CIC 224-231; Santo Domingo 94-103; EEu n.41; EAm n.44, EAs n.45, EAf n.90, EO n.43.
[25]Otros documentos: PC (todo el documento); LG 43-47; AG 18, 40; EN 69; RMi 69-70; VC 72-74, 77-78; CEC 914-933; CIC 573-730; ET; RD; EEu n.37; EAm n.43, EAf n.94, EAs n.44, EO nn.51-52.
[26] Cfr. PO; PDV; Directorio para el ministerio y la vida de los sacerdotes; CEC 611, 1120, 1548-1568. Cfr. EEu n.34; cfr. EAm n.39, EAf nn.97-98; EAs n.43; EO n.49.
[27]Sobre el laicado: Christifideles Laici (1988) nn.3-6. Sobre la formación sacerdotal: Pastores dabo vobis (1992) nn. 5-10. Sobre la vida consagrada: Vita consecrata (1996) nn.63 y 84 (profetismo), n.85 (mundo contemporáneo), nn.87ss (los grandes retos de la vida consagrada); ver también: Caminar desde Cristo (Congregación para los Institutos de Vida Consagrada, 2002) nn.45-46 (retos actuales). También la exhortación postsinodal Pastores Gregis (2003), sobre el obispo servidor del evangelio, presenta retos semejantes al final del documento (cap.VII), invitando a una acción evangelizadora llena de esperanza: justicia y paz, diálogo interreligioso, vida social y económica actual, respeto del ambiente, el campo de la salud, los emigrantes... (nn.66-72).
[28]El Papa Juan Pablo II, en Mulieris dignitatem (1988) y en la carta a las mujeres (29 de junio de 1995), da gracias por la mujer como madre, esposa, hija, hermana, trabajadora, consagrada.
[29]Otros documentos: GS 8-9, 29, 49, 52, 60; 67; AA 9: MD (todo el documento); FC 6, 22-25; CFL 49; RMa 24-25, 37; VC 57; EAf 121; CEC 369-373, 1577, 2331-2336.
[30]Discurso de Juan Pablo II a los habitantes de la « Favela Vidigal » en Río de Janeiro, 2 de julio de1980, 4: AAS 72 (1980) 854. cfr. EEu n.85; cfr. EEu 86; EAm nn.52-55, 58: caridad, solidaridad; EAf nn.138-139: solidaridad; EAs n.34.
[31]Ver la encíclica Deus Caritas est, especialmente la segunda parte. También: EEu n.88; cfr. EAm nn.18, 30, 63; EAf nn.68, 116; EAs nn.35-36; EO n.34. Hay que tener en cuenta la realidad de nuevas enfermedades, especialmente el azote del SIDA, buscando solucione auténticas para su erradicación y para su curación, independientemente de los intereses económicos egoístas. Sobre la pastoral de la salud: CEC 1502-1510, 2288-91.
[32]BENEDICTO XVI, Mensaje para la Jornada Mundial de la Paz, “familia humana, comunidad de paz” (1 enero 2008) 10. Cfr. GS 47-52; AA 11; EN 71; RMi 80; FC (todo el documento); CEC 1655-1657, 2196-2233, 2685; EEu n.101; cfr. EAm n.46, EAs n.46. EAf nn.80-85, 92, EO n.45.
[33]Cfr. EEu n.50-51; EAm n.69-70: catequesis y evangelización de la cultura; EAf n.91: catequistas; EO n.22.
[34]Se nota en la formación de los futuros apóstoles una carencia del enfoque teológico a la luz del misterio de Cristo:“En la revisión de los estudios eclesiásticos hay que atender, sobre todo, a coordinar adecuadamente las disciplinas filosóficas y teológicas, y que juntas tiendan a descubrir más y más en las mentes de los alumnos el misterio de Cristo, que afecta a toda la historia del género humano, influye constantemente en la Iglesia y actúa, sobre todo, mediante el ministerio sacerdotal” (OT 14).
[35]Cfr. AG 24-25; OT 4, 19-21; RMi 83.
[36]Cfr. RMi 2-3, 30, 33, 59, 72-73, 83, 85-86; CA 5; VS 107; EAm 63; Puebla 366; Santo Domingo 23-30. EEu 37, 55, 60. Ver también: EAm 6 y todo el cap.VI (la nueva evangelización); EAf 57.
[37]Cfr. LG 42; AG 24; DeV 60; EN 76; RMi 42: CEC 2473-2474; VS 89, 92-93; TMa 37; EEu n.13; EAs n.49.
[38]Cfr. SC 10, 47-58; LG 11; PO 5-6; CEC 610-611, 1322-1419; CIC 807-958. Encíclica Mysterium Fidei (Pablo VI); Carta Apostólica Dominicae cenae (Juan Pablo II); Encíclica Ecclesia de Eucharitia (Juan Pablo II); Carta Apostólica Mane nobiscum domine (Juan Pablo II); Exhortación Apostólica postsinodal Sacramentum caritatis (Benedicto XVI).
[39]Cfr. LG 15; UR (todo el documento); EN 77; UUS; CEC 820-822, 855-856; EEu n.53-54; EAm n.49; EAs nn.29-30; EAf n.65; EO n.23.
[40]Exhortaciones postsinodales sobre cada Continente (que ya hemos cetado más arriba, son sus siglas): Ecclesia in Africa (1995); Ecclesia in America (1999); Ecclesia in Asia (1999); Ecclesia in Oceania (2001); Ecclesia in Europa (2003), Ver el instrumento de trabajo para el 2º Sínodo sobre África. Lo consignó personalmente Benedicto XVI a los presidentes de las Conferencias Episcopales africanas, el jueves 19 de marzo en Yaoundé (Camerún), con ocasión de su viaje al continente (Camerún y Angola), 17 al 23 marzo 2009. La segunda Asamblea del Sínodo de Obispos sobre África, Roma, 4-25 octubre 2009, sobre el tema: La Iglesiaen África al servicio de la reconciliación, de la justicia y de la paz. “Vosotros sois la sal de la tierra... Vosotros sois la luz del mundo” (Mt 5,13-14)”.
[41]Ver una síntesis histórica y un resumen de la actualidad misionera africana en la exhortación apostólica Ecclesia in Africa, cap.II. El Instrumento de trabajo para el 2º Sínodo de África afirma: “A la luz del Espíritu Santo, las Iglesias particulares afirman que en el corazón herido del hombre anida la causa de todo lo que desestabiliza el continente africano” (n.11). Se describe a la Iglesiacomo familia de Dios, al servicio de la justicia, de la paz y de la conciliación. Es la justicio y la paz del Reino, para cuya realización se necesitan programas adecuados de formación.
[42]Ecclesia in America señala: el fenómeno de la globalización (n.20), la urbanización creciente (n.21), el peso de la deuda externa (n.22 y 59), la corrupción (n.23 y 60), el comercio y consumo de drogas (n.24 y 61), el poco respeto a la ecología (n.25), los pecados sociales (n.56), la cultura de muerte (n.63), los pueblos indígenas y de origen africano (n.64), los inmigrantes (n.65), el desafío de las sectas (n.73).
[43]Ver Ecclesia in Asia: cap.I, nn.5-9 (contexto religioso, cultural, económico, social), la globalización (n.39), la deuda externa (n.40), el ambiente (n.41). Ecclesia in Africa: problemas actuales de divisiones y degradación de la familia (nn.46-52), el SIDA (n.116), las guerras (n.117), los refugiados y prófugos (n.119), la deuda internacional (n.120), la mujer (n.121).
[44]Ver Ecclesia in Oceania: los derechos humanos no atendidos (n.27), los pueblos indígenas poco valorados (n.28), la poca ayuda para el desarrollo (n.29), el deterioro del ambiente (n.31).
[45]Ver Ecclesia in Europa nn.7-17.
[46]BENEDICTO XVI, Mensaje a los jóvenes del mundo con ocasión de la XXIV Jornada Mundial de la Juventud 2009.
[47]BENEDICTO XVI: Homilía durante la celebración de las primeras vísperas de la solemnidad de San Pedro y San Pablo, 28 de junio de 2008, en la inauguración del año paulino en la basílica de San Pablo extra muros.
[48]BENEDICTO XVI, Catequesis durante la audiencia del miércoles 24 septiembre 2008.
[49]Este universalismo inculturado y de inserción en todos los areópagos de la época, ha sido subrayado por las numerosas catequesis de Benedicto XVI durante el año paulino. Además de las cuatro catequesis paulinas del inicio de su pontificado (25 de octubre, y 8, 15 y 22 de noviembre del año 2006), Benedicto XVI ha desarrollado otras 20 catequesis paulinas en el decurso del año dedicado a San Pablo. En el año 2008: 2 de julio, 27 de agosto; 3, 10 y 24 de septiembre; 9, 15, 22 y 29 de noviembre; 3 y 10 de diciembre. En el año 2009: 7, 14 y 28 de enero; 6 de febrero.
[50]BENEDICTO XVI: Homilía durante las primeras vísperas en la inauguración año paulino, 28 de junio de 2008.
[51]BENEDICTO XVI, Mensaje para la jornada mundial de las misiones 2008..
[52]BENEDICTO XVI, Catequesis sobre San Pablo, durante la audiencia del miércoles 10 septiembre 2008.
[53]Redemptoris Missio 88 cita el texto completo de Fil 2,7ss, como base de la espiritualidad misionera.
ESPIRITUALIDAD SACERDOTAL EN RELACION CON EL CARISMA EPISCOPAL
Escrito por Super UserESPIRITUALIDAD SACERDOTAL EN RELACION CON EL CARISMA EPISCOPAL
Juan Esquerda Bifet
Sumario:
1.El carisma episcopal y la espiritualidad sacerdotal. Presentación y delimitación del tema
2.Una realidad de gracia delineada con claridad: la espiritualidad sacerdotal en el Presbiterio
3.La puesta en práctica de la espiritualidad sacerdotal por medio del proyecto de vida en el Presbiterio
4.La necesidad teológica del carisma episcopal para la vida sacerdotal
5.Líneas conclusivas: unas propuestas factibles
* * *
1. El carisma episcopal y la espiritualidad sacerdotal. Presentación y delimitación del tema
La espiritualidad específica del sacerdote, particularmente del sacerdote llamado "diocesano" o "secular", tiene una relación de dependencia directa respecto al carisma del propio obispo.[1]
Este carisma, recibido en el sacramento del Orden y relacionado con la misión eclesial, apunta principalmente no a las cuestiones de administración, sino a la realidad de gracia de cada súbdito y, de modo especial, de cada sacerdote (presbítero) y diácono del Presbiterio.
Mi reflexión sobre esta realidad de gracia la he ido elaborando en sentido "transversal", durante largos años de estudio teológico y docencia universitaria sobre la espiritualidad sacerdotal (de todo sacerdote ministro, obispo y presbítero), mientras, al mismo tiempo, iba observando las realidades existentes en diversos Presbiterios.[2]
No intento responder directamente al ruego que me han hecho repetidas veces sobre la elaboración de una síntesis de espiritualidad episcopal. Una espiritualidad específica del obispo existe, puesto que responde a la gracia especial recibida en el sacramental del Orden; pero en ningún modo es una espiritualidad aparte del Presbiterio, puesto que obispos y presbíteros forman una unidad especial.[3]
La peculiaridad de la espiritualidad episcopal está ligada esencialmente al hecho de ser cabeza del Presbiterio y a la exigencia de orientar la gracia recibida hacia la santificación de sus presbíteros (además de todos los fieles de la Iglesia particular). Pero mi reflexión se orienta directamente hacia el Presbiterio, donde los presbíteros y diáconos necesitan, para vivir su propia espiritualidad específica, la actuación del carisma episcopal.[4]
En mis estudios sobre la historia de la espiritualidad sacerdotal he constatado un vacío, especialmente respecto a la urgencia actual de llevar a efecto las directrices trazadas por el concilio y postconcilio del Vaticano II. Muchas de estas directrices quedan sin aplicar a la vida sacerdotal del Presbiterio, por no dejar actuar el carisma episcopal.[5]
Se han dado pasos muy importantes en esta cuestión fundamental, pero me parecen insuficientes. Veo en todo ello un caso parecido a las decisiones del concilio de Trento respecto a los Seminarios. Entonces se cumplió la decisión de instituir estos centros formativos, pero no se llevó a efecto, en general, el deseo de Trento: que los obispos, renovando la pastoral de la diócesis (y de la catedral), plasmaran en los Seminarios la "vida apostólica" o vida al estilo de los Apóstoles.[6]
Para comprender mejor lo que intento decir, bastaría leer el canon 245, que urge a los futuros sacerdotes (durante su período de formación en el Seminario) a prepararse para vivir la vida fraterna en el Presbiterio: ..."los alumnos... mediante la vida en común en el Seminario, y los vínculos de amistad y compenetración con los demás, deben prepararse para una unión fraterna con el Presbiterio diocesano, del cual serán miembros para el servicio de la Iglesia" (can. 245). Pero, en buena lógica, un seminarista se preguntará: ¿dónde queda descrito este Presbiterio? ¿cuál es su proyecto de vida?...[7]
Son muchos los textos conciliares y postconciliares que hacen referencia a esta relación de dependencia del presbítero respecto al obispo, en todos los campos de la vida y del ministerios sacerdotal. Cada uno de los "tria munera" incluyen esta relación estrecha entre obispo y presbíteros[8]. En las visitas "ad Limina", es frecuente que el Santo Padre recuerde con insistencia a los obispos esta relación, invitándoles a ponerla en práctica.[9]
La Asamblea ordinaria del Sínodo de los Obispos, programada para el año 2.000, estudia el tema del obispo. En los "Lineamenta" para este Sínodo se resume la relación entre el obispo y sus sacerdotes con estas palabras: "Junto con los sacerdotes de su Presbiterio, tiene que recorrer los caminos específicos de espiritualidad en cuanto llamado a la santidad por el nuevo título derivado del orden sagrado" (Lineamenta, n.89).[10]
2. Una realidad de gracia delineada con claridad: la espiritualidad sacerdotal en el Presbiterio
El proceso de reflexión y de concientización sobre la espiritualidad sacerdotal ha llegado a un momento culminante en el siglo XX, gracias a las figuras sacerdotales de todas las épocas, a la doctrina patrística, a los documentos magisteriales y a los estudios teológicos.[11]
Lo más importante de esta síntesis teológica sobre la espiritualidad sacerdotal, consiste en haber llegado a individualizar las realidades de gracia, de las que deriva la espiritualidad del sacerdote, como vivencia de lo que uno es y hace. La reflexión teológica queda siempre abierta a nuevas especulaciones. Hoy ya es relativamente fácil individualizar los trazos más salientes de la fisonomía sacerdotal.[12]
Sería bueno poner ya en práctica estas líneas de espiritualidad en el Presbiterio de la Iglesia particular, sin entretenerse demasiado en nuevas pesquisas que intenten escapar de lo que ya es claro, aunque todavía no asimilado y puesto en práctica. Urge presentar una síntesis clara, ordenada y entusiasmante. Ello es posible, gracias especialmente a los documentos magisteriales y a las figuras de santos sacerdotes (especialmente los beatificados o canonizados).[13]
La espiritualidad eclesial de toda la comunidad sería una abstracción, si cada una de las vocaciones (laical, religiosa, sacerdotal) no viviera su propio carisma, para compartirlo con los demás en comunión eclesial de hermanos (sin prevalencias, exclusivismos y privilegios). La espiritualidad sacerdotal aporta el servicio de unidad y coordinación entre todas las vocaciones, ministerios y carismas; el sacerdote diocesano tiene esta peculiaridad de coordinación de todos los carismas, sin exclusivismos ni exclusiones, bajo la guía de quien preside la caridad.[14]
La espiritualidad sacerdotal corresponde a la vivencia de su propio ser y misión. Se participa en el ser o consagración sacerdotal de Cristo, para representarle como Cabeza, Pastor, Sacerdote, Siervo y Esposo (cfr. PO 1-3; PDV 11-13). Jesucristo, ungido y enviado por el Espíritu Santo (cfr. Lc 4,18), prolonga su ser y lo expresa en "los suyos" (Jn 13,1; 17,10).[15]
Es la espiritualidad que corresponde al hecho de prolongar su misma misión de anuncio (kerigma), cercanía salvífica y donación sacrificial. En el diálogo de Cristo con el Padre, aflora esta misión común que se prolonga en la historia (cfr. Jn 17,18) y que Jesús confía explícitamente en su resurrección y ascensión (cfr. Jn 20,21; Mt 28,19-20).[16]
Por ser "instrumentos vivos de Cristo Sacerdote" (PO 12), la espiritualidad de los sacerdotes ministros se delinea como caridad pastoral, es decir, como "ascesis propia del pastor de almas" (PO 13). Esta espiritualidad se realiza "ejerciendo los ministerios incansablemente en el Espíritu de Cristo" (PO 13) y se expresa sin dicotomías en "unidad de vida" o armonía entre vida interior y acción apostólica (PO 14).[17]
Es espiritualidad según el estilo de vida de los Apóstoles, como "signo personal y sacramental" de cómo amó el Buen Pastor (PDV 16). Los "Apóstoles" y sus sucesores están llamados a vivir el seguimiento evangélico radical, en comunión fraterna y con disponibilidad misionera (Mt 4,19ss; 19,27ss; Mc 3,14; PDV 15-16, 60). Así comparten esponsalmente la misma vida del Señor (Mc 10,38; PDV 22, 29) y son signo de cómo amó él (Jn 17,10; PDV 49).
Como dato específico de la espiritualidad del sacerdote diocesano, habrá que tener en cuenta unas realidades de gracia que matizan su espiritualidad sacerdotal. Las realidades de gracia de todo sacerdote (consagración por el carácter, seguimiento evangélico al estilo de los Apóstoles, fraternidad, misión que prolonga la misión de Cristo), quedan matizadas por la caridad pastoral como determinante, la dependencia pastoral y espiritual respecto al obispo, la pertenencia permanente (por la incardinación) a la Iglesia particular y al Presbiterio diocesano.
La realidad de gracia del Presbiterio matiza la espiritualidad sacerdotal diocesana de modo determinante (cfr. PO 8; LG 28; PDV 31, 74-80; ChD 28; Puebla 663; Dir. 25-28). Es una "fraternidad sacramental" (PO 8), o "íntima fraternidad" exigida por sacramento el Orden (LG 28), signo eficaz de santificación y evangelización. Por esto, el Presbiterio es "mysterium" y "realidad sobrenatural" (PDV 74), que matiza la espiritualidad de sus componentes, en el sentido de pertenecer a una "familia sacerdotal" (ChD 28; PDV 74). Consecuentemente, la fraternidad del Presbiterio es "lugar privilegiado", donde todo sacerdote (especialmente el diocesano o "secular", por estar "incardinado"), puede "encontrar los medios específicos de santificación y evangelización" (Directorio 27). Entonces la fraternidad del Presbiterio llegará a ser "un hecho evangelizador" (Puebla 663).[18]
La realidad de gracia, de pertenecer de modo permanente al Presbiterio, no es exclusiva ni excluyente. Todo sacerdote pertenece al Presbiterio, pero esa pertenencia de gracia, en el caso de la incardinación, puede ser más permanente (como lo es para el religioso la pertenencia a su institución).[19]
Estas realidades de gracia se resumen, pues, en consagración y misión, como signo personal y sacramental del Buen Pastor, en línea de caridad pastoral (virtudes evangélicas en relación con los ministerios), según el estilo de vida de los Apóstoles, perteneciendo en sentido esponsal a la Iglesia particular y a la familia sacerdotal del Presbiterio.
En cada presbítero, estas realidades de gracia necesitan, para su recta comprensión y realización, la actuación del carisma episcopal (cfr. PO 7; ChD 15-16; PDV 74, 79). El obispo es el fundamento visible de la unidad en la Iglesia particular y en su Presbiterio (LG 23; cfr. PO 7-8), y es él principalmente quien debe "fomentar la santidad de sus clérigos, de los religiosos y de los laicos, de acuerdo con la peculiar vocación de cada uno" (ChD 15).
Las gracias provenientes del sacramento del Orden (carácter, para ejercer válidamente, y gracia sacramental, para servir santamente), aunque son una participación peculiar del sacerdocio de Cristo, se reciben por imposición de manos del obispo, adquiriendo éste una paternidad espiritual. Esta paternidad tendrá un significado especial respecto a quienes se han incardinado a la Iglesia particular y pertenecen, de modo permanente, al Presbiterio: "En la cura de las almas son los sacerdotes diocesanos los primeros, puesto que estando incardinados o dedicados a una Iglesia particular, se consagran totalmente al servicio de la misma, para apacentar una porción del rebaño del Señor; por lo cual constituyen un presbiterio y una familia, cuyo padre es el Obispo" (ChD 28).[20]
Tanto en la acción ministerial como en la vivencia de la propia espiritualidad específica, "ningún presbítero, por tanto, puede cumplir cabalmente su misión aislada o individualmente, sino tan sólo uniendo sus fuerzas con otros presbíteros, bajo la dirección de quienes están al frente de la Iglesia" (PO 7).[21]
En el campo de la espiritualidad o santidad específica, la relación de dependencia no es sólo de tipo disciplinar o jurídico, sino especialmente de actuación ministerial por parte del carisma episcopal: "Por esta comunión, pues, en el mismo sacerdocio y ministerio tengan los Obispos a sus sacerdotes como hermanos y amigos, y preocúpense cordialmente, en la medida de sus posibilidades, de su bien material y, sobre todo, espiritual. Porque sobre ellos recae principalmente la grave responsabilidad de la santidad de sus sacerdotes; tengan, por consiguiente, un cuidado exquisito en la continua formación de su Presbiterio. Escúchenlos con gusto, consúltenles incluso y dialoguen con ellos sobre las necesidades de la labor pastoral y del bien de la diócesis" (PO 7).[22]
Sería prácticamente imposible la derivación misionera universal del Presbiterio de la Iglesia particular, si el carisma episcopal no asumiera la responsabilidad misionera de la diócesis con la cooperación responsable de sus presbíteros. Es de lamentar que tanto la espiritualidad sacerdotal del Presbiterio, como la disponibilidad misionera universal de la Iglesia particular, acostumbren a estar ausentes de muchos planes de pastoral; sin la espiritualidad sacerdotal, faltaría la colaboración responsable y gozosa del Presbiterio; sin la derivación misionera universal, ya no habría dimensión eclesial auténtica.[23]
3. La puesta en práctica de la espiritualidad sacerdotal por medio del proyecto de vida en el Presbiterio
Estas realidades de gracia, que constituyen la espiritualidad sacerdotal diocesana, representan la identidad del mismo sacerdote. Son también las pautas principales de su ideario. Pero se necesita llevarlas a la práctica concreta en el contexto ambiental del propio Presbiterio.
Si el Presbiterio es una "fraternidad sacramental" (PO 8), un "mysterium" o "realidad sobrenatural" (PDV 745), una "familia sacerdotal" (ChD 28; PDV 74), "un hecho evangelizador" (Puebla 663), todo ello indica que es el cauce normal o "el lugar privilegiado" para "encontrar los medios específicos de santificación y evangelización" (Directorio 27).
¿Cómo hacer efectivo este Presbiterio, donde el presbítero pueda encontrar los medios necesarios para realizar la caridad pastoral, el seguimiento evangélico al estilo de los Apóstoles, la fraternidad efectiva y afectiva y la disponibilidad misionera?
"Pastores dabo vobis" sugiere que el obispo, con su Presbiterio, elabore un proyecto de vida que abarque todas estas realidades de vida y ministerio sacerdotal, dejando espacio operativo, como es lógico, al plan diocesano de pastoral y al campo propio de los carismas e instituciones eclesiales. El texto dice así: "Esta responsabilidad lleva al Obispo, en comunión con el presbiterio, a hacer un proyecto y establecer un programa, capaces de estructurar la formación permanente no como un mero episodio, sino como una propuesta sistemática de contenidos, que se desarrolla por etapas y tiene modalidades precisas" (PDV 79).
El proyecto de vida debe abarcar todas las áreas de la formación permanente, para que sea capaz de "sostener de una manera real y eficaz, el ministerio y la vida espiritual de los sacerdotes" (PDV 3).[24]
Todo sacerdote o futuro sacerdote necesita ver un Presbiterio estructurado según un ideario definido, unos objetivos precisos y unos medios adecuados. La doctrina conciliar y postconciliar sobre el sacerdocio ministerial (que hemos resumido en el n. 2) ofrece material suficiente para programar estos apartados (ideario, objetivos, medios).[25]
No es fácil entender por qué este proyecto de vida, pedido por PDV, no es todavía una realidad en muchos Presbiterios. Tal vez falta algo tan esencial como es el plan de pastoral diocesano, en el que se encuadre mejor la vida del Presbiterio, dejando espacio operativo a su propio camino. A veces es debido a que el Consejo Presbiteral (que no debe identificarse con el Presbiterio) no ha encontrado su cauce de actuación.[26]
Los planes de formación permanente (en sus cuatro áreas: humana, espiritual, intelectual, pastoral), la actuación del Consejo Presbiteral y la puesta en práctica del proyecto de vida en el Presbiterio, dependerán de la actuación del carisma episcopal. Si esta actuación se limitara al terreno administrativo y de gobierno, bien podría organizar cursos de actualización, convocar sesiones de consejo con sus componentes y dar normas disciplinares. Pero quedaría sin afrontar la principal actuación del carisma episcopal: la revitalización de su Presbiterio según el modelo de la "vida apostólica" o "apostolica vivendi forma" (es decir: el seguimiento evangélico, la vida comunitaria y la disponibilidad misionera).
Sin la actuación del carisma episcopal, en esta línea de espiritualidad específica (cfr. ChD 15-16, 28; PO 7), la formación permanente del clero seguirá siendo algo marginal o circunstancial; el Consejo Presbiteral no acertará en encontrar su actuación específica (siempre distinta del Consejo Pastoral). Entonces el proyecto de vida en el Presbiterio ya no se vería como algo necesario. El plan diocesano de pastoral, en cualquiera de sus ofertas, no será efectivo mientras el Presbiterio no tenga su propio proyecto de vida sacerdotal.
La existencia o la carencia de este proyecto integral, que abarca toda la vida y ministerial sacerdotal (cfr. PDV 3, 79; Dir 76, 86), es el índice de vitalidad del Presbiterio y también de la recta actuación del carisma episcopal respecto a sus sacerdotes.
Habrá que contar con una realidad atrofiante que reclama afrontarla como quien rema contra corriente: en la mayoría de los Seminarios no se ha estudiado sistemáticamente la espiritualidad específica del sacerdote. Los documentos conciliares y postconciliares al respecto, no son suficientemente conocidos y, mucho menos, estudiados. Precisamente ahí está uno de los principales y más urgentes campos de actuación del carisma episcopal: ayudar a tomar conciencia y a vivir la propia espiritualidad sacerdotal diocesana en el Presbiterio.[27]
4. La necesidad teológica del carisma episcopal para la vida sacerdotal
Analógicamente a cuando se dice del "párroco", todo sacerdote (presbítero), en su actuación sacerdotal y en la comunidad confiada, es "un pastor que hace las veces del obispo" (SC 42; cfr. LG 28). No se trata de competencias o de alternativas, sino de la realidad del Presbiterio, cuyos miembros son siempre "colaboradores necesarios en el ministerio y oficio de enseñar, santificar y apacentar al Pueblo de Dios" (PO 7). El decreto ChD matiza que la labor del obispos es "con la cooperación de su Presbiterio" (ChD n. 11). Respecto al obispo, que es "padre" de todo el Presbiterio (ChD 28), los presbíteros son también "hermanos y amigos suyos" (PO 7).[28]
Si el obispo es "el gran sacerdote de su grey, de quien deriva y depende, en cierto modo, la vida en Cristo de sus fieles" (SC 41), ello tendrá una aplicación peculiar respecto a los presbíteros. Efectivamente, "sobre los obispos recae de manera principal el grave peso de la santidad de sus sacerdotes" y, por esto, habrán de tener "el máximo cuidado de la continua formación de sus sacerdotes" (PO 7). Los obispos son "principio y fundamento visible de unidad en sus Iglesias particulares" (LG 23).[29]
No es mi intento, en el presente estudio, urgir la aplicación de esta obligación (y vocación específica) por parte del obispo, sino más bien atraer la atención de la reflexión teológica sobre la actuación del carisma episcopal en la vida de los sacerdotes y, de modo especial, suscitar en los presbíteros (y diáconos) el amor filial y la dependencia espiritual respecto a su propio obispo. La afirmación "nada sin el obispo" recobra toda su hondura en esta perspectiva de comunión responsable.[30]
Mientras no actúe o no se deje actuar al carisma episcopal en la delineación práctica de la espiritualidad sacerdotal en el Presbiterio, esta espiritualidad no pasará de ser una aspiración pasajera o un ideal teórico. Los "Lineamenta" se remiten a la importancia de la sucesión apostólica, para urgir la vida apostólica (que es común a obispos y presbíteros): "El testimonio ininterrumpido de la Tradición reconoce en los obispos aquellos que poseen el «sarmiento de la semilla apostólica» y suceden a los Apóstoles como pastores de la Iglesia" (Lineamenta n.28)[31]. "Los obispos son sucesores de los Apóstoles no solamente en la autoridad y en la sacra potestas, sino también en la forma de vida apostólica, en los sufrimientos" (Lineamenta n.29). "El obispo es el primer responsable del discernimiento de la vocación de los candidatos, de su formación" (Lineamenta n.34).
Son muchos los textos conciliares que instan al sacerdote presbítero a poner en práctica sus exigencias sacerdotales, teniendo en cuenta su dependencia respecto al propio obispo. Hemos ido citando algunos en los apartados anteriores (cfr. LG 28; PO 7; ChD 28; PDV 74, 79).
Esta dependencia efectiva no será realidad sino en el grado en que el obispo viva en las mismas condiciones de sus presbíteros, embarcado en la misma barca, para correr la misma suerte. Sin esta cercanía familiar, espiritual, pastoral y económica, la actuación del carisma episcopal no pasará las fronteras de la disciplina y de la administración.[32]
Hay un texto conciliar programático que resume esta actuación episcopal y que necesitaría ser asimilado también por los presbíteros, para no poner obstáculoss a la actuación del carisma episcopal del propio obispo: "Traten siempre con caridad especial a los sacerdotes, puesto que reciben parte de sus obligaciones y cuidados y los realizan celosamente con el trabajo diario, considerándolos siempre como hijos y amigos, y, por tanto, estén siempre dispuestos a oírlos, y tratando confidencialmente con ellos, procuren promover la labor pastoral íntegra de toda la diócesis. Vivan preocupados de su condición espiritual, intelectual y material, para que ellos puedan vivir santa y piadosamente, cumpliendo su ministerio con fidelidad y éxito" (ChD 16).[33]
Me parece ver en esta afirmación conciliar el fundamento de la orientación de "Pastores dabo vobis" sobre el proyecto de vida, que hemos citado y comentado más arriba (cfr. PDV 79). Los "Lineamenta" fofrece unas pautas muy esclarecedoras:
"A la actitud del obispo con cada sacerdote se une la conciencia de tener en torno a sí un Presbiterio diocesano. Por esto debe alimentar en ellos la fraternidad que sacramentalmente los une y promover entre todos el espíritu de colaboración en una eficaz pastoral de conjunto (Lineamenta n.33).
"El obispo debe esforzarse cada día para que todos los presbíteros sepan y se den cuenta, de forma concreta, que no están solos o abandonados, sino que son miembros y parte de un solo Presbiterio... consciente de que el testimonio de comunión afectiva y efectiva entre el obispo y sus presbíteros es un estímulo eficaz de la comunión en la Iglesia particular en todos los demás niveles" (ibídem).
"La relación sacramental-jerárquica se traduce en la búsqueda constante de una comunión afectiva y efectiva del obispo con los miembros de su Presbiterio" (Lineamenta n.32)
Pablo VI recordó esta realidad de gracia al inaugurar la Asamblea de Medellín desde la catedral de Bogotá: "Si un obispo concentrase sus cuidados más asiduos, más inteligentes, más pacientes, más cordiales, en formar, en asistir, en escuchar, en guiar, en instruir, en amonestar, en confortar a su clero, habría empleado bien su tiempo, su corazón y su actividad"[34]. Los "Lineamenta" recuerdan también este ministerio episcopal: "El ministerio del obispo se determina con relación a las diferentes vocaciones de los miembros del Pueblo de Dios y, ante todo, con relación a los sacerdotes, incluso religiosos, y al Presbiterio constituido por ellos en la Iglesia particular" (Lineamenta n.31).
Sin esta referencia al carisma episcopal, el sacerdote diocesano no podrá llevar a efecto todas las exigencias de la espiritualidad sacerdotal. Al constatar esta vocación en el propio Presbiterio, el sacerdote puede apoyarse también en otros carismas legítimos y también eclesiales. Pero queda por cubrir el campo más suyo y más específico:
¿Cómo encontrar en le propio Presbiterio (con su propio obispo), los medios propios de espiritualidad y de evangelización? (cfr.. PO 8; PDV 74; Dir 27)[35]
¿Cómo ser servidor y coordinador de todos los carismas que el Espíritu Santo ha suscitado en la Iglesia particular y en la comunidad eclesial que le ha confiado el obispo?
Si no se encontrara apoyo explícito por parte del carisma episcopal (por no reconocerlo, por no amarlo o por no dejarlo actuar), difícilmente se encontraría solución a estas aspiraciones hondas que el Espíritu Santo ha comunicado a los sacerdotes el día de la ordenación sacerdotal, especialmente cuando se ordenan como incardinados (desposados) al servicio de la Iglesia particular (en comunión responsable con la Iglesia universal) y como miembros permanentes de la familia sacerdotal del Presbiterio.[36]
5. Líneas conclusivas: unas propuestas factibles
La doctrina conciliar y postconciliar del Vaticano II enraíza en toda la tradición eclesial sobre la "Vida Apostólica" en el Presbiterio. El obispo fue siempre (en línea de principio) el primer responsable y agente en la construcción de esa vida sacerdotal al estilo de los Apóstoles: seguimiento evangélico, fraternidad, disponibilidad misionera.[37]
Los "Lineamenta" para la Asamblea ordinaria de los Obispos (para el año 2.000) recuerdan también esta relación del obispo con sus sacerdotes, como hemos citado repetidamente en el presente estudio. Ahí se invita a considerar el significado de la Misa Crismal: "Para un obispo es un momento de gran esperanza, ya que se encuentra con el Presbiterio diocesano, reunido en torno a él" (Lineamenta n. 96). También hay que reconocer la importancia de la mediación del obispo en la ordenación sacerdotal "recibiendo de Dios a los nuevos cooperadores" (Lineamenta n. 96).
La dinámica histórica de la espiritualidad sacerdotal (siempre en línea de caridad pastoral y de espiritualidad comunitaria y eclesial) indica unos hitos (época patrística, medioevo, Trento, encíclicas sacerdotales del siglo XX, Sínodos...), en los que la figura del obispo es determinante en la puesta en práctica o en la decadencia de la vida sacerdotal en el Presbiterio.[38]
El futuro de los Seminarios radica en esta actuación del obispo (como sucesor de los Apóstoles que forma a sus colaboradores inmediatos), mucho más que en nuevas metodologías y organizaciones[39].
El futuro de los Presbiterios radica también en la propia responsabilidad de los presbíteros, corroborada con la actuación imprescindible del carisma episcopal. El "proyecto" (escrito o vivido) del Presbiterio no podrá realizarse de modo efectivo y permanente sin el obispo.[40]
La actuación concreta del carisma episcopal (como padre, hermano, amigo, según las expresiones conciliares) emana de su propia espiritualidad, como exigencia de la ordenación o consagración episcopal. Pero esta espiritualidad forma una unidad especial con sus presbíteros (y diáconos), a modo de unidad familiar y "colegio".
Sería una afirmación superficial decir que esta actuación "clericalizaría" la actuación del obispo... Efectivamente, su carisma, además de dirigirse "por igual" a todos los estados de vida según la propia vocación (laical, religiosa, sacerdotal), debe afianzarse formando a sus colaboradores inmediatos que son parte de este mismo carisma.[41]
Concretamente, la actuación del carisma episcopal es necesaria para que se ponga en práctica la espiritualidad (y vida ministerial) en el Presbiterio. De modo especial necesitaría concretarse más explícitamente en estos puntos:
1) Trazar las líneas claras y entusiasmantes de la "mística" o espiritualidad sacerdotal en el Seminario y en el Presbiterio (ello sería fuente de vocaciones y de perseverancia sacerdotal).
2) Asumir el cuidado más directo de la espiritualidad de sus presbíteros (nadie le puede suplir, aunque sí muchos pueden ayudar, especialmente por la dirección espiritual y asociaciones).
3) Hacerse más cercano, compartiendo la misma vida a nivel humano (economía, vivienda, descanso...), espiritual (procurando retiros y dirección espiritual), intelectual (actualización), pastoral (compartiendo los sudores apostólicos)... La perseverancia sacerdotal no será posible sin esta cercanía a modo de familia sacerdotal, sin distinciones ni privilegios.
4) Trazar el proyecto de vida en el Presbiterio, tal como lo pide PDV 79, de manera sencilla, entusiasmante y siempre perfeccionable (con la aportación de todo el Presbiterio).
5) Hacer que los presbíteros colaboren activa y responsablemente en el plan diocesano de pastoral, desde su propio proyecto de vida (sin diluirlo en el plan general).
6) Hacer posible el cauce de la colaboración misionera universal, por medio del centro diocesano misionero y de las OMP e Institutos misioneros, de suerte que se transforme la Iglesia particular en Iglesia misionera, especialmente por la aportación del mismo Presbiterio.
7) Instar continuamente en la oración común con sus Presbíteros, en la que aparezcan "sus esperanzas para el Presbiterio diocesano" (Lineamenta n.93), a modo de Cenáculo con María que también "imploraba con sus oraciones el don del Espíritu" (LG 59). Si la Iglesia "invoca frecuentemente a María como Regina Apostolorum" (Lineamenta n. 100), es debido a que ella es la "Madre del sumo y eterno sacerdote, Reina de los Apóstoles y auxilio de su ministerio" (PO 18) y, por consiguiente, madre peculiar de todos los sacerdotes ministros.[42]
[1]El concilio Vaticano II, "Pastores dabo vobis" y el "Directorio" prefieren el término "diocesano" (cfr. LG 28 y 41; PO 8; PDV 2, 4, 17, 28, 31, 59, 68, 71, 74; Dir. 88-89). El Código de Derecho Canónico usa el término "clero secular" (can. 680). No se trata de oponer términos, sino de acentuar un aspecto: pertenencia permanente a una diócesis (por la incardinación) y distinción del clero "regular" o religioso. El calificativo de "secular" indica que es distinto de estilo "claustral", en cuanto que existe una mayor inserción en las estructuras seculares. Hay que reconocer, no obstante, la existencia de una "secularidad" que es propia del laicado: "El carácter secular es propio y peculiar de los laicos" (LG 31).
[2]En mis publicaciones he tenido en cuenta, a partir de la base bíblica, los documentos históricos (patrísticos, magisteriales, litúrgicos), la vida de los santos sacerdotes y la experiencia de muchos sacerdotes con quienes me he encontrado en los diversos Continentes. La realidad y la experiencia las he intentado discernir a la luz de la Palabra predicada, vivida y celebrada por la Iglesia de todos los tiempos. Cfr. Teología de la espiritualidad sacerdotal (Madrid, BAC, 1991); Signos del Buen Pastor (Bogotá, CELAM, 1991).
[3]Los "Lineamenta" para la X Asamblea Ordinaria del Sínodo de los Obispos, tiene expresiones muy ricas de contenido sobre la espiritualidad específica del obispo: "Padre cercano en medio de su pueblo, el obispo es la imagen de Jesús, el Buen Pastor, que camina junto a su rebaño" (n.86). "El obispo debe encontrar en la caridad pastoral el vínculo de la perfección sacerdotal y también el fruto de la gracia y del carácter sacramental recibido... Se debe conformar con Cristo Buen Pastor, tanto en su vida personal como en su ministerio apostólico, de modo que el pensamiento de Cristo (cfr. 1Cor 2,10) le invada en todo y totalmente en las ideas, en los sentimientos, en las opciones y el obrar" (n.87). "Sin embargo el obispo debe vivir su espiritualidad propia, a causa del don específico de la plenitud del Espíritu de santidad, que ha recibido como padre y pastor de la Iglesia... Se trata, demás, de una espiritualidad eclesial, porque cada obispo es configurado con Cristo Pastor, para amar a la Iglesia con el amor de Cristo Esposo, para servirla... Así, en la Iglesia, se convierte en modelo y promotor de la espiritualidad de comunión en todos los niveles" (n.89). "La caridad pastoral debe determinar los modos de pensar y actuar del obispo... En consecuencia, la caridad pastoral exige estilos y formas de vida que, realizados como imitación de Cristo pobre y humilde, permitan estar cerca de todos los miembros del rebaño" (n.69). "La eficacia de la guía pastoral de un obispo y de su testimonio de Cristo... depende en gran parte de la autenticidad del seguimiento del Señor y del vivir in amicitia Jesu Christi" (n.97).
[4]"Todos los presbíteros, juntamente con los Obispos, participan de tal modo del mismo y único sacerdocio y ministerio de Cristo, que la misma unidad de consagración y de misión exige una comunión jerárquica con el Orden de los Obispos, unión que manifiestan perfectamente a veces en la concelebración litúrgica, y unidos a los cuales profesan que celebran la comunión eucarística. Por tanto, los Obispos, por el don del Espíritu Santo, que se ha dado a los presbíteros en la Sagrada Ordenación, los tienen como necesarios colaboradores y consejeros en el ministerio y función de enseñar, de santificar y de apacentar la grey de Dios" (PO 7).
[5]He resumido mi impresión al final de Historia de la espiritualidad sacerdotal (Burgos, Facultad Teológica, 1985) p. 216: "Las experiencias de vida apostólica, tantas veces practicadas por los santos obispos y sacerdotes durante la historia pasada, seguirán siendo esporádicas y momentáneas mientras no encuentren eco responsable y vivencial en todo el Presbiterio y especialmente en quien es su cabeza, hermano y padre". Será difícil remontar un vacío de varios siglos. Cfr. Espiritualidad sacerdotal y formación espiritual del sacerdote, en: Os daré pastores según mi corazón (Valencia, EDICEP, 1992) 207-222.
[6]El decreto conciliar de Trento invitaba al obispo asumir la responsabilidad de sus futuros sacerdotes: "Establece el santo Concilio que todas las catedrales, metropolitanas e Iglesias mayores, tengan obligación de mantener y educar religiosamente, e instruir en la disciplina eclesiástica, según las posibilidades y extensión de las diócesis, cierto número de jóvenes de la misma ciudad y diócesis... Cuide el obispo que asistan todos los días al sacrificio de la Misa, que confiesen a los menos una vez al mes, que reciban, a juicio del confesor, el Cuerpo de nuestro Señor Jesucristo, y que sirvan en la catedral y en otras Iglesias del pueblo los días festivos. El obispo... arreglará, según el Espíritu Santo le iluminare, todo lo dicho, y todo cuanto sea oportuno y necesario, velando en sus frecuentes visitas de que siempre se guarde"... (Ses.23, can.18 de reforma: Concilium Tridentinum, IX, 628-630). He hecho notar el vacío postconciliar respecto a este cuidado episcopal: La institución de los Seminarios y la formación del clero, en: Trento, i tempi del Concilio, Società, religione e cultura agli inizi dell'Europa moderna (Trento, 1995) 261-270.
[7]Dos son las preguntas que más me han impresionado en los diversos Seminarios diocesanos (de los cinco Continentes): ¿existe para el sacerdote diocesano una espiritualidad específica? ¿encontraré en mi Presbiterio los medios necesarios para vivirla?
[8]En realidad, los presbíteros son "colaboradores y consejeros necesarios" del obispo en todos los ministerios (PO 7; cfr. CD 16, 28). Ver también el Directorio "Ecclesiae Imago" sobre el ministerio de los obispos (22 de febrero de 1973), nn. 107-117 (Relaciones con el clero diocesano).
[9]Textos como el siguiente son muy frecuentes, parecidos en los contenidos básicos y variados según las circunstancias: "En todas estas tareas, vuestros primeros y principales colaboradores en la predicación del Evangelio y en la difusión de la buena nueva de la salvación son los sacerdotes... Esta paternidad espiritual se expresa en un profundo vínculo de comunión entre vosotros y vuestros sacerdotes, en vuestra disponibilidad en acogerlos y el apoyo que esperan y necesitan de vosotros... El bienestar humano y espiritual de vuestros sacerdotes será el coronamiento de vuestro ministerio episcopal... Compartir una vida sencilla alegra al Presbiterio y, cuando va acompañada por la confianza mutua, facilita la obediencia voluntaria que todo presbítero debe a su obispo" (JUAN PABLO II, Disc. a los miembros de la Conferencia Episcopal de Zimbabwe, 4 de septiembre de 1998, Oss. Rom. esp. 11 septiembre, p.5).
[10]La pregunta n. 6 del "Cuestionario" de los "Lineamenta" queda formulada así: "¿Cómo vive el obispo su relación con el Presbiterio y con cada sacerdote, especialmente en la proclamación de la fe? ¿Cuáles deberían ser sus preocupaciones principales en este campo?".
[11]Indico algunas síntesis actuales, teológicas y sistemáticas, sobre la espiritualidad sacerdotal: AA.VV., Espiritualidad sacerdotal, Congreso (Madrid, EDICE, 1989); AA.VV., Espiritualidad del Presbiterio (Madrid, EDICE, 1987); J. CAPMANY, Apóstol y testigos, reflexiones sobre la espiritualidad y la misión sacerdotales (Barcelona, Santandreu, 1992); M. CAPRIOLI, Il sacerdozio. Teologia e spiritualità (Roma, Teresianum, 1992); J. ESQUERDA BIFET, Teología de la espiritualidad sacerdotal (Madrid, BAC, 1991); Idem, Signos del Buen Pastor, Espiritualidad y misión sacerdotal (Bogotá, CELAM, 1991); A. FAVALE, El ministerio presbiteral, aspectos doctrinales, pastorales y espirituales (Madrid, Soc. Educ. Atenas, 1989). Pero surge siempre esta pregunta: ¿se estudia en los Seminarios la espiritualidad sacerdotal de modo sistemático y entusiasmante?
[12] Sin el conocimiento y la vivencia de esta espiritualidad sacerdotal específica, que es esencialmente comunitaria y eclesial, sería imposible la aportación responsable de los sacerdotes al plan pastoral de la Iglesia particular. Este plan pastoral debe ser orientado, en último término, por el obispo, quien, al mismo tiempo tiene el carisma de presidir el Presbiterio y cuidar de su espiritualidad y santificación. Cada vocación (laical, sacerdotal o de vida consagrada) y cada carisma (personal o de grupo-movimiento) debe vivir su propia realidad e identidad, personal y comunitaria, dentro de la comunión eclesial, y encontrar su espacio operativo para que de verdad aporte algo a la comunidad eclesial y a la pastoral de conjunto. Un plan pastoral diocesano que no respetara estas realidades de gracia, no sería eclesial ni cristiano.
[13]Actualmente se discuten dos cuestiones: "ministerialidad" y "secularidad" de la espiritualidad y vida sacerdotal. Las dos cuestiones (como otras del pasado o que surgirán en el futuro) son válidas, si se quedan en un campo de reflexión sin herir las realidades de gracia. Toda la espiritualidad sacerdotal es "ministerial" o de "servicio" (en nombre de Cristo Profeta, Sacerdote y Pastor), a partir de una realidad ontológica (el "carácter" o gracia permanente del Espíritu). El sacerdote está insertado en las realidades del mundo ("seculares"), a la luz de Cristo Sacerdote Buen Pastor. Suscitar una nueva perspectiva teológica es siempre válido (así avanza la teología), con tal que no sirva para distraer de la vivencia de lo que ya ha quedado esclarecido suficientmente por la acción del Espíritu en la Iglesia.
[14]El pastoreo de quien preside la comunidad debe cuidar de todos los carismas, por el hecho de "ejercer el oficio de Cristo Cabeza y Pastor", tiende a "formar una genuina comunidad cristiana" (PO 6). "Los presbíteros están puestos en medio de los laicos para llevarlos a todos a la unidad de la caridad... Ellos son defensores del bien común" (PO 9).
[15]Participar ontológicamente o en el ser del sacerdote de Cristo Cabeza y Pastor (cfr. PO 1-3), comporta una configuración con él (cfr. PDV 20-22), que es también Siervo (cfr. PDV 48) y Esposo (cfr. PDV 22). Esta participación en el ser de Cristo es consagración por el Espíritu Santo (cfr. PDV 1, 10, 27, 33, 69). De ahí derivan las diversas dimensiones o perspectivas y puntos de vista de esta realidad tan rica de contenidos: dimensión trinitaria, cristológica, pneumatológica, eclesiológica, antropológica, sociológica... (cfr. Directorio cap. I).
[16]Los textos conciliares y postconciliares indican esta participación en la misma misión profética, sacerdotal y real de Cristo (cfr. PO 4-6, 10-11; PDV 16-18). Es siempre misión universal (cfr. PO 10; PDV 16-18, 31-32). Al mismo tiempo, es misión santificadora por el ejercicio del mismo ministerio (cfr. PO 13), con tal que se realice en "unidad de vida", como Cristo está unido a la voluntad del Padre (PO 13-14). Las afirmaciones clave del PO 12-14 son un programa completo de espiritualidad sacerdotal ministerial: "instrumentos vivos de Cristo Sacerdote", "en el ministerio", "unidad de vida", "ascesis del pastor de almas".
[17]La caridad pastoral es la sintonía e imitación de Cristo Buen Pastor, que da la vida dándose él (pobreza), sin pertenecerse (obediencia), como consorte o Esposo (castidad o virginidad). Así el sacerdote es signo personal y sacramental del Buen Pastor: Mt 19,27; PO 15-17; PDV 21-30. La comunidad eclesial tiene derecho a ver, en quien la preside espiritualmente, la caridad del Buen Pastor y Esposo de la Iglesia. Además de las síntesis globales sobre la espiritualidad sacerdotal (citadas más arriba), ver: M. PEINADO, Solicitud pastoral (Barcelona, Flors, 1967); P. XARDEL, La flamme qui dévore le berger (Paris, Cerf, 1969.
[18]Estos elementos pueden inspirarse en una figura de valor sacerdotal, participando periódicamente en grupos sacerdotales o en asociaciones (como la Unión Apostólica y otras), subrayando algunos matices y añadiendo otros, concretando más los compromisos, etc. El sacerdote religioso (o de instituciones de vida consagrada) vive estas realidades de gracia con matices de una espiritualidad "particular": relación con el carisma fundacional, estatutos, compromisos (votos, etc.).
[19]C. BERTOLA, Fraternidad sacerdotal (Madrid, Soc. Educ. Atenas, 1992); A. CATTANEO, Il Presbiterio della Chiesa particolare (Milano, Edit. Giuffré, 1993); J. ESQUERDA BIFET, Teología de la Espiritualidad sacerdotal (Madrid, BAC, 1991) cap. VI; V. FUSCO, Il presbiterio: Fondazione biblico-teologica: Asprenas 33 (1986) 5-36; J. LECUYER, Le Presbyterium, en: Les prêtres (Paris, Cerf, 1968) (Unam Sanctam 68) 275‑288; A. VILELA, La condition collégial des prêtres au III siècle (Paris, Beauchesne, 1971).
[20]Esta paternidad no significa paternalismo; en otros textos conciliares se le llama también hermano y amigo (PO 7). Esta paternidad deriva del hecho de que el obispo sea "la imagen viva de Dios Padre" (S. Ignacio de Antioquía, Ad Trall. 3,1).
[21]En el ejercicio de los ministerios, el presbítero representa al obispo: "En cada una de las congregaciones de fieles, ellos representan al Obispo con quien están confiada y animosamente unidos, y toman sobre sí una parte de la carga y solicitud pastoral y la ejercitan en el diario trabajo" (LG 28; cfr. SC 42; PO 7). En la administración del sacramento de la confirmación, la misión o encargo recibido del obispo es indispensable para su validez. La teología todavía no ha aclarado si el presbítero podría también ordenar, analógicamente a como puede confirmar como ministro extraordinario; hoy por hoy, esta ordenación no sería válida.
[22]Es importante observar la insistencia en la "comunión", como partícipes del mismo sacerdocio y ministerio del obispo y, consecuentemente, de la misma espiritualidad sacerdotal, salvando la diferencia en el grado sacramental y la dependencia del carisma episcopal. "Presbyterorum Ordinis" habla de la "obediencia sacerdotal, ungida de espíritu de cooperación, se funda especialmente en la participación misma del ministerio episcopal que se confiere a los presbíteros por el Sacramento del Orden y por la misión canónica" (PO 7,b).
[23]Sobre la derivación misionera universal del ministerio sacerdotal (para colaborar con la responsabilidad del obispo), ver: ChD 5-6; LG 23, 28; PO 10; AG 38; RMi 63; PDV 2, 4, 14, 16-18, 23, 31-32, 59, 74-75, 82; Dir. 14-15. Los "Lineamenta" desea "que toda la diócesis se haga misionera" (Lineamenta n.74; cfr. nn. 45 y 73).
[24]Expuse la fundamentación y las pautas de este proyecto en: Ideario, objetivos y medios para un proyecto de vida sacerdotal en el Presbiterio, "Sacrum Ministerium" 1(1995) 175-186. Ver también: J.T. SANCHEZ, Los sacerdotes protagonistas de la Evangelización, en: (Pontificia Comisión para América Latina), (Lib. Edit. Vaticana 1996) 101-110. En esta última publicación, el entonces Prefecto de la Congregación para el Clero trata de la formación permanente en el Presbiterio y propone en la p. 110: "elaboración en cada Presbiterio de un proyecto de vida que recoja las orientaciones concretas en los diversos niveles de formación permanente: humana, espiritual, intelectual, pastoral, un programa orgánico, sistemático, integral".
[25]El proyecto podría tener, pues, tres partes principales: El ideario (ser, obrar y vivencia o espiritualidad), los objetivos (a nivel humano, espiritual, intelectual, pastoral) y los medios (personales y comunitarios). Para cada uno de estos capítulos hay material suficientemente claro y entusiasmante en PO, PDV y Directorio. Ver el artículo citado anteriormente sobre el proyecto de vida en el Presbiterio.
[26]Al consejo presbiteral "compete, entre otras cosas, buscar los objetivos claros y distintamente definidos de los diversos ministerios que se ejercen en la diócesis, proponer prioridades, indicar los métodos de acción" (Directorio "Ecclesiae Imago" sobre el ministerio pastoral de los obispos, 22 de febrero de 1973, n. 202). Pero por su medio también "se fomenta la fraternidad en el Presbiterio y el diálogo entre el obispo y los presbíteros" (ibídem).
[27]Sin esta mística sacerdotal, conocida y vivida gozosa y generosamente, difícilmente tendrá el obispo vocaciones "propias" en su Seminario, así como clero suficiente y disponible apostólicamente en su diócesis; este conocimiento de la propia espiritualidad lleva, por su misma lógica interna, a estudiar los clásicos de espiritualidad de cualquier escuela, también para servir a las demás vocaciones. En este campo puede prestar un gran servicio la Unión Apostólica, como cauce de intercambio de experiencias de "Vida Apostólica" en los diversos Presbiterios.
[28]Lineamenta n.11, citando LG 28 y ChD 7, dice: "La necesaria cooperación del Presbiterio está enraizada en el mismo evento sacramental". Más adelante afirma: "Esta misma gracia (sacramental) une a los presbíteros a las distintas funciones del ministerio episcopal... Sus necesarios colaboradores y consejeros... asumen, según su grado, los oficios y la solicitud del obispo y la hacen presente en cada comunidad" (Lineamenta n.31; cfr. LG 28). El Directorio "Ecclesiae Imago" sobre el ministerio pastoral de los obispos concreta: "El Obispo... sabe bien que su deber es dirigir su amor y su solicitud particular sobre todo hacia los presbíteros y hacia los candidatos al ministerio sagrado" (n. 107; cita PO 7; ver también el n. 111 del mismo Directorio). De ello se seguirá que "todo el Presbiterio se sienta junto con el Obispo verdaderamente corresponsable de la Iglesia particular" (n. 111).
[29]"En los presbíteros de la diócesis, aunque sean religiosos, el Obispo trata de infundir y hacer madurar la conciencia de formar un único Presbiterio en la Iglesia, todos juntos con el Obispo y unidos entre sí por el vínculo del sacramento del Orden, aunque sean diversas las tareas que desempeñan" (Directorio "Ecclesiae Imago" sobre el ministerio pastoral de los obispos n. 109).
[30]En el Presbiterio, el obispo ocupa el lugar de Cristo, mientras los presbíteros ocupan el lugar de los Apóstoles (San Ignacio de Antioquía, Ad Magnesios VI, 1). El carisma propio de la apostolicidad del obispo tiene significado espiritual y moral antes que administrativo. Esta realidad de gracia fundamenta "su relación personal-espiritual del pastor con su grey" (Lineamenta n.10).
[31]toma la expresión "semilla apostólica" de Tertuliano (Praescr. Haeret., 32: PL 2,53). Para los contenidos de "sucesores" de los Apóstoles, ver LG 18 y 20. "Pastores dabo vobis" recuerda también que los presbíteros participan, en grado inferior, de esta sucesión apostólica (cfr. PDV 15-16, 42, 60).
[32]Al hablar de la pobreza sacerdotal, el concilio Vaticano II, remitiéndose a toda la tradición, une la vida del obispo con la del sacerdote: "Guiados, pues, por el Espíritu del Señor, que ungió al Salvador y lo envió a evangelizar a los pobres, los presbíteros, y lo mismo los Obispos, mucho más que los restantes discípulos de Cristo, eviten todo cuanto pueda alejar de alguna forma a los pobres, desterrando de sus cosas toda clase de vanidad. Dispongan su morada de manera que a nadie esté cerrada, y que nadie, incluso el más pobre, recele frecuentarla" (PO 17). Sobre la vida sencilla y pobre de los obispos: Motu Proprio "Pontificalia insignia" (Pablo VI, 21 de junio de 1968); Instrucción "Ut sive sollicite" (31 de marzo de 1969).
[33]Continúa el texto: "Por lo cual han de fomentar las instituciones y establecer reuniones especiales, de las que los sacerdotes participen algunas veces, bien para practicar algunos ejercicios espirituales más prolongados para la renovación de la vida, o bien para adquirir un conocimiento más profundo de las disciplinas eclesiásticas, sobre todo de la Sagrada Escritura y de la Teología, de las cuestiones sociales de mayor importancia, de los nuevos métodos de acción pastoral" (ChD 16).
[34]Pablo VI, Alocución en la inauguración de la II Conferencia General del Episcopado Latinoamericano, Catedral de Bogotá (24 de agosto de 1968). Son los mismos contenidos del Directorio "Ecclesiae Imago" sobre el ministerio pastoral de los obispos: "El Obispo considera como un sacrosanto deber conocer a sus presbíteros diocesanos, sus caracteres y capacidades, sus aspiraciones y tenor de vida espiritual, su celo e ideales, su estado de salud y sus condiciones económicas, su familia y todo lo que diga relación a ellos" (n. 111).
[35]En "Don y misterio" (en el apartado sobre el Presbiterio de Cracovia), Juan Pablo II manifesta su gozo de haber encontrado en su Presbiterio (como presbítero y como obispo) la fraternidad sacerdotal y las ayudas necesarias para vivir su sacerdocio.
[36]Las diversas asociaciones, carismas, movimientos, etc., pueden ser una ayuda para vivir mejor las realidades de gracia de la propia espiritualidad sacerdotal diocesana. Hay que reconocer también y apreciar la gran ayuda de las diversas formas de vida consagrada, así como de la pertenencia a instituciones y asociaciones que se inspiran en carismas particulares. Ello puede ayudar también al sacerdote diocesano, a modo de dirección espiritual o de grupo de amigos; pero no cancela la actuación del carisma episcopal ni la puede suplir.
[37]Ver en la historia de la espiritualidad sacerdotal la forma de vivir los Presbiterios según San Agustín, San Eusebio de Vercelli, Santo Domingo, experiencias "canonicales", etc. Cfr. Teología de la Espiritualidad Sacerdotal, o.c., cap. 13 (síntesis histórica). También en: Historia de la espiritualidad sacerdotal (Burgos, Facultad de Teología, 1985); corresponde al vol. 19 de "Teología del Sacerdocio".
[38]Además de los santos obispos recordados anteriormente, cabe hacer mención de otros posteriores: San Carlos Borromeo, San Juan de Ribera, San Juan de Ávila... Ver Historia de la espiritualidad sacerdotal, o.c.
[39]La renovación de los Seminarios no puede consistir principalmente en el cambio de unas estructuras materiales y organizativas, sino en el afianzamiento de la "Vida Apostólica" puesta en práctica con el propio obispo, en las coordenadas actuales de una familia sacerdotal que comparte la misma suerte.
[40]Es importante e imprescindible que el Consejo Presbiteral asuma esta responsabilidad, como "consejo" del obispo, respecto a la vida de los presbíteros. Todo ello debe ser reforzado por la Comisión o Departamento Episcopal del Clero (pastoral sacerdotal, vocaciones y ministerios).
[41]La exención histórica de la vida religiosa o consagrada (por motivos especiales) o la exención actual respecto a la autonomía del carisma de la vida consagrada, no debe olvidar la actuación necesaria e indispensable del sucesor de los Apóstoles, en el ámbito de la Iglesia particular, respecto a quienes imitan de modo peculiar la "apostolica vivendi forma", siguiendo el estilo apostólico de que son garantes los obispos (cfr. VC 45, 48, 93-94). La actuación del carisma episcopal abarca todos los demás carismas. Los "Lineamenta" hacen, en el cuestionario, esta pregunta: "¿Qué iniciativas concretas favorecen la unión espiritual del obispo, sobre todo con los presbíteros y diáconos, con los consagados y las consagradas y con los laicos, especialmente si están reeunidos en asociaciones y fundaciones eclesiales?" (pregunta n. 20).
[42]He prescindido de la denominación jurídica sobre el sector eclesial que preside el obispo (diócesis, arquidiócesis, patriarcado, vicariato, prefectura, prelatura, etc.). Lo importante es la Iglesia concretizada allí donde hay un sucesor de los Apóstoles, en comunión con el Papa sucesor de Pedro.
RENOVACION ECLESIAL Y ESPIRITUALIDAD MISIONERA PARA UNA NUEVA EVANGELIZACION
Escrito por Super UserRENOVACION ECLESIAL Y ESPIRITUALIDAD MISIONERA
PARA UNA NUEVA EVANGELIZACION
J. Esquerda Bifet
1. Exigencias de una "Nueva evangelización"
La frase "una nueva evangelización" es una invitación que ha hecho Juan Pablo II y que ha repetido con frecuencia desde el año 1983, primero en Puerto Príncipe (Haití) y luego en Santo Domingo. Se trata de una "evangelización nueva: nueva en su ardor, en sus métodos, en su expresión".
El objetivo quedó marcado desde el principio: suscitar "una intensa movilización espiritual... para cambiar los corazones mediante una evangelización renovada que sea fuente de vitalidad cristiana y de esperanza..., que despliegue con más vigor el potencial de santidad, en un gran impulso misionero, una vasta actividad catequética, una manifestación fecunda de colegialidad y comunión, un combate evangélico de dignificación del hombre" (Santo Domingo, 11 y 12 de octubre de 1984).
El tema de la Conferencia Episcopal Latinoamericana de 1992 lo incluye en un contexto más amplio: "Nueva evangelización, promoción humana, cultura cristiana". La carta del Santo Padre a los religiosos del Brasil hace relación a la vida consagrada: "Queréis poner al servicio de la nueva evangelización las inmensas energías personales, comunitarias, institucionales y carismáticas de la vida consagrada, con los ojos puestos en las necesidades urgentes" (11 de julio de 1989).
El Papa ha repetido la invitación a toda la Iglesia y, concretamente, a todas las vocaciones: "En los umbrales del tercer milenio, toda la Iglesia, Pastores y fieles, ha de sentir con más fuerza su responsabilidad de obedecer al mandato de Cristo: 'Id por todo el mundo y proclamad la Buena Nueva a toda la creación' (Mc 16,15), renovando su empuje misionero. Una grande, comprometedora y magnífica empresa ha sido confiada a la Iglesia, la de una nueva evangelización, de la que el mundo actual tiene una gran necesidad" (Christfideles Laici 64).
La Iglesia debe, pues, prepararse para responder a una nueva evangelización: nueva en su ardor (por la disponibilidad misionera de los evangelizadores), nueva en sus métodos (por un mejor aprovechamiento de los nuevos medios de apostolado), nueva en las expresiones (por la adaptación de la doctrina y de la práctica cristiana sin diminuir sus principios y exigencias evangélicas).
Esta realidad se convierte en un desafío para toda la Iglesia, para cada comunidad eclesial y para cada creyente: nos encontramos ante nuevas situaciones para anunciar el evangelio, tenemos nuevas gracias de Dios para responder a ellas..., "sólo" faltan los nuevos apóstoles"...
Según la encíclica Redemptoris Missio (RMi), la llamada a una "nueva evangelización" tiene como objetivo la renovación de la comunidad eclesial para que ésta se haga misionera "ad gentes". Esta renovación eclesial será una realidad cuando se viva la fe cristiana con todas sus consecuencias. "¡La fe se fortalece dándola! La nueva evangelización de los pueblos cristianos hallará inspiración y apoyo en el compromiso por la misión universal" (RMi 2). "La misión ad intra es signo creíble y estímulo para la misión ad extra y viceversa" (RMi 34).
La "nueva evangelización" equivale a "reevangelización" de las comunidades para recuperar "el sentido vivo de la fe" (RMi 33). Esto significa una mayor vivencia de los valores evangélicos, según las líneas de la espiritualidad misionera trazadas por la encíclica Redemptoris Missio. Entonces la comunidad eclesial sabrá responder al momento histórico de gracia. "Dios abre a la Iglesia horizontes de una humanidad más preparada para la siembra evangélica. Preveo que ha llegado el momento de dedicar todas las fuerzas eclesiales a la nueva evangelización y a la misión ad gentes. Ningún creyente en Cristo, ninguna institución de la Iglesia puede eludir este deber supremo: anunciar a Cristo a todos los pueblos" (RMi 3).
La formación para la vida consagrada queda profundamente implicada en esta renovación eclesial y en la espiritualidad misionera, en vistas a la nueva evangelización. "La virginidad por el Reino se traduce en múltiples frutos de maternidad según el espíritu" (RMi 70).
2. Renovación eclesial para una nueva evangelización
La "nueva época misionera" (RMi 92) abre nuevos horizontes al anuncio del evangelio. "Nuestro tiempo es dramático y, al mismo tiempo, fascinador" (RMi 38). Probablemente nos encontramos ante el mayor desafío histórico que ha tenido la Iglesia, en el sentido de reclamar una renovación eclesial que haga de personas y de comunidades un signo creíble de las bienaventuranzas. Se necesitan "nuevos santos para evangelizar al hombre de hoy" (Juan Pablo II, Discurso 11.10.85) .
Impresionan, en la nueva encíclica misionera, las frecuentes llamadas del Papa a la renovación eclesial, precisamente para afrontar la nueva evangelización con todas sus derivaciones misioneras. "Hoy la Iglesia debe afrontar otros desafíos, proyectándose hacia nuevas fronteras, tanto en la primera misión ad gentes, como en la nueva evangelización de pueblos que han recibido ya el anuncio de Cristo. Hoy se pide a todos los cristianos, a las Iglesia particulares y a la Iglesia universal la misma valentía que movió a los misioneros del pasado y la misma disponibilidad para escuchar la voz del Espíritu" (RMi 30).
La pauta de esta renovación eclesial se encuentra en las bienaventuranzas. "La Iglesia quiere extraer toda la verdad contenida en las bienaventuranzas de Cristo y sobre todo la verdad contenida en esta primera: 'Bienaventurados los pobres de espíritu'... Fiel al espíritu de las bienaventuranzas, la Iglesia está llamada a compartir con los pobres y los oprimidos de todo tipo. Por esto exhorto a todos los discípulos de Cristo y a las comunidades cristianas, desde las familias a las diócesis, desde las parroquias a los Institutos religiosos, a hacer un sincera revisión de la propia vida en el sentido de solidaridad con los pobres" (RMi 60). "Ha llegado el momento de hacerse realmente hermanos de los pobres en la común conversión hacia el desarrollo integral, abierto al Absoluto" (RMi 59).
La misión de la Iglesia consiste en llamar a la "conversión", es decir, "a la adhesión plena y sincera a Cristo y a su Evangelio, mediante la fe. La conversión es un don de Dios" (RMi 46). Ahora bien, está llamada no sería eficaz sin el testimonio evangélico presentado por la comunidad eclesial. "El hombre contemporáneo cree más en los testigos que en los maestros... el testimonio de vida cristiana es la primera e insustituible forma de misión" (RMi 42). La Iglesia necesita ser y presentarse como Evangelio viviente, en un proceso de renovación continua. "Cada convertido es un don hecho a la Iglesia y comporta una grave responsabilidad para ella... porque, especialmente si es adulto, lleva consigo como una energía nueva, el entusiasmo de la fe, el deseo de encontrar en la Iglesia el Evangelio vivido. Sería una desilusión para él, si después de ingresar en la comunidad eclesial encontrase en la misma una vida que carece de fervor y sin signos de renovación. No podemos predicar la conversión, si no nos convertimos nosotros mismos cada día" (RMi 47).
Los problemas internos de la comunidad eclesial pueden superarse fácilmente cuando se abre a una renovación misionera. "Sólo haciéndose misionera la comunidad cristiana podrá superar las divisiones y tensiones internas y recobrar su unidad y su vigor de fe" (RMi 49).
Esta llamada a la renovación eclesial se encuentra en todos los períodos históricos. En el concilio Vaticano II, la invitación se repite con términos muy expresivos. Para que "la claridad de Cristo resplandezca sobre la faz de la Iglesia" (LG 1), es necesario que la misma Iglesia se renueve continuamente: "La Iglesia encierra en su propio seno a pecadores, y siendo al mismo tiempo santa y necesitada de purificación, avanza continuamente por la senda de la penitencia y de la renovación" (LG 8). Se trata siempre de renovación en el Espíritu Santo, quien, "con la fuerza del evangelio rejuvenece a la Iglesia, la renueva incesantemente y la conduce a la unión consumada con su Esposo" (LG 4).
Esta renovación es eminentemente evangélica, en cuanto que se debe inspirar en las bienaventuranzas (como hemos indicado más arriba), es decir, en la caridad cristiana y el mandato del amor. Es renovación por medio de una vida santa. Así lo resumía Juan Pablo II en la exhortación apostólica Christifideles laici: El concilio Vaticano II ha pronunciado palabras altamente luminosas sobre la vocación universal a la santidad. Se puede decir que precisamente esta llamada ha sido la consigna fundamental confiada a todos los hijos e hijas de la Iglesia, por un concilio convocado para la renovación evangélica de la vida cristiana... Es urgente, hoy más que nunca, que todos los cristianos vuelvan a emprender el camino de la renovación evangélica" (CFL 16).
Sólo con esta actitud de renovación evangélica, será realidad la fidelidad a la misión. "La llamada a la misión deriva, de por sí, de la llamada a la santidad... La vocación universal a la santidad está estrechamente unida a la vocación universal a la misión... La espiritualidad misionera de la Iglesia es un camino hacia la santidad" (RMi 90).
La renovación interior tiene repercusiones en la vida práctica y, de modo especial, en la disponibilidad misionera de toda la Iglesia: "Como la Iglesia es toda ella misionera y la obra de la evangelización es deber fundamental del Pueblo de Dios, el concilio invita a todos a una profunda renovación interior, a fin de que, teniendo viva conciencia de la propia responsabilidad en la difusión del Evangelio, acepten su participación en la obra misionera entre los gentiles" (AG 35).
Esta invitación es un examen de conciencia sobre puntos muy concretos, que ya fueron indicados por Pablo VI en Evangelio nuntiandi (1975): "¿Qué es de la Iglesia, diez años después del concilio? ¿Está anclada en el corazón del mundo y es suficientemente libre e independiente para interpretar al mundo? ¿Da testimonio de la propia solidaridad hacia los hombres y al mismo tiempo del Dios Absoluto? ¿Ha ganado en ardor contemplativo y de adoración, y pone más celo en la actividad misionera, caritativa, liberadora? ¿Es suficiente su empeño en el esfuerzo de buscar el restablecimiento de la plena unidad entre los cristianos, lo cual hace más eficaz el testimonio común, con el fin de que el mundo crea?" (EN 76).
3. Espiritualidad misionera para una nueva evangelización
Una nueva evangelización requiere, como hemos visto, una renovación eclesial, de suerte que en creyentes y comunidades aparezca más claramente el rostro de Cristo, a modo de "evangelio vivido" (RMi 47). Ahora bien, esta renovación se hará realidad por un proceso de "espiritualidad misionera", como fidelidad a las nuevas gracias del Espíritu Santo. La espiritualidad que describe Redemptoris Missio para los misioneros es analógicamente la misma que deben tener todos los agentes de la nueva evangelización, puesto que se trata de renovar la comunidad eclesial para hacerla misionera ad gentes.
La expresión "espiritualidad misionera" se encuentra ya en el concilio Vaticano II, al hablar de los cometidos de la Congregación para la Evangelización de los Pueblos: "Este Dicasterio promueva la vocación y la espiritualidad misionera, el celo y la oración por las misiones, y difunda noticias auténticas y convenientes sobre las misiones" (AG 29). El contenido de esta expresión se encuentra en los números 23-25 de Ad Gentes, y se desarrolla explicando la vocación misionera, la formación espiritual y las virtudes concretas de los misioneros, que "han de renovar su espíritu constantemente", para vivir una "vida realmente evangélica" (AG 24), de suerte que "la vida de Jesús obre en aquellos a los que es enviado" (AG 25).
Pablo VI, en Evangelii nuntiandi, presentó "el espíritu de la evangelización", explicándolo como "actitudes interiores" del apóstol (EN 74), fidelidad al Espíritu Santo como "agente principal de la evangelización" (EN 75), "autenticidad" y testimonio (EN 76), unidad (EN 77), servicio de la verdad (EN 78), caridad apostólica (EN 79-80). Esta espiritualidad se adquiere viviendo en Cenáculo con María para afrontar una "renovada evangelización" (EN 81-82).
La primera afirmación del capítulo VIII de la encíclica Redemptoris Missio es precisamente sobre la existencia de la espiritualidad misionera como "espiritualidad específica": "La actividad misionera exige una espiritualidad específica, que concierne particularmente a quienes Dios ha llamado a ser misioneros" (RMi 87).
La fidelidad al Espíritu Santo (dimensión pneumatológica) es la actitud básica de la espiritualidad misionera ("espiritualidad" = vida según el Espíritu). "Esta espiritualidad se expresa, ante todo, viviendo con plena docilidad al Espíritu; ella compromete a dejarse plasmar interiormente por él, para hacerse cada vez más semejante a Cristo" (RMi 87). A partir de esta docilidad, se presentan "los dones de fortaleza y discernimiento", como "rasgos esenciales de la espiritualidad misionera" (ibídem).
La fidelidad al Espíritu Santo es el punto de partida para entender la misión en su significado pneumatológico (cap. III). Sin la docilidad al Espíritu no se acertará en el contenido evangélico de la misión o no habrá la fortaleza para actuarlo: "También la misión sigue siendo difícil y compleja, como en el pasado, y exige igualmente la valentía y la luz del Espíritu" (RMi 87). En la nueva situación de la Iglesia y de la sociedad, "conviene escrutar las vías misteriosas del Espíritu y dejarse guiar por él hasta la verdad completa (cf. Jn 16,13)" (ibídem).
La dimensión cristológica de la espiritualidad misionera se presenta como relación personal con él, imitación, seguimiento: "Nota esencial de la espiritualidad misionera es la comunión íntima con Cristo: no se puede comprender y vivir la misión, si no es con referencia a Cristo, en cuanto enviado a evangelizar" (RMi 88). Como en otros pasajes de la encíclica, se pone como modelo de esta actitud cristológica a san Pablo, quien nos deja entrever "sus actitudes" (ibídem, citando a Fil 2,5-8; 1Cor 9,22-23).
De esta relación personal con Cristo nace la recta comprensión de la misión y la disponibilidad para la misma. La dimensión cristológica de la misión (cap. I-II) se comprende y vive a partir de una espiritualidad eminentemente cristológica. Hay que resaltar un aspecto fundamental de esta espiritualidad cristológica: la experiencia de la presencia de Cristo en la vida del apóstol. "Precisamente porque es 'enviado', el misionero experimenta la presencia consoladora de Cristo, que lo acompaña en todo momento de su vida. 'No tengas miedo... porque yo estoy contigo' (Act 18, 9-10). Cristo lo espera en el corazón de cada hombre" (RMi 88).
La dimensión eclesiológica de la espiritualidad misionera se expresa en amor a la Iglesia como la ama Cristo. Esta será la garantía de la misión: "Quien tiene espíritu misionero siente el ardor de Cristo por las almas y ama a la Iglesia, como Cristo" (RMi 89). Es el sentido o "espíritu de la Iglesia", que le hace descubrir y vivir "su apertura y atención a todos los pueblos y a todos los hombres" (ibídem).
Esta dimensión eclesiológica de la espiritualidad es el punto de partida para comprender la dimensión eclesiológica de la misión (cap. I-II). "Lo mismo que Cristo, él debe amar a la Iglesia... (Ef 5,25). Este amor, hasta dar la vida, es para el misionero un punto de referencia. Sólo un amor profundo por la Iglesia puede sostener el celo del misionero; su preocupación cotidiana -como dice san Pablo- es la 'solicitud por todas las Iglesia' (2Cor 11,28). Para todo misionero y toda comunidad, la fidelidad a Cristo no puede separarse de la fidelidad a la Iglesia" (RMi 89; cf. PO 14).
La dimensión pastoral de la espiritualidad se describe en la línea de la "caridad apostólica": "La espiritualidad misionera se caracteriza, además, por la caridad apostólica" (n.89). Es la caridad pastoral de "Cristo, el Buen Pastor, que conoce sus ovejas, las busca y ofrece su vida por ellas (cf. Jn 10)" (ibídem).
Se trata, pues, de un "celo por las almas, que se inspira en la caridad misma de Cristo, y que está hecha de atención, ternura, compasión, acogida, disponibilidad, interés por los problemas de la gente" (RMi 89). Por esto, "el misionero es el hombre de la caridad" (ibídem).
La dimensión antropológica de la espiritualidad está en estrecha relación con Cristo "que conocía lo que hay en el hombre (Jn 2,25), amaba a todos ofreciéndoles la redención, y sufría cuando ésta era rechazada" (RMi 89). Esta dimensión está en la línea de toda la encíclica: "La actividad misionera tiene como único fin servir al hombre, revelándole el amor de Dios que se ha manifestado en Jesucristo" (RMi 2). De este modo, "el misionero es el 'hermano universal', lleva consigo el espíritu de la Iglesia, su apertura y atención... particularmente a los más pequeños y pobres" (RMi 89).
Esta dimensión antropológica es eminentemente liberadora (RMi 38-39). "En cuanto tal, supera las fronteras y las divisiones de raza, casta e ideología: es signo del amor de Dios en el mundo, que es amor sin exclusión ni preferencia" (n.89).
La encíclica coloca un tema básico de espiritualidad (la contemplación) al hablar de las nuevas situaciones actuales (dimensión sociológica), a modo de "nuevos areópagos" que interpelan a la Iglesia (culturas, medios de comunicación, desarrollo, liberación de los pueblos, derechos fundamentales, ecología, etc.), se señala "la angustiosa búsqueda de sentido, la necesidad de interioridad, el deseo de aprender nuevas formas y modos de concentración y de oración... se busca la dimensión espiritual de la vida como antídoto a la deshumanización" (RMi 38). A esta fenómeno, que "no carece de ambigüedad", la Iglesia sólo puede responder ofreciendo "el patrimonio espiritual" evangélico recibido de Cristo, "el Camino, la Verdad y la Vida" (Jn 14,6). Esta "es la vía cristiana para el encuentro con Dios para la oración, la ascesis, el descubriendo del sentido de la vida. También es un areópago que hay que evangelizar" (RMi 38).
A esta problemática sobre la búsqueda actual de Dios, sólo se puede responder con una actitud verdaderamente contemplativa. El Papa lo afirma también como fruto de su misma experiencia misionera: "El contacto con los representantes de las tradiciones espirituales no cristianas, en particular, las de Asia, me ha corroborado que el futuro de la misión depende en gran parte de la contemplación. El misionero, sino es contemplativo, no puede anunciar a Cristo de modo creíble. El misionero es un testigo de la experiencia de Dios y debe poder decir, como los Apóstoles: 'Lo que contemplamos... acerca de la Palabra de vida..., os lo anunciamos' (1Jn 1,1-3). "El misionero ha de ser un contemplativo en la acción" (ibídem).
La espiritualidad misionera se puede resumir como vida de santidad en relación a la misión: "La llamada a la misión deriva, de por sí, de la llamada a la santidad... La vocación universal a la santidad está estrechamente unida a la vocación universal a la misión... La espiritualidad misionera de la Iglesia es un camino hacia la santidad. El renovado impulso hacia la misión ad gentes exige misioneros santos" (RMi 90).
La dimensión mariana de la espiritualidad misionera hace redescubrir y vivir la naturaleza misionera y materna de la Iglesia (Gal 4,4, 4,19; 4,26). "María es el ejemplo de aquel amor maternal con que es necesario que estén animados todos aquellos que, en la misión apostólica de la Iglesia, cooperan a la regeneración de los hombres" (RMi 92; cf. LG 65).
Conclusión: Implicaciones para la formación a la vida consagrada
La vida consagrada necesita una formación adecuada para poder responder a las necesidades de una "nueva evangelización". "En la inagotable y multiforme riqueza del Espíritu se sitúan las vocaciones de los Institutos de vida consagrada, cuyos miembros, 'dado que por su misma consagración se dedican al servicio de la Iglesia... están obligados a contribuir de modo especial a la tarea misional, según el modelo propio de su Instituto'... La Iglesia debe dar a conocer los grandes valores evangélicos de que es portadora; y nadie los atestigua más eficazmente que quienes hacen profesión de vida consagrada en la castidad, pobreza y obediencia, con una donación total a Dios y con plena disponibilidad a servir al hombre y a la sociedad, siguiendo el ejemplo de Cristo" (RMi 69).
La renovación eclesial y la espiritualidad misionera, en vistas a una nueva evangelización, comportan importantes consecuencias para la formación a la vida consagrada tanto inicial como permanente, y en todos los niveles: espiritual, humano, intelectual y pastoral.
Una nueva evangelización reclama "nuevo fervor" por parte de los apóstoles. Si se da este nuevo fervor o generosidad, habrá también apóstoles más disponibles para la misión.
Toda renovación eclesial auténtica, bajo la acción del Espíritu Santo, se realiza en el paradigma del Cenáculo: "Como los Apóstoles después de la Ascensión de Cristo, la Iglesia debe reunirse en el Cenáculo 'con María la Madre de Jesús' (Act 1,14), para implorar el Espíritu Santo y obtener fuerza y ardor para cumplir el mandato misionero. También nosotros, mucho más que los Apóstoles, tenemos necesidad de ser transformados y guiados por el Espíritu" (RMi 92; cf. AG 4; LG 59; EN 82; RH 22; RMa 24).
LÍNEAS BÁSICAS DE LA MATERNIDAD DE MARÍA RESPECTO A LOS SACERDOTES MINISTROS
Escrito por Super UserLÍNEAS BÁSICAS DE LA MATERNIDAD DE MARÍA RESPECTO A LOS SACERDOTES MINISTROS
(Mons. Juan Esquerda Bifet)
Presentación: La presencia activa y materna de María en la vida y en los ministerios sacerdotales
1: En el itinerario formativo
2: En la vida sacerdotal
3: En el ejercicio de los misterios
Conclusión: Nuestro lugar en el Corazón materno de María
* * *
Presentación: La presencia activa y materna de María en la vida y en los ministerios sacerdotales
En todos los temas cristianos hay que tener en cuenta que nos encontramos ante realidades de gracia, las cuales continúan aconteciendo. La presencia activa y materna de María en la Iglesia es una de estas realidades de gracia y tiene una dimensión sacerdotal, en bien de toda la Iglesia y especialmente en bien de los sacerdotes ministros.
Las palabras de Jesús dirigidas a María, continúan repercutiendo en su Corazón maternal: “He aquí a tu hijo” (Jn 19,26). Su maternidad es una realidad salvífica permanente: “Y esta maternidad de María perdura sin cesar en la economía de la gracia” (LG 62).
También las palabras de Jesús al discípulo amado, continúan siendo actuales: “He aquí a tu Madre” (Jn 19,27). Un buen “discípulo” las sigue escuchando y poniéndolas en práctica. Por esto, a María “la Iglesiacatólica, enseñada por el Espíritu Santo, la honra con filial afecto de piedad como a Madre amantísima” (LG 53).
El encargo recibido por Juan, en nombre de todos los creyentes, se concretó en una relación familiar: “La recibió en su casa” (Jn 19,27). Esta recepción equivale a recibirla en “comunión de vida” por parte de todo fiel, y especialmente por parte de todo ministro ordenado: “La palabra del Crucificado al discípulo —a Juan y, por medio de él, a todos los discípulos de Jesús: « Ahí tienes a tu madre » (Jn 19, 27)— se hace de nuevo verdadera en cada generación” (enc. Deus Caritas Est, n. 42).[1]
María estaba habituada a “meditar” las palabras de Jesús en su Corazón (cfr. Lc 2,19.51). Por esto, el encargo recibido en el Calvario, como un nuevo aspecto de su maternidad, lo relacionaba con otras palabras del mismo Jesús. Efectivamente, todo lo que decía y hacía Jesús estaba relacionado con “las cosas (o la casa) del Padre” (Lc 2,49), con su “hora” (Jn 2,4), con su actitud oblativa “en manos” del Padre (Lc 23,46). María había escuchado cómo Jesús calificó a la comunidad de sus seguidores: “Mi madre, y mis hermanos” (Mt 12,48; cfr. Lc 8,21). Y en la última cena, las referencias de Jesús a sus discípulos también eran otras tantas llamadas al Corazón de la Madre: “Ellos son mi expresión… les amas como a mí… yo estoy en ellos” (Jn 17,10.23.26). Nadie mejor que ella podía captar los sentimientos profundos de Cristo, en cuyo Corazón abierto podía “contemplar” todo su amor para con cada uno de los redimidos (cfr. Jn 19,27). Recibir a los discípulos y hermanos de Jesús, significaba para ella recibir al mismo Jesús: “Quien a vosotros recibe, a mí me recibe” (Mt 10,40).
La herencia de Jesús al dejarnos a su Madre como nuestra, continúa siendo una realidad salvífica, siempre actual: “Jesucristo – decía el Cura de Ars - tras habernos dado cuanto nos podía dar, quiere aún dejarnos en herencia lo más precioso que él tenía: su Santa Madre”.[2]
Es una realidad que muestra a María como la madre siempre “ocupada” en relación con la Iglesia, en la cual se actualiza “el influjo salvífico de la Bienaventurada Virgen” (LG 60).
Todo esto tiene lugar, aunque de modo diferenciado, en cada una de las vocaciones. María es Madre, modelo, intercesora, ayuda, maestra, guía, discípula… Así lo podemos aplicar a todo el proceso formativo sacerdotal, como también a la realidad de su vida y del ejercicio de los ministerios.
La "memoria" de María equivale a tomar conciencia de su presencia activa y materna en el campo de la evangelización, como modelo y ayuda en el seguimiento y discipulado evangélico de todos los creyentes y especialmente del sacerdocio ministerial.[3]
1: En el itinerario formativo
María acompaña el proceso formativo de todas las vocaciones. Ella está presente en todo el itinerario vocacional como figura y prototipo de toda la Iglesia. La vocación de los primeros Apóstoles es un punto de referencia para toda vocación y, de modo especial, para la vocación sacerdotal. En esta referencia apostólica encontramos un inicio, como fue después de Caná, cuando los discípulos creyeron en Jesús y le siguieron “con su madre” (cfr. Jn 2,11-12). Encontramos también un momento especial de perseverancia (junto a la cruz: Jn 19,25-27) y un tiempo peculiar de renovación bajo la acción del Espíritu Santo (Pentecostés: Hech 1,14; 2,4). Ella está de modo activo y materno en todo el proceso de formación vocacional, que es siempre de relación personal y comunitaria con Cristo, a modo de encuentro y amistad, seguimiento e imitación, fraternidad y misión.
Para afrontar estos tres momentos de la vocación sacerdotal, se necesita una formación inicial y permanente, de suerte que la vocación sea una vivencia permanente y comprometida, a modo de “vida según el Espíritu” (cfr. Gal 5,25) y con vistas a ejercer los ministerios. Se quiere vivir lo que uno es y hace, como proceso de consagración y misión.
Puesto que en el sacerdocio ministerial (de los ministros ordenados) se trata de una especial participación en la consagración y misión de Cristo Sacerdote, presente en la Iglesia, hay que tener en cuenta estos datos esenciales: María es Madre de Cristo Sacerdote, Madre de la Iglesia Pueblo sacerdotal y Madre especial de los sacerdotes ministros. La maternidad peculiar de María respecto a los sacerdotes ministros, se integra armónicamente con su cuidado materno respecto a todos los redimidos.
El itinerario formativo del sacerdote ministro (tanto en el período inicial como en la formación continuada), incluye necesariamente la formación sobre el propio carisma específico sacerdotal, que tiene dimensión mariana por su misma naturaleza.[4]
María es "Madre del sumo y eterno Sacerdote" (PO 18). La unción sacerdotal de Cristo (Verbo Encarnado), de la que participa toda la Iglesia, tuvo lugar en le seno de María, por obra del Espíritu Santo. Desde entonces, María, “guiada por el Espíritu Santo, se entregó totalmente al misterio de la redención de los hombres” (PO 18). De este modo, quedó relacionada íntimamente con el ser (la consagración) de Cristo, con su obrar (la misión) y con su vivencia y estilo de vida. En el momento del sacrificio de la cruz, “se asoció con entrañas de madre a su sacrificio, consintiendo amorosamente en la inmolación de la víctima que ella misma había engendrado" (LG 58).
El “sí” sacerdotal de Cristo tuvo lugar en el seno de María: “Vengo para hacer tu voluntad” (Heb 10,7; Sal 40.9). El “sí” de María (Lc 1,38) quedó unido al de Jesús. Ella llevó en su seno a Jesús Sacerdote: Dios, hombre, Salvador. Su actitud habitual de meditar la Palabra (cfr. Lc 2,10.51) deja entender que recibió al Verbo antes en su corazón que en su seno.[5]
El “Magníficat” es el fruto de su “sí” contemplativo, unido al sacrificio de Cristo Sacerdote, que ya desde su concepción e infancia era “oblación” al Padre, en el Corazón y por manos de María (cfr. Heb 10,7ss, en relación con Lc 2,22, cuando tuvo lugar la presentación de niño en el templo).
María es Madre de la Iglesia Pueblo sacerdotal, puesto que "pertenece indisolublemente al misterio de Cristo y al misterio de la Iglesia" (RMa 27), al que también sirve el sacerdote en los ministerios proféticos, litúrgicos y de dirección y caridad. La Iglesia es “Pueblo sacerdotal” (LG 10). María es Madre de la Iglesia por haber engendrado a Cristo, Cabeza de la mima. Es “Madre de la Iglesia” por ser “Madre de los pastores y de los fieles”.[6]
Los contenidos del título “Madre de la Iglesia”, ya están en el concilio. Efectivamente, María es “verdadera Madre de. Redentor... verdaderamente madre de los miembros de Cristo por haber cooperado con su amor a que naciesen en la Iglesia los fieles, que son miembros de aquella cabeza, por lo que también es saludada como miembro sobreeminente y del todo singular de la Iglesia, su prototipo y modelo destacadísimo en la fe y caridad” (LG 53).
La misión de la Santísima Virgen María se inserta, pues, “en el misterio del Verbo Encarnado y del Cuerpo Místico” (LG 54). María es, a la vez, miembro y Madre del Pueblo sacerdotal, Tipo o figura de la Iglesia (cfr. LG 53, 62-65). Es “Madre en la Iglesia y a través de la Iglesia" (RMa 24). "Con su nueva maternidad en el Espíritu, acoge a todos y a cada uno por medio de la Iglesia" (RMa 37).
María es Madre especial del sacerdote ministro (y de todos los ministros ordenados), en todo el proceso de vocación, seguimiento y misión, puesto que "Cristo, moribundo en la cruz, la entregó como Madre al discípulo" (OT 8).[7]
El sacerdote ministro participa de la consagración sacerdotal de Cristo (que tuvo lugar en el seno de María), prolonga la misma misión de Cristo (quien asoció y sigue asociando a María), está llamado a vivir en sintonía con él (como María, guiada por el Espíritu Santo, se asoció a la obra redentora de Cristo). De este modo, María está presente y activa maternalmente en todas las etapas del itinerario de la vida apostólica.
La participación peculiar por parte de los sacerdotes ministros en el sacerdocio de Cristo, es una “consagración” especial, que deriva hacia la “misión”, como prolongación de la misma misión de Cristo, para obrar “en su nombre” o “en persona de Cristo”. Esta participación en la consagración y misión de Cristo exige y, al mismo tiempo, hace posible una sintonía y docilidad generosa. "De esta docilidad hallarán siempre un maravilloso ejemplo en la Bienaventurada Virgen María, que, guiada por el Espíritu Santo, se consagró toda al ministerio de la redención de los hombres" (PO 18).
Todos los aspectos y etapas de la formación sacerdotal hacen referencia a María, como “Madre y educadora de nuestro sacerdocio”(PDV 82). Efectivamente, “cada aspecto de la formación sacerdotal puede referirse a María como la persona humana que mejor que nadie ha correspondido a la vocación de Dios; que se ha hecho sierva y discípula de la Palabra hasta concebir en su corazón y en su carne al Verbo hecho hombre para darlo a la humanidad; que ha sido llamada a la educación del único y eterno Sacerdote, dócil y sumiso a su autoridad materna. Con su ejemplo y mediante su intercesión, la Virgen santísima sigue vigilando el desarrollo de las vocaciones y de la vida sacerdotal en la Iglesia” (ibídem).
De ahí la relación esencial del sacerdote ministro con María “la Madre de Jesús” (Jn 2,1; 19,25-27). Por esto, "la espiritualidad sacerdotal no puede considerarse completa, sin no toma seriamente en consideración el testamento de Cristo crucificado... Todo presbítero sabe que María, por ser Madre, es la formadora eminente de su sacerdocio, ya que ella es quien sabe modelar el corazón sacerdotal" (Directorio para el ministerio y la vida de los presbíteros, 68).
Decía Benedicto XVI a los seminaristas en Colonia durante la XX Jornada Mundial de la Juventud (19 agosto 2005), comentando el encuentro de los Magos con Jesús en Belén (cfr. Mt 2,11) y describiendo el itinerario formativo sacerdotal: “Es precisamente la Madre quien le muestra a Jesús, su Hijo, quien se lo presenta; en cierto modo se lo hace ver, tocar, tomar en sus brazos. María le enseña a contemplarlo con los ojos del corazón y a vivir de él. En todos los momentos de la vida en el seminario se puede experimentar esta amorosa presencia de la Virgen, que introduce a cada uno al encuentro con Cristo en el silencio de la meditación, en la oración y en la fraternidad. María ayuda a encontrar al Señor sobre todo en la celebración eucarística, cuando en la Palabra y en el Pan consagrado se hace nuestro alimento espiritual cotidiano”.
2: En la vida sacerdotal
La espiritualidad mariana es una dimensión intrínseca a la espiritualidad eclesial. De modo particular lo es de la espiritualidad sacerdotal. Los Apóstoles y discípulos formaban parte de la familia de Jesús: “Mi Madre y mis hermanos son aquellos que oyen la Palabra de Dios y la cumplen” (Lc 8,21; cfr. 2,19.51). El hecho del Cenáculo es paradigmático, como punto de referencia durante toda la historia eclesial, donde los Apóstoles y discípulos reunidos, “perseveraban en la oración, con un mismo espíritu, en compañía de algunas mujeres, de María, la madre de Jesús” (Hech 1,14).
Los “sentimientos” de Cristo respecto a su Madre tienen que reflejarse en quienes participan de la misma consagración del Señor y prolongan su misma misión, mientras presentan el mismo estilo de vida como testimonio evangélico. Cristo fue “ungido” sacerdote en el seno de María, por obra del Espíritu Santo, y quiso nacer de ella, asociándola a su obra redentora. La espiritualidad sacerdotal mariana es una actitud de reverencia y amor filial hacia quien es "Madre del sumo y eterno Sacerdote, Reina de los Apóstoles y refugio de su ministerio" (PO 18). El ser (consagración), el obrar (misión) y la vivencia (espiritualidad) del sacerdote, incluyen una relación estrecha con María.
La comunión en el Presbiterio de la Iglesia particular supone “unión” y sintonía vivencial con “María, la Madre de Jesús” (Hech 1,14). Por esto, la “fraternidad sacramental” del Presbiterio (PO 8), que es una “realidad sobrenatural” (PDV 74), como derivación del sacramento del Orden (cfr. LG 28), necesita esta sintonía de oración en comunión fraterna y en espera activa de las nuevas gracias del Espíritu Santo.María, también ahora, “precede el testimonio apostólico" (RMa 27).
Las figuras sacerdotales de la historia (como San Juan de Ávila, San Juan Eudes, San Luís María Grignion de Montfort, San Alfonso Mª de Ligorio, el Santo Cura de Ars, San Antonio Mª Claret, etc.), son puntos de referencia para recordar y vivir la relación de María con los sacerdotes ministros. Los santos sacerdotes han vivido esta relación con María a la luz de la Encarnación (consagración sacerdotal de Cristo en el seno de su Madre), del sacrificio redentor que culmina en la cruz (con María en actitud oblativa), de la Eucaristía (como pan de vida que se formó en el seno de María y que actualiza el misterio redentor) y de la Iglesia (como madre de las almas).
Por ser “Madre de Jesucristo y Madre de los sacerdotes” (PDV 82), María ejerce también en ellos un “influjo salvífico” (LG 62), que es de presencia activa y de modelo de asociación a Cristo Sacerdote. Ella es “Madre y educadora de nuestro sacerdocio” (PDV 82). En este sentido, "los sacerdotes tienen particular título para que se les llame hijos de María" (Pío XII, Menti nostrae n.124).
Esta espiritualidad se concreta en relación filial e imitación. Por ser “madre y educadora de nuestro sacerdocio... nosotros los sacerdotes estamos llamados a crecer en una sólida y tierna devoción a la Virgen María, testimoniándola con la imitación de sus virtudes y con la oración frecuente” (PDV 82).
Las palabras de Jesús en la cruz (“he aquí a tu Madre”) siguen aconteciendo en quienes quieren vivir en sintonía con “los sentimientos” oblativos de Cristo (Fil 2,5). La invitación a asumirla como Madre, incluye dejarse orientar por ella como modelo de maternidad apostólica, en todo el itinerario de formación, en la vida y en el ministerio sacerdotal: “Haced lo que él os diga” (Jn 2,5). María es modelo y ayuda de fidelidad a la Palabra y al Espíritu Santo.
En los documentos magisteriales sobre el sacerdocio ministerial, es frecuente la invitación a vivir la relación interpersonal con María. Ella “es Madre del eterno Sacerdote y, por eso mismo, Madre de todos los sacerdotes... de una manera especial siente predilección por los sacerdotes, que son viva imagen de su Jesús" (Menti nostrae, n.124). Por ser “Madre de los sacerdotes”, "en cierto modo, somos los primeros en tener derecho a ver en ella a nuestra Madre" (Juan Pablo II, Carta del Jueves Santo 1979). Por esto, "conviene que se profundice constantemente nuestro vínculo espiritual con la Madre de Dios" (Carta del Jueves Santo 1988).[8]
3: En el ejercicio de los ministerios
Los sacerdotes ministros prolongan la misma misión de Cristo, proclamando su palabra, celebrando su misterio pascual y actualizando su acción salvífica y pastoral. La fidelidad a la consagración y a la misión, participada de Cristo, en todos los momentos de la vida y ministerio del sacerdote, constituye la esencia de su espiritualidad. Con la ayuda y el ejemplo de María, Madre de Cristo Sacerdote y de la Iglesia como Pueblo sacerdotal, viven estos ministerios con las mismas actitudes y “los mismos sentimientos de Cristo” (Fil 2,5).
Los ministerios sacerdotales son una especial concretización de la maternidad de la Iglesia (cfr. PO 6) y, consecuentemente, tienen que ejercerse con el “amor maternal” de María, figura de la Iglesia madre (cfr. LG 65; Gal 4,19, en relación con Gal 4,4-7 y 4,26). El sacerdote, como Pablo, toma a María como figura e imagen materna, "la mujer" (Gal 4,4), para describir su difícil y, a veces, doloroso ministerio de "formar a Cristo" en los demás (Gal 4,19).
Comentando este texto paulino de la carta a los Gálatas, Juan Pablo II, en la encíclica Redemptoris Mater lo aplica al apóstol para resaltar su vivencia mariana: “En estas palabras de san Pablo está contenido un indicio interesante de la conciencia materna de la Iglesia primitiva, unida al servicio apostólico entre los hombres. Esta conciencia permitía y permite constantemente a la Iglesia ver el misterio de su vida y de su misión a ejemplo de la misma Madre del Hijo, que es el « primogénito entre muchos hermanos » (Rom 8, 29)” (RMa 43).
Recibir a María en la propia casa, tiene, pues, para el sacerdote, un sentido ministerial: "Quecada uno de nosotros permita a María que ocupe un lugar en la casa del propio sacerdocio sacramental, como Madre y Mediadora de aquel gran misterio (cfr. Ef 5,32), que todos deseamos servir con nuestra vida" (Juan Pablo II, Carta del Jueves Santo, 1988).
La espiritualidad sacerdotal es de “caridad pastoral”, a modo de “unidad de vida”, en sintonía de actitudes con Cristo Buen Pastor (cfr. PO 13). Esta espiritualidad específica de los sacerdotes se realiza "ejerciendo sincera e incansablemente sus ministerios en el Espíritu de Cristo" (PO 13). En el ejercicio de los ministerios, los sacerdotes están llamados a vivir la espiritualidad mariana de todo bautizado, en relación con la presencia activa y materna de María. Ella es modelo, intercesora, guía, maestra y discípula. La caridad pastoral, quintaesencia de la espiritualidad sacerdotal, matiza todos los aspectos de la devoción y culto mariano: conocerla, amarla, imitarla, celebrarla e invocarla.
Esta caridad pastoral tiene el matiz de “amor materno” a imitación de María. "La Virgen fue en su vida ejemplo de aquel amor maternal con que es necesario que estén animados todos aquellos que, en la misión apostólica de la Iglesia, cooperan a la regeneración de los hombres" (LG 65).
Los santos sacerdotes han subrayado también el paralelismo entre María y el sacerdocio ministerial, especialmente en relación con la Eucaristía. “Mirémonos, padres, de pies a cabeza, ánima y cuerpo, y vernos hemos hechos semejables a la sacratísima Virgen María, que con sus palabras trajo a Dios a su vientre... Y el sacerdote le trae con las palabras de la consagración" (San Juan de Ávila, Plática 1ª).[9]
Por ser la Eucaristía “fuente y cima de toda la evangelización” (PO 5), todos los ministerios se relacionan armónicamente entre sí: se anuncia a Cristo, se le hace presente (especialmente en la Eucaristía) y se le comunica para que sea centro de la vida personal y comunitaria. María concibió aquel cuerpo ofrecido en sacrificio que ahora se actualiza sacramentalmente por manos del sacerdote y, también por medio de él, se anuncia y comunica. El anuncio del evangelio presupone la actitud de contemplación de la Palabra, como María que la meditaba en su corazón (cfr. Lc 2,19.51). Con ella, se vive mejor el equilibrio y la armonía de los ministerios.
María está presente en la Iglesia, que es misterio de comunión misionera, a cuyo servicio está el sacerdote. Los ministerios sacerdotales tienden a construir la comunidad eclesial como comunidad de oración y fraternidad (a la luz de la Palabra y en relación con la Eucaristía), para llegar a ser “un solo corazón y una sola alma” (Hech 4,32) y de este modo anunciar el evangelio “con audacia” (Hech 4,31). Para ello es imprescindible la actitud permanente y programática de vivir la comunión en sintonía “con María, la Madre de Jesús” (Hech 1,14). “En ella encontramos la esencia de la Iglesia realizada del modo más perfecto” (Benedicto XVI, Sacramentum Caritatis 96).
El ministerio sacerdotal, especialmente en la celebración eucarística (que presupone el anuncio y lleva a la vivencia), tiene en cuenta el modelo mariano de recibir al Señor para comunicarlo a los demás. “Desde la Anunciación hasta la Cruz, María es aquélla que acoge la Palabra que se hizo carne en ella y que enmudece en el silencio de la muerte. Finalmente, ella es quien recibe en sus brazos el cuerpo entregado, ya exánime, de Aquél que de verdad ha amado a los suyos « hasta el extremo » (Jn 13,1)” (Sacramentum Caritatis 33).
El sacerdote ministro, como Juan, recibe el don de María para comunicarlo a los demás, cooperando como ella a hacerlo vida propia: “La Bienaventurada Virgenavanzó en la peregrinación de la fe y mantuvo fielmente la unión con su Hijo hasta la cruz. Allí, por voluntad de Dios, estuvo de pie (cfr. Jn 19,25), sufrió intensamente con su Hijo y se unió a su sacrificio con corazón de Madre que, llena de amor, daba su consentimiento a la inmolación de su Hijo como víctima. Finalmente, Jesucristo, agonizando en la cruz, la dio como madre al discípulo con estas palabras: Mujer, ahí tienes a tu hijo” (LG 58).
Para todo bautizado y especialmente para el sacerdote ministro “María de Nazaret, icono de la Iglesia naciente, es el modelo de cómo cada uno de nosotros está llamado a recibir el don que Jesús hace de sí mismo en la Eucaristía” (Sacramentum Caritatis 33).
Por medio de la acción ministerial de la Iglesia, la maternidad de María “perdura sin cesar en la economía de la gracia” (LG 62). María “está unida también íntimamente a la Iglesia... porque en el misterio de la Iglesia que con razón también es llamada madre y virgen, la Bienaventurada Virgen María la precedió, mostrando en forma eminente y singular el modelo de la virgen y de la madre” (LG 63).
La espiritualidad mariana de la Iglesia es esencialmente ministerial y, al mismo tiempo, reclama la fidelidad carismática a las nuevas gracias del Espíritu Santo: “Por lo cual, también en su obra apostólica, con razón, la Iglesia mira hacia aquella que engendró a Cristo, concebido por el Espíritu Santo y nacido de la Virgen, precisamente para que por la Iglesia nazca y crezca también en los corazones de los fieles” (LG 65).
Conclusión: Nuestro lugar en el Corazón materno de María
La participación del sacerdote ministro en el ser, en el obrar y en las vivencias de Cristo, está, pues, íntimamente relacionada con María, Madre de Cristo Sacerdote y de la Iglesia Pueblo sacerdotal. Su vocación, consagración y misión se realizan en dimensión cristológica, mariana y eclesial. Cada momento ministerial tiene un paralelismo con María, especialmente en la celebración eucarística donde se actualiza el sacrificio redentor.
El sacerdote ministro sirve los signos ministeriales de la maternidad de la Iglesia, actualizando la maternidad de María. Cristo se prolonga en los signos y ministerios de la Iglesia asociando a María. María ve en los sacerdotes ministros un “Jesús viviente” (San Juan Eudes), como “instrumentos vivos” de Cristo Sacerdote (PO 12).
Juan Pablo II, en Pastores dabo vobis, indicaba unas pistas de renovación, vividas en un "Cenáculo" permanente, en el que, gracias a la presencia activa de María, "Madre de los sacerdotes" y "Reina de los Apóstoles", tendrá lugar "una extraordinaria efusión del Espíritu de Pentecostés... La Iglesia está dispuesta a responder a esta gracia" (PDV 82).
Cuando se meditan las palabras del Señor dirigidas a María (“he aquí a tu hijo”: Jn 19,26), es fácil encontrar la armonía de la revelación y de la fe, que tendría lugar en el Corazón de María, al meditar en estas palabras de la oración sacerdotal de Jesús: “Ellos son mi expresión” (Jn 17,10), “los amas como a mí” (Jn 17,23), porque “yo estoy en ellos” (Jn 17,26). María vivió y sigue viviendo en esta “onda” cristológica y sacerdotal.
Es emocionante y programática la despedida de Juan Pablo II, en la carta del Jueves Santo de 2005, unos días ante de su muerte: “¿Quién puede hacernos gustar la grandeza del misterio eucarístico mejor que María? Nadie cómo ella puede enseñarnos con qué fervor se han de celebrar los santos Misterios y cómo hemos estar en compañía de su Hijo escondido bajo las especies eucarísticas. Así pues, la imploro por todos vosotros, confiándole especialmente a los más ancianos, a los enfermos y a cuantos se encuentran en dificultad. En esta Pascua del Año de la Eucaristía me complace hacerme eco para todos vosotros de aquellas palabras dulces y confortantes de Jesús: «Ahí tienes a tu madre« (Jn 19, 27)” (Carta Jueves Santo, 2005, n.8).
Los sacerdotes ministros y los futuros sacerdotes son llamados a “amar y venerarcon amor filial a la Santísima Virgen María, que al morir Cristo Jesús en la cruz fue entregada como madre al discípulo” (OT 8). La espiritualidad sacerdotal mariana es, pues, “filial devoción y veneración a esta Madre del Sumo y Eterno Sacerdote, Reina de los Apóstoles y auxilio de su ministerio” (PO 18).
El Santo Cura de Ars, confió sus feligreses al Corazón Inmaculado de María, poniendo sus nombres en un corazón de plata. La relación de los bautizados con la ternura materna de María la expresaba así: "El Corazón de la Santísima Virgen María es la fuente de la que Cristo tomó la sangre con que nos redimió... En el corazón de esta Madre no hay más que amor y misericordia. Su único deseo es vernos felices. Sólo hemos de volvernos hacia ella para ser atendidos... El hijo que más lágrimas ha costado a su madre, es el más querido de su corazón... El corazón de María es tan tierno para nosotros, que los de todas las madres reunidas no son más que un pedazo de hielo al lado suyo".[10]
Benedicto XVI confió al Corazón materno de María el cuidado de la vocación, de la vida y del ministerio sacerdotal: “¡He aquí el secreto de vuestra vocación y de vuestra misión! Está guardado en el corazón inmaculado de María, que vela con amor materno sobre cada uno de vosotros. Recurrid frecuentemente a ella con confianza” (Discurso a los seminaristas, Colonia, Jornada Mundial de la Juventud, 19 agosto 2005).
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La alegría de ser sacerdote es una nota característica de su identidad, como anunciador, celebrador y comunicador del Misterio Pascual de Cristo. Por esto, “el gozo pascual” (PO 11) es parte integrante del testimonio del sacerdote y nota característica de su identidad, también y especialmente con vistas a suscitar vocaciones sacerdotales.
La identidad sacerdotal se concreta en el “gozo pascual” de vivir lo que uno es y hace: “El sacerdote, hombre de la Palabra divina y de las cosas sagradas, debe ser hoy más que nunca un hombre de alegría y de esperanza… «La felicidad que hay en el decir la misa se comprenderá sólo en el cielo», escribía el Cura de Ars. Os animo por tanto a reforzar vuestra fe y la de los fieles en el Sacramento que celebráis y que es la fuente de la verdadera alegría. El santo de Ars escribía: «El sacerdote debe sentir la misma alegría (de los apóstoles) al ver a Nuestro Señor, al que tiene entre las manos»”.[11]
ESTUDIOS:
F.M. ÁLVAREZ, La Madredel Sumo y Eterno Sacerdote (Barcelona, Herder, 1968); María y la Iglesia: espiritualidad mariana sacerdotal: Seminarios 33 (1987) 465-475.
A. BANDERA, La Virgen Maríay el sacerdocio de Cristo: Teología Espiritual 42 (1998) 35-60.
M. BORDONI, La dimensione mariana del sacerdozio ordinato: Sacrum Ministerium 10 (2004) 175-205.
G. CALVO, La espiritualidad mariana del sacerdote en Juan Pablo II: Compostellanum 33 (1988) 205-224.
G. D'AVACK, Il sacerdote e Maria (Milano, Ancora, 1968).
E. DE LA LAMA, La Madrede Jesús en el kerigma de Pablo. Para el estudio del perfil mariano de la espiritualidad sacerdotal: Scripta de Maria 3 (2006) 89-130.
A. De LUÍS FERRERAS, María, en: Diccionario del Sacerdocio, o.c., 415-421.
M. DUPERRAY, Regina Cleri: en: Maria, Études sur la Sainte Vierge (Paris, 1949-1971), III, 659-696.
J. ESQUERDA BIFET, María en la espiritualidad sacerdotal, en: Nuevo Diccionario de Mariología (Madrid, Paulinas 1988) 1799-1804; Maria nella spiritualità sacerdotale, in: nuevo Dizionario di mariología (Paoline, 1985) 1237-1242; Espiritualidad sacerdotal, Servidores del Buen Pastor (Valencia, EDICEP, 2008), cap.V (Iglesia, María); Teología de la espiritualidad sacerdotal(Madrid, BAC, 1991) cap. XI (Espiritualidad sacerdotal mariana); Espiritualidad mariana (Valencia, EDICEP, 2009) cap.VIII, 4 (María y la vocación sacerdotal); Spiritualità mariana della Chiesa, Esposizione sistematica (Roma, Centro di Cultura Mariana, 1994) cap.VII, 4.
J.M. FERRER GRENESCHE, La Virgen Maríaen la formación sacerdotal: Toletana 13 (2005) 11-29.
N. GARCÍA GARCÉS, María y la espiritualidad de los ministros ordenados, en: Espiritualidad sacerdotal, Congreso (Madrid, EDICE 1989) 263-282.
L.M. HERRÁN, Sacerdocio y maternidad espiritual de Maria: Teología del Sacerdocio 7 (1975) 517‑542; María en la espiritualidad sacerdotal según la doctrina del Vaticano II: Annales Theologici 3 (1989) 347-370.
A. HUERGA, La devoción sacerdotal a la Santisima Virgen: Teología Espiritual 13 (1969) 229‑253.
J.L. ILLANES, Espiritualidad y sacerdocio (Madrid, Rialp, 1999).
B. JIMÉNEZ DUQUE, Maria en la espiritualidad del sacerdote: Teología Espiritual 19 (1975) 45‑59.
A. De LUIS, María, en: Diccionario del sacerdocio (Madrid, BAC, 2005) 415-421.
P. PHILIPPE, La Virgen Maríay el sacerdote (Bilbao, Desclée, 1955).
C. RODRÍGUEZ, María en la vida espiritual del sacerdote: Revista espiritual n.57 (1977) 50‑56.
R. SÁNCHEZ CHAMOSO, María y la vocación en la Iglesia: Seminarios 33 (1987) 221-246.
J. SARAIVA, Santità mariana del sacerdote, en: (Congregazione per il Clero) Sacerdoti, forgiatori di santi per il nuovo millennio sulle orme dell'apostolo Paolo. Atti del VI Convegno Internazionale dei sacerdoti (Malta, 18-23 ottobre 2004) 100-113.
E. SAURAS, Maria y el sacerdote: Estudios Marianos 13 (1953) 143‑172.
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Para facilitar al eventual traductor en italiano, transcribimos algunos textos magisteriales en italiano:
(En la presentación):
"La parola del Crocifisso al discepolo — a Giovanni e attraverso di lui a tutti i discepoli di Gesù: « Ecco tua madre » (Gv 19, 27) — diventa nel corso delle generazioni sempre nuovamente vera” (enc. Deus Caritas est, n.42).
(Todavía en la presentación):
"Gesù Cristo dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più prezioso, vale a dire della sua Santa Madre" (Nodet, 244; testo di riferimento nella Lettera del Papa Benedetto XVI, 16 giugno 2009, nota 61).
(En la conclusión):
"Il segreto della vostra vocazione e della vostra missione è conservato nel Cuore Immacolato di Maria, che veglia con amore materno su ognuno di voi" (Benedetto XVI, Discorso ai seminaristi: Colonia, Giornata Mondiale della Gioventù, 19 agosto 2005).
[1]Por su especial actualidad sacerdotal, transcribimos la nota 130 de la encíclica Redemptoris Mater, con la referencia a San Agustín: “Como es bien sabido, en el texto griego la expresión «eis ta ídia» supera el límite de una acogida de María por parte del discípulo, en el sentido del mero alojamiento material y de la hospitalidad en su casa; quiere indicar más bien una comunión de vida que se establece entre los dos en base a las palabras de Cristo agonizante. Cfr. San Agustín, In Ioan. Evang. tract. 119, 3: CCL 36, 659: « La tomó consigo, no en sus heredades, porque no poseía nada propio, sino entre sus obligaciones que atendía con premura ».
[2]Ver la fuente de este y de otros textos del Cura de Ars, en: Benedicto XVI, Carta para la convocación de un año sacerdotal con ocasión del 150 aniversario del Dies Natalis del Santo Cura de Ars (16 junio 2009). Ordinariamente se toman de: B. NODET, Juan-María B. Vianney, Cura de Ars. Su pensamiento y su corazón (Barcelona, Hormiga de Oro, 1994).
[3]Este tema de la presencia de María es muy explícito en los documentos de Juan Pablo II, especialmente a partir de Redemptoris Mater (ver nn.1, 38, 32-32, 38, 48), quien se remite a los documentos del concilio. Ver también la encíclica Ecclesia de Eucharistia, n.57: “María está presente con la Iglesia, y como Madre de la Iglesia, en todas nuestras celebraciones eucarísticas”. Decía Germán de Constantopla: "Puesto que sigues todavía paseándote corporalmente en medio de nosotros, lo mismo que si estuvieras aquí viva, los ojos de nuestros corazón se sienten atraídos para mirarte todo el día... Tú visitas a todos y velas por todos... No has abandonado este mundo perecedero... sino que estás muy cercana de los que te invocan" (Oratio in Dormitionem SS. Deiparae: PG 98, 343, 346).
[4]Ver estudios citados en la bibliografía final. Sobre el itinerario formativo, resumo los contenidos en: Espiritualidad mariana(Valencia, EDICEP, 2009) cap.VIII, 4 (María y la vocación sacerdotal).
[5]Dice San Agustín: "También para María, de ningún valor le hubiera sido la misma maternidad divina, si no hubiera llevado a Cristo más felizmente en su corazón que en su carne" (Sobre la santa virginidad, 3).
[6]Pablo VI, Alocución, en Santa María la Mayor, 21 noviembre 1964).
[7]Ver bibliografía final, sobre la espiritualidad mariana del sacerdote ministro.
[8]Ver éstos y otros textos marianos en su contexto: PO 19; OT 8; can. 246, 276; PDV 36, 38, 45, 82. En la exhortación apostólica Pastores gregis: nn.3,13, 14-15, 36, 74.
[9]Resumo la espiritualidad mariana sacerdotal de San Juan de Ávila, en:La doctrina mariológica del Maestro San Juan de Avila: Marianum 62 (2001) 91-114.
[10]Sobre la fuente de estas afirmaciones del Santo Cura de Ars, ver la nota 2 y también: Juan XXIII, Sacerdotii nostri primordia (encíclica con ocasión del primer centenario de su muerte, 1959).
[11]Benedicto XVI, Video conferencia, Retiro en Ars, 28 septiembre 2009).
MARÍA EN EL ITINERARIO DE LA FORMACIÓN, DE LA VIDA Y DEL MINISTERIO SACERDOTAL
Escrito por Super UserMARÍA EN EL ITINERARIO DE LA FORMACIÓN, DE LA VIDA Y DEL MINISTERIO SACERDOTAL
Juan Esquerda Bifet
Presentación: La presencia activa y materna de María en la formación, en la acción ministerial y en la vida sacerdotal
1. En el itinerario de la formación inicial y permanente
2. En el ejercicio de los ministerios
3. En el itinerario de la vida sacerdotal
Conclusión: Nuestro lugar sacerdotal en el Corazón materno de María
* * *
Presentación: La presencia activa y materna de María en la formación, en la acción ministerial y en la vida sacerdotal
En el desarrollo de los temas cristianos es conveniente recordar que nos encontramos ante realidades de gracia, las cuales continúan aconteciendo, más allá de nuestras expresiones verbales y de nuestros conceptos. No se trata, pues, de una teoría que se va desarrollando en torno a preferencias, palabras o a ideas, que son frecuentemente objeto de discusión. La presencia activa y materna de María en la Iglesia es una de estas realidades de gracia y tiene una dimensión sacerdotal, en bien de toda la Iglesia (Pueblo sacerdotal) y especialmente en bien de los sacerdotes ministros.
El encargo de Jesús a María en el Calvario, no sólo se recuerda, sino que es “memoria” en el sentido estricto, es decir, se actualiza en las celebraciones litúrgicas, en la historia de la Iglesia y en la vida de cada creyente. Las palabras de Jesús dirigidas a María, continúan repercutiendo también en su Corazón maternal: “He aquí a tu hijo” (Jn 19,26). Su maternidad es una realidad salvífica permanente: “Y esta maternidad de María perdura sin cesar en la economía de la gracia” (LG 62). Es algo real, que no sabemos cómo definir, pero ciertamente es “influjo salvífico” (LG 70), como de instrumento vivo de la gracia.[1]
También las palabras de Jesús al discípulo amado se actualizan continuamente: “He aquí a tu Madre” (Jn 19,27). Un buen “discípulo” las sigue escuchando y poniéndolas en práctica como recién salidas del Corazón del Señor. Por esto, a María “la Iglesiacatólica, enseñada por el Espíritu Santo, la honra con filial afecto de piedad como a Madre amantísima” (LG 53).
El encargo recibido por Juan, en nombre de todos los creyentes, se concretó en una relación familiar: “La recibió en su casa” (Jn 19,27). Esta recepción equivale a recibirla en “comunión de vida” por parte de todo fiel, y especialmente por parte de todo ministro ordenado: “La palabra del Crucificado al discípulo - a Juan y, por medio de él, a todos los discípulos de Jesús: « Ahí tienes a tu madre » (Jn 19, 27) - se hace de nuevo verdadera en cada generación” (Deus Caritas Est, 42).[2]
María estaba habituada a “meditar” las palabras de Jesús en su Corazón (cfr. Lc 2,19.51). Por esto, el encargo recibido en el Calvario, como un nuevo aspecto de su maternidad, lo relacionaba con otras palabras del mismo Jesús. Efectivamente, todo lo que decía y hacía Jesús estaba relacionado con “las cosas (o la casa) del Padre” (Lc 2,49), con su “hora” (Jn 2,4), con su actitud oblativa “en manos” del Padre (Lc 23,46).
María había escuchado cómo Jesús calificó a la comunidad de sus seguidores: “Mi madre, y mis hermanos” (Mt 12,48; cfr. Lc 8,21). Y en la última cena, las referencias de Jesús a sus discípulos también eran otras tantas llamadas al Corazón de la Madre: “Ellos son mi expresión (mi gloria)… les amas como a mí… yo estoy en ellos” (Jn 17,10.23.26). Nadie mejor que ella podía captar los sentimientos profundos de Cristo, en cuyo Corazón abierto podía “contemplar” todo su amor para con cada uno de los redimidos (cfr. Jn 19,27). Recibir a los discípulos y hermanos de Jesús, significaba para ella recibir al mismo Jesús: “Quien a vosotros recibe, a mí me recibe” (Mt 10,40).
La herencia de Jesús, al dejarnos a su Madre como nuestra, continúa siendo una realidad salvífica, siempre actual: “Jesucristo – decía el Cura de Ars - tras habernos dado cuanto nos podía dar, quiere aún dejarnos en herencia lo más precioso que él tenía: su Santa Madre”.[3]
Es una realidad que muestra a María como la madre siempre “ocupada” en relación con la Iglesia, en la cual se actualiza “el influjo salvífico de la Bienaventurada Virgen” (LG 60).
Todo esto tiene lugar, aunque de modo diferenciado, en cada una de las vocaciones. María es Madre, modelo, intercesora, ayuda, maestra, guía, discípula… Así lo podemos aplicar a todo el proceso o itinerario formativo sacerdotal, como también al ejercicio de los ministerios y a la realidad armónica y coherente de su vivencia. En el camino vocacional, en relación con el ministerio y la vida sacerdotal, María es también y de modo especial: “Estrella de la nueva evangelización... autora luminosa y guía segura de nuestro camino” (NMi 58).
La "memoria" de María equivale a tomar conciencia de su presencia activa y materna en el campo de la evangelización, como modelo y ayuda en el seguimiento y discipulado evangélico de todos los creyentes y especialmente del sacerdocio ministerial.[4]
1. En el itinerario de la formación inicial y permanente
María acompaña el proceso formativo de todas las vocaciones. Ella está presente en todo el itinerario vocacional como figura y prototipo de toda la Iglesia. La vocación de los primeros Apóstoles es un punto de referencia para toda vocación y, de modo especial, para la vocación sacerdotal. En esta referencia a la vida apostólica encontramos un inicio, como fue después de Caná, cuando los discípulos creyeron en Jesús y le siguieron “con su madre” (cfr. Jn 2,11-12). Para el “precursor”, la presencia activa de María fue, también en su momento inicial, una gracia especial del Espíritu Santo (cfr. Lc 1,15.44). Así mismo encontramos un momento especial de perseverancia (junto a la cruz: Jn 19,25-27) y un tiempo peculiar de renovación bajo la acción del Espíritu Santo (en Pentecostés: Hech 1,14; 2,4). Ella está de modo activo y materno en todo el proceso de formación vocacional, que es siempre de relación personal y comunitaria con Cristo, a modo de encuentro y amistad, seguimiento e imitación, fraternidad y misión.
Para corresponder a las exigencias de la vocación sacerdotal, se necesita una formación inicial y permanente, de suerte que la vocación sea una vivencia y opción fundamental, a modo de “vida según el Espíritu” (cfr. Gal 5,25) y con vistas a ejercer los ministerios. Se quiere vivir lo que uno es y lo que uno hace, como proceso de consagración y de misión, plasmados en un amor apasionado por Cristo.
Puesto que en el sacerdocio ministerial (es decir, el sacerdocio de los ministros ordenados) se trata de una especial participación en la consagración y misión de Cristo Sacerdote, presente en la Iglesia, hay que tener en cuenta estos datos esenciales: María es Madre de Cristo Sacerdote Madre de la Iglesia Pueblo sacerdotal y Madre especial de los sacerdotes ministros. La maternidad peculiar de María respecto a los sacerdotes ministros, se integra armónicamente con su cuidado materno respecto a todos los demás redimidos.
El itinerario formativo del sacerdote ministro (tanto en el período inicial como en el de la formación continuada), incluye necesariamente la formación sobre el propio carisma específico sacerdotal, que tiene dimensión mariana por su misma naturaleza. Intentamos resumir los datos esenciales de esta formación mariana sacerdotal.[5]
La formación sacerdotal, inicial y permanente, se caracteriza por su dimensión cristológica, que es de relación, imitación, seguimiento y configuración con Cristo. María es "Madre del sumo y eterno Sacerdote" (PO 18). La unción sacerdotal de Cristo (Verbo Encarnado), de la que participa toda la Iglesia, tuvo lugar en le seno de María, por obra del Espíritu Santo. Desde entonces, María, “guiada por el Espíritu Santo, se entregó totalmente al misterio de la redención de los hombres” (PO 18). De este modo, quedó relacionada íntimamente con el ser (la consagración) de Cristo, con su obrar (la misión) y con su vivencia y estilo de vida. En el momento del sacrificio de la cruz, “se asoció con entrañas de madre a su sacrificio, consintiendo amorosamente en la inmolación de la víctima que ella misma había engendrado" (LG 58).[6]
El “sí” sacerdotal de Cristo tuvo lugar en el seno de María: “Vengo para hacer tu voluntad” (Heb 10,7; Sal 40.9). El “sí” de María (Lc 1,38) está íntimamente relacionado con el de Jesús. Ella llevó en su seno a Jesús Sacerdote: Dios, hombre, Salvador. La actitud habitual de meditar la Palabra en el corazón (cfr. Lc 2,10.51) deja entender que recibió al Verbo antes en su corazón que en su seno.[7]
El “Magníficat” es fruto de su “sí” contemplativo, unido al sacrificio de Cristo Sacerdote, que ya desde su concepción era “oblación” al Padre, en el Corazón y por manos de María (cfr. Heb 10,7ss, en relación con Lc 2,22, cuando tuvo lugar la presentación de niño en el templo).
La dimensión eclesiológica de la formación sacerdotal inserta al ministro ordenado en el amor, la fidelidad y el servicio a la Iglesia. María es Madre de la Iglesia Pueblo sacerdotal, puesto que "pertenece indisolublemente al misterio de Cristo y al misterio de la Iglesia" (RMa 27), al que también sirve el sacerdote en los ministerios proféticos, litúrgicos y de dirección y caridad. La Iglesia es “Pueblo sacerdotal” (LG 10). María es Madre de la Iglesia por haber engendrado a Cristo, Cabeza de la misma. Es “Madre de la Iglesia” por ser “Madre de los pastores y de los fieles”.[8]
Los contenidos del título “Madre de la Iglesia” ya se encuentran en los textos conciliares. Efectivamente, María es “verdadera Madre del Redentor... verdaderamente madre de los miembros de Cristo por haber cooperado con su amor a que naciesen en la Iglesia los fieles, que son miembros de aquella cabeza, por lo que también es saludada como miembro sobre eminente y del todo singular de la Iglesia, su prototipo y modelo destacadísimo en la fe y caridad” (LG 53).
La misión de la Santísima Virgen María se inserta, pues, “en el misterio del Verbo Encarnado y del Cuerpo Místico” (LG 54). María es, a la vez, miembro y Madre del Pueblo sacerdotal, Tipo o figura de la Iglesia (cfr. LG 53, 62-65). Es “Madre en la Iglesia y a través de la Iglesia" (RMa 24). "Con su nueva maternidad en el Espíritu, acoge a todos y a cada uno por medio de la Iglesia" (RMa 37).
A partir de la formación cristológica y eclesiológica de la formación, se llega a profundizar mejor la relación estrecha entre María y el sacerdote. María es Madre especial del sacerdote ministro (y de todos los ministros ordenados), en todo el proceso de vocación, seguimiento y misión, puesto que "Cristo, moribundo en la cruz, la entregó como Madre al discípulo" (OT 8).[9]
El sacerdote ministro participa de la consagración sacerdotal de Cristo (que tuvo lugar en el seno de María), prolonga la misma misión de Cristo (quien asoció y sigue asociando a María), está llamado a vivir en sintonía con él (como María, guiada por el Espíritu Santo, se asoció a la obra redentora de Cristo). De este modo, María está presente y activa maternalmente en todas las etapas del itinerario de la formación y de la vida apostólica. Por esto, la relación “entre la Virgen y el sacerdocio, es un nexo profundamente enraizado en el misterio de la Encarnación... sacrificio, sacerdocio y Encarnación van unidos, y María se encuentra en el centro de este misterio. Jesús, antes de morir, ve a su Madre al pie de la cruz y ve al hijo amado; y este hijo amado ciertamente es una persona, un individuo muy importante; pero es más: es un ejemplo, una prefiguración de todos los discípulos amados, de todas las personas llamadas por el Señor a ser «discípulo amado» y, en consecuencia, de modo particular también de los sacerdotes”.[10]
La participación peculiar por parte de los sacerdotes ministros en el sacerdocio de Cristo, es una “consagración” especial, que deriva hacia la “misión”, como prolongación de la misma misión de Cristo, para obrar “en su nombre” o “en persona de Cristo”, como insertando el propio “yo” en su “Yo”. Esta participación en la consagración y misión de Cristo exige y, al mismo tiempo, hace posible una sintonía y docilidad generosa. "De esta docilidad hallarán siempre un maravilloso ejemplo en la Bienaventurada Virgen María, que, guiada por el Espíritu Santo, se consagró toda al ministerio de la redención de los hombres" (PO 18).
Estas líneas formativas quedaron sintetizadas en la RatioFundamentalisInstitucionis Sacerdotalis de 1970, adaptadas posteriormente al nuevo Código en 1985. El texto breve que se refiere a la formación mariana del futuro sacerdote es el siguiente: “Imite con amor ardiente, según el sentir de la Iglesia, a la Virgen María, Madre de Cristo, y asociada de un modo especial a la obra de la redención” (n.54).[11]
Todos los aspectos y etapas de la formación sacerdotal hacen referencia a María, como “Madre y educadora de nuestro sacerdocio” (Pastores dabo vobis 82). Efectivamente, “cada aspecto de la formación sacerdotal puede referirse a María como la persona humana que mejor que nadie ha correspondido a la vocación de Dios; que se ha hecho sierva y discípula de la Palabra hasta concebir en su corazón y en su carne al Verbo hecho hombre para darlo a la humanidad; que ha sido llamada a la educación del único y eterno Sacerdote, dócil y sumiso a su autoridad materna. Con su ejemplo y mediante su intercesión, la Virgen santísima sigue vigilando el desarrollo de las vocaciones y de la vida sacerdotal en la Iglesia” (ibídem).[12]
De ahí la relación esencial del sacerdote ministro con María “la Madre de Jesús” (Jn 2,1; 19,25-27). Por esto, "la espiritualidad sacerdotal no puede considerarse completa, si no toma seriamente en consideración el testamento de Cristo crucificado... Todo presbítero sabe que María, por ser Madre, es la formadora eminente de su sacerdocio, ya que ella es quien sabe modelar el corazón sacerdotal" (Directorio para el ministerio y la vida de los presbíteros, 68).[13]
Benedicto XVI, hablando a los seminaristas durante la XX Jornada Mundial de la Juventud (Colonia 19 agosto 2005), comentó el encuentro de los Magos con Jesús en Belén (cfr. Mt 2,11) y describió el itinerario formativo sacerdotal de este modo: “Es precisamente la Madre quien le muestra a Jesús, su Hijo, quien se lo presenta; en cierto modo se lo hace ver, tocar, tomar en sus brazos. María le enseña a contemplarlo con los ojos del corazón y a vivir de él. En todos los momentos de la vida en el seminario se puede experimentar esta amorosa presencia de la Virgen, que introduce a cada uno al encuentro con Cristo en el silencio de la meditación, en la oración y en la fraternidad. María ayuda a encontrar al Señor sobre todo en la celebración eucarística, cuando en la Palabra y en el Pan consagrado se hace nuestro alimento espiritual cotidiano”.[14]
Este proceso formativo tiene en cuenta que la vocación es un don de Dios y, por tanto, iniciativa del Señor (cfr. Jn 15,16), que reclama y hace posible una respuesta recta, libre y generosa. María, en el momento de la Anunciación, se deja sorprender por el proyecto de Dios y responde con fidelidad generosa (cfr. Lc 1,29ss). Se trata de un don de Dios, que sigue siendo suyo y no puede desvirtuarse por las propias preferencias.
Es un proceso lento de discernimiento, como dejándose sorprender por Dios. María se adentró en este proceso para vivir en sintonía con el misterio insondable de su Hijo: “Será llamado Hijo del Altísimo… el Espíritu Santo vendrá sobre ti” (Lc 1,32.35). Las palabras de Jesús dirigidas a María son una invitación a aceptar su misterio sacerdotal: “¿No sabíais que no yo debía estar en las cosas (en la casa) de mi Padre?” (Lc 2,49). “No ha llegado mi hora” (Jn 2, 4). “Quién es mi madre” (Mt 12,48; cfr. Lc 9,21). “Ahí tienes a tu hijo” (Jn 19,26), etc.
Es un proceso que podemos llamar de “contemplación” comprometida, aprendiendo a “leer a Dios” (“Lectio Divina”) en su Verbo o Palabra personal. María se deja sorprender, captada por el trasfondo bíblico de la Anunciación (cfr. Sof 3,14-17; Is 7,14; Ex 24) y del niño recién nacido (cfr. Lc 2,19; Is 9,5). No sería correcta una verdadera “Lectio Divina” (“leer a Dios” en la Escritura) que no estuviera en “armonía” con la “memoria contemplativa” de María (cfr. Hech 1,14, en relación con Lc 2,19.51)
La contemplación habitual de María se refleja en su cántico: “ElMagníficat —un retrato de su alma, por decirlo así— está completamente tejido por los hilos tomados de la Sagrada Escritura, de la Palabra de Dios” (Deus Caritas est 41). En la presentación del niño Jesús en el templo, la “admiración” indica el respeto y la admiración de los planes de Dios: “Su padre y su madre estaban admirados de lo que se decía de él” (Lc 2,33).
Esta actitud permanente de María es la que corresponde a quien sigue un proceso formativo vocacional. Efectivamente: “La Palabrade Dios es verdaderamente su propia casa, de la cual sale y entra con toda naturalidad. Habla y piensa con la Palabra de Dios; la Palabra de Dios se convierte en palabra suya, y su palabra nace de la Palabra de Dios. Así se pone de manifiesto, además, que sus pensamientos están en sintonía con el pensamiento de Dios, que su querer es un querer con Dios. Al estar íntimamente penetrada por la Palabra de Dios, puede convertirse en madre de Palabra encarnada” (Deus caritas est 41).
El proceso formativo es de maduración en la libertad, que consiste en la verdad de la donación: “María de Nazaret, desde la Anunciación a Pentecostés, aparece como la persona cuya libertad está totalmente disponible a la voluntad de Dios. Su Inmaculada Concepción se manifiesta propiamente en la docilidad incondicional a la Palabra divina. La fe obediente es la forma que asume su vida en cada instante ante la acción de Dios. Virgen a la escucha, vive en plena sintonía con la voluntad divina; conserva en su corazón las palabras que le vienen de Dios y, formando con ellas como un mosaico, aprende a comprenderlas más a fondo (cfr. Lc 2,19.51). María es la gran creyente que, llena de confianza, se pone en las manos de Dios, abandonándose a su voluntad” (Sacramentum Caritatis 33).
La dimensión mariana de la formación abarca también el nivel intelectual y pastoral. Se trata del estudio de la mariología en su perspectiva cristológica y eclesiológica. “La investigación y la enseñanza de la mariología, y su servicio a la pastoral tienden a la promoción de una auténtica piedad mariana, que debe caracterizar la vida de todo cristiano y particularmente de aquellos que se dedican a los estudios teológicos y se preparan para el sacerdocio”.[15]
La oración del Papa Benedicto XVI, en el acto de consagración de los sacerdotes al Corazón de María (Fátima, 12 mayo 2010), ofrece unas líneas que se refieren al itinerario formativo: “Ayúdanos, con tu poderosa intercesión, a no desmerecer esta vocación sublime, a no ceder a nuestros egoísmos, ni a las lisonjas del mundo, ni a las tentaciones del Maligno. Presérvanos con tu pureza, custódianos con tu humildad y rodéanos con tu amor maternal, que se refleja en tantas almas consagradas a ti y que son para nosotros auténticas madres espirituales… Repite al Señor esa eficaz palabra tuya: «no les queda vino» (Jn 2,3), para que el Padre y el Hijo derramen sobre nosotros, como una nueva efusión, el Espíritu Santo”.[16]
También el la celebración de las vísperas con sacerdotes, religiosos, seminaristas y diáconos, el mismo día 12 de mayo de 2010, el Papa recordó unos aspectos básicos del camino formativo. La acción materna de María en ese proceso consiste en “generar nuevos hijos en el Hijo, que el Padre ha querido como primogénito de muchos hermanos. Cada uno de nosotros está llamado a ser, con María y como María, un signo humilde y sencillo de la Iglesia que continuamente se ofrece como esposa en las manos de su Señor…Permitidme que os abra mi corazón para deciros que la principal preocupación de cada cristiano, especialmente de la persona consagrada y del ministro del Altar, debe ser la fidelidad, la lealtad a la propia vocación, como discípulo que quiere seguir al Señor. La fidelidad a lo largo del tiempo es el nombre del amor; de un amor coherente, verdadero y profundo a Cristo Sacerdote… En este camino de fidelidad, amados sacerdotes y diáconos, consagrados y consagradas, seminaristas y laicos comprometidos, nos guía y acompaña la Bienaventurada Virgen María”.[17]
Se podría hablar de una herencia mariana sacerdotal de Juan Pablo II, en el sentido de habernos legado un extenso programa de formación sacerdotal. Además de los textos de Pastores dabo vobis (citados más arriba), habría que recordar las numerosas alusiones de sus cartas con ocasión del Jueves Santo, que citamos en los capítulos siguientes.[18]
2. En el ejercicio de los ministerios
Los sacerdotes ministros prolongan la misma misión de Cristo, proclamando su palabra, celebrando su misterio pascual y actualizando su acción salvífica y pastoral. La fidelidad a la consagración y a la misión, participada de Cristo, en todos los momentos de la vida y del ministerio del sacerdote, constituye la esencia de su espiritualidad. Con la ayuda y el ejemplo de María, Madre de Cristo Sacerdote y Madre de la Iglesia como Pueblo sacerdotal, viven estos ministerios en sintonía con las mismas actitudes y “los mismos sentimientos de Cristo” (Fil 2,5).
Los ministerios sacerdotales son una especial concretización de la maternidad de la Iglesia (cfr. PO 6) y, consecuentemente, tienen que ejercerse con el “amor maternal” de María, figura de la Iglesia madre (cfr. LG 65; Gal 4,19, en relación con Gal 4,4-7 y 4,26). El sacerdote, como Pablo, toma a María como figura e imagen materna, "la mujer" (Gal 4,4), para describir su difícil y, a veces, doloroso ministerio de "formar a Cristo" en los demás (Gal 4,19). Probablemente ese texto paulino es el primer fragmento mariano escrito del Nuevo Testamento; refleja el misterio de la cruz inherente a la vida de los Apóstoles.
Por esto, “la verdad de la maternidad de la Iglesia, con el ejemplo de la Madre de Dios, se nos hace cercana a nuestra conciencia sacerdotal. Si la Iglesia entera aprende de María la propia maternidad, ¿no será también necesario que los hagamos nosotros?” (Carta del Jueves Santo 1988, n.4).
Comentando el texto paulino de la carta a los Gálatas, Juan Pablo II, en la encíclica Redemptoris Mater lo aplica al apóstol para resaltar su vivencia mariana: “En estas palabras de san Pablo está contenido un indicio interesante de la conciencia materna de la Iglesia primitiva, unida al servicio apostólico entre los hombres. Esta conciencia permitía y permite constantemente a la Iglesia ver el misterio de su vida y de su misión a ejemplo de la misma Madre del Hijo, que es el « primogénito entre muchos hermanos » (Rom 8, 29)” (RMa 43).[19]
Recibir a María en la propia casa, tiene, pues, para el sacerdote, un sentido también ministerial: "Quecada uno de nosotros permita a María que ocupe un lugar en la casa del propio sacerdocio sacramental, como Madre y Mediadora de aquel gran misterio (cfr. Ef 5,32), que todos deseamos servir con nuestra vida" (Carta del Jueves Santo, 1988, n.4). El itinerario ministerial tiene lugar, como para el discípulo amado, en “comunión de vida con María” (RMa 45).
La espiritualidad sacerdotal es de “caridad pastoral”, a modo de “unidad de vida”, en sintonía de actitudes con Cristo Buen Pastor (cfr. PO 13). Esta espiritualidad específica de los sacerdotes se realiza "ejerciendo sincera e incansablemente sus ministerios en el Espíritu de Cristo" (PO 13). En el ejercicio de los ministerios, los sacerdotes están llamados a vivir de modo paprticular la espiritualidad mariana de todo bautizado, en relación con la presencia activa y materna de María. Ella es modelo, intercesora, guía, maestra y discípula. La caridad pastoral, quintaesencia de la espiritualidad sacerdotal, matiza todos los aspectos de la devoción y culto mariano: conocerla, amarla, imitarla, celebrarla e invocarla.
Esta caridad pastoral tiene el matiz de “amor materno” a imitación de María. "La Virgen fue en su vida ejemplo de aquel amor maternal con que es necesario que estén animados todos aquellos que, en la misión apostólica de la Iglesia, cooperan a la regeneración de los hombres" (LG 65; cfr. Gal 4,4.19.26; Jn 16,21-22).
Los santos sacerdotes han subrayado también el paralelismo entre María y el sacerdocio ministerial, especialmente en relación con la Eucaristía. Decía San Juan de Ávila “Mirémonos, padres, de pies a cabeza, ánima y cuerpo, y vernos hemos hechos semejantes a la sacratísima Virgen María, que con sus palabras trajo a Dios a su vientre... Y el sacerdote le trae con las palabras de la consagración" (Plática 1ª). "¿Qué cosa es una hostia consagrada sino una Virgen que trae encerrado en sí a Dios?" (Sermón 4). "Y así hay semejanza entre la santa encarnación y este sacro misterio; que allí se abaja Dios a ser hombre, y aquí Dios humanado se baja a estar entre nosotros los hombres; allí en el vientre virginal, aquí debajo de la hostia; allí en los brazos de la Virgen, aquí en las manos del sacerdote" (Sermón 55; cfr. Carta 122).
Pero aquella carne y sangre de Cristo proceden de María y se inmolaron con su asociación. Es ella la que invita a acercarnos a Cristo presente en la Eucaristía: "Venid y comed del pan que yo concebí en mis entrañas, y del pan que yo parí" (Sermón 12). Allí está "la guirnalda de la humanidad que le dio su santísima Madre" (Sermón 36). Se trata del "pan de la Virgen" (Ser 39, 28). "Ella es la que nos lo guisó, y por ser ella la guisandera se le pega más sabor al manjar" (Sermón 41). "Ella fue... la que nos amasó este pan" (Sermón 46; cfr. Sermones 56, 58 y 70).
El Maestro Ávila no deja de relacionar esta dimensión mariana de la Eucaristía con la dignidad y santidad del sacerdote ministro (cfr. Tratado sobre el sacerdocio, nn. 2 y 15). Por esto el sacerdote ministros se siente "semejante" a la Virgen María y estrechamente unido a ella (cfr. Cartas 6 y 8).[20]
Por ser la Eucaristía“fuente y cima de toda la evangelización” (PO 5), todos los ministerios se relacionan armónicamente entre sí: se anuncia a Cristo, se le hace presente (especialmente en la Eucaristía) y se le comunica para que sea centro de la vida personal y comunitaria. María concibió aquel cuerpo ofrecido en sacrificio que ahora se actualiza sacramentalmente por manos del sacerdote y, también por medio de él, se anuncia y comunica. El anuncio del evangelio presupone la actitud de contemplación de la Palabra, como María que la meditaba en su corazón (cfr. Lc 2,19.51). Con ella, se vive mejor el equilibrio y la armonía de los ministerios.
El encargo eucarístico está íntimamente relacionado con el encargo de filiación mariana. “De hecho, al discípulo predilecto, que siendo uno de los Doce había escuchado en el Cenáculo las palabras: «Haced esto en memoria mía». Cristo, desde lo alto de la Cruz, lo señaló a su Madre, diciéndole: «He ahí a tu hijo». El hombre, que el Jueves Santo recibió el poder de celebrar la Eucaristía, con estas palabras del Redentor agonizante fue dado a su Madre como «hijo»” (Carta del Jueves Santo, 1979, n.11).
En su última carta de Jueves Santo, pocos días antes de su muerte, Juan Pablo II invitaba a los sacerdotes a realizar “una existencia eucarística aprendida de María”, puesto que “nadie cómo ella puede enseñarnos con qué fervor se han de celebrar los santos Misterios y cómo hemos de estar en compañía de su Hijo escondido bajo las especies eucarísticas" (Carta del Jueves Santo, 2005, n.8).
María está presente en la Iglesia, que es misterio de comunión misionera, a cuyo servicio está el sacerdote. Los ministerios sacerdotales tienden a construir la comunidad eclesial como comunidad de oración y fraternidad (a la luz de la Palabra y en relación con la Eucaristía), para llegar a ser “un solo corazón y una sola alma” (Hech 4,32) y de este modo anunciar el evangelio “con audacia” (Hech 4,31). Para ello es imprescindible la actitud permanente y programática de vivir la comunión en sintonía de actitudes “con María, la Madre de Jesús” (Hech 1,14). “En ella encontramos la esencia de la Iglesia realizada del modo más perfecto” (Sacramentum Caritatis 96).
Si admitimos que "María es «memoria» de la encarnación del Verbo en la primera comunidad cristiana" (Pastores Gregis 14), hay que admitir también que lo es en cada época histórica. La Iglesiaaprende de María el camino de la fe, para vivirla y transmitirla: "La santa Madre de Dios debe ser, pues, para el Obispo maestra en escuchar y cumplir prontamente la Palabra de Dios, en ser discípulo fiel al único Maestro, en la estabilidad de la fe, en la confiada esperanza y en la ardiente caridad” (ibídem).
Resulta muy emotiva yvivencial una explicación de Juan Pablo II, donde el Papa describe la ternura materna de María en relación con la celebración eucarística de la Iglesia: “¿Cómo imaginar los sentimientos de María al escuchar de la boca de Pedro, Juan, Santiago y los otros Apóstoles, las palabras de la Última Cena: «Éste es mi cuerpo que es entregado por vosotros» (Lc 22, 19)? Aquel cuerpo entregado como sacrificio y presente en los signos sacramentales, ¡era el mismo cuerpo concebido en su seno! Recibir la Eucaristía debía significar para María como si acogiera de nuevo en su seno el corazón que había latido al unísono con el suyo y revivir lo que había experimentado en primera persona al pie de la Cruz” (Ecclesia de Eucaristía 56)
El sacerdote ministro, por tener especial relación con María, está llamado a imitar sus actitudes de fidelidad a la Palabra y al Espíritu Santo y santificador, en todos los ministerios: proféticos, litúrgicos, diaconales y caritativos. En todos y cada uno de los ministerios sacerdotales, “la contemplación de la Santísima Virgen pone siempre ante la mirada del presbítero el ideal al que ha de tender en el ministerio en favor de la propia comunidad, para que también ésta última sea « Iglesia totalmente gloriosa » mediante el don sacerdotal de la propia vida” (Directorio 68).
El ministerio sacerdotal, especialmente en la celebración eucarística (que presupone el anuncio y lleva a la vivencia), tiene en cuenta el modelo mariano de recibir al Señor para comunicarlo a los demás. “Desde la Anunciación hasta la Cruz, María es aquélla que acoge la Palabra que se hizo carne en ella y que enmudece en el silencio de la muerte. Finalmente, ella es quien recibe en sus brazos el cuerpo entregado, ya exánime, de Aquél que de verdad ha amado a los suyos « hasta el extremo » (Jn 13,1)” (Sacramentum Caritatis 33).[21]
El sacerdote ministro, como Juan, recibe el don de María para comunicarlo a los demás, cooperando como ella a hacerlo vida propia: “La Bienaventurada Virgenavanzó en la peregrinación de la fe y mantuvo fielmente la unión con su Hijo hasta la cruz. Allí, por voluntad de Dios, estuvo de pie (cfr. Jn 19,25), sufrió intensamente con su Hijo y se unió a su sacrificio con corazón de Madre que, llena de amor, daba su consentimiento a la inmolación de su Hijo como víctima. Finalmente, Jesucristo, agonizando en la cruz, la dio como madre al discípulo con estas palabras: Mujer, ahí tienes a tu hijo” (LG 58).
Para todo bautizado y especialmente para el sacerdote ministro “María de Nazaret, icono de la Iglesia naciente, es el modelo de cómo cada uno de nosotros está llamado a recibir el don que Jesús hace de sí mismo en la Eucaristía” (Sacramentum Caritatis 33). La acción ministerial de presidir la Eucaristía tiene como objetivo prolongar en la comunidad eclesial la misma actitud oblativa de María: “Los fieles encomiendan a María, Madre de la Iglesia, su vida y su trabajo. Esforzándose por tener los mismos sentimientos de María, ayudan a toda la comunidad a vivir como ofrenda viva, agradable al Padre” (ibídem 96).
Por medio de la acción ministerial de la Iglesia, la maternidad de María “perdura sin cesar en la economía de la gracia” (LG 62). María “está unida también íntimamente a la Iglesia... porque en el misterio de la Iglesia que con razón también es llamada madre y virgen, la Bienaventurada Virgen María la precedió, mostrando en forma eminente y singular el modelo de la virgen y de la madre” (LG 63). En los ministerios sacerdotales se hace presente esta realidad salvífica, mariana y eclesial, en la que María es “Madre por medio de la Iglesia” (RMa 24, LG 65), mientras, al mismo tiempo, "la Iglesia aprende de ella su propia maternidad” (RMa 43).[22]
La espiritualidad mariana de la Iglesia es esencialmente ministerial y, al mismo tiempo, reclama la fidelidad carismática a las nuevas gracias del Espíritu Santo: “Por lo cual, también en su obra apostólica, con razón, la Iglesia mira hacia aquella que engendró a Cristo, concebido por el Espíritu Santo y nacido de la Virgen, precisamente para que por la Iglesia nazca y crezca también en los corazones de los fieles” (LG 65).
En todo el campo de la piedad popular y en todo el proceso de inculturación, el sacerdote ministro realiza una tarea que es eminentemente mariana. El servicio sacerdotal en el campo de la piedad ofrece una oportunidad excepcional para llevar a los fieles a la escucha de la Palabra y a la celebración de los misterios: “Junto con el Pueblo de Dios, que mira a María con tanto amor y esperanza, vosotros debéis recurrir a Ella con esperanza y amor excepcionales. De hecho, debéis anunciar a Cristo que es su hijo; ¿Y quién mejor que su Madre os transmitirá la verdad acerca de El? Tenéis que alimentar los corazones humanos con Cristo; ¿Y quién puede hacerles más conscientes de lo que realizáis, si no la que lo ha alimentado? «Salve, o verdadero Cuerpo, nacido de la Virgen María»” (Carta del Jueves Santo, 1979, n.11).
El servicio ministerial de la Eucaristía tiende a que todo el Pueblo de Dios se una al “sí” (“amén”) de María, que es aceptación vivencial y comprometida del misterio de Cristo Sacerdote y Víctima. “María concibió en la anunciación al Hijo divino, incluso en la realidad física de su cuerpo y su sangre, anticipando en sí lo que en cierta medida se realiza sacramentalmente en todo creyente que recibe, en las especies del pan y del vino, el cuerpo y la sangre del Señor. Hay, pues, una analogía profunda entre el fiat pronunciado por María a las palabras del Ángel y el amén que cada fiel pronuncia cuando recibe el cuerpo del Señor. A María se le pidió creer que quien concibió «por obra del Espíritu Santo» era el «Hijo de Dios » (cf. Lc 1, 30.35)” (Ecclesia de Eucaristía, 55).[23]
María es modelo y ayuda en el modo de servir (“pastorear”), en la celebración de la Eucaristía y en toda la disponibilidad ministerial. Así lo pedía en Fátima, con una emotiva oración, el Papa Benedicto XVI: “Madre de la Iglesia, nosotros, sacerdotes, queremos ser pastores que no se apacientan a sí mismos, sino que se entregan a Dios por los hermanos, encontrando la felicidad en esto. Queremos cada día repetir humildemente no sólo de palabra sino con la vida, nuestro «aquí estoy». Guiados por ti, queremos ser Apóstoles de la Divina Misericordia, llenos de gozo por poder celebrar diariamente el Santo Sacrificio del Altar y ofrecer a todos los que nos lo pidan el sacramento de la Reconciliación”.[24]
3. En el itinerario de la vida sacerdotal
La espiritualidad mariana es una dimensión intrínseca a la espiritualidad eclesial. De modo particular lo es de la espiritualidad sacerdotal. Los Apóstoles y discípulos formaban parte de la familia de Jesús: “Mi Madre y mis hermanos son aquellos que oyen la Palabra de Dios y la cumplen” (Lc 8,21; cfr. 2,19.51). El hecho del Cenáculo es paradigmático, como punto de referencia durante toda la historia eclesial, donde los Apóstoles y discípulos reunidos, “perseveraban en la oración, con un mismo espíritu, en compañía de algunas mujeres, de María, la madre de Jesús” (Hech 1,14).
Los “sentimientos” de Cristo respecto a su Madre tienen que reflejarse en quienes participan de la misma consagración del Señor y prolongan su misma misión, mientras presentan el mismo estilo de vida como testimonio evangélico. Cristo fue “ungido” sacerdote en el seno de María, por obra del Espíritu Santo, y quiso nacer de ella, asociándola a su obra redentora. La espiritualidad sacerdotal mariana es una actitud de reverencia y amor filial hacia quien es "Madre del sumo y eterno Sacerdote, Reina de los Apóstoles y refugio de su ministerio" (PO 18). El ser (consagración), el obrar (misión) y la vivencia (espiritualidad) del sacerdote, incluyen una relación estrecha con María.
En el momento de la “consagración” sacerdotal de Cristo, en el seno de María, Dios quiso el “sí” de su Madre (cfr. Lc 1,38). La vida del sacerdote ministro es participación de la consagración de Cristo y prolongación de su misma misión. El “sí” del sacerdote ministro se concreta, como para todo creyente, en “imitar su vida de fe” (RMa 48).
Nuestro “sí” al Espíritu Santo, en el momento de la ordenación sacerdotal, es una respuesta a la pregunta del Obispo ordenante que pide “unirse a Cristo Sacerdote”. Es un sí que prolonga en el tiempo el “sí” de María en el momento de la consagración sacerdotal de Cristo. Por esto, la actitud o espiritualidad mariana (devoción, entrega) es esencial en el sacerdocio ministerial.
La consagración sacerdotal de Cristo en el seno de María se concretó en una oblación al Padre y en el amor del Espíritu Santo, que abarcaría toda su existencia (cfr. Heb 9,14; 10,5-7). Quiso asociar a su ofrenda la actitud mariana oblativa y esponsal de “estar de pie” (Jn 19,25) junto a la cruz, con el “discípulo amado” (Jn 19,26-27). Pertenecemos a Cristo, como María le pertenece, participando con ella en su oblación sacerdotal. Cuando decimos en el ministerio eucarístico “esto es mi cuerpo… mi sangre”, estamos insertados en la misma oblación esponsal-sacerdotal de Cristo, desde el seno de María hasta la cruz.[25]
En esta oblación de Cristo, ya desde el seno de María y durante toda su vida, está asociada su Madre, quien también lo está en nuestra oblación ministerial: “Madre de Jesucristo y Madre de los sacerdotes: acepta este título con el que hoy te honramos para exaltar tu maternidad y contemplar contigo el Sacerdocio de tu Hijo unigénito y de tus hijos, oh Santa Madre de Dios. Madre de Cristo, que al Mesías Sacerdote diste un cuerpo de carne por la unción del Espíritu Santo para salvar a los pobres y contritos de corazón: custodia en tu seno y en la Iglesia a los sacerdotes, oh Madre del Salvador.
Madre de la fe, que acompañaste al templo al Hijo del hombre, en cumplimiento de las promesas hechas a nuestros Padres: presenta a Dios Padre, para su gloria, a los sacerdotes de tu Hijo, oh Arca de la Alianza” (PDV 82).
El seno de María es, pues, custodio de la consagración sacerdotal de Jesús y de la nuestra. Ella ha dado a luz a Cristo Hijo de Dios, Sacerdote y Víctima. A nosotros nos da a luz en esta misma perspectiva sacerdotal, tal como Cristo nos ha elegido. María es “icono” de toda la realidad eclesial, también de su realidad sacerdotal, como Pueblo de Dios a cuyo servicio están puestos los ministros ordenados.
Los apóstoles “creyeron” en Jesús (Jn 2,11), siguiendo la actitud de fe de María (cfr. Lc 2,45; Jn 2,5). Esta fe es conocimiento vivido de Cristo, que se traduce en “seguimiento” esponsal con María “su Madre” (Jn 2,12) y, consecuentemente, en encuentro, relación, imitación, transformación. Así es la santidad como “perfección de la caridad” (LG 40), que para el sacerdote ministro se traduce en “caridad pastoral” (PO 13).
La comunión en el Presbiterio de la Iglesia particular supone “unión” y sintonía armónica y vivencial con “María, la Madre de Jesús” (Hech 1,14). Por esto, la “fraternidad sacramental” del Presbiterio (PO 8), que es una “realidad sobrenatural” (PDV 74), como derivación del sacramento del Orden (cfr. LG 28), necesita esta sintonía de oración en comunión fraterna y en espera activa de las nuevas gracias del Espíritu Santo.María, también ahora, “precede el testimonio apostólico" (RMa 27). Ser servidores de una comunidad donde hay “un solo corazón y una sola alma” (Hech 4,32), presupone la “unidad” de quienes son signo comunitario de Cristo Sacerdote en la Iglesia particular (cfr. Jn 17,23). Entonces el Presbiterio se hace signo eficaz de santificación y de evangelización.
Las figuras sacerdotales de la historia (como San Juan de Ávila, San Juan Eudes, San Luís María Grignion de Montfort, San Alfonso Mª de Ligorio, el Santo Cura de Ars, San Antonio Mª Claret, etc.), son puntos de referencia para recordar y vivir la relación de María con los sacerdotes ministros. Los santos sacerdotes han vivido esta relación con María a la luz de la Encarnación (consagración sacerdotal de Cristo en el seno de su Madre), del sacrificio redentor que culmina en la cruz (con María en actitud oblativa), de la Eucaristía (como pan de vida que se formó en el seno de María y que actualiza el misterio redentor) y de la Iglesia (como madre de las almas).
Por ser “Madre de Jesucristo y Madre de los sacerdotes” (PDV 82), María ejerce también en ellos un “influjo salvífico” (LG 62), que es de presencia activa y de modelo de asociación a Cristo Sacerdote. En este sentido, "los sacerdotes tienen particular título para que se les llame hijos de María".[26]
Esta espiritualidad se concreta en relación filial e imitación. Por ser “madre y educadora de nuestro sacerdocio... nosotros los sacerdotes estamos llamados a crecer en una sólida y tierna devoción a la Virgen María, testimoniándola con la imitación de sus virtudes y con la oración frecuente” (PDV 82).[27]
Las palabras de Jesús en la cruz (“he aquí a tu Madre”) siguen aconteciendo en quienes quieren vivir en sintonía con “los sentimientos” oblativos de Cristo (Fil 2,5). La invitación a asumirla como Madre, incluye dejarse orientar por ella como modelo de maternidad apostólica, en todo el itinerario de formación, en la vida y en el ministerio sacerdotal: “Haced lo que él os diga” (Jn 2,5). María es modelo y ayuda de fidelidad a la Palabra y al Espíritu Santo.
En los documentos magisteriales sobre el sacerdocio ministerial, es frecuente la invitación a vivir la relación interpersonal con María. Ella “es Madre del eterno Sacerdote y, por eso mismo, Madre de todos los sacerdotes... de una manera especial siente predilección por los sacerdotes, que son viva imagen de su Jesús" (Menti nostrae 124). Por ser “Madre de los sacerdotes”, nos liga a ella “un vínculo especial” y, por esto, "en cierto modo, somos los primeros en tener derecho a ver en ella a nuestra Madre" (Carta del Jueves Santo 1979, n.11). Por esto, "conviene que se profundice constantemente nuestro vínculo espiritual con la Madre de Dios" (Carta del Jueves Santo 1988, n.2).[28]
La primera carta de Jueves Santo (1979), de Juan Pablo II, es programática, también para la espiritualidad mariana sacerdotal. El Papa presenta su propia experiencia mariana en este camino formativo: “Deseo, por consiguiente, que todos vosotros, junto conmigo, encontréis en María la Madre del sacerdocio, que hemos recibido de Cristo. Deseo, además, que confiéis particularmente a Ella vuestro sacerdocio. Permitir que yo mismo lo haga, poniendo en manos de la Madre de Cristo a cada uno de vosotros sin excepción alguna de modo solemne y, al mismo tiempo, sencillo y humilde” (n.6).
El camino mariano es cristológico y eclesial:: “La Iglesiade hoy habla de sí misma sobre todo en la Constitución dogmática Lumen Gentium. También aquí, en el último Capítulo, ella confiesa que mira a María como Madre de Cristo, porque se llama a sí misma madre y desea ser madre, engendrando para Dios los hombres a una vida nueva. Oh, queridos Hermanos. ¡Qué cerca de esta causa de Dios estáis vosotros! ¡Cuán profundamente ella está impresa en vuestra vocación, ministerio y misión!” (ibídem).
La espiritualidad mariana es eminentemente eucarística:: “Tenéis que alimentar los corazones humanos con Cristo; ¿Y quién puede hacerles más conscientes de lo que realizáis, si no la que lo ha alimentado?… La entrega de María a Juan como Madre, da a entender la relación con los demás Apóstoles, llamaos «amigos» de Cristo. La Madre de Cristo sabe todo esto… Ella misma coopera con amor de Madre a la regeneración y a la formación de todos aquellos que se convierten en hermanos de su Hijo, que han llegado a ser sus amigos, y hará que puedan no defraudar esta santa amistad” (ibídem).
Las líneas de esta actitud mariana en la vida sacerdotal han quedado trazadas en esta carta de Juan Pablo II.Es una actitud de confianza filial, que sintoniza con el amor a Cristo Sacerdote, con dimensión relacional y vivencial de cercanía: “Deseo, por consiguiente, que todos vosotros, junto conmigo, encontréis en María la Madre del sacerdocio, que hemos recibido de Cristo. Deseo, además, que confiéis particularmente a Ella vuestro sacerdocio… que cada uno de vosotros lo realice personalmente, como se lo dicte su corazón, sobre todo el propio amor a Cristo Sacerdote, y también la propia debilidad, que camina a la par con el deseo del servicio y de la santidad… Se da en nuestro sacerdocio ministerial la dimensión espléndida y penetrante de la cercanía a la Madre de Cristo” (ibídem, n.11).
El Directorio para el ministerio y la vida de los presbíteros (1994) describe la relación entre María y el sacerdote en el campo de la santificación y del ministerio, invitando a imitar sus virtudes. Después de recordar la “relación esencial entre la Madre de Jesús y el sacerdocio de los ministros del Hijo, que deriva de la relación que hay entre la divina maternidad de María y el sacerdocio de Cristo”, afirma que “en dicha relación está radicada la espiritualidad mariana de todo presbítero. La espiritualidad sacerdotal no puede considerarse completa si no toma seriamente en consideración el testamento de Cristo crucificado, que quiso confiar a Su Madre al discípulo predilecto y, a través de él, a todos los sacerdotes, que han sido llamados a continuar Su obra de redención”. Por esto, “los sacerdotes, que se cuentan entre los discípulos más amados por Jesús crucificado y resucitado, deben acoger en su vida a María como a su Madre: será Ella, por tanto, objeto de sus continuas atenciones y de sus oraciones. La Siempre Virgen es para los sacerdotes la Madre, que los conduce a Cristo, a la vez que los hace amar auténticamente a la Iglesia y los guía al Reino de los Cielos… No serán hijos devotos, quienes no sepan imitar las virtudes de la Madre. El presbítero, por tanto, ha de mirar a María si quiere ser un ministro humilde, obediente y casto, que pueda dar testimonio de caridad a través de la donación total al Señor y a la Iglesia” (Directorio 68).
La acogida de María, por parte del discípulo amado, “en lo íntimo de su vida, de su ser, «eis tà ìdia»” (cfr. Jn 19,27), indica que “la peculiar relación de maternidad que existe entre María y los presbíteros es la fuente primaria, el motivo fundamental de la predilección que alberga por cada uno de ellos… Por su identificación y conformación sacramental a Jesús, Hijo de Dios e Hijo de María, todo sacerdote puede y debe sentirse verdaderamente hijo predilecto de esta altísima y humildísima Madre”.[29]
Esta espiritualidad mariana del sacerdote tiene especialmente matices eucarísticos, por la estrecha relación que existe entre la Eucaristía, María y el sacerdocio. En encargo ministerial eucarístico (“haced esto en conmemoración mía”: Lc 22,19) está relacionado con el encargo mariano (“he aquí a tu madre”: Jn 19,26-27). Por esto, “Vivir en la Eucaristía el memorial de la muerte de Cristo implica también recibir continuamente este don. Significa tomar con nosotros –a ejemplo de Juan– a quien una vez nos fue entregada como Madre. Significa asumir, al mismo tiempo, el compromiso de conformarnos a Cristo, aprendiendo de su Madre y dejándonos acompañar por ella. María está presente con la Iglesia, y como Madre de la Iglesia, en todas nuestras celebraciones eucarísticas. Así como Iglesia y Eucaristía son un binomio inseparable, lo mismo se puede decir del binomio María y Eucaristía" (Ecclesia de Eucaristía 55).[30]
Durante su visita a Fátima, Benedicto XVI ha proporcionado dos textos de gran contenido sacerdotal, especialmente para la vivencia mariana. El texto de la consagración expresa una vivencia basada en los contenidos esenciales de la identidad sacerdotal, con fuertes motivaciones de actualidad:
“Madre Inmaculada… Esposa del Espíritu Santo, alcánzanos el don inestimable de la transformación en Cristo. Por la misma potencia del Espíritu que, extendiendo su sombra sobre Ti, te hizo Madre del Salvador, ayúdanos para que Cristo, tu Hijo, nazca también en nosotros. Y, de este modo, la Iglesia pueda ser renovada por santos sacerdotes, transfigurados por la gracia de Aquel que hace nuevas todas las cosas. Madre de Misericordia, ha sido tu Hijo Jesús quien nos ha llamado a ser como Él: luz del mundo y sal de la tierra (cfr. Mt 5,13-14)… Abogada y Mediadora de la gracia, tu que estas unida a la única mediación universal de Cristo, pide a Dios, para nosotros, un corazón completamente renovado, que ame a Dios con todas sus fuerzas y sirva a la humanidad como tú lo hiciste… Madre nuestra desde siempre, no te canses de visitarnos, consolarnos, sostenernos. Ven en nuestra ayuda y líbranos de todos los peligros que nos acechan. Con este acto de ofrecimiento y consagración, queremos acogerte de un modo más profundo y radical, para siempre y totalmente, en nuestra existencia humana y sacerdotal. Que tu presencia haga reverdecer el desierto de nuestras soledades y brillar el sol en nuestras tinieblas, haga que torne la calma después de la tempestad, para que todo hombre vea la salvación del Señor, que tiene el nombre y el rostro de Jesús, reflejado en nuestros corazones, unidos para siempre al tuyo. Así sea”.[31]
El texto de la homilía va entrelazando la vida sacerdotal con la vida consagrada, acentuando el común denominador del seguimiento radical de Cristo, distinguiendo, al mismo tiempo, el valor de la profesión o consagración y la representación ministerial. Citamos solamente el aspecto mariano de la vida sacerdotal:
“Cada uno de nosotros está llamado a ser, con María y como María, un signo humilde y sencillo de la Iglesia que continuamente se ofrece como esposa en las manos de su Señor… Amados hermanos sacerdotes, en este lugar especial por la presencia de María, teniendo ante nuestros ojos su vocación de fiel discípula de su Hijo Jesús, desde su concepción hasta la Cruz y después en el camino de la Iglesia naciente, considerad la extraordinaria gracia de vuestro sacerdocio… Con Ella y como Ella somos libres para ser santos; libres para ser pobres, castos y obedientes; libres para todos, porque estamos desprendidos de todo; libres de nosotros mismos para que en cada uno crezca Cristo, el verdadero consagrado al Padre y el Pastor al cual los sacerdotes, siendo presencia suya, prestan su voz y sus gestos; libres para llevar a la sociedad moderna a Jesús muerto y resucitado, que permanece con nosotros hasta el final de los siglos y se da a todos en la Santísima Eucaristía”.[32]
En resumen, la presenta activa y materna de María en la vida del sacerdote, podría concretarse en la frase conciliar (aplicada a todo apóstol): "Amor materno" como Maria (LG 65; cfr. Gal 4, 19). De ahí deriva una actitud relacional y comunional con Cristo y con la Iglesia, que se expresa, a imitación de María, como fidelidad a la Palabra y a la acción del Espíritu, asociación (amistad) con Cristo, compromiso de santificación en relación con los ministerios vividos con los "sentimientos de Cristo" (Fil 2, 5). Así se puede "reencontrar en María la Madre del sacerdocio" (Carta del Jueves Santo 1979, n.11), puesto que ella, "con su ejemplo y mediante su intercesión… sigue vigilando el desarrollo de las vocaciones y de la vida sacerdotal en la Iglesia" (PDV 82).[33]
Conclusión: Nuestro lugar sacerdotal en el Corazón materno de María
La participación del sacerdote ministro en el ser, en el obrar y en las vivencias de Cristo, está, pues, íntimamente relacionada con María, Madre de Cristo Sacerdote y de la Iglesia Pueblo sacerdotal. Su vocación, consagración y misión se realizan en dimensión cristológica, mariana y eclesial. Cada momento ministerial tiene un paralelismo con María, especialmente en la celebración eucarística donde se actualiza el sacrificio redentor.
El sacerdote ministro sirve los signos ministeriales de la maternidad de la Iglesia, actualizando la maternidad de María. Cristo se prolonga en los signos y ministerios de la Iglesia asociando a María. María ve en los sacerdotes ministros un “Jesús viviente” (San Juan Eudes), como “instrumentos vivos” de Cristo Sacerdote (PO 12).
Juan Pablo II, en Pastores dabo vobis, indicaba unas pistas de renovación, vividas en un "Cenáculo" permanente, en el que, gracias a la presencia activa de María, "Madre de los sacerdotes" y "Reina de los Apóstoles", tendrá lugar "una extraordinaria efusión del Espíritu de Pentecostés... La Iglesia está dispuesta a responder a esta gracia" (PDV 82).
Cuando se meditan las palabras del Señor dirigidas a María (“he aquí a tu hijo”: Jn 19,26), es fácil encontrar la armonía de la revelación y de la fe, que tendría lugar en el Corazón de María, al meditar en estas palabras de la oración sacerdotal de Jesús: “Ellos son mi expresión” (Jn 17,10), “los amas como a mí” (Jn 17,23), porque “yo estoy en ellos” (Jn 17,26). María vivió y sigue viviendo en esta “onda” cristológica y sacerdotal.
Es emocionante y programática la despedida de Juan Pablo II, en la carta del Jueves Santo de 2005, unos días antes de su muerte: “¿Quién puede hacernos gustar la grandeza del misterio eucarístico mejor que María? Nadie cómo ella puede enseñarnos con qué fervor se han de celebrar los santos Misterios y cómo hemos estar en compañía de su Hijo escondido bajo las especies eucarísticas. Así pues, la imploro por todos vosotros, confiándole especialmente a los más ancianos, a los enfermos y a cuantos se encuentran en dificultad. En esta Pascua del Año de la Eucaristía me complace hacerme eco para todos vosotros de aquellas palabras dulces y confortantes de Jesús: «Ahí tienes a tu madre» (Jn 19, 27)” (n.8).
Los sacerdotes ministros y los futuros sacerdotes son llamados a “amar y venerarcon amor filial a la Santísima Virgen María, que al morir Cristo Jesús en la cruz fue entregada como madre al discípulo” (OT 8). La espiritualidad sacerdotal mariana es, pues, “filial devoción y veneración a esta Madre del Sumo y Eterno Sacerdote, Reina de los Apóstoles y auxilio de su ministerio” (PO 18).
El Santo Cura de Ars, confió sus feligreses al Corazón Inmaculado de María, poniendo sus nombres en un corazón de plata. La relación de los bautizados con la ternura materna de María la expresaba así: "El Corazón de la Santísima Virgen María es la fuente de la que Cristo tomó la sangre con que nos redimió... En el corazón de esta Madre no hay más que amor y misericordia. Su único deseo es vernos felices. Sólo hemos de volvernos hacia ella para ser atendidos... El hijo que más lágrimas ha costado a su madre, es el más querido de su corazón... El corazón de María es tan tierno para nosotros, que los de todas las madres reunidas no son más que un pedazo de hielo al lado suyo".[34]
Benedicto XVI invitó a los seminaristas a confiar al Corazón materno de María el cuidado de la vocación, del ministerio y de la vida sacerdotal: “¡He aquí el secreto de vuestra vocación y de vuestra misión! Está guardado en el corazón inmaculado de María, que vela con amor materno sobre cada uno de vosotros. Recurrid frecuentemente a ella con confianza”.[35]
La alegría de ser sacerdote es una nota característica de su identidad, como anunciador, celebrador y comunicador del Misterio Pascual de Cristo. Por esto, “el gozo pascual” (PO 11) es parte integrante del testimonio del sacerdote y nota característica de su identidad, también y especialmente con vistas a suscitar vocaciones sacerdotales.
La identidad sacerdotal se concreta en el “gozo pascual” de vivir lo que uno es y hace: “El sacerdote, hombre de la Palabra divina y de las cosas sagradas, debe ser hoy más que nunca un hombre de alegría y de esperanza… «La felicidad que hay en el decir la misa se comprenderá sólo en el cielo», escribía el Cura de Ars. Os animo por tanto a reforzar vuestra fe y la de los fieles en el Sacramento que celebráis y que es la fuente de la verdadera alegría. El santo de Ars escribía: «El sacerdote debe sentir la misma alegría (de los apóstoles) al ver a Nuestro Señor, al que tiene entre las manos»”.[36]
La predilección de María por los sacerdotes ministros no es infravaloración de las otras vocaciones. María ama a cada redimido según la propia misión y carismas recibidos. El Papa Benedicto XVI lo resume con esta observación teológica: “De hecho, son dos las razones de la predilección que María siente por ellos: porque se asemejan más a Jesús, amor supremo de su corazón, y porque también ellos, como ella, están comprometidos en la misión de proclamar, testimoniar y dar a Cristo al mundo”.[37]
Con una breve oración de Juan Pablo II, se pueden resumir los deseos de la Iglesia de hoy sobre la formación, el ministerio y la vida sacerdotal, en dimensión pneumatológica, mariológica y eclesiológica: “Madre de la Iglesia, que con los discípulos en el Cenáculo implorabas el Espíritu para el nuevo Pueblo y sus Pastores: alcanza para el orden de los presbíteros la plenitud de los dones, oh Reina de los Apóstoles” (PDV 82).[38]
[1]La "memoria" cristiana tiene sentido cristológico, a modo de recuerdo que "actualiza" o hace que acontezcan de nuevo las palabras y gestos del Señor, su misterio pascual, para dar testimonio de él, como resucitado: "Acuérdate de Jesucristo, resucitado de entre los muertos" (2Tim 2,8). Sobre la "memoria" cristiana, ver A. SOLIGNAC, Mémoire, en: Dicionaire de Spiritualité X, 991-10002.
[2] Por su especial actualidad sacerdotal, transcribimos la nota 130 de la encíclica mariana de Juan Pablo II, Redemptoris Mater, con la referencia a San Agustín: “Como es bien sabido, en el texto griego la expresión «eis ta ídia» supera el límite de una acogida de María por parte del discípulo, en el sentido del mero alojamiento material y de la hospitalidad en su casa; quiere indicar más bien una comunión de vida que se establece entre los dos en base a las palabras de Cristo agonizante. Cfr. San Agustín, In Ioan. Evang. tract. 119, 3: CCL 36, 659: « La tomó consigo, no en sus heredades, porque no poseía nada propio, sino entre sus obligaciones que atendía con premura »”.
[3] Ver la fuente de este y de otros textos del Cura de Ars, en: Benedicto XVI, Carta para la convocación de un año sacerdotal con ocasión del 150 aniversario del Dies Natalis del Santo Cura de Ars (16 junio 2009). Ordinariamente se toman de: B. NODET, Juan-María B. Vianney, Cura de Ars. Su pensamiento y su corazón (Barcelona, Hormiga de Oro, 1994).
[4]El tema de la presencia de María es muy explícito en los documentos de Juan Pablo II, especialmente a partir de Redemptoris Mater (ver nn.1, 38, 32-32, 38, 48), donde se remite a los documentos del concilio. Ver también la encíclica Ecclesia de Eucharistia, n.57: “María está presente con la Iglesia, y como Madre de la Iglesia, en todas nuestras celebraciones eucarísticas”. Decía Germán de Constantinopla: "Puesto que sigues todavía paseándote corporalmente en medio de nosotros, lo mismo que si estuvieras aquí viva, los ojos de nuestros corazones se sienten atraídos para mirarte todo el día... Tú visitas a todos y velas por todos... No has abandonado este mundo perecedero... sino que estás muy cercana de los que te invocan" (Oratio in Dormitionem SS. Deiparae: PG 98, 343, 346).
[5]J.M. FERRER GRENESCHE, La Virgen Maríaen la formación sacerdotal: Toletana 13 (2005) 11-29; R. SÁNCHEZ CHAMOSO, María y la vocación en la Iglesia: Seminarios 33 (1987) 221-246. Ver los estudios citados en notas posteriores, especialmente sobre la espiritualidad mariana del sacerdote.
[6] Sobre María en relación con Cristo Sacerdote: F.M. ÁLVAREZ, La Madredel Sumo y Eterno Sacerdote (Barcelona, Herder, 1968); A. BANDERA, La Virgen Maríay el sacerdocio de Cristo: Teología Espiritual 42 (1998) 35-60.
[7] Dice San Agustín: "También para María, de ningún valor le hubiera sido la misma maternidad divina, si no hubiera llevado a Cristo más felizmente en su corazón que en su carne" (Sobre la virginidad, 3: PL 40, 398, comentaLc 11,27-28: "son más bien bienaventurados"...). "Primero se realiza la venida por la fe en el corazón de la Virgen, y luego sigue la fecundidad en el seno materno" (Sermón 293,1: PL 39,1327-11328).
[8]Pablo VI, Alocución al fnal de la tercera etapa conciliar, en Santa María la Mayor, 21 noviembre 1964:AAS 1964, 1007-1018.
[9]Ver comentario de Redemptoris Mater sobre este punto, en la nota 2 del presente estudio. Cfr. M. BORDONI, La dimensione mariana del sacerdozio ordinato: Sacrum Ministerium 10 (2004) 175-205; G. D'AVACK, Il sacerdote e Maria (Milano, Ancora, 1968); A. De LUÍS FERRERAS, María, en: Diccionario del Sacerdocio (Madrid, BAC, 2005) 415-421; M. DUPERRAY, Regina Cleri: en: Maria, Études sur la Sainte Vierge (Paris, 1949-1971), III, 659-696; P. PHILIPPE, La Virgen Maríay el sacerdote (Bilbao, Desclée, 1955); E. SAURAS, Maria y el sacerdote: Estudios Marianos 13 (1953) 143‑172.
[10]Benedicto XVI, Alocución durante la Audiencia general, 12 agosto 2009: María, Madre de todos los sacerdotes.
[11]El texto está encuadrado en el contexto de toda la formación espiritual, con vistas a adquirir una “buena intención” que se traduzca en “adhesión” a Cristo y a la Iglesia, siempre con actitud de meditación de la Palabra de Dios y de celebración y adoración de la Eucaristía. En la respectiva (nota 144) del texto de 1985, se aporta una referencia bibliográfica: CIC: Can. 246, §3; Pablo VI, Exhortación Apostólica Marialis cultus, 2 febrero 1974: AAS 66 (1974), pp. 21 ss.; Juan Pablo II, encíclica Redemptor hominis, 4 marzo 1979:AAS 71 (1979), pp. 320 ss., n. 22; Carta Novo incipiente Nostro, Jueves Santo, 8 abril 1979: AAS 71 (1979), pp. 415 s., n. 11; Alocución Penso che abbiate, a los alumnos del Seminario Romano Mayor, 12 febrero 1983: Insegnamenti, VI, 1, pp. 409 ss.; (Congregazione per l'Educazione Cattolica), Lettera circolare su alcuni aspetti più urgenti della formazione spirituale nei Seminari, 6 enero 1980, p. 2l.
[12]La oración final de Pastores dabo vobis es una petición para realizar este proceso formativo con la ayuda de María: “Madre de Jesucristo, que estuviste con Él al comienzo de su vida y de su misión, lo buscaste como Maestro entre la muchedumbre, lo acompañaste en la cruz, exhausto por el sacrificio único y eterno, y tuviste a tu lado a Juan, como hijo tuyo: acoge desde el principio a los llamados al sacerdocio, protégelos en su formación y acompaña a tus hijos en su vida y en su ministerio, oh Madre de los sacerdotes. Amén” (PDV 82). Citamos otro fragmento de esta oración en el apartado 3.
[13] Este Directorio de la Congrgación del Clero (31 marzo 1994) añade: “La Virgen, pues, sabe y quiere proteger a los sacerdotes de los peligros, cansancios y desánimos: Ella vela, con solicitud materna, para que el presbítero pueda crecer en sabiduría, edad y gracia delante de Dios y de los hombres (cfr. Lc 2, 40)” (ibídem, 69).
[14] El discurso continúa: “El secreto de la santidad es la amistad con Cristo y la adhesión fiel a su voluntad… El seminario es un tiempo de preparación para la misión. Los Magos «se marcharon a su tierra», y ciertamente dieron testimonio del encuentro con el Rey de los judíos. También vosotros, después del largo y necesario itinerario formativo del seminario, seréis enviados para ser los ministros de Cristo; cada uno de vosotros volverá entre la gente como alter Christus… Recordad siempre las palabras de Jesús: «Permaneced en mi amor» (Jn 15, 9)… ¡He aquí el secreto de vuestra vocación y de vuestra misión! Está guardado en el corazón inmaculado de María, que vela con amor materno sobre cada uno de vosotros. Recurrid frecuentemente a ella con confianza".
[15] (Congregación para la Educación Católica): Carta circular sobre la Virgen María en la formación intelectual y espiritual (25 marzo 1988) n.33. La carta añade: “La Congregación para la Educación Católica quiere llamar de modo especial la atención de los educadores de seminarios sobre la necesidad de suscitar una auténtica piedad mariana en los seminaristas, quienes serán un día los principales agentes de la pastoral de la Iglesia” (ibídem). Se remite a los textos ya citados de OT 8 y de Ratio fundamentalis, n.34, así como a la Cartacircular sobre algunos aspectos más urgentes de la formación espiritual en los seminarios (6 enero 1980), de la que tomamos esta afirmación: “El trato con la Santísima Virgen no puede conducir sino a un mayor trato con Cristo y con su cruz. Nada mejor que la verdadera devoción a María, comprendida como un esfuerzo de imitación cada vez más completo, puede introducir… a la alegría de creer… Un seminario no debe retroceder ante el problema de dar a sus alumnos, por los medios tradicionales de la Iglesia, un sentido del misterio mariano auténtico y una verdadera devoción interior, tal como los santos la han vivido y tal como San Luis María Grignion de Montfort la ha presentado, como un «secreto» de salvación” (II,3). Cita también el Código: “Deben fomentarse el culto a la Santísima Virgen María, incluso por el rezo del santo rosario, la oración mental y las demás prácticas de piedad con las que los alumnos adquieran espíritu de oración y se fortalezcan en su vocación” (CIC can.246,§ 3).
[16]Benedicto XVI, Consagración de los sacerdotes al Corazón Inmaculado de María, Fátima, 12 mayo 2010. Ver otro fragmento de la consagración en el texto respectivo de la nota 31.
[17]Benedicto XVI,Alocución durante la celebración de las vísperas con sacerdotes, religiosos, seminaristas y diáconos, Fátima, 12 de mayo de 2010. Ver otro fragmento de esta alocución en el texto correspondiente a la nota 32
[18]Cartas del Jueves Santo (1978-2005): Fragmentos marianos en cartas de: 1979 (n.11), 1982 (n.10), 1988 (nn.4-8), 1995 (nn.3-4), 2005 (n.8 y conclusión). Ver: (Lettere Giovedì Santo) L'amore più grande. Giovanni Paolo II ai sacerdoti(Roma, Edit. Rogate, 2005). Ver la nota bibliográfica final del presente estudio, sobre Juan Pablo II y el sacerdocio.
[19] Decía San Juan de Ávila: "Si hubiese en la Iglesia corazones de madre en los sacerdotes... les daría resucitados las ánimas de los pecadores" (Plática 2ª). "Somos los ojos de la Iglesia" (ibídem).
[20] La doctrina mariana de San Juan de Ávila se encuentra especialmente en sus sermones (nn. 60-72). Su oración favorita, además del Ave María y del Magníficat, era: "Recordare, Virgo Mater, cum steteris ante Deum, ut loquaris pro nobis bona, et avertas indignationem suam a nobis" (oración recomendada en el sermón 66). Con esta oración inciaba frecuentemente sus predicaciones. Resumo la espiritualidad mariana sacerdotal de San Juan de Ávila, en:La doctrina mariológica del Maestro San Juan de Ávila: Marianum 62 (2001) 91-114.
[21]Benedicto XVI, en la conclusión de la exhortación apostólica, añade: “La Iglesia ve en María, « Mujer eucarística » —como la ha llamado el Siervo de Dios Juan Pablo II, su icono más logrado, y la contempla como modelo insustituible de vida eucarística. Por eso, en presencia del «verum Corpus natum de Maria Virgine » sobre el altar, el sacerdote, en nombre de la asamblea litúrgica, afirma con las palabras del canon: « Veneramos la memoria, ante todo, de la gloriosa siempre Virgen María, Madre de Jesucristo, nuestro Dios y Señor »” (Sacramentum Caritatis, n.96).
[22] L.M. HERRÁN, Sacerdocio y maternidad espiritual de Maria: Teología del Sacerdocio 7 (1975) 517‑542.
[23] La Exhortación Apostólica postsinodal de Juan Pablo II, Pastores Gregis (2003), presenta a María como “Madre de la Esperanza” en la vida ministerial (n.3). La referencia al Cenáculo de Pentecostés, es como el espejo o icono, donde se encuentra “el lazo indisoluble entre María y los sucesores de los Apóstoles” (n.14). María es modelo de fidelidad a la Palabra y de constante referencia en la liturgia, como actitud de escucha, oración y ofrecimiento.
[24] Benedicto XVI, Consagración de los sacerdotes al Corazón Inmaculado de María, Fátima, 12 mayo 2010.
[25] San Juan de Ávila subraya la semejanza de María con el ministerio sacerdotal y también la cooperación en la redención. María "dio al Verbo de Dios el ser hombre, engendrándole de su purísima sangre, siendo hecha verdadera y natural Madre de Él" (Tratado sobre el sacerdocio, n.2). Es Madre de Jesucristo, el Hijo de Dios. Está asociada a él como "Esposa del Verbo eterno" (Sermón 65/1), de quien es "madre y esposa" (Plática 15ª; cfr. Sermón 70), asociada a su obra redentora como "nueva Eva" (cfr. Sermones 60, 63 y 67). "Conocer" a María equivale a conocer Cristo como Redentor, "conocer nuestro Redentor y nuestro remedio" (Sermón 60). Todo lo que tiene María es "para que ayude al segundo Adán, que es Jesucristo, para ayudarle en la redención y a recoger las ánimas por quien Él derramó su sangre" (ibídem). La humanidad o "santísima carne" salvífica de Cristo, "con cuyos trabajos y muerte fuimos redimidos, podemos decir que fue carne de la Virgen, pues que ella se la dio y la mantuvo" (Sermón 68). Así, pues, "nuestra bendita mujer fue criada para que ayudase al segundo Adán, Cristo, a restaurar lo que el primer hombre y mujer echaron a perder" (ibídem). Todos los redimidos y especialmente los sacerdote ministros, somos, pues, "hacienda de sus entrañas" (Sermón 70).
[26]Pío XII, Menti nostrae 124.
[27] En los estudios sobre la espiritualidad mariana del sacerdote, se alude frecuentemente la base teológica y formativa: F.M. ÁLVAREZ, María y la Iglesia: espiritualidad mariana sacerdotal: Seminarios 33 (1987) 465-475; G. CALVO, La espiritualidad mariana del sacerdote en Juan Pablo II: Compostellanum 33 (1988) 205-224; E. DE LA LAMA, La Madrede Jesús en el kerigma de Pablo. Para el estudio del perfil mariano de la espiritualidad sacerdotal: Scripta de Maria 3 (2006) 89-130; J. ESQUERDA BIFET, María en la espiritualidad sacerdotal, en: Nuevo Diccionario de Mariología (Madrid, Paulinas 1988) 1799-1804; Espiritualidad mariana(Valencia, EDICEP, 2009) cap.VIII, 4 (María y la vocación sacerdotal); N. GARCÍA GARCÉS, María y la espiritualidad de los ministros ordenados, en: Espiritualidad sacerdotal, Congreso (Madrid, EDICE 1989) 263-282; L.M. HERRÁN, María en la espiritualidad sacerdotal según la doctrina del Vaticano II: Annales Theologici 3 (1989) 347-370; A. HUERGA, La devoción sacerdotal a la Santísima Virgen: Teología Espiritual 13 (1969) 229‑253; J.L. ILLANES, Espiritualidad y sacerdocio (Madrid, Rialp, 1999); B. JIMÉNEZ DUQUE, Maria en la espiritualidad del sacerdote: Teología Espiritual 19 (1975) 45‑59; C. RODRÍGUEZ, María en la vida espiritual del sacerdote: Revista espiritual n.57 (1977) 50‑56; J. SARAIVA, Santità mariana del sacerdote, en: (Congregazione per il Clero) Sacerdoti, forgiatori di santi per il nuovo millennio sulle orme dell'apostolo Paolo. Atti del VI Convegno Internazionale dei sacerdoti (Malta, 18-23 ottobre 2004) 100-113.
[28] Ver éstos y otros textos marianos en su contexto: PO 19; OT 8; can. 246, 276; PDV 36, 38, 45, 82. En la exhortación apostólica Pastores gregis: nn.3,13, 14-15, 36, 74.
[29] Benedicto XVI, Alocución durante el rezo del Ángelus, 12 agosto 2009.
[30] La recomendación que hizo posteriormente Benedicto XVI, es aplicable de modo especial a los sacerdotes ministros: “Esforzándose por tener los mismos sentimientos de María, ayudan a toda la comunidad a vivir como ofrenda viva, agradable al Padre... De Ella hemos de aprender a convertirnos en personas eucarísticas y eclesiales” (Exhortación Apostólica Sacramentum Caritatis 96).
[31]Consagración de los sacerdotes al Corazón Inmaculado de María, Fátima, 12 mayo 2010 (consagración repetida en la Plaza de San Pedro, al finalizar el Año Sacerdotal, 11 junio 2010). Ver otro fragmento de la consagración en el texto correspondiente a la nota 16.
[32]Alocución durante la celebración de las vísperas con sacerdotes, religiosos, seminaristas y diáconos, Fátima, 12 mayo 2010. Ver otro fragmento de la alocución en el texto correspondiente a la nota 17.
[33] San Juan de Ávila subraya la semejanza de María con el sacerdote ministro, por "el ser sacramental que el sacerdote da a Dios humanado", no sólo una vez, sino frecuentemente (Tratado del sacerdocio, n. 2). Por esto, María considera a los sacerdotes como parte de su mismo ser materno: "Los racimos de mi corazón, los pedazos de mis entrañas" (Sermón 67). De ahí el significado de la castidad o virginidad sacerdotal (cfr. Tratado del sacerdocio, n.15).
[34]Sobre la fuente de estas afirmaciones del Santo Cura de Ars, ver la nota 3 y también: Juan XXIII, Sacerdotii nostri primordia (encíclica con ocasión del primer centenario de su muerte, 1959).
[35]Discurso a los seminaristas, Colonia, Jornada Mundial de la Juventud, 19 agosto 2005.
[36] Benedicto XVI, Video conferencia, Retiro en Ars, 28 septiembre 2009.
[37]Benedicto XVI, Alocución durante el rezo del Ángelus, 12 agosto 2009.
[38]Se podría hablar de una herencia sacerdotal de Juan Pablo II, que tiene gran dimensión mariana. Además de las notas anteriores, ver: AA.VV., Il contributo di Papa Giovanni Paolo II alla formazione dei candidati al sacerdozio: Seminarium 46/4 (2006); AA.VV., Studia in honorem Caroli Woytyla, Angelicum 56 (1979) fasc. 2-3; J.A. ABAD., Juan Pablo II al sacerdocio, Pamplona 1981; R. BERZOSA MARTÍNEZ, Siete perfiles de la identidad sacerdotal en el magisterio de Juan Pablo II, Surge 51 (l993) 348-358; J. BRAMORSKI, L'identità sacerdotale alla luce del pensiero di Giovanni Paolo II: Angelicum 80 (2003) 369-401; G. CALVO, La espiritualidad mariana del sacerdote en Juan Pablo II, Compostellanum 33 (1988) 205-224; M. CAPRIOLI, Il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale nel pensiero di Giovanni Paolo II: Lateranum 47 (1981) 124-157; Catequesis sobre el presbiterado y los presbíteros, Madrid, Palabra 1993 (Audiencias generales: 31 de marzo a 29 de septiembre 1993): J. ESQUERDA BIFET, Identidad apostólica: transfondo histórico de la carta de Juan Pablo II a los sacerdotes. Teol. del Sacerdocio 12 (1980) 107-149; S. GAMARRA, Juan Pablo II ante el sacerdocio: Surge 36 (1978) 503-525; J. GARCÍA VELASCO, Juan Pablo II y el Seminario: Seminarios 79 (1981) 11-54; J. GOICOECHEAUNDÍA, El pensamiento de SS. Juan Pablo II sobre el sacerdocio: Surge 38 (1980) 179-189; 39 (1981) 51-62; JUAN PABLO II, Don y misterio. En el quincuagésimo aniversario de mi sacerdocio, Madrid, BAC, 1996; (Lettere Giovedì Santo) L'amore più grande. Giovanni Paolo II ai sacerdoti, Roma, Edit. Rogate, 2005 ; L.J. LEFEVRE, La lettre de Jean Paul II aux prêtres de l'Eglise. Appendice: A propos de l'accueil fait à la lettre de Jean Paul II: La Pensée Catholique 180 (1979) 5-21 ; J.A. MARQUES, O Sacerdocio Ministerial no Magisterio de Joâo Paolo II: Theologica 15 (1980) 81-224 ; A. PÉREZ BUSTILLO, La experiencia oracional en el magisterio pastoral del presbítero según las enseñanzas de Juan Pablo II: Revista Teológica Limense 42 (2008) 5-34; L.G. RAMÍREZ, El espíritu sacrificial oblativo en la vida y ministerio del presbítero, según el magisterio de Pablo II, Roma, Teresianum, 2000 (Tesis); J. SARAIVA MARTINS, La formazione sacerdotale oggi nell'insegnamento di Giovanni Paolo II. Lib. Edit. Vaticana, 1997 ; M. VINET, Le prêtre et sa mission dans l'enseignement du Papa Jean Paul II: Bulletin de Saint Sulpice 8 (1982) 63-76.
HEMOS VISTO SU GLORIA EI camino de la contemplación según san Juan
Escrito por Super User
JUAN ESQUERDA BIFET |
HEMOS VISTO SU GLORIA |
EI camino de la contemplación según san Juan |
Presentación |
Cuando leemos el evangelio de Juan, nos sentimos invitados a descubrir las huellas del Señor resucitado en nuestro caminar de todos los días. Estas huellas 0 "signos" del paso de Cristo se encuentran también fuertemente impresas en la vida de todo ser humano. |
Podemos hacer la prueba abriendo al "azar" cual~ quiera de esas páginas irrepetibles en que se narra un encuentro con Cristo. 'Cada uno se siente espontáneamente dentro de un drama, como interlocutor actual de Cristo. La lectura se convierte entonces en vivencia personal. Los latidos del corazón de Cristo todavía se perciben en sus palabras, siempre jóvenes, y en sus gestos, siempre cercanos, como de quien hace suyos nuestros sufrimientos, gozos, dudas y esperanzas. |
Los problemas de nuestro existir humano concreto solo se iluminan "en el rostro de Cristo" (2Cor 4,6). En el evangelio de Juan es el rostro cercano y la mirada cariñosa de un amigo, a quien no Ie resulta indiferente ni anodino un solo momento de nuestro existir. En este rostro y en esta mirada descubrimos, por una parte, el misterio de Dios amor, y, por otra, el misterio de todo hombre, que sigue expresando, de un modo u otro, un deseo tan profundo como humanamente inexplicable: "Queremos ver a Jesús" (In 12,21). |
La afirmaci6n clave de Juan refleja su propia ex~ |
periencia de encuentro con Cristo: Hemos visto su gloria (In 1,14). Pero es una experiencia que se repite en cada ser humano que se deja interpelar por Cristo. En efecto, el evangelio queda abierto hacia el futuro, como queriendo continuar los encuentros irrepetibles que deben hacerse realidad en cada hombre. Tanto los amigos de Cristo como sus perseguidores, y aun quienes aparentan hablar con indiferencia, han sido "tocados" amorosamente por el. En este sentido podemos decir que el evangelio lo seguimos escribiendo todos en el caminar de nuestra vida, donde el gran protagonista va dejando sus "signos" 0 huellas de enamorado. |
La sed de Dios, que se nota en cada persona, pueblo, cultura y religi6n, tiene una expresi6n característica, que el mismo Dios sembró en todo corazón: "Muéstrame tu rostro" (Ex 31,18). La dinámica de la búsqueda de Dios es la expresión más auténtica de la historia humana, aunque siga estando ausente en muchas publicaciones "hist6ricas". |
Nadie nos puede suplir en nuestra experiencia personal de encuentro con Cristo. Y tampoco nada ni nadie puede sustituir a Cristo como camino y como meta de una búsqueda sobre el sentido de nuestra existencia humana. Solo el da sentido al cosquilleo de nuestra interioridad y a la responsabilidad de un compromiso personal y comunitario. Los métodos e ideas que quisieran suplir al Señor, aunque se presentaran con la etiqueta de la "contemplación", de la "cosmovisión" y del "compromiso", no harían mas que agrandar el vacio y aumentar los errores de nuestra vida personal y social. El camino de esta búsqueda es personal y, por tanto, intransferible e irrepetible; pero es también y esencialmente un camino comunitario de todos los hermanos, que deben llegar a ser la comunidad eclesial de redimidos por Cristo. |
La dinámica de Hemos visto su gloria es como un |
"drama", que se repite en cada página del evangelio de Juan y en cada recodo de nuestro camino de peregrinas. En los personajes de Juan, como en los de nuestros días y en nosotros mismos, tiene lugar un forcejeo entre la luz y las tinieblas. Es la tensión de la fe en Cristo, que se resuelve en un encuentro personal, y de la aceptación de su mensaje: "Para que creáis" (In 20,31). |
A pesar del deseo innato que forcejea en cada corazón humano ("queremos ver a Jesús"), parece como si uno se adentrara en un callejón sin salida: "A Dios no le ha visto nadie" (In 1,18). Es la impresi6n producida por los signos pobres de la presencia y de la palabra de Jesús. Necesitamos esta experiencia, que corre a la par con la experiencia de nuestra propia pobreza, puesto que es la única que puede acabar con tantos castillos de naipes y tantos espejismos que nosotros nos empeñamos en calificar de planes maravillosos. Solo cuando aceptamos nuestra propia limitación sentimos cercano a Cristo: "EI Padre os ama"(Jn 16,27); "quien me ve a mi, ve al Padre" (In 14,9); "nadie viene al Padre sino por mi" (In 14,6)... |
Verdaderamente, en Cristo cercano descubrimos que "Dios es más grande que nuestro corazón" y que nuestros planes (1 In 3,20), porque "el nos ha amado primero" (l Jn 4,19). La "luz inaccesibIe" (1Tim 6,16) se va haciendo luz: "En tu luz hemos visto la luz" (Sal 35,lO). En Jesús, que es "la luz verdadera", que disipa las tinieblas e "ilumina a todo hombre" (In 1,9), descubrimos que "Dios es amor" (l In 4,8.16). Siguiendo la invitación de Jesús, que se nos ha hecho encontradizo, nuestra contingencia y circunstancias de cada día dejan traslucir la trascendencia de un Dios amor, para quien nuestro existir ya forma parte cariñosamente de su misma vida eterna: "Llévame, luz admirable" (J. H. Newman). |
En este encuentro vivencial con Cristo se aprende a pasar con él, a partir de un "éxodo", a través de un "desierto", para llegar a la unión 0 encuentro en el lugar y en el tiempo preparado por el Padre, es decir, en la nueva Jerusalem. Jesús nos invita a vivir su "pascua", que es también la nuestra, de "pasar de este mundo al Padre" (In 13,1). |
Con esta perspectiva de camino de perfección, que es camino de experiencia y de encuentro contemplativo, comprendemos como en Jesús se resumen todos los "signos" de la historia de salvación: es el cordero pascual, el tabernáculo, la serpiente de bronce, el mana, el agua que brota de la roca... Pero lo más maravilloso del caso es que ahora estos signos de su presencia y cercan{a salvífica se nos hacen presentes en nuestras circunstancias históricas, asumidas esponsalmente por él como suyas. En el evangelio de san Juan aprendemos la actitud contemplativa de ver siempre un "más allá" de las cosas. A Cristo le encontramos en la enfermedad, la humillación, la marginación, la soledad, el servicio humilde y anónimo, el trabajo cotidiano... Todo se convierte en pascua o"paso" hacia una nueva creación, que se fragua en la historia de todos los d{as. |
La historia humana se hace historia de encuentro con Dios en el propio coraz6n, en la comunidad y en la creación 0 cosmos. Es una historia de encuentro con Dios amor (In 3,16; 1 In 4,8.16). Nuestro, historia se hace al compás de nuestra capacidad de encuentro con Dios y de donación a los hermanos. |
El evangelio se sigue realizando en nuestras circunstancias, donde experimentamos la mirada, la llamada y la cercanía cariñosa de Cristo. Es allí donde resuena de modo nuevo la palabra inspirada de los textos escriturísticos. En este encuentro de todos los d{as.. Cristo nos declara su amor, que no tuvo principio ni tendrá fin. Desde el día de la Anunciación |
somos una página de su biografía. Este encuentro vivencial da inicio a un "más allá", que ahora es solo proyecto de "vida eterna", pero que un día será visión y plenitud. De este encuentro inicial hay que hacer un programa de vida para siempre, que comience, ya desde ahora, a unificar el corazón, relacionándolo sin complejos ni reservas con Dios y con los hermanos. Esta unidad de vida es el camino y la meta de la contemplación según el evangelio de Juan. |
La vida se va haciendo encuentro y donación a Cristo, que vive en cada ser humano y que aguarda en cada acontecimiento. La existencia se vive en clave de donación: en Cristo, don de Dios amor para todos los hombres, se aprende a abrir la propia existencia al amor (Jn 3,16; 4,10). El propio "yo" se abre al mundo nuevo de la caridad. El hombre reencuentra su propia identidad dándose (GS 24). |
La aventura de aprender a amar a Cristo día a día es un estreno permanente del amor. Las exigencias de la vida cristiana solo se pueden entender y vivir a la luz y al calor de esta aventura de encuentro cotidiano con Cristo. |
Auscultar y vivir en sintonía con el amor de Cristo equivale a restaurar el propio corazón, la propia comunidad, la propia cultura y el propio pueblo, ayudando a salvar a todos de caer en la gangrena de una dispersión estéril. A la creación, a las culturas y a los pueblos se les comienza a destruir cuando falta la interioridad de un corazón unificado. Pero esta unificación solo es posible a partir del encuentro vivencial y cotidiano con Cristo, que nos hace capaces de realizar el mandamiento del amor. |
Para saber pasar las páginas de un período histórico como es la encrucijada de un milenio hay que reestrenar continuamente un encuentro con Cristo que haga fecundo el salto en el "vado" de arriesgar |
lo todo por él. Esta opción fundamental vale la pena, porque dejara huellas indelebles en la historia de la humanidad. |
Hemos visto su gloria es el resumen de la experiencia de Juan, el discípulo amado. Y es también el resumen de nuestra experiencia cristiana. Es una experiencia semejante a Hemos conocido el amor (1 In 3,16). En Jesús descubrimos al Hijo de Dios, el Verbo, que desde nosotros y en nosotros hace de su vida y de la nuestra una mirada amorosa y comunitaria al Padre. Es la vida nueva en el Espíritu. |
Jesús construye esta unidad del "si" a Dios y a los hermanos haciendo primero de "los suyos" la transparencia, el testimonio y el instrumento para que toda la humanidad sea partfcipe del don de Dios. Somos la Iglesia "sacramento", es decir, el espacio en que Cristo continua haciéndose presente y cercano bajo "signos" pobres, a fin de que todos los hombres puedan experimentar el encuentro con él: |
Hemos visto su gloria. |
Jesús se hace camino para cada uno en un proceso contemplativo que, en el Espíritu Santo, lleva hacia el Padre. La vida de cada persona, como continuación del evangelio, es un camino de amistad con Cristo, de contemplaci6n del Verbo como expresión |
o "gloria" de su amor, bajo los "signos" pobres de nuestras circunstancias personales y comunitarias. |
La historia salvífica que nos narra Juan, el discípulo amado. comenzó hace dos mil años, pero recogiendo unos amores y una mirada eterna en el seno de Dios: la Palabra siempre "vuelta hacia el Padre". Es la Palabra que, desde el principio de la creación, ha dirigido la historia humana; que es, por ello mismo, historia de salvación. Desde el día en que esta Palabra fue anunciada a María, la Palabra 0 Verbo se hizo carne (hombre), es decir, hermano nuestro. El "si" de María fue el "si" querido por Dios, como |
figura y anticipación de todos los "sies" de personas y comunidades que posteriormente se encontrarían con Cristo, elHijo de Dios hecho hombre. |
He elaborado este "comentario" al evangelio según san Juan intentando describir cómo el Verbo encarnado penetra, en cada época, en el corazón de cada hombre que se abre al amor. Me parece ver, en todas partes que el evangelio del discípulo amado se sigue viviendo y realizando en esos casi innumerables corazones que se han decidido a hacer de la vida un camino de contemplaci6n, es decir, de amor esponsal, de amistad, de totalidad y de compromiso radical. En estos corazones, que se transparentan en tantos rostros anónimos, he ido releyendo el texto inspirado del evangelio de Juan. A partir de esta "relectura", he puesto en unas pobres líneas algo de lo mucho que he aprendido de ellos y que yo mismo no se corno explicar. Pienso en tantas vidas an6nimas en el seno de las familias, comunidades, claustros, campos de misión, investigación teológica, sufrimiento, marginación, olvido... Su vida se está escribiendo como un nuevo evangelio, no con palabras "inspiradas", pero si con palabras imborrables, en el corazón de Dios, a quien sólo conoceremos de verdad en el "más allá". |
He aprendido también a leer a san Juan a través de la vivencia de los santos, que resumí en una publicación anterior (Testigos del encuentro). He aprovechado las reflexiones de los mejores comentaristas actuales, a los que cito en la orientación bibliográfica. He redactado mis reflexiones intentando leer el evangelio "hecho carne" en el misterio de tantas vidas cristianas, casi siempre anónimas, de toda cultura, raza y condición, en cuyas pupilas he visto reflejado el gozo indecible de haber encontrado a Cristo. |
El año 2000 es un nuevo hito y, a la vez, un reto, en el camino humano y eclesial, cuando los hombres |
de todas las latitudes buscan a Dios en el rostro de Jesús, que vive en su Iglesia. Hoy, en el cruce de dos |
Introducci6n a la lectura contemplativa de Juan |
milenios, san Juan escribiría de nuevo la frase llena de sentido contemplativo, comunitario y misionero: |
Hemos visto su gloria. |
Cristo sale al encuentro |
Juan es una voz cualificada en el coro de los testigos del encuentro con Cristo. Es verdad que en cada documento escriturístico resuena la misma palabra de Dios, que se encuentra en todos los demás escritos inspirados. Por esto a san Juan hay que leerlo en armonía con toda la revelaci6n cristiana, que ahora encontramos en la Sagrada Escritura y en la tradición de la Iglesia. Pero en élencontramos algo peculiar: la insistencia en "ver" a Cristo, encontrarle, estar con él, conocerlo, tenerlo, amarlo, tocarlo, permanecer en él... Juan nos cuenta retazos de vida que son otros tant6s encuentros con Cristo. |
El evangelio según san Juan está escrito para que cada uno de nosotros descubra y encuentre a Cristo en su propia circunstancia. A "Jesús de Nazaret" le encontramos en nuestro "Nazaret" (Jn 1,45-51). Cristo se hace presente e interlocutor aquí y ahora; deja resonar su palabra y se deja entrever bajo signos, en el propio corazón y en la comunidad en que uno vive. Pero hay que saber leer y ver, aleccionados en la escuela del Espíritu de amor: "Si alguno me ama, yo me manifestare a él" (Jn 14,21). La experiencia de encuentro contemplativo y amistoso con Cristo no es exclusiva de nadie, puesto que Jesús es "la luz que ilumina a todo hombre" (Jn 1,9). |
13 |
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El evangelio del "discípulo amado" refleja el caminar de la Iglesia peregrina, que aprende a encontrar a Cristo en cada recodo del camino. Hay que saber leer el evangelio para creer y tener vida en Cristo Un 20,31). Y hay que releerlo prolongado en cada época, en cada comunidad, en cada situaci6n humana y en la vida irrepetible de cada persona. Hay que leerlo como lo han leído los "místicos", es decir, los "enamorados" de Jesús. |
Los servicios técnicos y las reflexiones teol6gicas, asi como la exegesis textual y estructural, deben respetar la iniciativa siempre actual de la palabra de Dios, sin condicionamientos personalistas y "culturales". La verdadera exegesis y teología deja siempre abierto el paso al encuentro personal de cada uno con el Verbo hecho carne. A Cristo, la palabra del Padre, se Ie encuentra en armonía y "comuni6n" con la predicaci6n, celebraci6n y vivencia de la Iglesia, donde el se esconde y se manifiesta, ahora también bajo "signos" pobres de humanidad prolongada en el tiempo. El Verbo 0 Palabra, meditada así en el coraz6n y en el grupo de hermanos, no hace secta, sino que construye la comunidad universal. |
Cada palabra del evangelio es una mirada de Cristo, un latir de su coraz6n, una Hamada actual a entablar una relaci6n amistosa y a tomar una opci6n fundamental. El evangelio se hace siempre lectura "apasionada", porque es nuestra misma historia que se va escribiendo en los diferentes encuentros con Cristo. Juan escribi6 el evangelio para impregnar el mundo con la palabra de Dios amor. El hombre, la historia y el mundo ya no tienen sentido sin Cristo, que es el centro de todas las cosas. |
Juan escribi6 .el evangelio para dejarnos la palabra viva de Cristo resucitado, que sigue presente entre nosotros. Escribi6 para que creyéramos en el Hijo de Dios /Jn 20,31), es decir, a fin de que nuestra vida se hiciera encuentro y aceptaci6n vivencial |
de la persona y del mensaje de Jesús. La palabra "creer", que se repite unas den veces en el evangelio de Juan, es una tensi6n que se va manteniendo a lo largo de toda la narraci6h, como interpelando a cada uno desde lo hondo del propio ser. |
Juan nos cuenta propiamente la "glorificaci6n" de Jesús en su carne. Jesús se hace "visible" a los creyentes, como única revelaci6n plena, para transformarlos en hermanos suyos e hijos de Dios, participantes de su misma vida divina. La caridad, como vida divina comunicada, libera y diviniza al hombre. Cada uno se siente llamado por su nombre a participar en esta vida (Jn 10,3ss). La comuni6n con Dios se hace comuni6n con los hermanos. |
El evangelio de Juan da a entender la presencia actual de Cristo en nosotros y de nosotros en el, que invita a la armonía y equilibrio entre la vida contemplativa y activa, asi como entre los dones recibidos de Dios y la c:omunidad 0 instituci6n creada y animada por el mismo Cristo y por su Espíritu enviado por eI. |
En toda época y situaci6n humana, los problemas nuevos encuentran nueva luz en la palabra de Dios, que es el mismo Jesús. Pero Dios sigue teniendo la iniciativa sobre su Palabra y no la deja manipular por nadie. Para hacer entrar la Palabra en una cultura ("inculturaci6n") o en una situaci6n y problema humano ("encarnaci6n"), hay que profundizar primero la misma Palabra a la luz de la fe con una actitud de contemplaci6n. El evangelio, escrito, predicado, leído y meditado, procede siempre de la escuela del Espíritu Santo. |
Contenido doctrinal |
EI mensaje de Juan es transparente: Dio$ nos ama porque es amor Un 13,16; 1 In 4,8.16); hay que creer |
en el arnor, aceptando a Cristo Hijo de Dios hecho nuestro hermano Un 1,14; 1 In 4,16); nuestra fe y encuentro con Cristo se demostrani en el amarnos como el nos amo (Jn 13,34; 1Jn 4,l1ss). Este es el "conocer" amando o conocer "contemplativo", que libera a la persona de toda opresión interna y externa. |
Todo el mensaje joánico se resume en el mismo Jesús, que es el Hijo y la Palabra de Dios, hecho hombre por nosotros. El es la Palabra y revelación definitiva de Dios a la humanidad. El es el revelador y la revelación (Jn 1,18). Viene a nosotros como unigénito del Padre, para transmitirnos la vida nueva en el Espíritu Santo. EI mismo Jesús es el don de Dios a todo hombre; pero hay que acogerlo con fe, desde lo hondo del coraz6n y comprometiendo toda la existencia. Es el salvador del mundo (Jn 4,42). Nos revela el misterio de Dios y el misterio del hombre. Personifica y lleva a plenitud la ley, los profetas y todos los valores del Antiguo Testamento. |
Jesús, revelándonos al Padre y comunicándonos el Espíritu Santo, reafirma su identidad. Su ser mas intimo es siempre de "mirada" u orientaci6n hacia e Padre en el Espíritu (Jn 1,1). Su retorno al Padre es a través de su muerte, expiatoria de nuestros pecados, y a través de su resurrecci6n, fuente de nuestro nuevo nacimiento. A la luz de su "pascua" (paso al Padre), Jesús anuncia y comunica la nueva creación |
o vida nueva en e1 Espíritu para todos los hombres de todas las épocas. Jesús sale al encuentro de cada hombre para decirle: "Yo soy..... la luz, el pan, la vida, la verdad, el camino, la puerta, el buen pastor, la resurrecci6n... La encarnaci6n del Verbo (Jn 1,14) ha hecho posible el misterio de la pascua y el envío del Espíritu Santo (Jn 20,22). |
La Iglesia o comunidad de creyentes, creada por Jesús y animada por su Espíritu, es como su prolongación en el tiempo y la expresi6n de su amor: es su |
grey 0 rebaño (Jn 10), los sarmientos de la vid (Jn 15), su esposa (cfr. Jn 3,29 yAp). En esta comunidad, Jesús deja unos signos de su presencia activa y amorosa: Pedro, la misi6n apost6lica de los doce, el bautismo, la eucaristía, el perd6n, la palabra... Pero Jesús sigue siendo siempre el centro imprescindible de su comunidad ("los suyos"), que debe pasar con él hacia el Padre. |
La Iglesia enraíza en la encarnaci6n del Verbo yes, por ello mismo, el signo visible del desposorio del Verbo con la humanidad y el signo portador de la presencia de Dios entre nosotros (Ap 21,3-4; Ex 33,7-11). |
La narraci6n evangélica de Juan se desenvuelve a través de un dinamismo en forma de espiral. Las ideas se profundizan para llegar al centro (Cristo resucitado, Hijo de Dios) y luego elevarse indefinidamente mas y mas. Lo importante es presentar continuamente a Dios, que nos da a su Hijo por amor, y que reclama nuestra fe de encuentro con ély de donación a el y a los hermanos. En su "carne" humillada y glorificada (muerte y resurrecci6n) descubrimos su divinidad. EI hombre es llamado a entrar en la vida intima de Dios amor. EI amor viene de arriba, Se recibe gratuitamente, para hacerse compromiso de donaci6n a los hermanos y lugar de encuentro con la Trinidad. |
El dramatismo del evangelio de Juan aparece en las reacciones diferentes ante la persona y el mensaje de Jesús. A veces es la lucha entre la luz las tinieblas. Siempre es el drama de la fe, que continua en la Iglesia como signo de contradicci6n. María personifica a la Iglesia como "la mujer" creyente, asociada esponsalmente a Cristo. |
La fe viva |
Desde el pr6logo (Jn 1,7) hasta la conclusi6n (In 20,31), Juan urge continuamente a la fe como encuentro |
vivencial con Cristo y como aceptaci6n incondicional de su mensaje. La palabra "creer" se repite casi cien veces. EI problema que se plantea al creyente es e1 de aprender a discernir los "signos" en los que Cristo muestra su "gloria", es decir, su realidad de hijo de Dios y salvador. Hay momentos dramáticos en la narraci6n evangélica que reflejan las situaciones del existir humano, también el nuestro. |
La fe de que habla Jesús es iniciativa de Dios y don suyo. Pero reclama una respuesta que compromete todo el ser, a modo de opd6n fundamental para siempre. Es una ((mirada" relacional a Cristo, a su persona y a su mensaje. En Cristo, la historia ha tomado definitivamente el rumbo de una nueva creaci6n. A Cristo se Ie descubre en su humanidad e historia concreta: se hace encontradizo en nuestro caminar hist6rico y circunstancial. Cristo espera el "si" de nuestro coraz6n a sus palabras y hechos salvificos, que tienen valor permanente y actual. Jesús origina la "crisis" de los "ultimos" tiempos para reorientar toda la historia humana hacia el amor. |
Por la fe, la vida humana recupera su sentido profundo, como vivencia existencial de un presente que comienza a seT vida para siempre. Dios, hecho hombre, hace posible este paso continuo hacia el "más allá", desde la raíz del aquí y del ahora. Es el camino de todo el hombre y con todas sus circunstancias hacia la verdad y la vida eterna. |
El programa de la fe, que a veces se hace drama, lo ha trazado el mismo Jesús: creer que el Hijo de Dios se ha hecho hombre para perdonar nuestros pecados y para. darnos una vida nueva en el Espíritu por medio de su muerte expiatoria, que florece en resurrecci6i1 gloriosa. Esta fe se expresa en el mandamiento del amor, porque es adhesi6n personal al mensaje y a los amores de Cristo, que hace de su vida |
una donaci6n sacrificial al Padre y a los hermanos. |
Es, pues, un proceso de irtomando conciencia de Cristo resucitado presente, para entrar en una amistad comprometida con el. Vamos "pasando" de la muerte a la vida, de las tinieblas a la luz, de la nada a la vida nueva, de la incredulidad a la fe, porque caminamos con Cristo en su paso pascual hacia la cruz y la glorificaci6n. Nos apoyamos en los "signos" que el mismo Jesús nos ha dejado de su presencia actual: su palabra, su eucaristía, sus testigos... Así nos vamos haciendo comunidad de creyentes (Iglesia), que reflejan la "comuni6n" de amor y unidad entre el Padre, e1 Hijo y el Espíritu Santo. |
La fe fundamenta nuestra esperanza, porque nace del amor de Dios y lleva a su amor y al amor de los hermanos. Así es la síntesis del evangelio según san Juan: "EI Padre os ama porque me amáis" (Jn 16,27). Por esto hay que dejar hablar a los textos evangélicos sin interpretaciones anacr6nicas ni técnicas atrofiantes. Basta con dejar "encarnar" o resonar la palabra de Dios en nuestras circunstancias, como palabra pronunciada para todos los hombres y para todos los tiempos, que debe crear una comuni6n de hermanos sin antagonismos ni fronteras. Dios sigue pronunciando su palabra en un tiempo y en un espacio concreto, pero para trascender al mundo, que debe edificarse sobre el mode1o de la donaci6n sacrificial de Cristo buen pastor. Sólo por estas líneas maestras del evangelio de Juan es posible hacer la relectura de la Palabra en cada situaci6n hist6rica concreta. |
EI testimonio apost6lico de Juan el evangelista (Jn 20,31; 21,24), como el nuestro, se convierte en instrumento del Espíritu, para que otros crean en Jesús y entren en la comuni6n de vida divina por el bautismo (el agua) y la eucaristía (la sangre) (IJn 5,6-8). |
No se puede encontrar a Cristo a1 margen de los signos pobres de su presencia, que é1 mismo ha dejado en 1a Iglesia, y cuya eficacia él mismo garantiza por medio del pastoreo o testimonio apostólico. "Queremos ver a Jesús" (In 12,21) es el grito y e1 deseo de todo hombre de buena vo1untad que necesita e1 servicio o ministerio de los apósto1es. |
Cronología, vocabulario, distribución del texto |
El texto joánico refleja también el ambiente eclesial de finales del siglo I: algunas dificultades internas de la comunidad (¿las primeras sectas?) y la persecución por parte de los opositores. En realidad deja entrever la prob1ematica fundamental de todos los tiempos. |
La tradición ha localizado la última redacción del evangelio hacia e1 ano 90, tal vez en Éfeso. Si anteriormente haya habido diversas redacciones del texto, Juan ha sido siempre la autoridad apostólica responsable. Esta tradición se basa en san Ireneo (nacido hacia 130-140) y se hace opinión común hacia e1 ano 180. Juan, el autor del evangelio, es el "discípulo amado" (In 13,23; 19,27; 20,3-8; 21,7.20-23). |
Se le ha llamado "evange1io espiritua1" (Clemente de Alejandria), como de quien ve mas allá de los "signos". Es el "ver" guiado por el Espíritu de amor. Por esto el lenguaje de Juan es el de todos los "misticos". Usa las pa1abras de 1a amistad y del amor: ver, creer, amar, acoger, venir, seguir, encontrar, mirar, permanecer, experimentar... De este modo, en la humanidad de Cristo se descubre su "gloria" de Hijo de Dios hecho nuestro hermano. Por .esto e1 vocabulario de Juan es peculiar, y hay que entenderlo en su propio contexto: camino, verdad, pan, 1uz, vida, hora, mundo, gloria, signos, parácli |
to (consolador, abogado...), Palabra, "yo soy"... |
El contexto cultural de Juan es veterotestamentario |
y judaico, con algunas expresiones helénicas, que no desvirtúan 1a línea de 1a reve1ación cristiana. |
En e1 orden o distribuci6n del texto evangélico se observan unos fragmentos o partes muy claras: el pr6logo (In 1,1-18), los signos de la vida de Cristo, la pascua, e1 epílogo (c. 21). Es difici1 precisar los limites exactos, tal vez porque ha habido transposición de textos. Todo e1 evangelio sigue e1 hilo conductor de Jesús que va a la pascua (su hora: muerte y resurrección), donde realizará 1a nueva alianza, para conseguirnos una nueva creaci6n o vida nueva en e1 Espíritu. Los signos de la nueva creación (durante 1a vida de Jesús) ya anuncian la pascua. |
Algunos autores distribuyen el texto según 1a temática: los signos (¿siete?), los discursos, las fiestas, la hora... De hecho, todos estos datos se entrecruzan. Los discursos principa1es se relacionan con algún signo; pero, como veremos en e1 capitulo segundo, las palabras de Jesús son también signos. |
No sería admisible una división anacr6nica del texto a 1a luz de una "ideologia" posterior (por ejemplo, 1ucha de "clases" contra e1 poder constituido), que quisiera presentar a Jesús rechazando las instituciones (cc. 2~4) para liberar al hombre de la opresión institucional (cc. 4-11), e incluso presentando un Juan evange1ista "carismático" en oposición a Pedro e1 "jerarca"... |
Cua1quier división del texto debe tener en cuenta el dinamismo en espiral de círculos concéntricos. Viene a ser una repetición de la temática en forma siempre nueva. Jesús es el Verbo hecho hombre que asume nuestra realidad para hacerla nueva creaci6n |
o vida nueva por medio de un paso o pascua, que es donación sacrificial: lo que la cruz es para Jesús, es para nosotros e1 mandamiento del amor. |
En cada fragmento del evangelio se manifiesta Jesús como palabra divina creadora y como e1 esposo |
de la nueva alianza. Todo gira en torno a la nueva creaci6n (por Cristo y en el Espíritu) y en torno a la Pascua definitiva (nueva alianza). El momento culminante es la "exaltaci6n" de Cristo en la cruz: derramando su sangre, ya puede comunicar el agua viva del Espíritu. Así nace el hombre nuevo y la nueva comunidad (la Iglesia, "eclesiogenesis"), como prolongación (sarmiento) del mismo Cristo. |
"En el evangelio de Juan resplandecen los dones de la vida contemplativa, pero sólo para quienes sean capaces de reconocerlos" (san Agustín). Nos hacemos capaces cuando abrimos el corazón a la mirada y a la voz de Jesús de Nazaret, el Verbo hecho nuestro hermano. |
Orientaci6n bibliografica |
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WIKENHAUSER A., E1 evange1io según san Juan, Herder, Barcelona 1978. |
Nota: El lector podra encontrar mas abundante bibliografia en estos mismos estudios aqui citados. Hemos tenido en cuenta la linea contemplativa de estudios hist6ricos clásicos: Orígenes, san Juan Cris6stomo, san Cirilo de Alejandría, san Agustín, santo Tomás de Aquino, san Juan de Ávila (para las cartas), etc. |
ENCUENTRO DE FE, SIGNOS DE NUEVA CREACION Y PALABRAS DE VIDA
Escrito por Super User
SEGUNDA PARTE |
ENCUENTRO DE FE, SIGNOSDE NUEVA CREACION Y PALABRAS DE VIDA |
In 1,19-12,1-50 |
Cuando encontramos a Cristo descubrimos en el todo el misterio de Dios y todo el misterio del hombre. Toda la vida del Señor es un conjunto de signos de la nueva creaci6n. Y en e descubrimos nuestro destino definitivo como participación en la vida íntima 0 "comunión" de Dios Amor. |
Los signos de la vida de Cristo nos invitan a pasar con él hacia esta realidad de una restauración plena. A Cristo no se Ie encuentra si uno no va con el corazón en la mano. "Pasar" con e equivale a vivir su "pascua". No hay nueva creación sin "pasar" acompañando a Cristo por la cruz hacia la resurrección. Solo el amor de amistad descubre esta perspectiva grandiosa. Las exigencias cristianas de este encuentro solo se comprenden a partir de un enamoramiento. Jesús es exigente porque nos quiere hacer participes de su misma vida divina. |
Desde el capítulo primero al doce, Juan nos resume una serie de signos, que son también encuentros de Ie con Cristo y de comunión con Dios y con los hermanos. Los signos de la vida de Cristo son sus mismas palabras y gestos como declaración de amor (In 3,16). Son signos del encuentro. EI encuentro inicial de los primeros discípulos (In 1,19-51) se va haciendo encuentro para toda clase de personas sin discriminación. |
Un signo fuerte, el de Cami, quiere ser promesa del don definitivo del Espíritu Santo, que es el "vino" de las promesas mesiánicas (cc. 2-4). En |
la vida de Jesús todo suena a "fiesta" de pascua, a modo de bodas 0 desposorio con la humanidad |
(cc. 5-10). Cada vez se hace más fuerte la orientación de toda la vida de Cristo hacia "su hora" (cc. 11-12), en la que, después de dar la vida en sacrificio, ya podrá comunicar el agua viva del Espíritu Santo. |
La persona, las palabras y las obras de Jesús dejan entrever su divinidad. Son como el sello del Padre en la "carne" de su Hijo hecho hombre. Son los nuevos signos de un nuevo éxodo (cc. 1-12). Se trata siempre del mismo Jesús, que es Dios con nosotros (Emmanuel) bajo el signo del tabernáculo, la serpiente de bronce, el cordero pascual, la roca que mana agua, etc. |
Jesús obra como el Padre On 5,17). Sus obras son signos transparentes de esta realidad. Todo lo que dice y hace es para mostrar que su palabra es eficaz, para cambiar el mundo desde sus rakes. Es como un drama de amor entre Dios y los hombres, que tendrá su punto culminante en el buen pastor muerto en cruz, con su costado abieno manando sangre y agua. Es el inicio de la glorificación de Jesús y del hombre creyente. |
Siempre son los signos de la gloria del Verbo hecho hombre. Pero el clima de estos signos es el de la sencillez de la vida cristiana y circunstancial. Jesús nos hace abrir los ojos a la realidad objetiva con una luz nueva: es el mismo como compafiero de viaje. |
El evangelio de Juan deja entrever geografía y ciena cronología como parte integrante del misterio de la encarnación. No nos cuenta imaginaciones ni impresiones subjetivistas, sino la gran experiencia del encuentro con Cristo. Jesús es el "sacramento" visible y portador de la vida divina a través de signos concretos, históricos y plenamente humanos. |
Estamos ante el "evangelio espiritual", es decir, ante Cristo, que, haciéndose encontradizo, también |
ahora en nuestras circunstancias concretas nos comunica el Espíritu Santo. Asimismo, el Espíritu del Padre y del Hijo nos conduce a la fe como vida en Cristo y como participación de la vida divina. Cristo nos comunica el Espíritu del Padre y el Espíritu nos conduce a Cristo. |
Los acontecimientos que se describen en el evangelio son ahora los signos de Iglesia, que se entrecruzan en nuestra vida cotidiana. En los acontecimientos evangélicos de hace veinte siglos se puede leer todo el mensaje de Jesús; en los acontecimientos de la Iglesia, que es el Complemento" 0 prolongación de Jesús (Ef 1,23), podemos releer el mismo evangelio. La presencia de Cristo fue y sigue siendo fuerza y vida nueva en el Espíritu. Este es el origen fontal de nuestro nuevo nacimiento On 3,3ss). |
Sólo el Espíritu del Padre y del Hijo nos puede capacitar para entrar en la revelación de Jesús, as! como para poder encontrarle y escucharle como Palabra del Padre. Entonces "interiorizamos" la Palabra, dejándola entrar hasta lo más hondo de nuestro corazón bajo la acción del Espíritu Santo. En cada circunstancia podemos volver al pozo de Jacob On 4,6). |
((Ver" y escuchar al Verbo a través de sus gestos equivale a la actitud mariana de meditar en el corazón (Lc 2,19.51) 0 de reclinar la cabeza sobre el pecho de Jesús On 13,23). Hoy los gestos y signos de Jesús constituyen la Iglesia, que es, por ello mismo, la que garantiza que, estos mismos signos sean "sacramentos" de la fe y del encuentro. |
Dios sigue llegando al hombre por su Palabra y por su Espíritu, que ablanda nuestro corazón para abrirlo totalmente al amor. Dios, por medio de Cristo, su Hijo, ha hecho al hombre capaz de una apertura total al mismo Dios y a los hermanos. EI Soplo" de Dios en el rostro del hombre para hacerle |
su imagen (Cen 2,7; Sab 15,11) es ahora la comunicación de la filiadon divina participada de Jesús por obra del Espíritu. |
En cada fragmento evangélico aparece el objetivo global de Cristo: manifestar su gloria 0 su realidad de Hijo de Dios, salvador del mundo On 1,51; 2,II; 4,42). En Cristo encontramos la nueva y definitiva manifestadon de Dios en el mundo. |
Precisamente por este amor desbordante de Dios, el hombre y la humanidad entera quedan profundamente cuestionados. El corazón humano, dividido por el egoísmo, ya puede comenzar la tensión por recuperar su unidad perdida. Esta lucha interna divide la humanidad en dos, según la opción fundamental que cada' uno haga por Cristo. No es propiamente la lucha de clases ni son las dialécticas históricas, sino el drama de todo corazón humano, sin excepción, que se refleja en el devenir concreto histórico y social. La victoria solo se puede conseguir por la puesta en práctica del mandato del amor. Otro tipo de "lucha" originaria una división mayor. Cristo nos ha liberado de la esclavitud de Egipto, es decir, del pecado, amando y dando la vida; así ha podido liberar a todos sin hacer vencedores ni vencidos. Cristo se acerca al "corazón inquieto" de cada hombre, donde se desarrolla el drama del amor,. todo hombre esta oprimido por este drama y lo refleja en la opresión y en la falta de amor a los hermanos. |
Jesús revela al Padre entregándose a si mismo 0 haciendo de su vida un don. El ha recibido el Espíritu en plenitud (Jn 3,35) para poder comunicarlo a todos. El clima necesario de esta revelación de la Palabra y de la comunicación del Espíritu es el encuentro de amistad con él, que compromete a amar efectivamente a todos los hombres como hermanos. |
En el decurso del evangelio de Juan aparecen |
unas figuras femeninas, como "tipo" de la Iglesia creyente, redimida y asociada al Redentor. María, "la mujer", es el prototipo 0 personificación de la Iglesia. Ella ha sido siempre fiel, "vestida de sol" (Ap 12,1), "llena de gracia" (Lc 1,28), en sintonía de amor y de vivencia con su Hijo. Lo que Cristo redentor ha conseguido en María desde su. concepción inmaculada, lo quiso conseguir paulatinamente en la samaritana y en la Magdalena y ahora en toda la Iglesia como comunidad de creyentes. |
Con la actitud de fe esponsal de "la mujer" (María), la Iglesia entera aprende a pasar de las realidades temporales alas espirituales, sin destruir ningún valor autentico, como "paso" 0 "pascua" hacia una nueva creación transformada por Cristo resucitado. |
Por los "signos" y la "carne" del Verbo hecho hombre y prolongado en la Iglesia y en la humanidad, descubrimos su realidad de Hijo de Dios y colaboramos en la construcción de la realidad final, cuando todas las' cosas serán restauradas en Cristo Por obra del Espíritu, que es prenda de la nueva creación y de nuestra filiación divina participada (Jn 3,3ss; Ef 1,10-14). |
Hay que aventurarse a releer el evangelio de Juan en la propia vida, como si se escribiera por primera vez. Esta relectura es una meditación u oraci6n contemplativa que ve "mas allá" de la superficie de los acontecimientos externos. La pauta de esta contemplaci6n nos la ha trazado e1 Espíritu Santo, que ha inspirado las pa1abras bib1icas. Como el Verbo se ha' hecho carne por obra del Espíritu Santo, así la palabra de Dios entra en nuestro corazón por obra del mismo Espíritu; solo falta una actitud de pobreza y de apertura total resumida en el "si" de la vida cotidiana. Es 1a actitud contemplativa de Juan. |
Al leer de nuevo el evangelio, nuestra vida se convierte en biografía del mismo Jesús~ "el Verbo hecho |
carne" Un 1,14) y "el pan de vida" Un Q,35ss). Transformamos nuestra vida en eucaristía en Ya medida en que dejemos entrar en ella "la palabra de la vida" (1 In 1,1). La vida y la historia humana han comenzado a recuperar ~u sentido y su rostro original. La fe se hace opción fundamental y definitiva por Cristo. La pobreza radical, experimentada en la oración contemplativa, se convierte, gracias a Cristo, en capacidad de amar con todo el corazón a Dios ya Io~ hermano~. Ha comenzado la unidad del corazón, de la humanidad y del cosmos. Solo faltan los "contemplativos" que sepan releer el evangelio con los mismos ojos de Juan "el discípulo amado". |
1. EI primer encuentro (Jn 1,19-51) |
1. En medio de vosotros |
Yo soy la voz del que clama en el desierto..., en medio de vosotros estd uno a quien vosotros no conocéis... He aquí el cordero de Dios que quita el pecado del mundo... Yo he visto al Espíritu posarse sobre el... EI es quien bautiza en el Espíritu Santo. Y yo vi y doy testimonio de que este es el Hijo de Dios. |
(In 1,23-34) |
A Cristo siempre se leencuentra en relación al signo del hermano. Cada persona tiene un rasgo de la fisonomía del Señor. Hemos encontrado a Cristo gracias a algún. mensajero y apóstol suyo. Necesitamos siempre a algún hermano que nos haga observar mejor algún signo de la presencia de Cristo entre nosotros. EI Señor está ya presente asumiendo nuestra vida como propia. Es el cordero pascual que |
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nos hace salir del pecado para "pasar" al encuentro esposa con e1 Dios de la alianza 0 Dios amor. |
Jesús es el cordero 0 siervo inocente que se responsabiliza de nuestros pecados y de todo nuestro existir (Is 53,7; Heb 8,32). A Jesús solo se le encuentra escondido en nuestras circunstancias. EI personifica a toda la humanidad, cargando sobre si los avatares históricos, el sufrir y el gozar, los éxitos y los fracasos. |
Sobre Jesús, siervo inocente que representa a todo el pueblo, descendió el Espíritu del Padre (Jn 1,32; Is 61,1-3). Jesús es el Hijo de Dios que, comunicándonos su Espíritu por el bautismo, nos hace participes de su filiaci6n divina. EI Señor nos hace mensajeros y transmisores de esta realidad de gracia. Somos su voz, su signo personal y testigos de su encuentro. |
2. Venid y ved |
Los dos disépalos siguieron a Jesús. Volviéndose Jesús a ellos, viendo que le seguían, les dijo: ,Que buscáis? Dijeron ellos: ... Maestro, ,d6nde moras? Les dijo: Venid y ved. Fueron, pues, y vieron d6nde moraba, y permanecieron con él aquel día. Era como la hora décima. |
(In 1,37-39) |
La dinámica del seguimiento y del encuentro con Cristo tiene tres momentos: ir, ver, permanecer. Es un examen de amor. Jesús continua teniendo la iniciativa de hacerse encontradizo, pero pide un c1ima de desierto, de escucha y de generosidad; espera que Le sigamos sin condicionamientos. Jesús, con su mirada amorosa, alienta nuestro caminar hacia él; pero no nos dispensa de desprendernos de una etapa anterior. Quiere que le busquemos a él, no principal |
mente sus dones. Nuestro tiempo va a valorarse solo según el peso de nuestro amor a él. |
Ir es dejar otras cosas y personas..Es la orientación de toda la vida según el amor a Cristo. Ver es la ciencia que nace del amor y que cree en el misterio de Cristo escondido bajo signos pobres. Es la actitud contemplativa que supone el ir y que exige el permanecer. |
Permanecer es relacionarse vivencialmente, a modo de desposorio y de amistad para siempre. La vida queda orientada hacia Cristo, que es luz, verdad y amor, por ser la Palabra del Padre. La vida se hace respuesta a su invitación permanente, para encontrarse con él en cada acontecimiento. Desde este momento en que nos hemos decidido a permanecer en él, ya no vivimos nunca solos. |
3. Sígueme |
Andrés... dijo a Simón: Hemos encontrado al Mesías, qtte quiere decir el Cristo... Le condujo a Jesús, que fijando en ella vista dijo: Tú eres Simón..., te llamaras Pedro. Al otro día... encontró Jesús a Felipe y le dijo: Sígueme... |
(Jn 1,41-43) |
La llamada de Jesús es mirada hasta el fondo del corazón, como llamándonos por el nombre, que solo Dios ha podido grabar en la profundidad de nuestro ser Un 1,42). Es declaración de amor para invitar ,a un seguimiento que se hace misión y servicio. Solo se comprende a Jesús de Nazaret a la luz de la fe y de la alegría del encuentro. |
Las exigencias evangélicas de la fe solo se comprenden a partir del enamoramiento. Los baremos y cálculos humanos cuentan poco. La experiencia |
cristiana de Dios es siempre a partir de la realidad, en la que Cristo se nos ha hecho encontradizo. |
La identidad de esta experiencia no se comercializa con argumentos y explicaciones petulantes. La experiencia contemplativa es siempre camino de pobreza y misericordia. Nos basta con haber recibido el perdón de Cristo y el encargo de amarle en los hermanos sin excepción y de hacerle amar sin fronteras. De esta experiencia nos queda la decisión permanente de compartir la vida con él. |
4. Tít. eres el Hijo de Dios |
Felipe encontr6 a Nataniel y le dijo: Hemos hallado a aquel de quien escribi6 Moisés en la Ley y los Profetas, a Jesús, hijo de. José, de Nazaret... Ven y veras. Vio Jesús a Natanael, que venía hacia él, y dijo: ... Antes que Felipe te llamara..., te vi. Natanael le contest6: Tu eres el Hijo de Dios... Jesús le dijo: Has de ver cosas mayores. |
(Jn 1,45-49) |
Jesús no oculto nunca su identidad de Hijo de Dios. Pero no hizo de ella propaganda intempestiva, sino que prefirió que los suyos la descubrieran a la luz de la palabra de Dios y de los deseos de salvación que Dios ha sembrado en nuestro corazón. A Natanael le costó mucho descubrir al Hijo de Dios en los signos pobres de Jesús de Nazaret. Pero dio el paso definitivo tomando una opción fundamental por Cristo. A partir de esta opción, la vida recobra su verdadero sentido. |
Jesús se manifiesta a los que aman Un 14,21). En todo corazón humano late un deseo de infinito, que solo comienza a hacerse realidad en el encuentro con Cristo. Todo encuentro con él es un paso más y una invitación a un encuentro, que será definitivo en el mas alía. |
En esta vida los amigos de Cristo caminan de sor· presa en sorpresa. Lo que parece paso fugaz y ausencia, se va haciendo posesión y encuentro definitivo. A la luz de. esta trascendencia, la vida "pasajera" aparece como un don de Dios, que es solo anticipo de una donación total. Las palabras y los gestos de la vida de Cristo son siempre nuevos y actuales, como torrentes de luz y de vida que iluminan y dan sentido a todo acontecimiento personal y colectivo. La palabra de Jesús sólo se deja poseer de los que no quieren otra riqueza que el mismo Jesús. |
2. El primer signa (Jn 2,1·12) |
1. No tienen vino |
A I tercer día, se celebraba una boda en Cand de Galilea, y estaba allí la madre de Jesús. Fue invitado a la boda también Jesús con sus disépalos. Y como faltara el vino, le dijo a Jesús su madre: No tienen vino. |
(Jn 2,1-3) |
La vida merece vivirse cuando se afronta con realismo. Cada circunstancia se hace mensaje de un Dios que vive con nosotros. Las cosas más sencillas se hacen nueva creación y pascua renovada. Desde la encarnación, Jesús, el Emmanuel (Dios con. nos· otros), hace de nuestras vidas su propia biografía. |
María vivía la vida con esta sencillez de gozo, con· vivencia y apertura a los demás. Si falta e1 vino 0 el pan, la casa 0 el amor, a Jesús le interesa más que a nosotros. Pero quiso oír de María, y ahora quiere oír de nuestros labios, que ya no podemos prescindir |
de él. Entonces acepta y afianza nuestra identidad, iniciativa y responsabilidad, para hacernos partícipes de sus signos salvíficos. |
Cuando la oración parte de 1loinmediato, reflexionado bajo la mirada de Dios amor, las cosas y circunstancias más pequeñas se van haciendo vida eterna. En todas las cosas se encuentra una nueva ocasión para colaborar en los planes salvíficos de Dios. Jesús ha venido para llevar a plenitud nuestra vida. cotidiana; el trae el vino mesiánico de las pro· mesas. |
El "tercer día" de Cana es una invitación a recordar que todo se hace "pascua" 0 paso de la muerte a la vida, de la contingencia a la trascendencia. Jesús nos pide s6lo que obremos con e1 corazón abierto a las necesidades de los hermanos, donde se esconde el. Si se le encuentra en ese "Cana" de la convivencia humana comprometida, se le encuentra también en su palabra y en su eucaristía. |
2. La mujer fiel |
Díjole Jesús:. Mujer, ¿qué nos va a mí y a ti? Aun no ha llegado mi hora. Dijo la madre a los servidores: Haced loque él os diga. |
(Jn 2,4-5) |
La vida se hace sorpresa de Dios. Nosotros hacemos planes para realizarnos y para servir a los hermanos. Pero Dios nos ama mas allá de nuestros planes. Nuestra vida la asocia a sus planes salvíficos en bien de todos los hombres. María es la {mica madre que ha quedado asociada esponsalmente y para siempre al ser y a la misión de su hijo. Es "la mujer" madre del Mesías (Gen 3,15), asociada a su obra redentora. Jesús quiere dar el "vino nuevo" de la |
vida nueva, haciendo suya nuestra suplica y poniendo sus· manos en las nuestras. |
EI evangelio de Juan habla veintiséis veces de "la hora" de Jesús. Es el momento culminante de su misterio pascual de muerte y resurrecci6n. María, como figura de la Iglesia, forma parte de esta hora (In 19,25-27). Jesús pide un "si" de asociación plena. |
La virginidad de María, como fidelidad esponsal, se hace capacidad de maternidad universal. La máxima Virgen se hace la máxima Madre. Todo depende de un "si" a oscuras y en las circunstancias cotidianas. Es el "si" de toda la comunidad eclesial a la nueva alianza de Dios con su pueblo: "Haremos lo que él nos diga" (Ex 24,7). Es nuestro "si" de Iglesia esposa de Cristo y peregrina hacia la pascua, que ahora alcanza orando el vino nuevo de la gracia para todos los hombres. |
3. Creyeron en él y le siguieron |
Este fue el primer milo.gro que hizo Jesús, en Cand de Galilea., y manifestó su gloria y sus discípulos creyeron en él. Después baj6 0. Cafarnaúm con su madre y los hermanos... |
(Jn 2.11-12) |
Creer en Cristo trae consigo compartir la vida con él. Jesús se ha manifestado, a través de su carne débil, como Hijo de Dios amor. El salta a la fe hipoteca toda la existencia, convirtiéndola en asociación, como en María "la mujer" creyente, madre de Jesús y modelo de la comunidad de los seguidores de Jesús. Esta fe ira madurando al contacto con cada signo, gesto y palabra de la vida de Cristo. Es fe que se traducirá en confianza, cercanía, encuentro, dialogo, re1acioQ" entrega, amor. A veces será Tabor y ave |
ces Getsemaní; pero siempre será una vida compartida esponsalmente con Cristo. |
A Jesús se le descubre en la medida en que se comparte la vida con él. El amor es así. La persona se da en un clima de reconocimiento y entrega mutuos. La debilidad no es un estorbo. Jesús educa a los suyos para transformar la propia debilidad en donación, servicio y sintonía con los que sufren. |
En la debilidad de la carne de Cristo se descubre su filiación divina. Nuestra debilidad de pecado y desorden queda asumida esponsalmente por el amor de un Dios todopoderoso que se ha hecho nuestro hermano. Ya podemos hacer de la vida un reflejo de Dios amor; basta con seguir a Cristo para vivir día a día de su presencia y de su palabra. La vida de Jesús, Verbo encarnado, se refleja y prolonga en nosotros cuando imitamos su cercanía a los pobres, a los que sufren y a los débiles. Entonces somos el reflejo de la gloria del mismo Hijo de Dios (Ef 1,6). |
3. Una nueva presencia de Dios (In 2,13-15) |
1. La casa de mi Padre |
Estaba. próxima. la pascua de los judíos y subi6 Jesús 0. Jeruso.len. Encontró en el templo 0. los vendedores de bueyes, de ovejas y de. palomas...,' les dijo: Quitad de o.qui todo eso y no hagáis de la casa de mi Padre co.sa de mercado. |
(Jn 2.13-16) |
La casa solariega de Jesús es la creación entera, que ha sido creada y renovada en él y por él (Jn 1,3). La encarnación es la venida del Verbo a "su casa" |
. Cada coraz6n humano y la humanidad entera es el lugar del encuentro de la humanidad con Dios por medio de Jesucristo. La historia humana se hace templo del Emmanuel 0 Dios con nosotros. Los acontecimientos y las situaciones no son más que la vida del hombre en el tiempo y en el espacio, como lugar del encuentro con Cristo. |
Los templos y altares materiales no son más que signos y expresiones del gran templo del Espíritu Santo, que es la Iglesia convertida en cuerpo místico y esposa de Cristo. Jesús en medio de los suyos es el nuevo templo de Dios. Los templos pasajeros van dejando paso al verdadero templo, que es Jesús inmolado por nosotros en el fuego 0 amor del Espíritu (Mt 27,51; Heb 9,14). Jesús purifica nuestros templos cuando estos no manifiestan el universalismo del sacrificio de la cruz y de la evangelización de los pobres. |
Jesús invita a hacer de todas las cosas y de todos los momentos una "pascua" 0 paso hacia el Padre (Lc 2,19). El seno de María y Nazaret eran ya la casa del Padre. El mismo templo de Jerusalén era el lugar en que se inmolaba el cordero de la pascua, que simbolizaba al mismo Jesús, cordero de Dios, que quita el pecado del mundo. Pero todos los templos de este mundo son contingentes y pasajeros, como hitos de un caminar y de una transformaci6n en el único templo de Dios, que es el mismo Jesús resucitado y toda la humanidad y toda la creaci6n restaurada en el (Ap 21,22). |
2. Destruid este templo |
Los judíos entonces le replicaron diciendo: ¿Qué señaldas para obrar así'? Respondi6 Jesús: Destruid este templo y en tres días lo levantare. |
(Jn 2,18·19) |
Nuestras vidas se van haciendo lugar del encuentro definitivo con Dios si adoptamos, ya desde ahora, la actitud relacional de oración 0 dialogo con él (Lc 19,45). Dios habita en nosotros según la medida de nuestro amor (In 14,23). Lo que no suena a dialogo amoroso 0 contemplativo con Dios y con los hermanos está condenado a la ruina. |
La presencia del Espíritu en la persona y en la vida de Jesús nos lo manifiesta como único templo de Dios, el Emmanuel 0 Dios con nosotros. Los hombres construimos "templos" y seguridades humanas que son, a veces, como torre de Babel, a modo de proyección de nuestro interior dividido por ambiciones y ansias de poder. Los templos solo valen en la medida en que expresen 0 construyan la unidad del corazón y de la comunidad humana. La donación de Cristo en la cruz, hecha presente en la eucaristía y prolongada en el mandamiento del amor, es la única razón de ser de los templos materiales. La construcción de un templo material ha de ir a la par con la edificación de la comunidad eclesial, que es familia de hermanos y "piedras vivas" en el Espíritu (1 Pe 2,5). |
A veces nos empeñamos en construir, con grande dispendio, lo que no tiene valor, mientras olvidamos 0 destruimos lo único que vale ante Dios: hacer de la vida una donaci6n. A Cristo le crucificaron los poderes de este mundo, enraizados en corazónes convencidos que obraban según la ley, según la religi6n y según la cultura. Los falsos mesianismos siguen crucificando a Jesús; así sucede cuando buscamos nuestro interés personalista en la oraci6n, en la convivencia humana y en la acci6n apostólica. Pero Jesús resucita convirtiendo en cenizas nuestros castillos fantásticos y títulos de adorno. Es doloroso compartir con él esta pascua 0 paso por la cruz a la resurrecci6n. Pero el nos ama así, por ser epifanía personal de Dios amor. Dios nos quita nuestras co |
para dársenos él mismo. Hay que ir aprendiendo este camino contemplativo que pasa de la "ausencia" a la presencia más profunda. Entonces nos damos cuenta que su amor es mayor que nuestro corazón y que nuestros planes (I In 3,20). Jesús, viviente en cada hombre que sufre, es más importante que todos nuestros templos humanos (Mt 12,6). |
3. Creer en su nombre |
Mientras estuvo en Jerusalén por la fiesta de la pascua. muchos creyeron m su nombre viendo los milagros que hada; pero Jesús no se confiaba a ellos porque los cómoda a todos... El conocía loque hay en el hombre. |
(Jn 2.23-25) |
Creer equivale a dejarse mirar par la mirada de Cristo, que llega hasta lomás hondo de nuestro corazón. Es mirada de quien nos conoce amándonos. Su mirada suscita nuestra respuesta de escucha y de aceptación amorosa de su persona y de su mensaje. Entonces la mirada y el conocimiento de amor es mutuo, como de quienes comparten la propia existencia para afrontar esponsalmente el camino de la vida. Creer "en su nombre" es entregarse a su persona y a su obra evangelizadora. |
Creer en Cristo significa recibirle a él como palabra de Dios pronunciada en nuestras circunstancias. Al escuchar a Cristo con el coraz6n abierto, prolongamos, en cierto modo, la encarnaci6n, puesto que nos hace su "complemento" y su "cuerpo" místico (Ef 1,22-23). |
Nuestra vida se hace nueva creaci6n gracias a la palabra de Dios, que es e1 mismo Jesús, y que nos invita a celebrar con el este misterio de pascua en la eucaristía. El asume nuestras vidas y las hace su propia biografía en este paso hacia la cruz y la resurrección |
. Jesús es "palabra de vida" (l In 1,1) y "pan de vida" (In 6,48). La fe hace posible que nuestra vida se convierta en humanidad de Cristo prolongada en el tiempo. |
4. Un nuevo nacimiento (In 3,1-21) |
1. Renacer por el agua y el Espíritu |
En verdad, en verdad te digo que quien no naciere del agua y del Espíritu no puede entrar en el reino de los delos... El viento sopla donde quiere y oyes su voz, pero no sabes de d6nde viene ni ad6nde va; as{ es todo el que nace del Espíritu. |
(Jn 2.5.8) |
Por' e1 Espíritu· Santo, que Cristo nos envía, somos engendrados a una vida nueva, que es la misma vida del Hijo de Dios. Somos nacidos de Dios (I In 5,1-4), engendrados por la semilla de su palabra (1 Pe 1,22). Estos planes salvíficos de Dios amor desmontan nuestras previsiones. La vida divina que Dios nos comunica nos purifica de otros modos de pensar, sentir' y obrar. |
EI que nace del Espíritu entra en otra 16gica y en otra escala de valores, donde todo se mueve a la luz del amor. En cualquier circunstancia, es siempre posible amar y transformarse en hijo de Dios. Es un proceso hacia el infinito, en el que se avanza por' un encuentro amistoso y cotidiano con Cristo. |
El hombre busca siempre luz, vida, pan, verdad..., aunque sea a tientas y de noche. Jesús ofrece un nuevo nacimiento, como inicio de una vida nueva que se hace proceso indefinido. Para "ver''' y encontrar |
a Cristo en nuestra vida cotidiana hay que decidirse a renacer continuamente sintonizando con sus criterios, valores y quereres. El agua del bautismo ~hace posible nuestra vida nueva en el Espíritu. Dios infunde en nosotros un "corazón nuevo" que pueda responder a la declaración de amor que es el desposorio 0 nueva alianza sellada en Jesús salvador (Jer 31,33-34; Ez 36,26). Es ya un corazón que vive en sintonía con Cristo resucitado presente. |
2. Testimonio del Hijo |
En verdad. en verdad te digo: nosotros hablamos de Lo que sabemos y damos testimonio de Lo que hemos visto; pero vosotros no recibís nuestro testimonio... Nadie sube al cielo sino el que baj6 del cielo. el Hijo del hombre, que está en el cielo. |
(Jn 3.11-13) |
La experiencia cristiana de Dios no se basa en una conquista psicológica, sino en la vivencia y testimonio del Hijo de Dios. Solo el es la Palabra "vuelta" al Padre (In 1,1), que refleja siempre a Dios amor. Solo él puede dar a conocer al Padre (Mt 11,27). Cristo, como Hijo unigénito de Dios, nos ha contado lo que él ha vivido en el seno del Padre (Jn 1,18). Toda la vida de Jesús consiste en venir del Padre y volver al Padre, guiado por el amor del Espíritu Santo (In 16,28). Pero Jesús ahora vuelve al Padre con nosotros, ya transformados en el. |
La fuerza evangelizadora de Jesús no radica en poderes humanos de sistemas y de ideologías, aunque estas cosas tuvieran U.na fachada religiosa. Su fuerza es la autenticidad de manifestar a Dios amor. Su testimonio es verdadero porque solo busca cumplir los designios salvíficos del Padre que lo ha enviado (Jn 5,30). La identidad de Jesús queda reafirmada por el hecho de transparentar personalmente |
al Padre. Gracias a él y unidos a él, ya podemos comenzar, en cualquier circunstancia, nuestra experiencia. de Dios. Basta con reconocer nuestra pobreza y a Cristo salvador que asume nuestra vida en la suya. |
3. La exaltaci6n del crucificado |
Como Moisés levant6 La serpiente en el desierto, así es preciso que sea levantado d Hijo del hombre, para que todo el que crea en el tenga la vida eterna. |
(Jn 3,14-15) |
La verdadera "conversión" del hombre consiste en un cambio radical de orientación en los criterios, escala de valores y actitudes. Es una reorientación de la vida hacia el amor. Si la cruz es la máxima epifanía del amor, la conversión del hombre consiste en orientar toda la vida hacia Cristo crucificado. Su vivir y su morir amando ha cambiado radicalmente la historia. Cristo crucificado se transparenta encada hermano que sufre; nuestra vida se pone en camino de salvación cuando, después de mirar a Cristo clavado en cruz, le descubrimos también escondido en el hermano. Entonces nuestra existencia se realiza amando. |
Dios ha dejado siempre signos de su presencia y de su palabra en cada cultura, pueblo y religión. En el pueblo de Israel, peregrino por el desierto, dejo unos signos más fuertes que anticipaban la realidad de Cristo como luz, roca, pan de vida, serpiente de bronce (salvador) (Num 21,4-9). La fe cristiana ha sido preparada con todos estos signos de historia de salvación; pero ya ha llegado a la realidad que es Jesús. |
Los signos de la vida de Cristo producen una pd |
impresión de escándalo, porque todavía estamos aferrados a nuestro modo de concebir la salvación. Jesús nos invita a pasar con él 0 a compartir con él su pascua hacia Dios amor por medio de la cruz. EI sufrimiento humano ya ha quedado vencido en su raíz, puesto que ya se puede transformar en una ocasión de compartir la existencia con Cristo, como donación al Padre y a los hermanos. Este "mas alía" de una superficie que espanta solo se descubre en el dialogo y encuentro con Cristo. |
4. Así ama Dios |
De tal manera am6 Dios al mundo que le dio a su Hijo unigénito. para que todo el que crea en el no perezca. sino que tenga la vida eterna... EI juicio consiste en que vino la luz al mundo. y los hombres amaron mas las tinieblas que la luz. porque sus obras eran malas. |
(In 3,16-19) |
EI amor que Dios nos tiene es don e iniciativa suya (I Jn 4,10). Nos ama porque es Dios amor; por esto nos ama tal como somos. La máxima expresión de este amor es el habernos dado a su Hijo como sacrificio por nuestra salvación. EI sacrificio de Abrahán de disponerse a inmolar a su querido hijo unigénito se realiza efectivamente en Jesús, hijo de Dios. Dándonos a su Hijo inmolado, Dios "nos lo ha dado todo con el" (Rom 8,32). Recibiendo a Cristo, nuestra vida pasajera y quebradiza se hace "vida eterna". Nuestro tiempo, convertido en relación personal con Cristo y en amor a los hermanos, pasa a participar de la eternidad de Dios amor. |
La iniciativa del amor de Dios se expresa en habernos enviado a su Hijo para comunicamos la vida nueva en el Espíritu (Jn 7,37-39). Esta es la clave para entender y vivir cada deta11e del evangelio y |
cada detalle de nuestra vida. Toda la misión y razón de ser de Jesús consiste en salvamos de una vida caduca y egoísta, para hacernos pasar a la vida y a la luz perdurables. |
Nos examina el amor. Dios nos pide que pongamos en sus manos nuestro barro, para modelarlo según la fisonomía de su Hijo. Nuestro ser caduco y pasajero se convierte en luz indeficiente cuando dejamos que Dios imprima su mirada amorosa en lo más hondo de nuestro corazón. Jesús mira a cada uno con esta mirada eterna y transformante, que no humi11a, sino que restaura desde las raíces (Jn 1,42). |
5. Testigo del encuentro (Jn 3,22-36; cfr. 1,6-34) |
1. El don de la misión (Jn 3,27-28) |
Juan le respondió diciendo: No debe el hombre tomarse nada si no le fuere dado del cielo. Vosotros mismos sois testigos de que dije: Yo no soy el Mes(as, sino que he sido enviado delante de él. |
(Jn 3.27-28) |
Juan Bautista, el precursor, había señalado a Cristo como el protagonista de nuestro existir, el cordero de Dios, portador de un bautismo de vida nueva en el Espíritu Santo (Jn 1,29-34). Juan era solo la voz y el signo de una presencia de Cristo escondido y desconocido (Jn 1,23-26). La identidad del "apóstol" y precursor se basa solo en esta misión: ser enviado. La 11amada a la misión es don inmerecido, que hay que recibir con gratitud. La mejor expresión de este agradecimiento es el gozo de ser amado y de poder amar y hacer amar a Cristo. |
La identidad no nace construyendo un castillo de naipes sobre arenas movedizas del propio ser. En Cristo se fundamenta la historia y, por tanto, la identidad de cada persona. Preguntarse sobre la identidad sin orientar la propia existencia hacia la relación personal con Cristo es dejarse caer en el abismo sin fondo de la nada. |
La identidad se siente y se vive cuando se orienta la propia vida hacia el amor de Cristo y de los hermanos. Nuestra razón de ser es la misión de dejar en el mundo la huella imborrable de que hemos encontrado a Cristo. La "comunión" entre todos los seguidores de Cristo, por encima del espacio y del tiempo, construimos la humanidad entera en el amor. |
2. El gozo del amigo |
El que tiene la esposa es el esposo; el amigo del esposo, que le acompaña y le oye, se alegra grandemente de oír la voz del esposo. Así mi gozo es cumplido. Es preciso que II crezca y que yo mengüe. |
(Jn 3,29-30) |
Cuando se ha estrenado de verdad la amistad con Cristo, uno ya no se busca a sí mismo, sino los intereses de Cristo amigo. El precursor se califica siempre como el amigo del esposo, es decir, el que hace que la esposa (el pueblo) se encuentre con el esposo (Cristo). Su único gozo es que Cristo sea conocido y amado. Como premio, le basta el mismo Cristo, su presencia, su palabra y su amor. En la oración, en la convivencia y en el apostolado no se busca nada más que lo que agrada al Señor. |
En los momentos iniciales del seguimiento y de la misión, el apóstol se alegra por el cargo, los colaboradores, los disépalos, los hitos, las propias cualidades, etc., para poder servir mejor a Cristo y a la |
extensión de su reino. Luego el gozo se hace más profundo y autentico, aun cuando fallen todas esas casas que también eran dones de Dios. Es el gozo pascual de saber que, en cualquier circunstancia, el triunfo de Cristo resucitado es seguro. Ya solo se goza en orar, servir y amar tal como gusta al Señor, en hitos y fracasos, en soledad y compañía, en plenitud de fuerzas y en suma debilidad... |
Cristo amigo y esposo no abandona. Cuando el amor es más maduro, el apóstol se goza en desaparecer para hacerse solo cristal que transparente la luz de Cristo. |
3. Transparentar al que viene |
El que viene del cielo da testimonio de lo que ha visto y oído, pero su testimonio nadie lo recibe. El que acepta su testimonio certifica que Dios es veraz. Porque aquel a quien Dios ha enviado habla palabras de Dios, pues Dios no Le dio el Espíritu con medida. El Padre ama al Hijo y ha puesto en su mano todas las cosas. El que cree en el Hijo tiene la vida eterna. |
(Jn 3,31-36) |
Cristo es el Hijo amado de Dios, enviado para comunicaros la vida nueva en el Espíritu. El ser, el obrar y la vivencia de Jesús son siempre misi6n para predicar la palabra bajo la fuerza del Espíritu (Jn 3,34). Los mensajeros de Cristo son sus precursores y sus enviados para preparar el camino del encuentro. La fuerza de la evangelización no procede de nuestras ideas geniales y de nuestros planes maravillosos. El Señor quiere que pongamos a su servicio todo lo que tenemos y que él mismo nos ha dado. Pero la verdad, la luz y la vida es solo el. Nos hacemos transparencia suya cuando reconocemos que todo lo bueno que tenemos procede de él. |
Nuestra experiencia de Dios s6lo es autentica cuando participamos de la interioridad de Cristo. S6lo el, como Hijo, ha visto a Dios, y solo el nos lo puede revelar (In 1,18). Solo el tiene el Espíritu Santo en plenitud. Su experiencia se nos comunica en la medida en que nos vaciamos de nuestras seguridades y audacias, para dejar que su Espíritu viva en nosotros y haga de nosotros un "si" a Dios y a los hermanos. |
La garantía de reflejar el rostro de Jesús ante el Padre y ante los hombres consiste en reconocer nuestro propio ser como regalo e imagen de Dios amor. En este nuestro barro Dios ha infundido y estampado e1 beso de su Espíritu, que nos hace transparencia de su Hijo Jesús y, por tanto, transparencia suya y "alabaza de su gloria" (Ef 1,6). |
6. Beber del propio pozo (In 4,1-42) |
1. Dame de beber |
Jesús, fatigado del camino, se sent6 junto al pozo; era como la hora sexta (mediodía). Llega una mujer de Samaria a sacar agua, y Jesús le dice: Dame de beber. |
(Jn 4.5-6) |
El evangelio de Juan narra una serie de encuentros con Cristo, que es luz y vida y que se acerca a cada persona en su propia circunstancia. Las figuras femeninas de los textos evangélicos dejan entrever a la Iglesia redimida por Cristo y asociada a la redención. La samaritana pasa de una vida hecha jirones a participar en la vida nueva de la gracia y a hacerse |
anunciadora de Cristo. El Señor tiene siempre la iniciativa del encuentro. Es él quien nos espera en nuestro viejo pozo de Jacob para ofrecernos una nueva fuente de agua viva: el mismo. Solo nos pide que reconozcamos nuestra sed (Is 55,1; Jn 7,37). Así comienza el camino de fa contemplaci6n. |
La pedagogía de Jesús es desconcertante. Llega hasta nuestro pozo agrietado, donde solemos ir a buscar sucedáneos, y nos pide agua de nuestro mismo pozo. Jesús tiene sed propiamente de nosotros, de nuestra autenticidad, es decir, de que nos demos cuenta que nuestro pozo no nos puede saciar la sed. Jesús tiene sed de nuestra fe, que es experiencia de que solo él puede dar sentido a nuestro existir. |
En su humanidad pobre, que siente el frio, el cansancio, e1 dolor y la humillación más que nosotros, Jesús se manifiesta tal como es: el Hijo de Dios amor. Se presenta pobre y necesitado, para decirnos que el único don que nos ofrece y que puede dar sentido a nuestra existencia es el mismo. ~Para que perder la salud y los nervios buscando sucedáneos? |
2. E1 don de Dios |
Si conocieras el don de Dios y quien es el que te dice dame de beber, tu le pedirías a él y él te daría agua viva. |
(Jn 4,10) |
Jesús es la luz, la verdad, la vida, la Palabra, la· plenitud de la reve1adon. Dios se ha manifestado como amor, dándonos a Jesús, su Hijo (In 3,16; 1 In 4,8). Por medio de Jesús, Dios nos hace participar de su misma vida divina. Así nos comunica el agua viva del Espíritu Santo. Dios es e1 sumo bien que se da a todos. Jesús es el don del Padre a los hombres. El Espíritu Santo, que Dios nos comuni |
, es el don "personal" o nexo de amor entre el Padre y el Hijo. Ya desde nuestro primer encuentro con Cristo, Dios se muestra sorprendente: nos ama tal como somos para hacernos tal como él es. |
Dios tiene la iniciativa en el amarnos y salvarnos, pero respeta nuestra libertad de apertura y donación. Habla y ama lo suficientemente claro para que nos sintamos estimulados por su palabra y amor; pero nos deja toda la iniciativa para buscarle y para abrirle nuestro corazón. Quiere que nos enteremos por propia experiencia de que solo él puede Henar nuestro corazón. |
La oración contemplativa es la actitud de pobreza, de sentir necesidad de Dios que nos ama; pero esta actitud es solo posible cuando nos enteramos de que el nos ama como Padre amoroso. Entonces la oración se hace actitud filial. En este modo de orar descubrimos que la experiencia de Dios es gratuidad, porque "el nos ha amado primero" (1 In 4,10). |
3. Fuente de agua viva |
Quien bebe de esta agua volverá a tener sed; pero el que beba del agua que yo Le daré no tendrá jamás sed, sino que el agua que yo le daré se hará en él una fuente que salte hasta la vida eterna. Díjole la mujer: Señor, dame de esa agua... |
(Jn 4,13-15) |
Jesús ofrece infinitamente más de lo que el hombre esperaba y buscaba. El nuevo pozo de Jacob es el mismo Jesús (Ap 7,17; 22,1), en quien se cumplen las esperanzas mesiánicas. E1 corazón humano pasa a participar de la vida divina, que es fuente de toda vida. El salto es a1 infinito; pero Jesús lo hace posible. Solo nos pide reconocer que el agua de nuestro pozo no puede saciar nuestra sed. Por medio de esta actitud de pobreza bíblica pasamos a descubrir que |
hemos sido amados eternamente por Dios y que participamos de la filiaci6n divina de su Hijo. |
Basta con acercarnos como "sedientos" a la fuente que es Cristopara recibir gratuitamente el agua Viva del Espata (Ap 21,6). Hay que pedir esta agua presentando nuestra "tierra árida, sedienta y sin agua" (Sal 62,2). |
Nuestro encuentro con Dios en Cristo es un proceso de vaciarse de lo que no es autentico en nosotros, para dejarnos Henar de Dios amor. Solo así nuestra vida se hace don para Dios y para los hermanos. El proceso pasa a veces, por la noche que deja sensación de vacilo. Hay que reafirmarse en Cristo, en su presencia y en su amor: "Que bien se yo la fonte que mana y corre, aunque es de noche" (san Juan de la Cruz). |
4. En Espíritu y en verdad |
Ya llega la hora, y es esta, en que los verdaderos adoradores adorarán al Padre en espíritu y en verdad, pues tales son los adoradores que el Padre desea. Dios es Espíritu, y los que le adoran han de adorarle en .espíritu y verdad. |
(Jn 4,23-24) |
En Jesús, la creación, el hombre y la historia llegan a la plenitud. Las religiones con sus ritos y sus templos dejan paso a la gran realidad, que es Jesús como Emmanuel (Dios con nosotros) y Verbo 0 Palabra de Dios. El templo de Jerusalén fue una preparación más inmediata, que venía a resumir el Antiguo :testamento: signo especial de la cercanía y epifanía de Dios. El templo samaritano del monte Garizim sirvi6 también de cauce religioso a un pueblo. Ahora ya solo cuenta la actitud de dejar que Dios habite y hable en nuestros corazónes por medio de Jesús. Los templos y los ritos son signos pasajeros- |
Dios quiere habitar en corazónes que se abran a él con autenticidad para recibir su Espíritu (Rom 5,5). |
Jesús se hace encontradizo con cada persona para imprimir en ella su propia fisónoma de Hijo de Dios. No estorba el pecado y la debilidad cuando se reconocen y se quieren superar. Con la autenticidad de presentarse ante Dios tal como uno es y con el corazón sediento de amor basta. Entonces la oración se hace actitud filial participada del mismo Jesús. Sentimos la necesidad de Dios, como tierra reseca y sedienta que somos, y nos abrimos a sus planes de amor sobre nosotros. A él le dejamos la iniciativa de darnos lo que quiera, porque, en el fondo, lo que buscamos es a él: "denos el lo que quisiere, siquiera haya agua, siquiera sequedad', (santa Teresa de Ávila). |
5. Soy yo |
Díjole la mujer: Yo se que el Mesías, el llamado Cristo. Está para venir... Dijole Jesús: Soy yo, el que contigo habla. |
(Jn 4.25-26) |
La historia de salvación discurre siempre en torno a la presencia y palabra de Dios. Esta cercanía y epifanía divina tiene una afirmación clave desde el Sinaí: "Yo soy" (Ex 3,14). En el evangelio de Juan, Jesús se apropia continuamente esta afirmación divina. En él está la plenitud de la revelaci6n y el cumplimiento de las promesas mesiánicas. Jesús es el Señor, "el que habla" (Is 52,6). Su misterio se manifestara plenamente cuando sea exaltado en la cruz (In 8,28). Ahora Jesús resucitado sostiene el caminar eclesial de cada creyente y de toda la comunidad eclesial (Lc 24,36). Una sola palabra suya en el fon |
do de nuestro corazón basta para disipar las dudas, las tinieblas y las tempestades (Jn 6,20). |
Del encuentro con Cristo se pasa siempre a la misión, es decir, a comunicar a otros la experiencia de este encuentro de gracia. La samaritana y la Magdalena son figuras de una Iglesia creyente, que se hace misionera precisamente por ser contemplativa (Jn 4,29; 20,17). Morfa, "la mujer" siempre fiel y creyente, es tipo de esta Iglesia evangelizada y evangelizadora, redimida y asociada a la redención (Jn 2,4-5; 19,25-27). En nuestras cenizas y en nuestro barro ha resonado de nuevo la palabra de Dios, que nos hace su imagen y nos encarga ser testigos de la nueva creaci6n. |
6. Mi comida |
Mi alimento es hacer la voluntad del que. me envía a terminar su obra... Uno es el que siembra y otro el que siega. Yo os envío a segar lo que no trabajasteis... |
(Jn 4.34.37-38) |
La realidad humana de Jesús se expresa tal como es; pero en la debilidad de su carne aparece la gloria del Hijo de Dios. Los signos pobres de su humanidad se convierten en signos de gracia. Su cansancio se hace búsqueda (In 4,6). Su mirada es declaración de amor (In 1,42). Su hambre y su sed (In 19,28) son sus amores y su sintonía con los intereses salvíficos del Padre respecto a todos los hombres. La vivencia más honda de Jesús es la fidelidad generosa a la voluntad del Padre (In 5,30), que le lleva a "la hora" en que dar la vida por nuestra salvación. Nuestra amistad e intimidad con el comparten la sintonía con sus amores. |
Jesús alecciona a "los suyos" porque son ellos los |
que continuaran la misión recibida del Padre. Participar en la misión supone compartir el estilo de vida de Jesús enviado por el Padre, que busca siempre su gloria. La gloria del Padre consiste en glorificar a su Hijo y a todos los que creen en él (Jn 17,10). |
Estos ideales y vivencias de Jesús desmoronan todos nuestros andamios artificiales de medrar y de conseguir una eficacia inmediata. Es Jesús quien se prolonga en nosotros, aunque dejando que cada uno aporte todo lo que es y tiene. Así nos convierte en instrumento de comunión fraterna y de salvación universal. Entonces ya da lo mismo que seamos nosotros 0 sean otros los que recojan el fruto de las semillas sembradas por la caridad del buen pastor. |
7. Salvador del mundo |
Decían (los samaritanos) a la mujer: Ya no creemos por tus palabras, pues nosotros mismos hemos oído y conocido que este es verdaderamente el Salvador del mundo. |
(Jn 4,42) |
La primera semilla evangélica en Samaria la sembró esa pobre mujer que se ha quedado con el nombre de "la samaritana". Gracias a ella sus connacionales comenzaron a creer en Jesús "salvador del mundo". La verdadera experiencia de encuentro con Cristo y de contemplación se demuestra en el compromiso misionero: "amar y hacer amar al Amor" (santa Teresa de Lisieux). |
Juan evangelista, precisamente por su experiencia de encuentro con Cristo, dejan constancia del mismo testimonio: .el "salvador del mundo" es Jesús, el Hijo de Dios enviado para redimirnos (1 In 4,14). No hay oración contemplativa sin ansias misioneras, ni existe verdadera misión que no conlleve el deseo eficaz de contemplación y de encuentro. |
Dios ha sembrado en todos los pueblos, en todas las culturas y en todos los corazones alguna semilla de evangelio. Casi siempre se manifiesta por el deseo de salvación integral del hombre, que nunca pierde totalmente el sentido de la trascendencia. El Señor quiere hacer fructificar esta semilla a través de quienes ya le han encontrado. Pero se necesita transparencia, coherencia, testimonio e incluso audacia, por encima de las modas y de los falsos mesianismos. La experiencia de encuentro con Cristo no la regala el apóstol, sino que es un don de Dios que exige apertura del corazón. A todo anuncio del evangelio ha de seguir nuevamente la contemplación del apóstol para regar loque se sembró, para preparar lo que otros segaran y para continuar abriendo nuevas puertas al evangelio. |
7. Aquí y ahora Un 4,43-54) |
1. EI galileo de Nazaret |
El mismo Jesús declar6 que ningún profeta es honrado en su propia patria. Cuando lleg6 a Calilea, los galileos le hicieron un buen recibimiento, pues habian visto todo loque habia hecho en Jerusalén durante la fiesta. |
(Jn 4,44-45) |
Jesús no rechazo nunca si se escandalizo de las circunstancias humanas de geografía e historia. Es el Verbo que asume nuestra existencia tal como es. No se desdeño de ser galileo de Nazaret. Se lo echaron en cara como desprecio Un 1,56; 6,42). Para sus discípulos, no obstante, sería un titulo de gloria (Jn 1,45). En la cruz, el titulo de "Nazareno" quedaría |
para siempre unido al título de rey (Jn 19,19). Nuestras circunstancias humanas concretas ya pueden hacerse lugar de encuentro con Dios, sin necesidad de huidas y añoranzas. |
La visita de Jesús a Nazaret, "donde se había criado" (Lc 4,16), sería un escándalo para los que esperaban un Mesías a su gusto. Es el mismo escándalo de las bienaventuranzas, de la eucaristía y de la cruz. A través de la historia se va repitiendo el mismo hecho desconcertante: "Vino a los suyos, pero los suyos no le recibieron" (Jn 1,11). Jesús no viene para ser un adorno 0 una cosa útil. Viene pobre a compartir nuestra pobreza; para indicarnos que se da a S1 mismo en persona con todo lo que es. Dios amor ama aS1, con este modo de amar sin modo y sin medida. |
2. Milagros para creer? |
Jesús le dijo: Si no viereis señales y prodigios, no creéis. Dijole el funcionario real: Señor, baja antes de que mi hijo muera. Jesús le dijo: Vete, tu hijo vive. Crey6 el hombre en la palabra que le dijo Jesús... |
(Jn 4,48-50) |
Jesús, el Verbo encarnado, vive en sintonía con todos nuestros problemas. El deja entrever siempre su presencia, que nos ayuda a pasar a una nueva creación donde reina solo el amor. EI paso es siempre "pascua", es decir, misterio de cruz y de resurrección. Todos los gestos y palabras de Jesús son signos que dejan entrever su realidad de Hijo de Dios hecho nuestro hermano. |
Jesús hizo milagros para fortalecer nuestra fe débil; pero nos ayuda a purificar nuestra actitud de fe, que no debería necesitar más signos que los de su presencia y su palabra. Jesús trata con ternura tanto |
a las personas favorecidas por un milagro como a los demás que aparentemente no reciben ninguna gracia extraordinaria. |
EI funcionario de Cafarnaúm experimento el amor tierno de Jesús en la curación de su hijo; creyó, contagiando de esta fe a toda su familia. Lo importante es siempre descubrir la realidad y el amor de Jesús en los signos de nuestro caminar humano. Ningún ser humano queda abandonado a su realidad. Pero a sus amigos Jesús les educa para que le descubran a él en el silencio y en la ausencia, donde el siempre deja entrever un signa 0 una huella de su presencia y de su palabra. Los amigos de Jesús necesitan esta mirada de fe contemplativa que nace del amor. |
8. Sufrir sin un porqué? (Jn 5,1-47) |
I. . ¿Quieres curar? |
Jesús, viendo al enfermo tendido y conociendo que llevaba ya mucho tiempo, le dijo: ¿Quieres curar? Respondi6 el enfermo; Señor, no tengo a nadie que me meta en la piscina cuando se agita el agua... Dijole Jesús: Levántate, toma tu camilla y anda. A1 instante qued6 sano. |
(Jn 5,6-9) |
Sera difícil adivinar las circunstancias históricas de esa piscina llamada "Probática", que tenía cinco pórticos. Aquellas aguas medicinales atraían multitud de enfermos. Podría ser incluso un lugar de culto pagano. La realidad es que Jesús no tiene complejos cuando se trata de acercarse a un hombre que sufre, sobre todo por' su soledad. Para curar e infundir la paz, Jesús escucha sin prisas, como deseando |
oír de nuestros labios o de nuestro corazón lo que él ya conoce y vive más que nosotros mismos. La verdadera curación comienza cuando uno descubre que Jesús es el único que no abandona y que solo el da sentido a nuestra vida. Una sola palabra suya basta para encontrar luz y vida: "Levántate". |
Cuesta mucho reconocer la propia pobreza y, al mismo tiempo, creer confiadamente en la mirada amorosa de Jesús, que penetra hasta lo más hondo de nuestro ser. Las maravillas de la gracia y del apostolado comienzan a realizarse cuando vamos aprendiendo a vivir, como única riqueza, de la palabra y de la presencia de Cristo. Pero esto supone echar por la borda todas nuestras seguridades, que nos roban el tiempo y que todavía nos parecen imprescindibles. Solo cuando nos arriesgamos a perderlo todo en aras del amor salimos ganadores de lo único que cuenta en nuestras vidas: el amor y la cercanía de Cristo. |
2. Transparentar al Padre |
Mi Padre sigue obrando todavía, y por eso obro yo también... El Padre ama al Hijo yle muestra todo loque él hace, también el Hijo, a los que quiere les da la vida . El que escucha mi palabra y |
cree en el que me envió tiene la vida eterna... Llega la hora en que cuantos están en los sepulcros oirán mi voz... Mi juicio es justo, porque no buco mi voluntad, sino la voluntad del que me ha envido. |
. |
(Jn 5,17-30) |
Desde nuestras circunstancias históricas, asumidas con protagonismo de hermano y esposo, Jesús si.gue siendo la Palabra "vuelta" al Padre (Jn 1,1): Viene de Dios y vuelve a Dios, con nosotros y con toda la creación. Toda la vivencia de Jesús consiste en hacer de nosotros, por obra del Espíritu de amor, su prolongación, |
como transparencia y esplendor del Padre. Jesús es transparencia de Dios amor precisamente por su cercanía a los pobres. Para él son pobres Nicodemo, la samaritana, el hijo enfermo, el paralitico, el ciego, la pecadora... A todos les hace capaces de recuperar, con creces, el rostro primitivo del hombre como imagen e hijo de Dios. |
A Jesús se le descubre como Hijo de Dios, escondido y amándonos en nuestras mismas circunstancias de pobreza. Su palabra amorosa nos hace pasar de nuestra contingencia y limitación al horizonte infinito de una vida eterna. |
Jesús transparenta los designios salvíficos de Dios. La sintonía con la voluntad del Padre es garantía de su misión; No existe misión sin comunión. En sus gestos y en sus palabras podemos experimentar los latidos. del corazón de Dios. Para transparentar ese amor no necesita aparatos y fachadas; le basta con hacerse encontradizo, como quien comparte todo nuestro existir cotidiano para hacerlo pasar a una existencia definitiva de plenitud. |
3. La Palabra del Padre |
Las obras que yo hago dan testimonio en favor mío de que el Padre me ha enviado..., este da testimonio de mi. Vosotros no habéis oído jamás su voz, .ni habéis visto nunca su rostro, ni tenéis su Palabra en vosotros, porque no habéis erado en aquel que él ha enviado... Investigad las Escrituras, ya que en ellas eréis tener la vida eterna; ellas son las que dan testimonio de mi. |
(Jn 5.36-39) |
Todas las obras de Jesús manifiestan su "gloria" |
o su realidad de Hijo de Dios. El evangelio sigue siendo palabra viva y actual de Cristo. La creación, la historia, las culturas y, de modo peculiar, la Es- |
critura santa hablan a gritos de Jesús salvador. El deseo 'de salvación y de trascendencia que anida en todos los corazones y en todos los. pueblos solo encuentra solución en Cristo. Basta abrir el evangelio y dejar entrar en nuestro interior sus palabras todavía recientes. |
Toda nuestra vida está jalonada de signos de la presencia de Cristo. Cuando leemos la palabra evangélica, estos signos se hacen transparentes. Jesús continua mirando, hablando, actuando, amando. Todo es don de Dios. Todo es signo de su cercanía y de su palabra. Pero esos dones se hacen opacos cuando los manipulamos para nuestros intereses bastardos. |
A la luz de la palabra de Jesús, todas las cosas y todos los acontecimientos se hacen mensaje de Dios amor. Esos signos pobres de nuestro caminar son capullos, que solo se abren si nos dejamos mirar por Cristo. Contemplar a Dios en Cristo equivale a mirarle y dejarse mirar por el |
4. Encontrar a Cristo |
No queréis venir a mí para tener la vida. Yo no recibo gloria de los hombres. pero os conozco y sé que no tenéis en vosotros el amor de Dios. Yo he venido en nombre de mi Padre... ,Cómo vais a creer vosotros, que recibíis la gloria unos de otros y no buscáis la gloria que procede sólo de Dios?... Moisés escribi6 de mí. |
(Jn 5,40-47) |
El encuentro con Cristo, por una fe que compromete toda la existencia, es posible para todos. Jesús es quien toma la iniciativa y es el primer interesado en concedernos este don de la fe y de la contemplación. Su mirada amorosa penetra hasta lo hondo del corazón. Precisamente por esto no admite otros |
amores egoístas. Su mirada es un examen de amor Los interlocutores de, Cristo, si buscan principalmente el propio interés, aunque sea con la pantalla de oración y apostolado, no encontrarán más que al pobre artesano de Nazaret, hijo de José y María (Jn 6,42). Solo la autenticidad y el deseo de amar encuentran al Hijo de Dios hecho nuestro hermano en las circunstancias de Nazaret y de todos los días. |
A Jesús se le encuentra cuando se sabe leer en |
cada cosa, en cada acontecimiento y en cada persona |
el "mas allá" de un amor eterno. Desde el momento |
en que uno quiera apropiarse egoístamente 0 utilizar |
mal un don de Dios, se queda con las cenizas en |
las manos. La misma palabra de Dios, contenida en |
la revelación, solo se deja captar de quien lee y escucha |
con corazón de pobre. Entonces cualquier don |
de Dios nos abre al horizonte infinito de la gratitud |
y del amor. |
9. Pan de vida en el desierto Un 6,1-71) |
1. Éxodo de Jesús |
Parti6 Jesús al otro lado del mar de Galilea de Tiberiades, y le seguía una gran muchedumbre, porque velan los milagros que hacía con los enfermos. Subi6 Jesús a un monte y se sent6 con sus disépalos. Estaba cerca la Pascua... Contemplando la granmuchedumbre que venía a él, dijo a Felipe: ¿Dónde compraremos pan para dar de comer a estos?.. Jesús, conociendo que intentaban forzarle para hacerle rey, se retir6 otra vez al monte él solo (Jn 6,1-15) |
La vida de Jesús es un camino de pascua (Jn 6,4). Su cammar es el de la humanidad entera, en su |
"exodo" por el desierto hacia la tierra prometida. La liberaei6n cristiana es un proceso de nueva creadon. Jesús se hace mana, "pan de vida" para todos, sin excepción. Pasa llamando a las muchedumbres y a cada uno en particular para compartir la vida con el. Toda su vida, gestos y palabras son un signa de un amor trascendente y eterno. Pero quiere tambien ser signo de Dios amor poniendo sus manos en las nuestras; sólo nos pide nuestro pequeño todo, que quedará convertido para siempre en su complemento y transparencia. |
A sus discípulos y apóstoles Jesús les pide que sintonicen con su compasión y su preferencia por los pobres y por los que sufren (Mt 15,32). Nuestro pequeño todo se hace instrumento del "pan de vida" solo cuando es sintonía con el amor de Cristo, que hace de su propia vida un desposorio. |
Jesús, como signa de Dios amor, se esfuma y desaparece cuando queremos utilizarlo a la medida de nuestro egoísmo. No admite ser utilizado por exclusivismos de grupos, ideologías y sistemas, y ni aun por técnicas de "contemplación". Necesitamos los desiertos de la "ausencia" y del "silencio" de Dios para curarnos de muchas tonterías. La caridad con los más pobres y con los que conviven con nosotros es el único termómetro de la oración. La montana de la oración lleva el título de "bienaventuranzas" y "mandamiento del amor". Entonces la Iglesia esposa se decide a subir al monte con Cristo para descubrir la contemplaci6n como oración y el camino de los pobres. |
2. Presencia en la tempestad |
Ya había oscurecido y no había vuelto a ellos Jesús, y el mar se había alborotado por el viento fuerte que soplaba... Vieron a Jesús que caminaba sobre el mar y se acercaba ya a la barca, y temieron. Pero él les dijo: Soy yo, no temáis (Jn 6,16-20) |
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Unas pinceladas de colores fuertes caracterizan la superficie del navegar humano: atardecer, oscuridad, aparente ausencia de Jesús, huracán, tempestad... Lo que creíamos ser verdad y belleza parece desatarse y convertirse en un pozo de dudas y en puñado de hojas secas. Y, no obstante, Dios esta más cerca que nunca, convertido en consorte y caminante. |
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La vida es hermosa porque Dios es bueno. Si pasan |
las. cosas, que son dones de Dios, ¿no será por |
que Dios se nos quiere dar a sí mismo? |
Si Jesús se nos muestra con todo su poder, nos parece un sueño. Por esto es mejor dejar entrar su palabra en nuestro corazón, sin pedir ni exigir privilegios. El salto de confianza en su amor y en su presencia aleja todo miedo a los fantasmas. A través de la eucaristía, de su palabra revelada, de sus sacramentos, de la comunidad eclesial, de cada persona y de cada acontecimiento, Jesús nos dice: "Yo soy". Es él que sostiene nuestra existencia porque nos ama. Los temores desaparecen cuando nos decidimos a no desear nada más que a él, dándole la bienvenida en cada uno de los signos pobres de su presencia. |
3. Creer en el enviado |
. Vosotros me buscáis no porque cabéis visto los signos ,sino porque habéis comido· de los panes y os habéis saciado. Procuraos no el alimento perecedero, sino el que permanece hasta la vida eterna, el que el Hijo del hombre os da, porque Dios Padre le hasellado con su sello... La obra de Dios es que creáis en aquel que él ha enviado. |
(Jn 6,26-29) |
Nos empeñamos en apreciar y valorar lo inmediato y lo eficaz, muchas veces al margen de Jesús: nuestras lucubraciones (como Nicodemo), el agua de nuestro pozo (como la samaritana), nuestras esperanzas tangibles (como el paralitico), el alimento terreno y los bienes superficiales (como la muchedumbre)... Todo eso es bueno si se coloca en la perspectiva de Jesús: para amar al Padre y a los hermanos. |
A Jesús se le encuentra en todas las circunstancias, a condición de buscarle para un encuentro de fe comprometida. Quien le desea y le busca es que ya ha comenzado a encontrarle. Encontramos a Cristo cuando le buscamos en la línea de los signos escogidos por él, que son siempre signos del amor salvífico de Padre. Jesús es el don de Dios al mundo, el cruce de caminos de toda la historia y de toda la revelación. La Escritura (la ley, los profetas, la sabiduría) solo hablan de él y del hombre y del mundo salvado por él. |
La obra más grande que Dios ha hecho es el encuentro vivencial del hombre con Cristo, Hijo de Dios y hermano nuestro. Este es el encuentro de la fe, que nos transforma en él. Jesús es el enviado del Padre, que se hace encontradizo en todos nuestros cruces de camino. ¿Por qué no aprender, por la experiencia de nuestro pasado, que Jesús no nos ha dejado ni a sol ni a sombra? |
4. La fe, don de Dios |
Es mi Padre el que os da el verdadero pan del cielo... Yo soy el pan de vida; el que viene a mí ya no tendra más hambre. y el que cree en mí jamás tendrá sed... Al que viene a mí yo no le echaré fuera, porque he bajado del cielo no para hacer mi voluntad. sino la voluntad del que me ha enviado... Porque esta es la voluntad de mi Padre. que |
todo el que ve al Hijo y cree en el tenga la vida eterna. y yo le resucitare en el ultimo da... Nadie puede venir a mí si el Padre. que me ha enviado, no le atrae... el que ha venido de Dios. ése ha visto al Padre... EI que cree en mí tiene la vida eterna. |
(Jn 6.32·47) |
Jesús se presenta como "pan de vida", el don de Dios al mundo, la palabra personal de Dios, que es luz de verdad y vida. Dios nos da a Jesús, su Hijo, y la posibilidad de creer en él. El pan de nuestro caminar es ahora la persona y el mensaje de Jesús. Creer es abrirse a esta realidad de Dios hecho hombre por amor nuestro. La creación y la historia recobran su sentido con la encarnación del Verbo. |
Encontrar a Cristo y creer en el equivale a encontrar la única agua que puede saciar nuestro corazón sediento. En los éxitos aprendemos a dar gracias a Dios y a compartir con los hermanos caminantes. En las dificultades nos damos cuenta de que la vida se hace donación para construir el camino común que lleva a la salvado de todos y a la "vida eterna". |
La palabra personal de Dios resuena y habita entre nosotros bajo signos pobres. Jesús de Nazaret, el hijo de José y María, es, a la luz de la fe, el Hijo de Dios nacido de la Virgen por obra del Espíritu Santo. Creer es dejarse atraer por esta Palabra del Padre, pronunciada eternamente en el amor del Espíritu, y comunicada ahora como inicio de restauración, resurrección y vida eterna. La fe es recibir a Cristo tal como es, bajo los signos pobres de la encarnación y de la Iglesia. Dios nos da a su Hijo en el "Tabor" de nuestra vida cotidiana. El don de la fe se recibe tal como es; a nosotros nos toca abrir el corazón para hacer de cada situación y de cada acontecimiento una "comunión" y un encuentro con Cristo. |
5. El pan de vida |
Yo soy el pan de vida. Vuestros padres comieron el mana en el desierto y murieron... Yo soy el pan vivo bajado del delo; si alguno come de este pan, vivirá para siempre, y el pan que yo le daré es mi carne, por la vida del mundo... El que come mi carne y bebe mi sangre tiene la vida eterna y yo le resucitare el ultimo día. |
(Jn 6,48-55) |
Jesús es el verdadero mana, el pan de vida en nuestro caminar de Iglesia peregrina hacia la nueva Jerusalén. El mismo en persona, todo su ser, se convierte para nosotros en comida y bebida bajo los signos eucarísticos de pan y vino. Como Verbo 0 Palabra del Padre, se inserta en nuestras circunstancias para hacerse encontradizo con cada ser humano. |
Encarnación y eucaristía responden a aspiraciones profundas que Dios había sembrado en el corazón de cada hombre: encontrar la vida verdadera y perdurable, compartir el pan y la existencia con todos los hermanos... En Cristo estos deseos se hacen realidad, que supera infinitamente nuestras aspiraciones. Así, en cierto modo, la encarnación se prolonga en la eucaristía, para hacer que toda la humanidad se convierta en Iglesia, cuerpo místico y "complemento" de Cristo (Ef 1,23). |
En la carne humilde de Jesús encontramos al Verbo, el Hijo de Dios hecho hombre. En los signos eucarísticos encontramos el cuerpo y sangre de Jesús como comida y bebida, es decir, todo su ser en cuanto manifestación externa (cuerpo) y en cuanto vivencia e interioridad (sangre). Es presencia de enamorado, que da la vida en sacrificio (Jn 10,II; 15,13) y que nos hace ·consortes y participes de todo su ser. Comulgar a Cristo equivale a compartir la vida con él y sintonizar con sus amores de inmolarse por comunicar una vida nueva a toda la humanidad (Jn 6,51). |
6. Vivir en Cristo |
El que come mi carne y bebe mi sangre estd en mí y yo en el. 4si como me ha enviado el Padre que vive, y yo vivo por mi Padre, así también el que me come vivirá por mí. |
(Jn 6,56-57) |
Permanecer en Cristo, vivir en el, de él y para él es el hilo conductor de todo el evangelio de Juan. El encuentro con Cristo, presente ahora bajo signos eucarísticos, se hace "transformación misericordiosa y redentora del mundo en el corazón del hombre" (Dominicae Cenae 7). Caminando con Cristo hacia la pascua de muerte y resurrección, hacemos de la propia existencia la prolongación del mismo Cristo. Del encuentro vivencial pasamos a la misión de compartir con todos los hombres el pan de vida. |
Cristo ha tornado nuestro pan y nuestro vino para hacerlo su cuerpo y su sangre. En realidad, quiere asumir todo nuestro trabajo, nuestra vivencia y convivencia humana para convertirlas en cuerpo mistito. |
Comulgando el pan eucarístico nos hacemos "un solo cuerpo" de-Cristo (I Cor 10,17). Vivimos de su misma vida, como el sarmiento vive de la vid (Jn 15,5). Somos "los suyos" (Jn 13,1), sus "amados" (Jn 15,9-14). Comulgando a Cristo y compartiendo su vida con él, el Padre nos ama como a él (Jn 17,23). En nuestro barra, Dios, comunicándonos su Espíritu, ha impreso el rostro de su Hijo querido. |
7. Opci6n personal. par Cristo |
El Espíritu es el que da la vida..: Las palabras que yo os he hablado son Espíritu y vida; pero hay algunos de vosotros que no creen... Por esto os dije que nadie puede venir a mi si no Ie es dado de mi Padre. |
Desde entonces muchos de sus discipulos se retiraron y ya no Ie seguian. Jesús dijo a los doce: ,Quereis iros vosotros también? Respondió Simón Pedro: Señor. ,a quien iríamos? Tt1 times palabras de vida eterna, y nosotros creemos y sabemos que tu eres el Santo de Dios... |
(Jn 6,63-69) |
El amor de Cristo es exigente. Se nos acerca a todos y a cada uno para comunicarnos la palabra de Dios, que es él mismo como "pan de vida". El evangelio se hace encuentro comprometido con Cristo y opción personal y definitiva por él. La debilidad de Nicodemo, de la samaritana y del paralitico no fue obstáculo para la fe y el encuentro. El verdadero obstáculo consiste en los ídolos ,0 becerros de oro fabricados en la mente y en el corazón del hombre. A Dios hecho hombre hay que recibirle tal como es; Dios es siempre sorprendente porque desborda nuestros planes y deseos. |
Las palabras de Jesús son fuerza de vida para el creyente; son caridad divina y vida en el Espíritu, que se comunica por Cristo, que viene de Dios, y vuelve con nosotros a Dios. Lo peculiar de la vida cristiana es precisamente aquello que desborda al hombre sin fe: Cristo hecho donación por una muerte de cruz. |
La persona y el mensaje de Cristo, al cuestionar nuestra fe, se nos hacen examen de amor y de seguimiento. Los que siguieron a Cristo por la moda del momento originaron la primera crisis de la historia cristiana. El punto de referencia de nuestra fe es la actitud de Pedro como piedra sobre la que Cristo fundo su Iglesia (Mt 16,18). Cuando el seguimiento de Cristo se hace encuentro personal y amistad de desposorio, se desvanecen las dudas sobre el sentido de la existencia. |
10. Tienda de peregrino (Jn 7-8,1l) |
1. El tiempo de Cristo |
Estaba cerca la fiesta de los tabernáculos (tiendas)... Mi tiempo no ha llegado aun, pero vuestro tiempo siempre está pronto... Aun no se ha cumplido mi tiempo... Subió también él a la fiesta. no manifiestamente. sino en secreto. Los judos lo buscaban en la fiesta ... Nadie hablaba libremente de el por temor de los judíos. |
(Jn 7,2-13) |
Para Cristo, el tiempo equivale a peregrinación hacia .el Padre. La vida se hace fiesta de peregrinos que Viven bajo tiendas transitorias. El Verbo ha establecido ~u tienda de peregrino entre nosotros (Jn 1,14). El tlempo es un ensayo de una llegada y fiesta definitiva. El presente es un encuentro con Dios que vive en los hermanos y que se nos acerca en losacontecimientos. Lo importante es acertar en el enfoque ,de .la vida aquí y ahora. Para Jesús, el tiempo es autentico cuando lleva a la pascua de dar la vida por los hermanos. |
Los acontecimientos son signos que nos ayudan a orientar la vida hacia la donación. Los acontecimientos son "signos de los tiempos" (Mt 16,3) sólo cuando dejan entrever la voluntad salvífica del Padre. Sin esta perspectiva, el tiempo se diluye en prisas, ganancia, nerviosismo y modas del momento. |
Amar siguiendo fielmente los "signos de los tiempos", que son signos de la pascua, comporta pasar por el ridículo y ser destruido por una crítica al margen del evangelio. Correr la suerte de Cristo, que es el cordero pascual, es un riesgo que solo afrontan los enamorados. Siempre se encuentra tiempo para cumplir lo que agrada al Padre; basta con no perder tiempo en nuestras preferencias. |
2. £1 mensaje sobre el Padre |
Mi doctrina no es mía. sino del que me ha enviado... Yo no he venido de mi mismo; pero el que me ha enviado es veraz... Yo le conozco. porque procedo de él y él me ha enviado... Aun estaré con vosotros un poco de tiempo. y me iré al que me ha enviado. Me buscareis y no me hallareis. y a donde yo voy. vosotros no podéis venir. |
(Jn 7.16-34) |
El misterio de Jesús se transparenta a través de su persona y de su mensaje. Sus gestos y palabras dejan entrever los planes de Dios amor sobre el hombre. Por esto la palabra de Jesús penetra hasta lo más profundo de nuestro ser. No es doctrina de hombre, sino experiencia personal del Hijo de Dios, que nos explica lo que él ha visto y oído eternamente en el corazón del Padre (Jn 8,38). Jesús no es un simple expositor 0 transmisor de una experiencia religiosa adquirida dentro de su conciencia. El ser de Jesús es la expresión personal del Padre, la mirada pura y eterna al Padre en el amor del Espíritu Santo. Y en este su mirar ha injertado nuestra mirada de oraci6n filial y contemplativa. |
La garantía de la doctrina y experiencia de Cristo se encuentra también en el hecho de que responde a los deseos y anhelos más profundos del hombre, pero trascendiéndolos de modo infinito. Solo Dios ha podido insertar en el corazón humano esta sed de trascendencia y de infinito. Y solo la doctrina que viene de Dios, es decir, la revelación, que es el mismo Cristo, puede responder adecuadamente a esas ansias de felicidad y de "mas alía". |
La doctrina de Cristo se resume en anunciar que Dios es amor, que el hombre es amado por él y que ya puede amar a los hermanos con el mismo amor con que él es amado por Dios. La misión de Cristo quedara cumplida cuando llegue "la hora" señalada |
por el Padre para dar la vida. Jesús vive pendiente. del amor al Padre y a los hombres, y llama a los suyos a transformar la vida en ese mismo amor de donación total. |
3. Las aguas vivas |
El ultimo día de la fiesta, el más solemne, Jesús, puesto en pie, grit6: Si alguno tiene sed, que venga a mí y beba. El que cree en mí, como dice la Escritura, correrán de su seno ríos de agua viva. Esto dijo del Espíritu que habían de recibir los que creyeran en el, pues aun no había sido dado el Espíritu porque Jesús no había sido glorificado. |
(Jn 7,37-39) |
En el templo y a voz en grito, Jesús resume todo el mensaje de los profetas y lolleva a plenitud (Is 44,3). Sólo Jesús, el Hijo de Dios, puede ofrecer los torrentes de agua viva 0 la vida nueva en el Espíritu a todos los hombres (Ap 22,1). De su corazón abierto en la cruz, como signo de glorificación, brotara esa agua que sacia la sed (In 19,34; Is 12,3). Es el nuevo nacimiento (In 3,5) y "la fuente que salta hasta.la vida eterna" (In 4,14). Jesús, el nuevo templo y el verdadero cordero pascual, ofrece a todos esta experiencia de Dios, que ya comienza en esta tierra (Ap 21,22). Basta con tener sed y sentirse pobre ante el amor. |
La sed de Dios es un tema frecuente en la Biblia (Sal 62; Is 55,1). Esta sed deja transparentar nuestra realidad humana. Es la autenticidad de sentirse creatura zarandeada por el sufrimiento, la injusticia, el pecado 0 la propia pobreza radical. Es la actitud que nos hace transparentes ante Dios y que .no ahuyenta a ningún hermano. |
Solo entonces se descubre a Dios tal como es: Dios amor, que nos ama porque somos sus hijos en el |
Hijo, que ha asumido nuestra existencia como propia. La glorificación de Jesús, ya desde la cruz, fundamenta nuestra fe y da sentido a ~odas las circunstancias de nuestro existir. |
4. Disensi6n |
Algunos decían; Este es el Mesías; perootros replicaban; ¿Acaso el Mesías puede venir de Galtlea?... Se originaron disensiones entre La gente por su causa. Algunos de ellos querían apoderarse de él. |
(Jn 7.41-44) |
De nuevo el escándalo sobre Jesús, que es siempre escándalo de la cruz. La vida y las palabras de Jesús ponen al descubierto los recovecos ocultos del corazón. No es que el Señor produzca desuni6n, sino que es el egoísmo humano el que siembra las discordias y las guerras. Lo que más subleva al hombre son las circunstancias por las que Dios se manifiesta y acerca. EI hombre quiere tener en todo la iniciativa y la capacidad de manipular ideas, sistemas y personas; pero Dios se reserva siempre el derecho de escoger las circunstancias de la revelaci6n y del encuentro con él Es que nos ama muy por encima de nuestras aspiraciones y deseos. |
En las discusiones humanas sobre la fe y sobre los valores evangélicos se barajan muchas veces términos que no concuerdan con los planes amorosos de Dios. El hombre sigue fabricándose sus ídolos, también en el campo de las ideas teo16gicas y de ~~s preferencias espirituales y apostólicas. Toda plamfIcaci6n que no nazca de la fe y de la esperanza y que no conduzca al "amor camina por derroteros ajenos al evangelio. |
No se puede aspirar al encuentro con Dios teniendo el corazón lleno de ídolos camuflados de raz6n, |
de derechos y de religiosidad. Hacerse con el tesoro escondido y con la perla preciosa del encuentro con Cristo exige desprenderse de todo lo que no suene a servicio y a caridad. |
5. No peques mas |
Mujer. nadie te ha condenado? Dijo ella: Nadie. Señor. Jesús dijo: Ni yo te condeno tampoco; vete y no peques mas. |
(Jn 8.10-11) |
La encarnación del Verbo y su cercanía a los hombres manifiestan la ternura y la misericordia de Dios amor. Los hombres nos empeñamos en clasificar a las personas según nuestros esquemas. Para Cristo cada persona es irrepetible; es una historia y un milagro de amor. Cada uno es recuperable..Jesús ama asumiendo la realidad humana como propia, para salvarla, haciendo que el hombre recupere su verdadero rostro. |
La fuerza de la palabra y de la presencia de Jesús es capaz de arrancar de cuajo todas las lacras, para comunicar una vida y un nacimiento nuevo. Nicodemo, la samaritana, el paralitico y la adultera son los rostros con los que Cristo se encuentra todos los días. Nuestra careta nos sirve de poco, si es que sirve de algo. Hay que decidirse a dejarse mirar por Cristo con esa mirada que ama, sana y llama a reestrenar la vida todos los días. Es una mirada que no se olvida jamás. |
El mismo amor que comprende y perdona es exigente y sin rebajas. Jesús comprende nuestro barro quebradizo, pero quiere imprimir en él el esplendorde su mirada y la hermosura de su rostro de Hijo de Dios. Solo podemos sanar decidiéndonos a caminar por este camino de dialogo con Dios y de amor a los |
hermanos. Jesús sigue viviendo en nosotros y caminando con nosotros. De un estropajo, Jesús puede sacar una túnica de bodas (Ap 3,17-18; 7,14). Solo es posible recuperarse cuando se quiere compartir la vida can Cristo, transformándola en amistad pro· funda, desposorio y compromiso de caridad. |
11. ¿Caminar sin una luz? (Jn 8,12-9,41) |
1. Yo soy la luz |
Yo soy la luz del mundo; el que me sigue no anda en tinieblas, sino que tendrá luz de vida... Mi testimonio es verdadero porque se de d6nde vengo y ad6nde voy. |
(Jn 8,12-14) |
Jesús es el Hijo de Dios, el centro de la creación, el Señor de la historia. Su voz continua hoy tan joven como hace veinte siglos: "Yo soy la luz" (In 9,5; 12,35-36; 12,46). Es él quien, por amor, ha dado origen a la luz y a la vida. Por esto es la verdad y el camino hacia ella. En Cristo el hombre encuentra el verdadero renacer: desde las tinieblas del error y del pecado hasta la luz de Dios y la vida en e1 Espíritu. |
Jesús no habla solo a partir de unas ideas 0 de una simple experiencia interior, sino a partir de su realidad de Hijo enviado, que viene del Padre y vuelve al Padre; por esto comparte con nosotros todo lo que es y todo lo que tiene. |
Jesús no es s6lo una luz, sino La luz. En el vemos a Dios amor (In 14,9). En Cristo, "esplendor de la gloria" del Padre (Heb 1,3), encontramos a Dios en su realidad divina y en sus amores par los hombres. |
Los designios salvíficos de Dios sobre el hombre se manifiestan en la persona y en la obra de Jesús. Esos designios serian imaginarios si Cristo no fuera el Hijo de Dios. La historia humana ya ha cambiado de rumba. "En tu luz hemos visto la luz" (Sal 35,10). Ya nos es posible vivir en la dominica de Cristo, que conduce todo hacia Dios amor: "Llévame, luz admirable" (Card. Newman). |
2. No estoy solo |
. Mi juicio es verdadero, porque no estoy solo, sinoyo y el Padre que me ha enviado... El Padre que me ha enviado da testimonio de mí. Si me conocierais a mí, conoceríais también a mi Padre... El que me envi6 no me ha dejado solo, porque hago siempre lo que es de su agrado... Muchos creyeron en el. |
(Jn 8,16-30) |
La vida de Jesús es siempre una relación y una mirada personal al Padre en el amor del Espíritu Santo, que le lleva a dar la vida por todos los hombres. Jesús no necesita puntos de apoyo en aprecios humanos 0 en actitudes egoístas. Su ser es darse, precisamente porque es reflejo personal de Dios amor. Dios se manifiesta en el. En cada gesto y en cada palabra de Jesús se puede escuchar la voz del Padre: "Este es mi Hijo amado..., escuchadle" (Mt 17,5). Toda su vida está orientada hacia el momento de su máxima epifanía en la cruz, cuando realizara el gesto supremo de morir amando. |
Mirando a Cristo y unidos a él, aprendemos a hacer de la vida una relación personal con Dios y una donación a los hermanos. La identidad, como la felicidad, no se encuentra buscándose directamente a sí mismo, sino mas bien realizando en la propia vida la misión de servir a los demás. |
La soledad y la depresión comienzan cuando el corazón se encierra en sí mismo, como queriendo hacerse el centro imprescindible de todo. Este sentimiento de soledad se supera presamente no buscando sucedáneos al amor. Jesús, que vive en nos· otros, es amado por el Padre, ama al Padre y puede hacer amar al Padre. Es esta nuestra misma identidad, que es posible gracias a él. La frustración y el fracaso son solo aparentes cuando la vida se resuelve en cumplir la misión encomendada por Dios amor, que es siempre de servir sin esperar recompensas caducas ni éxitos inmediatos. |
3. Yo soy |
Cuando levantéis en alto al Hijo del hombre. entonces exoneréis que yo soy. y no hago nada de mí mismo. sino que. según me enseii6 el Padre, as hablo... En verdad. en verdad os digo: antes que Abrahán naciese era yo. |
(In 8.28 Y 58) |
Jesús es el Emmanuel (Dios con nosotros), el Hijo de Dios que nos ama hasta dar la vida en sacrificio por nuestra salvación. "Yo soy" es el título que Dios se dio a sí mismo en el Sinaí (Ex 3,14). Dios es fiel al amor creando, sosteniendo y salvando nuestra existencia. Dios ha creado todo y conserva todo porque nos ama. Y con este mismo amor nos comunica su Palabra (Is 52,6). Jesús, exaltado en la cruz, aparece como la Palabra personal de Dios amor Un 8,28; 12,32). Dios se revela a si mismo amando; su amor imprime en nuestro barro los rasgos de la fisonomía de su Hijo Jesucristo. |
La fe de Abrahán conduce a la fe en Jesús. Dios nos ha amado hasta darnos a su Unigénito en sacrificio por nuestros pecados Un 3,16). Lo que en Abrahán fue solo un gesto de disponibilidad, en |
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Dios es una realidad: su Hijo ha sido inmolado por amor nuestro (Rom 8,32). |
EI nuevo Moisés es ahora Jesús, el Hijo de Dios levantado en cruz para sanarnos de nuestras heridas Un3,14-l5; 8,28). El gozo y la liberación de la verdadera pascua solo Se encuentran en Jesús, que es "el principio" y el centro de la creación y de la historia. Los gestos y las palabras de Jesús son narración dramática del amor eterno de Dios por los hombres. En cada expresión de Jesús se contiene toda la historia del amor divino por cada uno de nosotros. |
4. La verdad que libera |
Si permanecéis en mi palabra, seréis en verdad mis disépalos y conoceréis la verdad y la verdad os hará libres... Yo hablo de lo que he visto en mi Padre... Yo he salid .y vengo de Dios..., es él quien me ha enviado... ¿Por qué no entendéis mi lenguaje? Porque no podéis escuchar mi palabra... Yo no busco mi gloria... Es mi Padre quien me glorifica. |
(In 8.31-54) |
La libertad nace de participar en la filiación divina de Jesús, haciendo de todo una vida nueva, un sacrificio de donación a los hermanos y una pascua |
o paso hacia Dios amor. La humanidad liberada de las injusticias que dimanan del pecado es aquella que vive en la comunión de vida eterna 0 vida nueva con Dios y con todos los hermanos. |
Somos liberados porque hemos renacido en Cristo, Hijo de Dios, por obra del Espíritu de amor.. Jesús es la verdad, el portador d~ los planes salvíficos de Dios. El que cree en Jesús es de la verdad, nace del Espíritu, camina en la verdad, ora en la verdad y es liberado y santificado por la verdad. Ser libre equivale a realizarse en Cristo: conocerle amando. |
Cristo es el camino de la salvación 0 liberación |
integral y verdadera, porque sólo él es capaz de ayudarnos a transformar nuestra vida en donaci6n a los hermanos. El proceso del encuentro y amistad con Cristo es proceso de contemplaci6n de la verdad, que es el mismo, aceptando su persona y su doctrina, como proceso de unificación en el amor. Todo lo que no lleva a este amor en Cristo se considera basura (Fil 3,8). El drama humano de la búsqueda de la verdad solo se resuelve cuando se ama al hombre en su totalidad; no por lo que tiene, sino por lo que es. Pero este amor nace solo del encuentro con Cristo. Conocer a Cristo amándole es el conocer "contemplativo" que nos libera del pecado y nos une a Dios y a todos los hermanos. |
5. "Crees en el Hijo de Dios? |
Mientras estoy en el mundo, soy la luz del mundo... ~Crees en el Hijo del hombre? Respondi6 el (ciego curado) y dijo: ¿Quién es, Señor, para que crea en él? Díjole Jesús: Lo estás viendo; es el que habla contigo. Dijo él: Creo, Señor, y se postr6 ante él. |
(Jn 9,5-38) |
Jesús salva a todos los que se presentan tal como son y se abren a su luz y a su verdad. Un ciego de nacimiento se convirti6 en testigo y signo portador de la luz. Los criterios y valores humanos al margen de Cristo pierden todo su valor, porque dejan de ser plenamente humanos. Jesús sigue realizando los mismos milagros, hoy como siempre, porque ha venido a evangelizar a los pobres (Lc 4,18) para hacerlos transmisores de este mensaje de amor y de perd6n. |
Para encontrar a Cristo basta con abrir el coraz6n, manifestando nuestra búsqueda de verdad (como Nicodemo), nuestra ansia de algo mas (como |
la samaritana), nuestro anhelo de curaci6n total (como el paralitico) 0 nuestro deseo de ver, que en Cristo todo se hace destello de Dios amor. Cerrarse a la verdad, a la vida y a la luz conduce a la ruina. Basta con abrir nuestro ser y dejarle ver, oír, sentir, palpar a Dios, presente en todas las cosas porque nos ama. En Cristo, el Verbo hecho carne, Dios se ha hecho visible, sensible y palpable. Los signos de su presencia y cercanía son signos pobres, porque son el reto a nuestros ídolos. Creer es dejar que nuestro ser sea lo que es ante la mirada y la gracia de Dios amor. Entonces nos hacemos su gloria 0 su reflejo, como Jesús. Creer en Dios amor solo es posible descubriendo a Cristo presente en los signos pobres de los hermanos, de la Iglesia y de nuestra misma existencia. |
12. La vida es un "sí" (In 10,1-42) |
1. Yo soy la puerta |
El que entra por la puerta, ese es el pastor de las ovejas. A este le abre el portero, y las ovejas oyen su voz, y llama a sus ovejas por su nombre..., va delante de ellas, y las ovejas le siguen porque conocen SU voz... Yo soy la puerta de las ovejas..., el que por mí entrare se salvará... Yo he venido para que tengan vida, y la tengan en abundancia. |
(Jn 10,2-10) |
La imagen del buen pastor resume todo el evangelio de Juan. Cristo es el salvador, por ser e1 Hijo de Dios que ha venido a dar la vida por los hombres. Los suyos, sus ovejas, forman la comunidad de creyentes que siguen su voz. A Cristo se le encuentra |
presente en la comunidad eclesial. Un Jesús sin esos signos pobres de Iglesia, que constituyen el testimonio apost6lico, sería una ficci6n y una quimera. |
La comunidad eclesial nace de la palabra de Jesús y de su sacrificio redentor. Una Iglesia (o una eclesiología) sin palabra de Jesús predicada por los apóstoles, sin eucaristía y sin .pastores, serla una abstracción producto de laboratorio. Seguir a Cristo supone aceptar los signos pobres de Iglesia, donde él se hace presente, dejando de lado los ídolos que nacen al margen de los planes de Dios amor. |
La "puerta" de la comunidad es el mismo Jesús. Cada uno ha entrado en el redil porque ha sido llamado por su nombre. Jesús nos mira y conoce hasta lo hondo del corazón; y nos ama por lo que somos, no por lo que tenemos. En nuestro corazón, sediento como tierra reseca, Cristo infunde una vida nueva, que es participación en su filiación divina. Nos saca |
o libera de la pobreza y opresi6n, que es producto del pecado, para hacernos pasar a la pobreza evangélica de tener como único tesoro la fe en Cristo, es decir, compartir la vida con él y con los hermanos. |
2. Amar hasta dar la vida |
Yo soy el Buen Pastor; el Buen Pastor da la vida por sus ovejas... Conozco a las m{as y las m{as me conocen a m{, como el Padre me conoce y yo conozco a mi Padre, y pongo mi vida por las ovejas. Tengo otras ovejas que no son de este aprisco, y es preciso que yo las traiga, y oirán mi voz, y habrá un solo rebaño y un solo pastor... Mis ovejas oyen mi voz, y yo las conozco y ellas me siguen. |
(In 10,11-16 y 27) |
Jesús describe su vida con la figura del buen pastor, atribuyéndose las cualidades de Dios, pastor de su pueblo Israel (Ez 34,1I-31). El posesivo "mis ovejas", |
"sus ovejas", se va repitiendo como nota de ternura y de verdadera posesión y enamoramiento mutuo. Jesús pertenece a sus ovejas y sus ovejas le pertenecen a él como parte integrante de su ser. |
Cristo da la vida en sacrificio para comunicar la vida divina a sus ovejas. Es la máxima expresión del amor divino Un 3,16), que es el mismo amor de Jesús como amigo y como esposo (Jn 15,13). Es un conocer amando, que reclama relación, amor de retorno, presencia intima, comunión, sintonia y comprensión. Este amor y posesión mutua en Cristo es el sentido esponsal de la nueva alianza. |
El amor del buen pastor es de totalidad y de universalismo. Su vida entera está dedicada a llamar, guiar y defender a "los suyos". Cada una de sus ovejas es irrepetible y acapara toda su atención y todo su amor de buen pastor. El grito "tengo otras ovejas" equivale a "tengo compasión" (Mt 15,32), "venid a mi todos" (Mt 11,28); "tengo sed" Un 19,28). La razón de ser de Cristo es la de "atraer" a toaos los hombres desde la cruz Un 12,32; 10,16) con su amor de esposo que da la vida, para formar una sola comunidad humana de redimidos e hijos de Dios. Los que siguen a Cristo quedan contagiados de sus amores por la salvación de toda la humanidad; es l:lna exigencia del encuentro y del amor contemplativo. |
3. El mandato del Padre |
Por esto el Padre me ama, porque yo doy la vida para tomarla de nuevo. Nadie me La quita, soy ya quien la doy de m{ mismo. Tengo poder para darla y poder para volverla a tomar. Tal es el mandato que he recibido del Padre. |
(In 10,17-18) |
Jesús viene del Padre y vuelve al Padre después de haber cumplido su obra Un 17,4). La vida de Jesús |
1I5 |
se hace inmolación, es decir, donación sacrificial e incondicional. Dar la vida en aras de la voluntad del Padre es ya el inicio de la glorificación. Jesús se sabe amado por el Padre, y por esto transforma todo en amor al Padre y a los hombres. Su vida es un "sí" desde la encarnación hasta el delo, pasando por la muerte y resurrección (Heb 10,7; 7,25). La vida de los seguidores de Cristo es siempre un proceso de vaciarse de sí para llenarse de Dios y darse a Dios y a los hermanos. Este es el camino de perfección y de contemplación. |
Por ser el Verbo encarnado, Jesús tiene potestad sobre la vida y sobre la muerte. Ningún acontecimiento ni ninguna injusticia van a destruir esta fuerza del amor. Nadie le puede quitar nunca la capacidad de vivir y de morir amando. Su misma muerte será el gesto de dar la vida sin esperar a que se la arrebaten Un 19,30). Así es el morir amando del buen pastor, para poder comunicar el agua viva de su Espíritu Un 19,34). Imitando esta actitud de Jesús de convertir todo en ocasión de dar la vida amando, nos hacemos transparencia del evangelio. |
4. La unión con el Padre |
Yo y el Padre somos una misma cosa... ¿De aquel a quien el Padre santijic6 y envi6 al mundo decís vosotros que blasfema por haber dicho: Soy Hijo de Dios?... Creed en las obras, para que sepáis y conozcáis que el Padre Está en m{ y yo en el Padre... Y muchos creyeron en él. |
(In 10,30-42) |
La persona, los gestos y las palabras de Jesús reflejan a Dios amor. Es el Hijo de Dios, el "esplendor de su gloria" (Heb 1,3). Es el Hijo hecho hombre por obra del Espíritu Santo y enviado para dar la vida eterna a todos los que creen en él (Jn 10,27-28). |
II6 |
Encontrar a Jesús es encontrarse con Dios y con sus planes de salvación. |
Dios no es una idea, sino "Alguien" cercano, que vive con nosotros y en nosotros. Los signos de la presencia de Jesús nos hablan de la cercana y epifanía de Dios. Son los signos pobres de la Iglesia y del hermano. La unión con Dios comienza aceptando estos signos por amor a Cristo que se esconde en ellos. Otra "unión" con Dios sería sólo fruto de imaginación. |
La interioridad de Jesús se resume en una mirada amorosa al Padre. Vive en él y de él. Toda su ilusión es hacer que cada hombre refleje el rostro del Padre. Jesús esta empeñado en llevar a término esta empresa deslumbrante, que tiene sus inicios en el amor eterno de Dios. En el amor del Padre, Jesús encuentra el esbozo de nuestra historia. Cristo da la vida en sacrificio para cumplir esta misión t9talizaIlte. Por esto se presenta como ungido y enviado (Jn 10,36). EI que cree en Cristo y le ama comparte con él sus amores y su vida entera. |
13. Transformar el presente en vida eterna |
I. El que amas está enfermo |
Había un enfermo, Lázaro, de Betania, de la aldea de María y su hermana... Enviaron, pues, las hermanas a decirle: Señor, el que amas está enfermo. A I oírlo Jesús, dijo: Esta enfermedad no es de muerte, sino para gloria de Dios, para que el Hijo de Dios sea glorificado par ella. |
(In II,H) |
II7 |
Jesús educa a sus seguidores por un camino de amistad. A partir del conocimiento amoroso de Jesús, es mas fácil dar el salto a las últimas consecuencias de la fe. En todo acontecimiento humano, aunque sea la muerte, Cristo se hace presente para convertirlo en pascua 0 paso hacia el Padre. Cristo trata a sus amigos con amor tierno, aunque ese amor parezca abandono, ausencia y silencio. EI camino de la oraci6n contemplativa es así. |
La curación más profunda es la de saber transformar todos los acontecimientos, y especialmente el dolor, en amor aDios y a los hermanos. EI amigo de Jesús participa de su misma vida como "esplendor" |
o gloria del Padre (Heb 1,3; Ef 1,6). Ese es el mejor premio de Cristo a sus amigos cuando se encuentran en soledad, sufrimiento y marginación. |
La oración es camino de pobreza 0 de autenticidad. Se ora en la medida en que uno se presenta ante Dios tal como es. La iniciativa es siempre de Dios, puesto que es él quien habla, ama y llama a través de nuestras circunstancias. La oraci6n contemplativa comienza cuando, como la samaritana a Lázaro, reconocemos lo que somos y creemos en el amor de Dios por nosotros. Los amigos de Cristo son invitados a profundizar esta actitud de pobreza convirtiéndola en actitud filial, como la de Cristo, y, por tanto, en confianza plena. Entonces se ora esperando la sorpresa de Dios y dejándole a ella iniciativa del como: "denos él lo que quisiere, siquiera haya agua, siquiera sequedad" (santa Teresa). |
2. Vayamos a morir con el |
. Aunque oy6 que estaba enfermo, permaneci6 en el lugar en que se hallaba dos días más; pasados los cuales dijo a sus disépalos: Vamos otra vez a Judea... Lázaro, nuestro amigo, está dormido, pero |
1I8 |
voy a despertarle... Dijo Tomas a los compañeros: Vamostambién nosotros a morir can él. |
(Jn 11,6-16) |
EI evangelio de Juan describe la vida de Jesús como una marcha hacia "la hora" que le ha señalado el Padre. Es el momento de "dar la vida y volverla a tomar" (Jn 10,18). La decisión de Jesús de volver a Judea cuando se <<<<acercaba la pascua se traduce en la subida a Jerusalén para dar la vida en sacrificio (Jn 10,7). Los amigos de Jesús se deciden a correr esponsalmente su suerte. Quien comparte la vida con Cristo afronta las dificultades con la esperanza de encontrarle a él como amigo que nunca abandona. La propia debilidad no es obstáculo cuando se reconoce con humildad y cuando se deja a Jesús ser el protagonista de nuestra existencia. |
Jesús dejo morir a su amigo Lázaro. No obstante, con toda seguridad, se dejo sentir veladamente a su lado en ese momento decisivo. No era necesario que muriera pensando que tal vez resucitaría a los cuatro días; le bastaba con morir creyendo en la vida futura y en la resurrección final. |
Jesús no promete éxitos inmediatos a los suyos. Correr la suerte de Cristo equivale a ser, como él, el granito de trigo que muere en el surco esperando el fruto en el momento oportuno (Jn 12,24). En la vida espiritual y en la vida apostólica hay que aprender a arriesgarlo todo por Cristo. Perder es ganar cuando lo único que se busca es construir la propia existencia según el amor (Mc 8,35). |
3. Yo soy la resurrecci6n y la vida |
Yo soy la resurrecci6n y la vida; el que cree en mi, aunque muera, vivirá; y todo el que vive y cree en mi no morirá para siempre. ¿Crees tú esto? .. |
(Jn 11,25-26) |
Ante un cadáver de cuatro días y poco antes de su propia muerte, Jesús proclama lo que ningún humano se ha atrevido a decir. EI acento esta en las palabras "Yo soy", porque él es Yavé, el Señor, el que es fiel al amor y a su creaci6n, el que sostiene nuestra existencia, la luz, la verdad, la resurrección, la vida... A los que aman a Jesús les basta con escuchar el "Yo soy", aunque sea en medio de la tempestad (Jn 6,20). |
Jesús nos deja experimentar nuestros miedos, nuestras dudas y ansiedades, con tal de que no vacilemos en la fe y que no desconfiemos de su amor. La fe es, al mismo tiempo, oscuridad y luz. Nuestro modo de pensar se queda a oscuras. A veces se nos convierte en queja de enamorado. Pero siempre debe ser convicci6n inquebrantable de que nos ama y decisi6n de seguirle, amarle y hacerle amar. |
El Hijo de Dios ha venido para asumir nuestras circunstancias y hacerlas su propia biografía. Su protagonismo y sensibilidad de consorte y hermano supera nuestros cálculos. A veces nos libera de la enfermedad, de la persecución y de la muerte; pero entonces es solo para ayudarnos a pasar a una fe más profunda en su presencia oculta, que supone más amor cuando parece más ausencia y silencio. ¿No nos basta él? ~No tenemos bastante con el premio de correr su misma suerte de muerte y resurrecci6n? Nuestra vida se va haciendo desposorio y amistad profunda con Cristo en la medida en que nos fiamos más de su amor; "Se a quien me he confiado" (l Tim 1,12). |
4. Esta aquí y. te llama |
Llamó María a su hermana, diciéndole en secreto: EI Maestro está aquí y te llama. Cuando oy6 esto, se levant6 al instante y se fue a él... Se ech6 a sus |
pies, diciendo: Señor, si hubieras estada aquí{, mi hermano no hubiera muerto. |
(In 11,28-32) |
No hay circunstancia ni acontecimiento humano que deje de ser un signa de la presencia y cercanía de Jesús. María de Betania estaba sumida en el dolor, olvidando que "alguien" vivía su dolor más intensamente que ella. La voz de Cristo, que lleg6 a través de su hermana Marta, fue un despertar. Del sonambulismo de un dolor masticado a solas, comenzó a pasar a la luz de un nuevo día de amor eterno. Es una dinámica que sirve de modelo de oraci6n contemplativa, que es siempre la oraci6n de los pobres: oy6, se levantó, se fue a él... La vida queda amorosamente relacionada con quien no nos deja ni a sol ni a sombra. |
La oraci6n, cuando es autentica, se hace búsqueda, gemido, queja, grito y silencio. Es quejarse de la "ausencia" del amado, para descubrir que esa misma queja y búsqueda es ya un signo de su presencia activa. Ante este modo original de amar que tiene Cristo, nuestra mejor actitud es la de estar con él, callar, dejarse mirar por él, quererle mirar de una vez y para siempre. |
Poco a poco se va aprendiendo que la oscuridad de la fe es el lugar privilegiado del dialogo y del encuentro amoroso con Cristo. Los pobres no piden privilegios. Se le deja al tomar la iniciativa de escoger la pedagogfa y el modo del encuentro. Precisamente a partir de este encuentro de signos pobres la propia existencia se hace misi6n. A Cristo le gusta comunicarse así, en la oraci6n, en la santificaci6n .y en el apostolado. |
5. Jesús llor6 |
Jesús se canmavi6 hondamente... y dijo: ¿D6nde. le habéis puesta? Dijéronle: Señor, ven y ve. Jesús |
lloro... Nuevamente conmovido en. su interior, llegó al monumento... Dijo Jesús: Quitad la piedra... Díjole Marta: Señor, ya hiede, pues es el cuarto d(a. Jesús le dijo: ,No te he dicho que, si creyeres, veras la gloria de Dios? . |
(Jn 11,33-40) |
En las pupilas de Jesús se reflejaban todas las personas con quienes se encontraba. Era un reflejo que le llegaba al corazón y quedaba ahí para siempre. Su mirada a Pedro Un 1,42) 0 al joven rico (Mc 10,21) era mirada de hermano, salvador, protagonista. De aquellos mismos ojos brotaron las higromas junto al sepulcro de su amigo Lázaro. |
Las expresiones y gestos de Cristo eran manifestación de su amor eterno. Su amor ahora sigue siendo el mismo a través de su mirada y su presencia eucarística. Entonces y ahora no es una mirada estoica, sino de un amor comprometido: lloro, fue al sepulcro y mando quitar la piedra. Nuestros problemas los vive con nosotros y son mas suyos que nuestros. Un montón de miseria y un punado de cenizas no son obstáculo a Cristo cuando creemos en él. |
Jesús manifestó su gloria a través de su carne débil como la nuestra. Y "hemos vista su gloria" de Hijo de Dios Un 1,14) en sus gestos y palabras tan humanas como las nuestras. Nuestra vida se ha convertido en biografía de Jesús prolongado en la historia. Las ruinas y los sepulcros sirven para purificar la vida de toda clase de escorias, porque lo único que queda es la caridad, que nace del encuentro con Cristo y con los hermanos. El tiempo es una colaboración activa y responsable, en la oscuridad de la fe y en el gozo de la esperanza, para hacer que toda la humanidad y toda la creación quede restaurada en el amor de Cristo resucitado. |
6. Gracias, Padre |
Jesús, alzan.do los ojos al cielo, dijo: Te doy gracias, Padre, porque me has escuchado; yo se que siempre me escuchas, pero lo digo por la muchedumbre que me rodea, para que crean. que tú me has enviado. Dicien.do esto, gritó con. voz potente: Ildara, sal fuera! Salió el muerto, atado de pies y manos con. ven.das, y el rostro envuelto en. un. sudario. Jesús les dijo: Soltadle y dejadle ir. Muchos judíos... vieron. lo que había hecho y creyeron. en. el. |
(In 11,41-45) |
La vida de Jesús es siempre una mirada amorosa al Padre. Muchas veces va acompañada de un gesto |
o una oración de gratitud (Lc 1O,21s). Todo refleja el amor del Padre; también Getsemaní 0 la cruz. Jesús sabe que el Padre le ama y le escucha siempre, tanto al pedir la resurrección de Lázaro como al ponerse él mismo, clavado en cruz, en sus manos providentes (Heb 5,7-10). Nuestra fe se apoya en este gesto de Jesús en manos de Dios amor. Es mayor milagro morir amando en la cruz que devolver la vida a Lázaro. Por esto el gesto de Jesús de "entregar su espíritu" (Jn 19,30; 10,18) será un anticipo de su resurrección y de la nuestra, venciendo con nosotros el pecado y la muerte. |
La voz imperiosa de Jesús sigue tan viva hoy como hace dos mil años. Es palabra que liega a la raíz de todos nuestros males, que él ha cargado como propios. El modo de vencer que tiene Jesús es desconcertante, porque lo mismo puede resucitar a Lázaro que convertir en martirio la muerte de Juan Bautista. |
Lo que importa es nuestra fe; que lo sepamos descubrir cercano en cada uno de nuestros acontecimientos, y que en ellos descubramos el amor de su Padre, que lo es también nuestro. La fe en Jesús |
unifica nuestro corazón, haciéndonos recuperar la fisonomía de hijos de Dios y el reflejo del Padre. Pero esta fe cuestiona, examina y purifica cuando nuestro corazón se ha encandilado con espejismos. |
7. Tenía que morir por todos |
Caifás dijo: ¿No comprendéis que conviene que muera un hombre por todo el pueblo y no que perezca todo el pueblo? .. Como era pontífice aquel año, profetiz6 que Jesús había de morir por el pueblo, y no s6lo por el pueblo, sino para reunir en uno todos los hijos de Dios que estaban dispersos. Desde aquel día tomaron la resoluci6n de matarle. |
(Jn 11,49-53) |
La perspectiva del evangelio de Juan es siempre de redención universal. Es la misma que respiran sus cartas (I In 2,2). Con este horizonte sin fronteras, las cosas más pequeñas y más "casuales" recobran su dimensión providencialista. Para Jesús no hay desgracias ni casualidad, sino que todo se convierte en ocasión querida por el Padre para dar la vida en rescate de todos (Mt 20,28). Jesús sabe perder lo inmediato para salvar a todos en su integridad. El camino de la Iglesia es de desposorio, es decir, de correr la misma suerte de Cristo. |
La vida de Jesús es una oblación permanente que culmina en la cruz. Es el cordero pascual, el siervo inocente 0 siervo paciente del Señor (Is 42,1ss), que debe morir para llevar a efecto la nueva alianza de amor entre Dios y su pueblo. Al precio de su sangre, nos hizo participes de su filiación divina. En esta actitud de Jesús, que "nos amo y se entrego en sacrificio por nosotros" (Ef 5,2), se fundamenta la actitud generosa y martirial de santos y misioneros, que han hecho de sus vidas una sintonía con el amor esponsal y sacrificial que Cristo tiene a su Iglesia y a toda la humanidad (Ef 5,25-27). |
14. Preludio de pascua (In 12) |
I. Preparar su sepultura |
Seis días antes de la Pascua vino Jesús a Betania, donde estaba Lázaro, a quien Jesús había resucitado de entre los muertos. Le dispusieron allí una cena, y Marta servía... María, tomando una libra de ungüento de nardo legitimo, de gran valor, ungi6 los pies de Jesús y los enjug6 con sus cabellos, y la casa se llen6 del olor del ungüento... Judas dijo: ¿Por qué este ungüento no se vendi6 y se dio a los pobres?... Jesús dijo: '" lo tenía guardado para el día de mi sepultura... |
(Jn 12,1·7) |
Toda la vida de Jesús está orientada hacia la pascua. Era "la hora" en que, muriendo y resucitando, "pasaría" al Padre y obtendría nuestra salvación. El mensaje de Jesús es una "fiesta" de nueva creación y de nuevo nacimiento. Hay que reorientar toda la vida según el amor. La liberación que Cristo anuncia, comienza en el corazón. |
María de Betania había ofrecido a Jesús un cambio total de vida, expresado principalmente en la decisión de dejar para siempre una vida disipada. Este amor de seguimiento evangélico se expresa con gestos y compromisos de donación, que solo comprenden los enamorados de Cristo. Ser "olor" de Cristo (2 Cor 2,15) comporta previamente saber acompañarle hasta su muerte y sepultura. |
Aguafiestas los habrá siempre, con apariencia de actitudes bien intencionadas. Jesús vino para evangelizar a los pobres. La fiesta de la pascua, para Cristo, consiste en arriesgarlo todo para liberarnos de nuestras pasiones y de toda opresión que derive de ellas. A los pobres hay que acercarse con el corazón de pobre. Es la actitud de Jesús desde Nazaret y Belén hasta el Calvario. El amor a los hermanos |
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solo se aprende en diálogo y amistad con Cristo. María de Betania emprendió el camino sin retorno que la llevada a la cruz, al sepulcro vado y, por tanto, a la misión de evangelizar a los pobres. EI amor le sostuvo y le hizo capaz de anunciar a Cristo a los hermanos. Este es el "perfume" que se hace signo y anuncio de Jesús resucitado. |
2. Bendito el que viene |
Al día siguiente. la numerosa muchedumbre que había venido a la fiesta, habiendo oído que Jesús llegaba a Jeruza, tomaron ramos de palmera y salieron a su encuentro gritando: ¡Hosanna! ¡Bendito el que viene en nombre del Señor, el Rey de Israel!... No temas, hija de Si6n; he aquí que viene tu rey montado en un pollino... Los fariseos se decían: ... ya veis que todo el mundo se va tras él. |
(Jn 12,13-19) |
EI pueblo autentico acoge siempre a Jesús con entusiasmo, porque en él se cifran y cumplen todas las esperanzas mesiánicas y los deseos más hondos del corazón del hombre. A Jesús le gusta acercarse con autenticidad y transparencia, siempre bajo signos pobres. Así puede llegar al corazón de cada ser humano que se siente pobre, como quien entra en su propia casa. |
Jesús es "el que viene", el esperado, el salvador, el que da sentido a nuestra existencia humana. En todo corazón y en toda situación humana hay alguna semilla de evangelio, como un deseo implícito de la venida de Cristo. Por esto cuando, por fin, se encuentra al Señor, se le descubre como el esperado desde siempre. . |
Jesús es signo de contradicción porque desmantela los planes humanos que nacen del egoísmo. No basta con tener en las manos y en la cabeza algunos |
textos de Escritura, si el corazón está lejos del amor. Jesús es capaz de suscitar discípulos y seguidores por encima de todo calculo y previsión humanos. Las conversiones y vocaciones son un don de Dios, no un derecho ni el resultado de una computadora. Jesús ira suscitando siempre la fe y la entrega generosa entre los que no tienen otra riqueza y otra seguridad que el deseo de encontrarle. |
3. Queremos ver a Jesús |
Algunos griegos, que habían subido a adorar en la fiesta..., se acercaron a Felipe y le rogaron...: Queremos ver a Jesús... Andrés y Felipe vinieron y se lo dijeron a Jesús... Jesús les respondi6: Es llegada la hora en que el Hijo del hombre será glorificado. |
(Jn 12;20-23) |
,Ver a Jesús! ,Ver su gloria! Es el hilo conductor del evangelio de Juan. Es la propia teología y experiencia de fe del discípulo amado (1 In 1,lss). No hay que exigir signos extraordinarios, puesto que basta la palabra de Jesús y el testimonio apostólico (Jn 20,27-29). La filiación divina de Jesús se manifiesta a través de su carne débil y de los signos pobres de la comunidad eclesial. |
A Jesús no se le descubre clasificándolo como superhombre ni como el portador de un simple ideal filantrópico. Jesús resucitado vive entre nosotros con su mismo ser de hombre y de Hijo de Dios. Sólo le descubre quien quiere entablar re1aciones personales con él y no reducirle a mero adorno 0 paréntesis. Solo así es posible amar a los hermanos, especialmente a los más pobres, con el mismo amor de Jesús. |
Jesús ha dado la vida por todos (Jn 11,52; 1 In 2,2). EI piensa siempre en todas sus ovejas que toda |
vía están lejos (Jn 10,6). En el corazón de cada hombre y de cada pueblo hay un deseo ardiente de salvación, que solo puede saciar Jesús. La "sed" de Jesús en la cruz es la expresión de esta sed universal, que Jesús hace suya porque ha asumido nuestros problemas como propios. Es la sed de ver a Dios especialmente cuando parece que calla y está ausente. El evangelio de Jesús ya llega a todas partes, ya lo conocen más 0 menos indirectamente todos; pero no lo han "visto" en el testimonio apostólico de los creyentes en Cristo. Jesús ha querido necesitar de sus apóstoles para dar pan a la multitud inmensa de los redimidos (Mt 14,16). Necesita nuestras manos y nuestra mirada, transformados por la fe y el amor, para que los hombres encuentren la mirada y el amor de Jesús. |
4. Como e1 grana de trigo |
Si el grano de trigo no cae en la tierra y muere, quedará solo; pero si muere, llevará mucho fruto. El que ama su vida, la pierde; pero el que aborrece su vida en este mundo, la guardará para la vida eterna. Si alguno me sirve, que me siga... Ahora mi alma se siente turbada. ,Y que diré? ¿Padre, líbrame de esta hora? ¡Mas para esto he venido yo a esta hora! Padre, glorifica tu nombre. |
(Jn 12,23-28) |
La vida de Jesús camina hacia la pascua. Es hermoso vivir día a día mirando a la glorificación del Padre y al cumplimiento de sus planes salvitos universales. Hay momentos de sombra e incluso de marginación; pero todo lleva a la luz indeficiente. La lógica del Espíritu es así: conduce al "desierto" de la prueba y del dolor, para hacer posible una donación fecunda y la vida imperecedera. Jesús quiere compartir con los suyos su glorificaci6n; por esto les invita también a compartir su Nazaret y su pasión. |
Compartir es cosa de enamorados. El "éxtasis" de amor consiste en "salir" de nuestro egoísmo (Gal 2,20). |
Jesús experiment6 la debilidad humana ante el dolor, la humillación y la muerte (In 12,27-28; Mt 26,38). Esta experiencia forma también parte de la redención. Lo importante es no disminuir la tensión hacia el amor, es decir, la sintonía con la voluntad del Padre. Porque no hay otra forma de amor y de unión con Dios y con los hermanos. |
La gloria de Dios equivale a la glorificación de Jesús a través de la muerte; por esto la salvaci6n del hombre forma parte de la glorificación del nombre de Dios y de Jesús, su Hijo. "La hora" de Jesús es el momento culminante de su gloria, porque también es el momento culminante de su donación. Es el paso pascual hacia el Padre (In 14,12). Cualquier momento de nuestra vida puede ya transformarse en "la hora" y "la gloria" de Jesús. Todo depende de un "si" tembloroso en la totalidad. |
5. Cuando fuere levantado |
Cuando yo sea levantado de la tierra, atraeré a todos hacia mí. Esto lo duda indicando de que muerte había de morir. |
(Jn 12,32-33) |
El "éxtasis" de amor, como máxima donación de sal mismo, se convierte en la máxima epifanía de Dios amor (In 8,28; 3,14). Jesús es el Hijo de Dios, cuya gloria es eterna (Jn 17,24). En su máxima humillaci6n se realiza la máxima exaltación, dejando entrever su filiación divina (Fil 2,5-11). |
Ante Cristo clavado en cruz, nadie queda indiferente. El corazón del hombre, la convivencia social, las leyes humanas y la cultura pueden encontrar la |
luz y la verdad plena solo en Jesús. Todo cuanto no esté orientado hacia él, al menos indirectamente, está destinado al fracaso y a la ruina. En la cruz de Cristo se escucha la misma voz de quien es el centro de la creación y que dirige la historia: "Yo soy" (In 8,28). Es la única voz que infunde aliento a los seguidores y apóstoles de Cristo. |
La obediencia de Jesús a la voluntad del Padre, manifestada a través de las situaciones de gozo y de dolor, se convierte en glorificación del Padre y del Hijo en el Espíritu 5anto,que es la expresión divina del amor. La máxima unidad eterna, que es Dios uno y trino, se revela en la máxima unidad de un corazón humano: el de Cristo, Hijo de Dios y hermano nuestro. Esta unidad de amor en la Trinidad y en Cristo clavado en cruz tiene una fuerza irresistible que atrae a todo corazón humano hacia él. En Cristo se unifican las cosas del cielo y de la tierra (Ef 1,10). En Cristo ha comenzado a edificarse la unidad de toda la familia humana y de todo el cosmos. Es la unidad que Cristo contagio a los que quieren vivir sólo para amarle y para hacerle amar. Esta unidad del corazón y este amor fraterno de la comunidad es signo eficaz de evangelización (In 17,23). Esta unidad de vida es fruto de la contempLaci6n. |
6. Caminad en La Luz |
Caminad mientras tenéis luz..., creed en la luz, para ser hijos de la luz. Esto dijo Jesús y, marchando. se ocult6 a su vista. Aunque haba hecho tan grandes señales en medio de ellos, no creían en él... porque amaban mas la gloria de los hombres que la gloria' de Dios. |
(In 12,35·43) |
La misma actitud de servicio y de dar la vida es la que hace decir a Jesús, sin complejos, que él es la luz, |
la verdad, la vida. Buscando el bien autentico e integral del hombre, Jesús no teme presentarse como Hijo de Dios, el "esplendor" del Padre. 5i Jesús no fuera el Verbo hecho hombre y si su resurrección no fuera real y verdadera, su mensaje no se diferenciaría del de tantos fundadores de religiones y de ideologías. |
Jesús se presenta tal como es y exige una fe de encuentro personal y de entrega sin reservas. Es el único camino para salvar al hombre de toda oscuridad. A los que dan el paso hacia la aventura de la fe, Jesús les llama "hijos de la luz". Nos encontramos ante la "nube luminosa" (Mt 17,5) que, dejando entrever la divinidad de Jesús, ilumina la vida y la historia humana. |
Es el amor el que descubre a Cristo escondido y manifestado bajo' signos (In 14,21). Es la fe que quiere hacerse encuentro, relación personal. y entrega incondicional. A Cristo se le encuentra en la medida en que uno se quiere vaciar de todo lo que no suene a amor. Nuestras audacias ideológicas y nuestros planes maravillosos, al margen del amor, valen poco. Con un corazón que busca segundas intenciones y ventajas temporales no se encuentra a Cristo. Hay que escoger entre "la gloria" de Cristo (el Verbo del Padre y el Emmanuel) y la gloria aparente 0 los ídolos que el hombre se construye en cada época histórica también con la etiqueta de "religión" y de modernidad. |
7. Quien me ve a mi ve al que me ha enviado |
Jesús grit6: El que cree en mí no cree en mí, sino en el que me ha enviado; y el que me ve, ve al que me ha enviado. Yo he venido al mundo como luz, para que todo el que crea en mí no permanezca en tinieblas... He venido para salvar al mundo... Yo |
rio he hablado de mí mismo... Las cosas que yo hablo, las hablo según el Padre me ha dicho. |
(Jn 12,44·50) |
Jesús fue siempre consciente de su filiaci6n divina. Se alegra de ser quien es porque nos ama hasta haceros participes de todo lo que es él. Si toda creatura, y especialmente toda persona humana, es una expresión de Dios, Jesús es la epifanía personal del Padre, su Verbo 0 Palabra, "la irradiaci6n de su gloria y la impronta de su sustancia" (Heb 1,3). Su gran alegría consiste en hacer que los hombres descubran al Padre a través de sus gestos y palabras (In 14,9). A "los suyos" les exige este amor de retorno, que consiste principalmente en creer vivencialmente en el, conocerla amando y amarle en los hermanos. |
Precisamente porque se presenta como enviado del Padre, Jesús se siente siempre servidor y salvador. La humilIaci6n del servicio hace posible el amor de quien, siendo Dios, se ha hecho hombre por nosotros. La búsqueda de la verdad y de la luz solo encuentra solución en Cristo, que no se reserva nada para sí, sino que comparte con nosotros toda su existencia. |
La sed y el hambre de verdad y de amor solo se puede saciar en Cristo (In 6,35). Por el entramos en la fuente de donde brota el agua viva de la vida eterna (In 4,14). En el momento de la prueba y de la noche oscura, él es el único que no abandona; pero deja entrever su presencia amorosa en la medida en que nos preocupemos de sus intereses y de las necesidades de los hermanos. |
Caminos de contemplaci6n(In 1,19-12,1-50) |
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1ª Parte: DIOS AMOR EN NUESTRO CAMINAR |
In 1,1-18 1 In 1-5 |
EI pr6logo del evangelio de Juan es un himno a Dios amor, que nos ha enviado a su Hijo para hacerse nuestro camino y nuestro consorte en el mismo caminar. Dios amor se ha hecho presente en nuestras circunstancias para vivirlas desde dentro y con nosotros. |
Juan, creyente y testigo, contempla la verdad, sin querer manipularla. Por esto comienza su evangelio con un himno a Jesús, que es la Palabra (el Verbo) del Padre, su transparencia, que "ilumina a todo hombre" y que es don de Dios para todos los hombres. |
Cinco veces se usa la expresión "Verbo" (Logos) como intentando resumir en este título todo lo que es Jesús: es el Hijo, la relación personal 0 mirada al Padre, que revela el rostro de Dios amor y que señala al hombre el camino del retorno al amor, la luz, la verdad, la vida... Al presentar esta "Palabra" del Padre, ya se anuncia todo el evangelio. En el Apocalipsis (Ap 19,13) Y en su primera carta, Juan volverá a recordar con entusiasmo este título de Jesús: "el Verbo de la vida" (l In 1,1). |
EI discípulo amado nos sitúa en el· corazón de Dios.. A través de la "carne" 0 humanidad de Cristo descubre su "gloria" de filiación divina. Por la "carne" de Cristo y la cercanía de sus pasos y signos descubrimos la proximidad y benignidad de Dios. Del Dios "desconocido" (porque "a Dios no Ie ha visto nadie") ya podemos pasar a la "visión" y |
encuentro con él, que es Dios amor hecho hombre, nuestro hermano. Dios, que "habita una luz inaccesible" (1 Tim 6,16), se nos ha hecho luz diáfana en Jesús. Descubrimos la trascendencia de Cristo a través de la transparencia de su humanidad concreta. |
Dios, por la encarnaci6n del Verbo, ya ha entrado a formar parte de nuestra realidad concreta hist6rica' y c6smica. Jesucristo es el "Dios con nosotros", presente bajo nuestro techo, enraizado en nuestras circunstancias, que son ya su "mundo" amado entrañablemente (In 3,16). Desde la encarnaci6n se ha realizado un corte en la historia. Ahora todos los acontecimientos humanos están centrados en Cristo como protagonista, porque el tiempo queda asumido por la eternidad del Verbo. La historia humana es ya parte de la realidad divina como historia de amor eterno. |
Gracias a esta inmanencia 0 inserci6n del Verbo en la historia humana, ya es posible nuestra inmanencia 0 inserci6n en Dios. El Dios trascendente se ha hecho infinitamente pr6ximo. El hombre y el mundo han adquirido una visi6n 0 perspectiva nueva. La presencia nueva de Dios por medio de su Verbo (su Hijo) hecho hombre es la revelaci6n definitiva de su "gloria". Ya podemos encontrar a Dios en nuestras circunstancias. La espiritualidad 0 vida en Dios es ya camino hacia la realidad concreta en toda su trascendencia. El "Tabor" cristiano ya tiene lugar en nuestra vida ordinaria: "Mi Hijo os envio; sabedle mirar" (san Juan de Ávila). |
En Cristo, palabra de Dios, leemos continuamente el pensamiento eterno y amoroso de Dios hacia nosotros. Y, al mismo tiempo, en Cristo encontramos también nuestra respuesta al Padre. Jesús nos revela un Padre a quien Ie devuelven sus hijos arrebatados por el pecado, pero ya regenerados por la fe en el Hijo de Dios (In 1,12). El pr6logo de san Juan anti |
cipa toda la dinámica del evangelio: Jesús, que viene del Padre, ahora vuelve al Padre con nosotros ya transformados en hijos de adopci6n. Descubriendo el misterio de Cristo se descubre el misterio del hombre, que, renovado en el Espíritu, debe caminar con los hermanos para transformar el cosmos en una nueva creaci6n por medio de la "pascua" 0 paso definitivo hacia el Padre. Esa es la aventura hist6rica de discernir entre luz y tinieblas, fe e incredulidad. |
Dios nos manifiesta y comunica su Palabra, que es Cristo. Juan tiene en la mente la sabiduría de Dios amor, que se personifica en Jesús: existe en Dios como reflejo de su luz eterna (In 1,1; Sab 7,26; Prov 8,22-23; Heb 1,3); desciende del cielo (In 1,14; Sab 9,10; Gal 4,4) para enseñarnos 0 revelarnos las cosas de arriba, es decir, el amor afectivo y efectivo del Padre al hombre y al mundo (In 1,18; 3,11-16; Sab 9,16-18); busca a los hombres para comunicarles las riquezas de la filiaci6n divina (In 1,11-12; 7,18; Sab 6,16). Esta es también la doctrina paulina sobre Cristo, sabiduría de Dios (1 Cor 1,24-30; 2,7-9). |
La palabra de Dios es siempre creadora y salvífica, viviente y eficaz. Juan presenta a Cristo como la Palabra personal de Dios, el Hijo Unigénito de Dios; de este modo da el salto de la palabra hist6rica de la revelaci6n a la Palabra transhist6rica y sustancial del Padre. Este es el tema básico de Juan: "El Verbo ha asumido la carne para que nosotros pudiéramos recibir el Espíritu Santo" (san Atanasio). Gracias a la encarnaci6n (Jn 1,14), ya podemos ser renovados por la vida nueva ymisi6n del Espíritu (Jn 3,5; 20,22). |
Todo el evangelio de Juan se mueve en la perspectiva del prólogo, que es una visi6n sapiencial y contemplativa de todo el misterio de Jesús y de todo el misterio del hombre y del mundo. Es el resumen |
de toda la predicación cristiana: "Esta palabra se hizo temporal..., no habría necesidad de predicar otra cosa" (san Juan de Ávila). La fe consiste en sintonizar vivencialmente con la mirada de Cristo al Padre: "Miraos siempre, Padre e Hijo; miraos siempre sin cesar, porque asi se obre mi salud" (id). Se necesita la actitud cristiana de contemplación, como actitud de silencio activo, pobre y humilde: "Una sola palabra hablo Dios en eterno silencio, y en silencio ha de ser oída" (san Juan de la Cruz). |
En Cristo descubrimos que nuestra vida es una historia de amor, que comenzó eternamente en el corazón de Dios. La primera carta de san Juan viene a ser una continuaci6n del prologo del evangelio. A la 1uz de este prólogo y de la carta nos resultara más asequible hacer una "relectura" del evangelio en nuestras comunidades y en nuestras circunstancias. |
De esta relectura autentica brotara la aplicación del mandamiento del amor y un sentido de comunión y misión eclesial sin fronteras. |
El prologo del evangelio de Juan sirve de texto de bendici6n para los neobautizados, ya renacidos por el agua y el Espíritu. Antiguamente nuestras madres nos colocaban en el pecho una especie de escapulario que contenía este texto joánico. Es todo un programa de vida cristiana para entrar en las intimidades de Dios amor y para comprometerse a transformar el mundo según el amor. Participamos de la filiación divina de Jesús, que nos hace entrar en sintonía con su dinamismo redentor y misionero: "Sali del Padre..., voy al Padre" (Jn 16,28). Es
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la "pascua" o paso que restaura toda la creación en Cristo (Ef 1,10). Nuestra amistad con Dios empezó, por parte suya, desde la eternidad; en esa misma eternidad, donde ya no corre el tiempo, nos espera para un encuentro definitivo. |
Comentamos Jn 1,1-18 (pr6logo) intercalando los |
fragmentos básicos de la primera carta de Juan. Seguimos este orden: identidad de Jesús, identidad cristiana, relectura del evangelio, fe contemplativa. Por esto nos permitimos un ligero cambio de orden en los versículos, para hacer resaltar la temática apuntada. |
1. Identidad de Jesús |
1. Mirada personal al Padre |
Al principio era el Verbo, y el Verbo estaba en Dios, y el Verbo era Dios. El estaba al principio en Dios. |
(In 1,1-2) |
Encontrar a Cristo es encontrar a Dios: "quien me ve a mi ve al Padre" (Jn 14,9). En su humanidad, Cristo transparenta lo que es: el Hijo de Dios, el Verbo 0 Palabra del Padre. Jesús "es" desde siempre, antes de Abraham (Jn 8,57), porque es una sola cosa con el Padre (Jn 10,30), aun antes de la creación (Gen 1,1), "desde el principio" (1 Jn 1,1). |
Esta fue la experiencia de fe que tuvo Juan, el "disdpul0 amado" (Jn 13,23), auscultando la interioridad de Cristo, del mismo modo que Cristo ausculta y refleja las intimidades de Dios amor. La fe de Juan prevalece sobre todo sentimiento y teoría humanos; pero refleja un conocimiento experimental de Dios, al que todos están llamados (Jn 1,12). Es un don de Dios que capacita para auscultar a Jesús, como Palabra del Padre, que se hace encontradizo en la revelación y en nuestro caminar concreto.
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Jesús viene del Padre y vuelve al Padre (Jn 16,28), |
es "el esplendor de su gloria" (Heb 1, I), la Palabra 0 "mirada" personal siempre vuelta al Padre. Su vida y su mensaje son expresión de Dios y relación personal con el Padre. Y en esta dinámica nos quiere enrolar a todos para liberarnos de nuestro egoísmo y hacernos pasar a una vida nueva en el Espíritu de amor. Experimentando su cercanía e inmanencia, pasamos a su trascendencia de vida eterna. Ya no hay circunstancias vanas ni anodinas, porque siempre podemos encontrar a "alguien", Jesús, que da sentido a nuestra historia como historia de un amor eterno. |
2. Centro de la creaci6n y de la historia |
Todas las cosas fueron hechas por el, y sin el no se hizo nada de cuanto existe... Estaba en el mundo y por el fue hecho el mundo, pero el mundo no Ie conoci6. |
(Jn 1,3.10) |
En Cristo la historia humana ha cambiado de rumbo. La creaci6n, hecha por él y para éI, había tornado los derroteros del pecado. Pero ahora ya puede reorientarse hacia Dios. Los hombres y las cosas ya pertenecen a Cristo (l Cor 8,6). El es el mediador cósmico, porque "todo fue creado por éI y para él; él es antes que todo y todo subsiste en él" (Col 1,16-17). |
En la narrati6n evangélica de Juan, Jesús se acerca al "aquí y ahora" de cada persona para asumir aquel retazo de historia y hacerlo una página irrepetible de su propia biografía. Los "signos" que realiza Jesús son manifestativos de una nueva creación: el agua viva, el vino nuevo, el pan de vida, la luz y la vida verdadera... Jesús se posesiona de nuestro tiempo y de nuestro caminar para salvarlo y restituirlo a los planes primigenios de Dios amor. |
El presente, en cualquier circunstancia, pasa a ser, cuando se vive en Cristo, vida definitiva. Para ello basta con transformar el momento temporal en un encuentro con Cristo salvador, que invita a colaborar activamente en la nueva creaci6n orientada hacia la lUl, la verdad y el amor universal. |
3. Luz y vida |
En el estaba la vida, y la vida era la luz de los hombres. La luz brilla en las tinieblas, pero las tinieblas no la acogieron... Era la luz verdadera que ilumina a todo hombre que viene a este mundo. |
(Jn 1,5-6.9) |
Jesús es todo: la luz, la vida, la verdad, el amor, la gracia... Es "el don de Dios" Un 4,10); "con el, Dios nos lo ha dado todo" (Rom 8,32). La luz humana se extingue y la vida del hombre se acaba. En Jesús "aparece ya la luz verdadera" (I Jn 2,8) y se desvela el misterio del hombre. Jesús es Dios y "Dios es luz" (1Jn 1,5); es "el Verbo de la vida" (1Jn 1,1), que nos comunica la vida y filiación divinas. |
Jesús se encontró con personas que buscaban la luz y ansiaban vivir; se hizo encontradizo con los ciegos, paralíticos, angustiados y moribundos. Devolviendo la luz, la vida y la paz, se hizo para todos luz y vida. Ahora ya no nos devuelve, como al ciego |
o a Lázaro, una luz caduca y una vida pasajera, sino que nos hace pregustar en él la luz indeficiente y la vida eterna Un 6,47). |
Jesús ilumina todos los corazones. No hay nadie que no haya sido "tocado" por Jesús. "La semilla del Logos esta en todo el género humano" (san Justino); pero muchos se empeñan en ser tinieblas, prefiriendo una luz que se agota y una vida que se va. Jesús enseño el camino para dejar de ser oscuridad y |
material de derribo: basta con creer en el y amar a los hermanos. Solo los que "conocen" (amando) a Jesús se hacen expertos en el misterio del hombre. La lucha entre la luz y las tinieblas, entre el amor y el pecado, termina con la victoria de Jesús, que asocia a su madre como figura de la comunidad eclesial (Gen 3,15). |
4. Palabra hecha carne |
Y el Verbo se hizo carne y estableci6 su morada entre nosotros... . |
(Jn 1,l4a) |
Todo el evangelio de Juan gira en torno a esta afirmación. Dios se ha hecho hombre, asumiendo todo lo que es el hombre. Ya no hay contraposición entre el "mundo" del hombre y el "mundo" de Dios. En Cristo, a través de su "carne", de sus gestos y signos, ya se puede descubrir al Verbo 0 Palabra de Dios. |
Jesús es el "Dios con nosotros" (Mt 1,23-14; Is 7,14), nacido de la Virgen María par obra del Espíritu Santo (Mt 1,18-21). Dios habita en medio de su pueblo, no ya con el símbolo de una tienda y de una nube (Ex 33,7-11), sino en la realidad de la carne humana asumida hipostáticamente (personalmente) por el Verbo. Jesús es la morada de Dios entre los hombres (Ap 21,3) y se complace en hacer de nuestra historia su propia biografía. |
En la debilidad de la carne de Cristo ya podemos verla realidad 0 "la gloria" de Dios. En nuestra realidad humana contingente ya podemos ver a Cristo como compañero de camino, consorte, esposo, responsable, hermano, sensible a nuestros problemas porque son ya los suyos. Desde la encamación del Verbo ya nadie vive solo, porque todos tienen un puesto irrepetible en el corazón, en la "carne" de |
Cristo, como "complemento" y cuerpo místico suyo (Ef 1,23). |
5. Gracia y verdad |
Pues de su plenitud hemos recibido todos gracia sobre gracia. Por que la Ley fue dada por medio de Moises; la gracia y la verdad nos han llegado por Jesucristo. |
(Jn 1,16-17; cf 1,14) |
Jesús es, él mismo, el don de la revelación plena, la "gracia", la manifestación y comunicación suprema de la bondad de Dios. Se da del todo y nos da todo, haciendo que nuestro ser se abra a este don divino que es el. En éI se realiza y encontramos el plan divino de salvación total y universal. |
El es el resumen de las promesas, la expresión de la fidelidad de Dios: la "verdad" misma de Dios, el Verba del Padre. En el habita la plenitud de la divinidad y de todo lo que Dios nos ha revelado (Col 1,19). . |
El Señor no se ha reservado nada para si, sino que ha querido compartir todo con nosotros. Se goza de ser lo que es, porque nos ama y nos puede y quiere transformar en el. El "discípulo amado" se goza de que Jesús sea así y de que al mismo tiempo se vea capacitado por éI para amarle con un amor de retorno. Ya se puede entablar con Dios una amistad que no tiene fin, porque se apoya en quien no tiene principio ni desgaste y en quien es el único que sabe y puede amar sin medida. |
6. Hijo Unigénito del Padre |
A Dios nadie le ha visto jamás; el Hijo unigénito que está en el seno del Padre lo ha dado a conocer. |
(Jn 1,18; cfr.1,14) |
Jesús es el Hijo amado de Dios, es el Verbo engendrado eternamente por el Padre. Es la Palabra pronunciada en el silencio de Dios amor. La trascendencia se ha hecho inmanencia. |
El hombre anhel6 siempre ver a Dios, con un presentimiento de que eso no era posible con las solas fuerzas naturales (Ex 33,18-21). Dios "habita una luz inaccesible" (I Tim 6,16). Por medio de Jesús y en &1 ya es posible comenzar aver y "conocer" vivencialmente a Dios: "Quien me ve a mi ve al Padre" (Jn 14,9). |
Dios ha pronunciado su Palabra. en nuestras circunstancias. Ya es posible hacer de todos los días un "Tabor" donde se escuche la voz de Dios, que nos manifiesta a su Hijo en nuestras circunstancias: "Este es mi Hijo amado" (Mt 17,5). En la "nube luminosa" de la debilidad humana de Jesús ya podemos vislumbrar a Dios. |
La historia concreta de cada persona comienza a ser el ensayo de una visión y encuentro definitivo. En los desgarros de nuestra contingencia, enfermedad y flaqueza ya amanece la trascendencia de Dios amor "nacido de la mujer" (Gal 4,4); |
7. Propiciaci6n por nuestros pecados |
Hijitos míos, os escribo esto para que no pequéis. Si alguno peca, abogado tenemos ante el Padre a Jesucristo, el justa. El es la propiciación por nuestros pecados. Y no solo por los nuestros, sino por los de todo el mundo. |
(1 In 2,1·2) |
La encarnación del Verbo llega a las últimas consecuencias: Jesús será victima de propiciación por los pecados de todos los hombres. Como cordero pascual y como siervo doliente que asume y personifica |
a todo el pueblo, Jesús "dio su vida por nosotros" (I In 3,16). "Debía morir por el pueblo" (In 11,51-52). |
Dios "nos ha amado hasta darnos a su Hijo como victima por nuestros pecados" (I In 4,10). Y puesto que ha derramado su sangre por nosotros, ya nos puede comunicar el Espíritu Santo por medio del agua del bautismo (I In 5,6ss). |
Nuestra historia ya ha cambiado de sentido. En nuestra debilidad y contingencia, e inc1uso cuando gemimos reconociendo nuestros pecados, encontramos a Cristo como amigo y responsable. Nuestro barro quebradizo ya ha recibido el sello de una vida eterna. |
En las debilidades y defectos de los hermanos hay que adivinar también la presencia de Cristo redentor, que puede y quiere restaurar a todos sin excepción. Cuando contemplemos el rostro de Cristo resucitado, reconoceremos en éI las facciones de todos y cada uno de los hermanos que se han cruzado en nuestro caminar. Conviene prepararse para esta sorpresa (Mt 25,40). |
2. Identidad cristiana |
1. Creer en el Hijo |
El que cree en el Hijo de Dios tiene este testimonio en sí mismo... Y el testimonio es que Dios nos ha dado la vida eterna y esta vida está en su Hijo. El que tiene al Hijo tiene la vida... |
(I Jo 5,10-15) |
La fe es acercarse a Cristo, encontrarlo, entregarse a é1, aceptar vivencialmente su persona, su palabra y |
sus obras. Este es el fundamento de una confianza incondicional en su amor y en su presencia. EI objetivo del evangelio de Juan (y el de sus cartas) es el de suscitar la respuesta 0 apertura a esta fe, que es don de Dios (In· 1,12; 20,31). Esta fe es ya vida eterna, como conocimiento vivencial e inicial de Cristo que conduce a la visión y al encuentro definitivo (In 17,3). |
La garantía de creer en Cristo y de participar en la vida eterna consiste en el cumplimiento del mandamiento del amor. Esta es la victoria sobre el egoísmo y el pecado (1 In 5,4). "Sabemos que hemos pasado de la muerte a la vida, porque amamos a los hermanos" (1 In 3,14). Vale la pena optar definitivamente por esta aventura de la fe en el amor que Dios nos manifiesta en Cristo su Hijo. Entonces la vida cambia de sentido 0, mejor, recobra su sentido mas profundo. |
A la luz de las palabras siempre jóvenes del evangelio y con la ayuda del testimonio y afecto de los hermanos que ya creen, nos sentimos enrolados en una vida de comunión 0 de familia con Dios amor. Entonces se descubre a Cristo cercano, en cada acontecimiento, en cada persona y en nosotros mismos. Ya podemos hacer de cada acontecimiento una "comunión" con Cristo y con los hermanos. |
2. Hemos visto su gloria |
Hemos visto su gloria, gloria como de Unigénito del Padre, lleno de gracia y de verdad. |
(Jn 1,14b) |
Para Juan, gracias a la fe, cada gesto y cada paso de Jesús es una epifanía de su filiación divina como Verbo del Padre (In 1,14a). En la debilidad de la carne del Señor aparece la divinidad del Hijo de una manera |
más profunda que cuando se manifestó la gloria del Señor sobre el tabernáculo (cfr. Ex 24,16; 25,8). |
La gloria de la divinidad de Jesús aparece a través de su humanidad y de los signos pobres de la encarnación. Su vida, a la luz de la fe, es un "Tabor" permanente. EI apóstol ha experimentado la belleza maravillosa de 1ainterioridad de Cristo y la quiere comunicar a todos dando testimonio de ella; pero sólo Cristo puede desvelar esta realidad y comunicar esta experiencia de fe. |
En Jesús conocemos a Dios (1 In 5,20), porque es Ia expresión personal del Padre (1 In 2,14; In 14,9). En el encontramos la gracia y la verdad, es decir, la plenitud de la revelación y la participación en la vida divina. A Juan se Ie llena de gozo el corazón, y la boca de alegría, al poder anunciar a todos con su testimonio apostólico: "Os anunciamos lo que hemos visto y oído..., el Verbo de la vida" (1 In 1,1-3). Desde el día de la encarnación ya es posible a todo ser humano encontrar a Cristo en la propia circunstancia. |
3. Hijos en el Hijo |
Vino a los suyos (a su casa), pero los suyos no lo recibieron. Mas a cuantos lo recibieron les dio poder de llegar a ser hijos de Dios, a los que creen en su nombre. |
(Jn 1,11-12) |
Cristo nos ha hecho participes de todo lo que él es y tiene (In 1,16); por esto participamos de su filiación divina. EI amor es así: hace iguales a los amantes, respetando y salvando la identidad de cada uno. Es 1a consecuencia de la encarnación, como máxima epifanía de Dios Amor: "Ved que amor nos ha mostrado el Padre, que seamos llamados hijos de Dios, y que lo seamos" (1 In 3,1). |
Esta filiad6n divina participada ("adoptiva") nos eleva por encima 0 mas allá de toda raza y naci6n. La dignidad humana ya no se cuenta por las cosas que uno tiene, sino por el ser que es imagen viva de Dios mas allá de las circunstancias. |
En el coraz6n de cada hombre se realiza un drama, que es de apertura a la filiaci6n divina y que tendrá éxito 0 fracaso según se acepte 0 se rechace el amor. Juan queda asombrado ante el hecho de que, en el decurso de la historia, pueda haber seres humanos que rechacen a Cristo, el Hijo de Dios.
|
Jesús es el Verbo 0 Hijo de Dios encarnado por obra del Espíritu Santo en el seno de la Virgen María. Nuestra filiaci6n divina participada es también obra del mismo Espíritu, que nos conduce a Dios amor, mas allá de lo que suene a "carne y sangre", poderes humanos y bienes de la tierra (In 1,13). Nos hacemos hijos de Dios en la medida en que reconocemos esta realidad en los hombres de cualquier raza y condici6n. |
4. Nacidos de Dios |
Quien ha nacido de Dios no peca, porque la simiente de Dios estd en el... |
(1 In 3,9) |
Tenemos en nosotros la semilla de Dios, su misma vida eterna. Aquel soplo y beso de Dios en el barro 0 en la nada del primer hombre (Gen 2,9) es ahora infusi6n plena del Espíritu Santo gracias a Jesús, que habita en nosotros y que es la Palabra engendrada eternamente por el Padre. |
Somos hijos nacidos de Dios porque tenemos en nosotros su Palabra (l Pe 1,23; Sant 1,18) y su Espíritu (In 3,5; Gal 4,47). Hemos sido engendrados por amor (l In 3,1). Las aguas de este "bautismo" (esponjarse |
en Cristo) han de llegar a todos los corazones. |
La semilla de Dios en nuestros corazones es su Espíritu de amor (Rom 5,5), y también su Palabra (Mc 4,14). Se nos hace filiaci6n divina participada, que crece continuamente hasta una transformaci6n por la visi6n y encuentro definitivo con el Padre (1 J n 3,2). La misma creaci6n, que es obra de la palabra de Dios, nos habla a gritos de la ternura de nuestro Padre. Pero en el mismo Cristo encontramos el esbozo y la maqueta que Dios ha programado eternamente sobre el proceso de nuestra filiaci6n divina. Esta programaci6n puede realizarse gracias a la redención de Jesús y al envío del Espíritu Santo (Ef 1,3-14). Dios, dándose a sí mismo, nos ha dado todo lo que tiene. |
5. Testigo fiel |
Hubo un hombre enviado par Dios, de nombre Juan. Vino como testigo a dar testimonio de la luz, para que todos creyeran en él. No era él la luz. |
(In 1,6-8; cf 1 In 1,1-2) |
Juan evangelista no oIvid6 nunca a Juan Bautista, que Ie había orientado hacia Jesús. Es verdad que no nos puede suplir nadie en el encuentro con Cristo, ni nadie Ie puede suplir a Cristo en nuestro coraz6n. Pero precisamente por ello se aprecian y se agradecen mas los signos pobres del hermano, como signos transparentes y portadores de Jesús. La identidad del precursor y del testigo fiel consiste en la humildad de desaparecer para dejar paso a Cristo redentor. |
El "discípulo amado" también supo ser testigo fiel: "Lo que hemos visto y oído os lo anunciamos..., el Verbo de la vida" (l In 1,1-2). Su experiencia de |
Cristo no era para convertirse en pantalla y pedestal de los propios intereses. EI testigo del encuentro con Cristo transparenta su mirada, su amor y su llamada. Se mira a los demás sin segundas intenciones de medros personalistas. Se ama a los demás sin utilizamos y sin apropiarse de ellos. Se llama a los demás con el convencimiento de que todos ocupan un Iugar peculiar en el coraz6nde Cristo. |
Juan aprendi6 de María la Virgen a ser s6lo transparencia de la Palabra meditada fielmente en el coraz6n. La identidad se recobra en el ejercicio de esta humildad de reconocer que todo es gracia y misericordia. Entonces no se necesitan artificios para amar y evangelizar, sino solamente la autenticidad, la alegría y el agradecimiento del Magnifica-t. |
6. Amar a los hermanos |
Sabemos que hemos pasado de la muerte a la vida porque amamos a los hermanos. |
(1 }o 3.14) |
El amor es el signa de garantía de la fe, del encuentro con Cristo y de la verdadera experiencia de Dios. No hay otro signo de garantía. Falsificaciones las habrá siempre; pero el mandato de Cristo de que nos amemos como el nos ha amado es parte esencial del primer anuncio del evangelio (l ]n 3,11; 2]n 6; 1n 13,34-35). Si queremos "permanecer en la luz" (l ]n 2,10), hay que amar a los hermanos "como Dios nos ha amado" (l ]n 4,1l). |
Pasar de la muerte a la vida equivale a dejar atrás el odio camuflado y las venganzas solapadas. Es el amor de quien mira a todos como redimidos por Cristo y amados entrañablemente por él. Los quilates del encuentro contemplativo con Cristo se miden por el amor del pr6jimo, traducido en respeto a su |
misterio, escucha de su mensaje y necesidades, comprensi6n de sus limitaciones y aceptaci6n de su carisma y misi6n. |
EI amor no busca componendas con el error, pero salva siempre a la persona, que es un misterio de amor etemo por parte de Dios. La caridad fraterna y el compromiso de servir a los hermanos, especialmente a los mas pobres, es consecuencia de la contemplaci6n, es decir, de haber entrado en el coraz6n de Dios. Al mismo tiempo, el amor a los hermanos es la escuela que prepara mejor nuestra oraci6n como actitud dialogal con Dios. |
3. Relectura del evangelio |
I. Discernimiento para darse meJor |
Carísimos. no creáis a cualquier espíritu, sino examinad los espíritus si son de Dios. |
(1 }o 4,1) |
,EI evangelio y las cartas de Juan fueron escritas en un momento muy difícil para las primeras comunidades eclesiales. En un contexto de gran vitalidad había también apóstatas, falsos profetas, tensiones entre comunidades e incluso grupos exclusivistas que reducen el evangelio a su mirada achatada. La vitalidad de la Iglesia habrá que contar, en cada época, con la posibilidad de esas lacras. Por esto hay que discernir para creer y para hacer de la vida una verdadera donaci6n. Juan escribi6 para ayudarnos a creer (Jn 20,31). EI evangelio no puede bascular hacia personalismos pietistas o secularizantes. Creer es apertura sincera a los planes salvíficos de Dios. |
Releer el evangelio 0 la palabra de Dios significa interpretar los acontecimientos a la luz de esta misma palabra; no viceversa. La palabra evangélica no puede ser filtrada ni manipulada por coyunturas históricas personales 0 comunitarias. Dios continua manteniendo su iniciativa sobre la palabra revelada. |
Los signos de la acción del Espíritu Santo aparecen en toda la vida de Jesús, que hace siempre lo que agrada al Padre (Jn 4,34; 5,30; 8,29). Jesús, buen pastor, da la vida por sus ovejas según el mandato del Padre (Jn 10,17-18). La paz y el gozo del Espíritu, en el corazón y en la comunidad, se fraguan haciendo de toda dificultad un servicio de donación a los hermanos. La verdadera acción del Espíritu se mueve en las coordenadas de la "comunión" eclesial, de la esperanza y de la paz. |
2. Caminar como Jesús |
EL que guarda su palabra, en ése la caridad de Dios es verdaderamente perfecta. En esto conocemos que estamos en eé. Quien dice que permanece en éldebe andar como él anduvo. |
(1 In 2.5-6) |
La experiencia de encuentro con Dios tiene como timbre de garantía la imitación y el seguimiento de Cristo. "Permanecer" en Dios significa, para san Juan, entablar relaciones filiales con el. El camino de nuestra relación con Dios es Jesús, el Hijo de Dios. Por Cristo entramos en la comunión con Dios amor. Es una posesión mutua, en sentido esponsal de nueva alianza. |
Caminar como Jesús es "sentir las cosas como el las siente" (san Juan de Ávila). Entonces se camina en la luz (Jn 12,35). Quien cree en Jesús camina en la verdad, iluminado por el Espíritu y confiado en la fuerza divina del amor. |
La identidad cristiana es imitación, seguimiento, unión y configuración con Cristo. Entonces la propia vida se hace relectura del evangelio para si y para los hermanos. |
3. La caridad viene de Dios |
Carísimos, amémonos unos a otros, porque La caridad procede de Dios, y todo el que ama ha nacido de Dios y conoce a Dios. |
(l In 4,7) |
A Dios amor se le descubre y se Ie experimenta en las ansias de amor que el mismo ha sembrado en nuestro corazón. Necesitamos absolutamente amar y ser amados. La garantía de que este amor viene de Dios es el deseo profunda de amarle, de querer que todos lo amen y de que todos se sientan amados por eI. Para el que ama con este amor, ni Dios ni los hermanos se pueden reducir a una "cosa útil". |
Esta caridad no es una simple ética ocomportamiento humano, ya de suyo válido, sino que es especialmente una participación real de la vida divina, que tiene sus repercusiones prácticas en el corazón y en la vida personal y social. Salo así se explica la caridad de los santos que dedicaron su vida a la liberación integral y a la evange1ización de los pobres, arriesgando su vida y sus cosas con actitud permanente de "martirio". |
La ética 0 moral cristiana consiste en la práctica de la justicia y del amor como consecuencia de haber nacido de Dios. Caminar en la luz y la verdad equivale a la comunión con Dios y con los hermanos. Por este camino adquirimos la certeza de ser escuchados como hijos de Dios y tenemos la garantía de haber recibido su Espíritu. |
4. Nos ha dado su Espíritu |
En esto conocemos que permanecemos en el y el en nosotros. en que nos ha dado de su Espíritu. |
(1 In 4.13) |
El Espíritu Santo, que ha inspirado los textos escriturísticos, alienta nuestro corazón y nos capacita para comprender la palabra de Dios (l In 2,?0). La presencia y la acci6n santificadora del Espíritu son garantía para vivir en comunión con Dios y con .los hermanos. El conocimiento de la palabra de Dios, que ilumina los acontecimientos cotidianos, es participaci6n del conocer amoroso del buen pastor. Se conoce en la medida en que se ama. |
Jesús, Palabra del Padre, nos comunica el EspírituSanto para hacernos hijos de Dios por adopci6n y por participaci6n en la filiaci6n divina del mismo Jesús. Gracias al Espíritu Santo, ya podemos adentrarnos en el silencio divino, de donde brota eternamente la Palabra del Padre (Sab 18,14). |
Dios se manifiesta a través de Jesucristo, su Hijo, que es "su Palabra que brota del silencio" (san Ignacio de Antioquia). El Espíritu Santo, enviado por el Padre y el Hijo, es testigo, valedor y portador del mensaje y de la persona de Jesús. Es e1 "padre de los pobres". Jesús se goza en e1 Espíritu, porque e1 Padre revela su palabra a los "pequeños" (Lc 10,21). |
5. £1 mundo pasa |
El mundo paso" y también sus concupiscencias; pero quien cumple la voluntad de Dios permanece para siempre. |
(1 In 2.17) |
La creaci6n es amada por Dios y un don suyo para el hombre. La humanidad y el cosmos ya pue |
den responder a Dios agradeciendo el hecho de haber sido creados por amor. Pero los dones de Dios son pasajeros, como una especie de ensayo para prepararnos a recibir el don definitivo que es el mismo Dios. Todas las cosas pasan, para dejar entrever el amor de Dios que no pasa. E1 hombre pasa cuando convierte en valor absoluto lo que es simplemente una cosa pasajera y relativa; entonces se hace esclavo de las cosas porque olvida la soberanía de Dios. |
Jesús, como Palabra "vuelta" hacia el Padre y como hermano nuestro, es el salvador y liberador del mundo (In 4,42), la luz del mundo (In 8,12; 9,5), el cordero de Dios que quita el pecado del mundo (In 1,29), que reorienta al hombre y al cosmos hacia Dios. |
Cuando el hombre se encierra en si mismo queriendo convertirse en soberano abso1uto, destroza su propio ser, rompe la fraternidad humana y destruye la armonía del cosmos. Entonces este mundo, fabricado por el hombre, se vuelve contra Jesús y contra los valores evangélicos. Jesús se ha hecho piedra angular de la historia humana y del mundo, para reencontrar en la obediencia de Dios el verdadero valor de las cosas, la dignidad del hombre y la construcci6n de la familia humana según la verdad, la justicia y el amor. |
Los acontecimientos hay que leerlos asi, como una parte· de la biografía del mismo Jesús salvador del mundo. La f;ontemplaci6n cristiana se hace camino hacia la realidad integral del hombre y de la historia, cuyo centro y sostén es el mismo Cristo. Si el mundo pasa (puesto que es contingente), ello es para indicarnos que Dios amor lo ha creado y lo ha restaurado en Cristo para irlo cambiando en "un cielo nuevo y una tierra nueva" (Ap 21,1). |
6. Hacia la visi6n y encuentro definitivo |
Carísimos. ahora somos hijos de Dios. aunque aun no se ha manifestado lo que hemos de ser. Sabemos que. cuando se manifieste. seremos semejantes a el. porque le veremos tal cual es. |
(1 Jo 3.2) |
La palabra de Dios resuena en el mundo y en nuestros corazones como un balbuceo de una realidad plena que ya se nos ha comenzado a comunicar. pero que un día será visión y posesión definitiva. Ese día moraremos en la misma "'fuente de agua viva", que es la vida divina (In 4,iO). Transformados en Cristo por el Espíritu, nuestro ser será reflejo de Dios amor contemplado cara a cara. EI deseo que arde en todo corazón humano, aunque sea ahora bajo cenizas, será entonces realidad poseída eternamente. |
EI presente queda iluminado por la palabra de Dios, con tal que no perdamos la perspectiva de la esperanza, es decir, la confianza y la tensión hacia el encuentro definitivo. Los acontecimientos pierden su perspectiva y se convierten en espejismos de desierto cuando queremos manipular 0 "utilizar" el evangelio a nuestro aire. |
En cada acontecimiento se realiza un "Tabor", en el que Dios nos dice: "Este es mi Hijo amado" (Mt 17,5). Pero hay que aprender a escuchar con actitud contemplativa, es decir, con actitud de pobre, de hijo y de amigo. La historia humana comenzó en el corazón de Dios amor y terminara en un encuentro definitivo de todos los hermanos en la visión de Dios, donde todos nos amaremos con el mismo amor con que Dios nos ama. Todos los bienes, ideas, leyes y sistemas humanos tienen un valor relativo; si intentan convertirse en un valor absoluto, nos ocultan la realidad del misterio del hombre, que |
sólo se desvela plenamente a la luz del misterio y la soberanía de Dios amor. |
4. Fe contemplativa |
1. La Palabra mora en nosotros |
Os escribo... porque habéis conocido al Padre.... porque habéis conocido al que es desde el principio.... porque la palabra de Dios permanece en vosotros. |
(l Jo 2,13-14; cf Jo 1,18) |
Cristo es la Palabra 0 Verbo del Padre, que habita en nuestros corazones con la fuerza y el amor del Espíritu Santo. EI Hijo nos ha hecho conocer al Padre, a Dios que es amor (Jn 1,18). Gracias a el ya podemos leer los acontecimientos como signos y mensajes de Dios. Sin el todo seria oscuridad y confusión. La fe cristiana consiste en abrirse a la palabra de Dios para· amarle a ély a los hermanos. |
Nuestra vida se hace encuentro con Cristo, que es la Palabra del Padre. Así nos hacemos testimonio suyo ante el mundo. Cristo nos ha contado los designios salvíficos de Dios sobre toda la humanidad (Jn 1,18). "Los secretos de Dios nadie los ha podido conocer, sino el Espíritu de Dios" (1Cor 2,11). Jesús nos comunica el Espíritu para que conozcamos vivencialmente a Dios. |
El apóstol o evangelizador reclina su cabeza sobre el pecho de Jesús para captar su mensaje (Jn 13,2325). S6lo Jesús nos puede revelar al mismo Dios tal como es. Otras experiencias religiosas contemplativas no nacen de la visi6n de Dios, por buenas que |
sean. "Nadie conoce al Padre" sino Jesús Un 6,46). El nos invita a entrar en e1 camino de la contemplación, que es camino de silencio y camino de fe en los signos pobres de Iglesia, donde el se manifiesta y comunica. |
Jesús es la sabiduría personal de Dios (Sab 9,1-9), que podemos captar en el silencio de la adoración y del servicio a los demás (Sab 18,14). El esplendor de la gloria del Padre (Heb 1,3) es Jesús, como Palabra que esta en e1 seno del Padre (Jn 1,18), y que ahora penetra y transforma toda la creación, toda la historia y todos los corazones (Sab 18,15). |
2. Dios es mayor que nuestro corazón |
Si nuestro corll.t6n nos arguye, Dios es mayor que nuestro coraz6n y conoce todo. |
(1 In 3,19) |
La gran sorpresa de nuestra vida cociste en ir descubrien |
do que Dios es mayor que nuestra conciencia y que |
nuestro corazón. En Cristo, el Verbo hecho hombre, |
nuestro barro queda asumido definitivamente para |
hacerse transparente y poder reflejar el rostro de |
Dios y la vida divina. Nuestra contingencia se hace |
vida eterna. En Cristo, protagonista de nuestra his |
toria, descubrimos a Dios amor trascendente, que |
hace entrar nuestra historia en la eternidad. "En él |
vivimos, nos movemos y somos" (He 17,28). Pero |
vamos a un "más allá" infinito, donde veremos lo |
que hasta ahora "ni ojo vio, ni el oído oyó, ni vino |
a la mente del hombre lo que Dios ha preparado .para los que Ie aman" (1 Cor 2,9). |
A partir de nuestro barro y de nuestra realidad contingente, buscamos, pensamos, deseamos... A veces nos entusiasma un pensamiento 0 un sentimiento sobre Dios; pero Dios es siempre más allá. Constatar |
esta realidad es señal de que ya hemos comenzado a encontrarle de verdad, sin espejismos. |
De nuestro pensar, sentir y amar hemos de ir pasando a la adoración, admiración y silencio contemplativo, que es siempre plenamente activo. Es la alegría filial del intuir las maravillas del amor de nuestro Padre Dios. Si nos apoyamos en nuestros fervores y conquistas momentáneas, la palabra de Dios y aun su presencia nos produciría sequedad; si admitimos gozosamente la infinitud del misterio de Dios, entonces su palabra y su presencia nos resultarán siempre nuevas, como si ya comenzaremos a estrenar en nuestro presente una eternidad sin fin. |
3. Dios es amor |
EI que no ama no conoce a Dios, porque Dios es amor... Y nosotros hemos conocido y creído en el amor que Dios nos tiene. Dios es amor, y el que vive en amor permanece en Dios y Dios en el. |
(1 Jo 4,8.16) |
Dios es elsumo bien que sostiene nuestro ser porque lo ha creado por amor. Dios es siempre fiel a este amor; su nombre es precisamente "Yavé", el que es fiel al amor, sosteniendo nuestro ser caduco con la fuerza de su ser eterno (Ex 3,14). Dios es amor, Dios es luz (1 Jn 1,5), Dios es Espíritu Un 4,25). El amor que Dios muestra al hombre tiene dimensión esponsal 0 de alianza. Es el amor del buen pastor, que conoce amando (Jn 10,14). Es amor de comunión entre el Padre, el Hijo y el Espíritu Santo, que invita al hombre a participar en esta misma comunión divina. |
Dios se da a conocer amando. La máxima expresión de este amor consiste en habernos dado a su Hijo para que vivamos por el Un 3,16ss). Por este amor nacemos como hijos de Dios (1 In 4,7-8). |
El amor divino es fuente de la divinización del hombre, que se demuestra en el amor a los hermanos. Toda la acción de Dios en la creación y en la historia consiste en querer hacer del hombre una expresión libre de donación y amor. Gracias a la encarnación, ya podemos vivir en Cristo y transformar toda nuestra vida en expresión del amor. Con Cristo hacemos que nuestras vidas se construyan como una actitud permanente de escucha y respuesta a la palabra de Dios amor. |
Hasta los detalles mas pequeños de la vida y de las cosas dejan transparentar un amor eterno que se hace cercanía de Padre, madre, hermano y esposo, invitando a afrontar la vida y a convivir con los hermanos para construir el himno universal de respuesta al amor. |
4. £l nos am6 primero |
En eso está el amor, no en que nosotros hayamos amado a Dios, sino en que el nos amó y envió a su Hijo como propiciación por nuestros pecados... Amemos a Dios, porque él nos amó primero. |
(1 In 4,10.19) |
Amar a Dios es posible. El tiene la iniciativa de este amor (Jn 3,16), pero espera una correspondencia libre del hombre: "Si alguno me ama, yo me manifestare a él" (In 14,23). Podemos entrar en las intimidades trinitarias de Dios porque Jesús nos ha comunicado el Espíritu Santo, que nos hace hijos de Dios. Jesús hace resonar en nuestro corazón su dialogo con el Padre en el Espíritu Santo. |
Dios mantiene la iniciativa de su palabra; no se deja manipular por nuestras planificaciones y nuestras ansias de eficacia inmediata. Su palabra escapa a las construcciones de laboratorio y a los personalismos. |
Dios sigue teniendo su iniciativa en el amar a cada persona y a cada comunidad, concediendo sus carismas como el quiere, sin ceder el liderazgo a los intereses de nadie. Pero su palabra resuena en el amor de los hermanos, especialmente de aquellos que reflejan el amor del buen pastor, inmolando al servicio de los demás los propios carismas. Al Padre no lo conoce nadie, sino el Hijo y aquellos a quienes el Hijo les comunica esta ciencia del amor (Mt 11,25-30). En el corazón de Dios solo se entra con actitud de hijo. |
5. Todos invitados |
El amor de Dios hacia nosotros se manifiesta en que Dios envió al mundo a $U Hijo unigénito para que nosotros vivamos por cl. |
(I In 4,9) |
Dios nos ha dado a su Hijo para que nuestra vida sea una participación en su ser y en sus vivencias. La vida se transforma en un encuentro vivencial con Cristo. No es posible este encuentro sino a través de los signos pobres de su "carne", que ahora se concretan en la eucaristía, palabra, sacramentos, comunidad de hermanos... El Verbo hecho hombre vive en su "complemento" que es la Iglesia (Ef 1,23). No es posible la contemplaci6n cristianasi no es a partir de una fe profunda en el misterio de la Iglesia, que se encuentra ya en germen en cada corazón humano. |
Dios ha dado a su Hijo para la salvación del mundo, es decir, para el bien de todos. Jesús se ha ofrecido como protagonista y propiciación por los pecados de todos (1 In 4,1.0). El conocimiento vivencial de Dios no es exclusivo de ningún grupo ni de ninguna persona concreta, por privilegiada que parezca. El don de Dios aparece como tal cuando refleja |
a Dios amor, padre de todos. Esta es la doctrina de Juan, el discípulo amado, en contra de las primeras sectas. |
La comunión de los hombres con Dios tiene lugar en el encuentro con Cristo y en el cumplimiento de su mandato nuevo del amor. Entramos en el corazón de Dios, como hijos, solo cuando queremos vivir en sintonía con su Hijo amado y con todos los hombres, que están llamados a ser hijos de Dios. Sintonía quiere decir compartir responsablemente la vida, afrontando, como hermanos en Cristo, los acontecimientos de una historia que camina hacia el encuentro definitivo con Dios. |
Caminos de contemplación (In 1,1-18; I In) |
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LOS SIGNOS POBRES DE UNA IGLESIA CONTEMPLATIVA Y MISIONERA
Escrito por Super User
CUARTA PARTE |
LOS SIGNOS POBRES DE UNA IGLESIA CONTEMPLATIVA Y MISIONERA |
Hay dos niveles básicos en el encuentra de los disépalos can Cristo resucitado: la constataci6n de su resurrecci6n (cf. Jn20,19-20) y la misi6n que Cristo les confía de anunciar su salvaci6n a todos los hombres (cf. Jn20,21-23). La comunidad de los creyentes en Cristo resucitado se hace prolongación del mismo Cristo en el mundo, can el dinamismo del Espíritu Santo. La Iglesia prolonga a Cristo porque participa de su misma misión. EI momento inicial más fuerte de esta Iglesia misionera es el encuentro con Cristo resucitado que comunica su Espíritu. |
El sepulcro vacío lo vieran todos. Las palabras de Jesús sobre su resurrección eran todavía recientes. S6lo faltaba el salta a la fe. Si el sepulcro estaba vacío, es que Cristo había resucitado. Bastaba con creer en las palabras del Señor. Pera Cristo quiso también el signo eclesial del hermano: las apariciones, que reforzarían el testimonio apost6lico. |
Efectivamente, cada uno que encuentra a Cristo resucitado se conviene en signa de su resurrección. EI Espíritu Santo continua suscitando esta fe en el corazón de los que escuchan humildemente el testimonio apost6lico (He 2,32-38). Es el Espíritu Santo, enviado por Jesús, el que hace posible el encuentro personal y contemplativo de cada uno can Cristo resucitado; y es el mismo Espíritu el que actúa en las comunidades eclesiales, suscitando en ellas la comunión 0 fraternidad como signo portador de Cristo. Esta acci6n del Espíritu es siempre en relaci6n al |
testimonio apostólico de los doce 0 de sus sucesores, como instrumento del mensaje y de la persona del Señor. |
En la resurrección aparece todo el significado de la encarnación: "El Verbo ha asumido la carne para que nosotros pudiéramos recibir el Espíritu Santo" (san Atanasio). El camino del encuentro con Cristo, |
en el campo de la contemplación, de la perfección y de la misión, será siempre "camino del Espíritu" (Rom 8,4), "vida según el Espíritu" (Rom 8,9), es decir, "caminar en el amor" (Ef 5,1). |
Cristo resucitado se hace encontradizo con cada apóstol y discípulo bajo signos pobres. El camino del encuentro es siempre camino de pobreza. Jesús mismo ayuda a descorrer el vela de la fe. En cada época histórica, el Espíritu Santo, enviado por Jesús, comunica el don de la fe para encontrar al Señor en el "aquí" y "ahora" de todos los días y circunstancias. Solo así se explica la ininterrumpida cadena de amigos, testigos y apóstoles de Cristo que, como él, están dispuestos a dar la vida por el evangelio. La fe necesita de la palabra de Jesús predicada por los testigos que lo han visto 0 encontrado. La Iglesia, como comunidad de creyentes, seguirá siendo el lugar del encuentro del hombre con Cristo resucitado. |
EI sepulcro vacío, constatado históricamente, ayuda a leer, en la gran "ausencia", los signos de una presencia más honda de Cristo. Solo la fe, que es don de Dios y que necesita la palabra revelada y predicada, puede dar el salto al encuentro con el Señor resucitado. Su presencia ya no está condicionada por el espacio y el tiempo, porque es e mismo, con su misma carne; el que ha resucitado: "Palpadme y ved" (Lc 24,39). |
Jesús ha querido mantener en su cuerpo glorioso las señales de la crucifixión (Jn 20,20.25.27). La cruz |
sigue siendo la fuerza victoriosa de nuestra redención. Solo ella da sentido a la vida "martirial" de tantos seguidores de Jesús que han dado la vida como él: amando y perdonando. La actitud racionalista y gnóstica de querer pasar de la cruz a pentecostés sin creer en la resurrección corporal de Jesús seria inconsistente y estéril. La fe, según el evangelio de Juan, se basa en la carne humillada de Cristo, que se transforma en carne gloriosa para dejar entrever su divinidad y para conseguir nuestra salvación de hombres de carne y hueso. Las teorías cómodas no ayudan a la fe ni a las exigencias evangélicas, porque quieren escapar del escándalo de la cruz, que se hace gloriosa sin dejar de ser cruz y carne humillada. No habría experiencia de Dios sin entrar en sintonía con el misterio del hombre desvelado por Jesús resucitado, que sigue siendo Dios y hombre verdadero. |
Una fe 0 una oración contemplativa que fuera solo encontrarse con el "espíritu" de Cristo (sin su cuerpo resucitado) no se diferenciaría del encuentro con el "espíritu" de tantos fundadores de religiones que existieron en el pasado y que son "revividos" en la mente de sus discípulos. Solo Jesús es el Hijo de Dios hecho hombre, que nos puede hacer entrar en la experiencia de Dios amor. Y es por medio de su carne, ya gloriosa, como Cristo nos ha salvado (Jn 1,14). |
La vida humana ya es hermosa, porque se descubre en ella a Dios amor, que es infinitamente bueno. EI miedo a los fantasmas, a las ideologías abstractas, a las intimidaciones y a las mismas fuerzas del mal se desvanece ante la luz de Jesús de Nazaret resucitado. EI espíritu del mal no podría hacernos absolutamente nada si no encontrara en nosotros harapos de seguridades humanas 0 de gustos "espirituales" a los que hemos pegado el corazón. |
"Cristo resucitado convierte la vida en una fiesta |
continua" (san Atanasio). Pero es fiesta de pascua, que "pasa" por la cruz a la luz. La resurrecci6n de Jesús es la protesta de Dios contra la muerte y las opresiones, invitando a todos a pasar del odio. al amor de la muerte a la vida. Jesús ya ha vencido toda clasede mal; pero quiere nuestra colaboración de reaccionar en el amor para llegar a la victoria y glorificación definitiva. Este es el camino de Jesús liberador, resucitado con su mismo cuerpo, que anuncia y realiza la liberaci6n, transformando. la cruz y la opresión en el acto supremo de dar la vida por amor. Así se ha revelado Dios salvador del hombre en toda su integridad. |
La fe pascual es pasar de la ausencia de un sepulcro vacio a la presencia de Jesús resucitado. La. fe es don de Dios, que se apoya en la Escritura predicadapor el testimonio apostólico. Los apóstoles vieron el sepulcro vacio y al Señor crucificado vivo con. una vida gloriosa, que ya será eterna. El testimonio de Pedro y de los doce garantiza esta fe (aparición a Pedro). El testimonio de Juan, el discípulo amado, indica, al mismo tiempo, que no hay encuentro vivencial con Cristo sin la fe contemplativa, que es conocimiento y amor de amistad (Jn 14,21). Pedro y Juan se complementan en todo el evangelio del |
"discípulo amado". Intentar contraponerlos sería hacer una caricatura del cuarto evangelio, que cerraría el paso a la fe, a la contemplación y al mandato del amor. La fe pascual es, al mismo tiempo, sumisi6n a la palabra de Dios y comuni6n de amistad y de vida con Cristo resucitado. |
El encuentro con Cristo, que es fe y contemplación a la vez, se hace misión por encargo del mismo Jesús resucitado:· "ve a mis hermanos" Un 20,17). Es la misma misi6n de Jesús, prolongada en la Iglesia (Jn 17,17-19), quien infundio ("soplando") su Espíritu (Jn 20,22) para indicar una transformación radical, a modo de nueva creaci6n que recupera con |
creces e1 rostro primigenio del hombre (Gen 2,7; Ez 37,9). Es la transformaci6n por la participación en su consagración 0 unción (Jn 10,36). No hay misión sin consagración, porque la misión de Jesús es totalizante y atrapa al enviado ("apóstol") para toda la vida. |
No hay misión sin comunión eclesial. Jesús resucitado se hace presente hoy a través de los signos pobres de una Iglesia misionera. A este sentido y amor de Iglesia no se llega sino a través de una actitud contemplativa que descubre a Jesús en los signos pobres que el mismo se ha escogido para llegar a lo más hondo de cada corazón. |
Apoyado en Cristo resucitado, el creyente y apóstol pasa del miedo a la paz y al gozo, del odio y del pecado al perdón. Por la fuerza del Espíritu enviado por Jesús, el apóstol se hace anunciador del gozo, de la paz y del perdón de Cristo resucitado. Es la buena nueva 0 "alegre noticia", que necesita evangelizadores llenos de "gozo pascual". Es el gozo que el Espíritu Santo comunica cuando vamos pasando por el proceso contemplativo de desierto, de Nazaret, de la cruz y del sepulcro vacio. Es el gola de una sorpresa: haber encontrado los signos del resucitado donde parece resonar sólo el silencio de un sepulcro vacío. |
Cristo resucitado, entonces y ahora, transforma a hombres deshechos por el miedo en hombres enviados ya rehechos por 1a fe, la esperanza y la caridad, plasmados en una vida de amistad e intimidad con e. El proceso que sigue Jesús para comunicar esta vida contemplativa y apostólica es siempre el mismo: cuando nos vamos despojando de todas nuestras seguridades humanas, el se deja entrever en un "sudario" 0 en un movimiento del corazón... |
1. Pedagogía del encuentro con Jesús resucitado (Jn 20,1-18) |
1. Sepulcro vacío |
El día primero de la semana. María Magdalena vino al sepulcro muy de madrugada. cuando aún era de noche. y vio quitada la piedra del sepulcro. Corrió y vino a Simón Pedro y al otro discípulo a quien Jesús amaba, y les dijo: Se han llevado del sepulcro al Señor y no sabemos dónde lo han puesto.(Jn20.1-2) |
En un sepulcro vacío apareci6 el destello de una nueva creaci6n. Fue la aurora de la nueva pascua. El sábado, como séptimo día, ha dejado "paso" al nuevo día, el "domingo" 0 día del Señor. Sera ya el día definitivo. Para este primer anuncio Dios se vale de Magdalena, de Pedro y de Juan. En ellos ya había comenzado una vida nueva en el Espíritu y, por esto, podían comprender el significado de un sepulcro vacío, a la luz del coraz6n abierto de Cristo y de todo el mensaje evangélico. Las categorías humanas comienzan a tambalearse ante esta nueva luz contemplativa, que parece oscura porque deslumbra. |
El "no saber" de una 16gica caduca comienza a ser fe de una 16gica totalmente nueva. Se desmoronan nuestros mejores planes para dejar paso a la gracia, que nos había urgido a elaborar esos mismos planes. Dios salva al hombre por medio del mismo hombre, con tal de que este reserve para Dios la iniciativa de su palabra, de gracia y de la salvación. |
En Jesús, los "tres días" de sepulcro fueron tan redentores como otros momentos de su existir. Por esto nos pertenecen; son nuestra misma biografía (Rom 6,4). Nuestros momentos de sepulcro vacío se pueden hacer destello de esperanza a la luz de la fe |
en Cristo resucitado. Lo único que queda es la huella imborrable del amor. El cuerpo de Jesús resucitado ya no necesita lienzos, ni sudario, ni sepulcro, ni ungüentos; tan s6lo necesita los velos pobres de una Iglesia peregrina y de un caminar contemplativo y los ungüentos de nuestra fe de adhesi6n personal. |
2. Amar para creer |
Salió. pues. Pedro y el otro discípulo y fueron al sepulcro... El otro discípulo llego el primero... e inclinándose, vio los liemos, pero no entró. Llegó Simón Pedro después de él, y entro en el sepulcro y vio las fajas allí colocadas, y el sudario que había estado sobre su cabeza... envuelto aparte. Entonces entro también el otro discípulo..., vio y creyó; aun no se habían dado cuenta de la Escritura. según la cual era preciso que el resucitase de entre los muertos. |
(Jn 29.3-9) |
Quien está enamorado descubre fácilmente las huellas de la persona amada. El amor tiene una lógica más profunda que se llama "intuici6n". En alas del amor, Juan lleg6 corriendo al sepulcro vacío; su respeto por el carisma de Pedro le hizo esperar, pero su amor contemplativo ya le hizo intuir una presencia de Cristo en las huellas de unos lienzos plegados. Entr6 con Pedro y vio los signos pobres que había dejado el Señor, y dio el salto a la fe. El amor es así. El verdadero conocer teológico arranca de una fe de enamorado. "Si alguno me ama, yo me manifestare a él" (Jn 14,2.1). |
Pedro y Juan se complementan (He 3,1). Para creer se necesita apoyarse en el testimonio apost61ico; pero la aventura de la fe viva en Cristo resucitado presente sigue siendo obra del amor, que en cada uno es irrepetible e irreemplazable. |
No conocían todavía el sentido de la Escritura sobre |
la resurrección del Señor, hasta que el mismo Jesús resucitado les concedi6 este don (Lc 24,45). Pero si recordaban sus palabras misteriosas sobre una muerte gloriosa (Jn 12,32) y una sepultura llena de perfumes (In 12,7). A Jesús le gusta darnos la sorpresa de manifestarse a través de signos pobres (los lienzos plegados), para despertar en nosotros la intuici6n que se llama amor contemplativo. De la noche pasamos al día verdadero. Y una soledad que parece vacía se nos hace presencia cariñosa del amado. |
3. Llamados por el nombre |
María se quedó junto al sepulcro, fuera, llorando... Han tomado a mi Señor y no sé dónde lo han puesto... Se volvi6 para atrás y vio a Jesús que estaba allí, pero no conoció que fuera Jesús. Díjole Jesús: Mujer, ¿por qué lloras7, ¿a quién buscas7... ¡María! Ella, volviéndose, le dijo: ¡Maestro! |
(Jn 20,11-16) |
La búsqueda de Cristo se hace siempre dolorosa. Es el dolor y la queja de la esposa ante la ausencia del esposo (Cant 3,lss). Este dolor, que nace del amor, no se satisface ni se soluciona con nada ni con nadie, si no es can la presencia del amado. Hay que purificar el coraz6n para poder air en ese dolor del coraz6n, como una "brisa suave", el propio nombre pronunciado por Cristo resucitado. S6lo Dios amor nos conoce por este nombre (In 10,14), que él mismo grabó en lo más hondo de nuestro ser. Hay que aprender a beber en la fuente de su palabra y de su presencia, simplemente como un sediento, "denos 61 lo que quisiere, siquiera haya agua, siquiera sequedad" (santa Teresa). |
Hay que aprender a llamar a Jesús par su propio nombre, como él nos llama a nosotros. No se trata de simples palabras, todas ellas maravillosas: Jesús, |
Cristo, Señor, Maestro... Lo único que le gusta al Señor es que, al dirigirnos a él, hablando o callando, sufriendo o gozando, vea en nuestros labios que le damos nuestro ser como propiedad esponsal. |
"Maestro mío", para Magdalena, equivale a "mi amado para mí y yo para mi amado" (Cant 2,16). Así es la respuesta sencilla y sincera de quien se ha sentido interpelado y llamado también por su propio nombre, como declaraci6n de amor. Pero esta respuesta s6lo la puede dar un coraz6n de pobre, que ya considera todo como paja 0 basura en comparaci6n con la ciencia del amor a Cristo y a los hermanos (Flp 2,8s). |
4. La misi6n de ir a los hermanos |
Jesús le dijo: Déjame, pues aun no he subido al Padre; pero ve a mis hermanos y diles: Subo a mi Padre y a vuestro Padre, a mi Dios y a vuestro Dios. María Magdalena fue a anunciar a los discípulos: He visto al Señor, y que le había dicho estas palabras. |
(Jn 20,17-18) |
El encuentro definitivo con Cristo se prepara en esta vida par un proceso de búsqueda y encuentro que purifica nuestro coraz6n de todo lo que no suene a donación. Jesús nos invita a "pasar" con 61 al Padre. Es su pascua y la nuestra. Sus dones actuales son solo un ensayo pasajero que prepara una plenitud. Los dones de Dios no son Dios, pero ya contienen alga de vida eterna y definitiva.· |
La vida se hace "Pascua" con Cristo cuando la gastamos al servicio de sus intereses, que son los del Padre y que tienen par objetivo la salvaci6n de los hermanos. Para encontrar definitivamente a Cristo hay que ensayar el encuentro con él en los signos pobres del hermano. |
Del encuentro con Cristo se pasa a la misi6n. No se deja la uni6n y encuentro con él, sino que se le busca en otros signos escogidos por él. Los signos son diferentes, pero a nosotros nos interesa el. La misi6n es otro modo de encontrar a Cristo. Pero el encuentro de la misi6n se prepara en el encuentro de la contemplaci6n. Misi6n y contemplaci6n se complementan. Entrar en el coraz6n de Cristo es encontrarse con sus amores que urgen a la misi6n. Servir a Cristo en el hermano reclama la meditaci6n de su palabra y la intimidad con él presente en la eucaristía. El apóstol es testigo de un encuentro que fue y sigue siendo experiencia vivencial (I In 1,ls; Jn 1,41; 20,25). Cristo comparte con nosotros todo lo que es y tiene; también su relaci6n filial con el Padre. EI ap6stol de Cristo comparte generosamente con los hermanos todo lo que ha recibido de Cristo. |
2. Testigos de la palabra y de la presencia de Jesús (Jn 20,19-31) |
1. Paz y misi6n en el Espíritu |
Vino Jesús y, puesto en medio de ellos, les dijo: La paz sea con vosotros. Y diciendo esto, les mostr6 las manos y el costado. Los discípulos se alegraron viendo al Señor. Díjoles otra vez: La paz sea con vosotros. Como me envi6 mi Padre, así os envío yo... Sop1ó y les dijo: Recibid el Espíritu Santo. |
(Jn 20,19·22) |
El mensaje de Jesús es siempre de paz, gozo y perd6n (Jn 14,27). EI mismo es "nuestra paz" (Ef 2,14). El corazón y el rostro de los apóstoles comienzan a cambiar después de la experiencia de un sepulcro |
vacío. La palabra de Jesús resucitado presente disipa todo género de dudas y desanimo. Para continuar la misma misi6n de Cristo hay que tener en el coraz6n el gozo pascual, que es don del Espíritu y que se recibe cuando intentamos transformar el sufrimiento en donaci6n y servicio. La paz que comunica Jesús tiene un precio: disponerse a ser sembradores de la paz. Jesús regala su paz y su perdón; la actitud específicamente cristiana es la de vivir y morir amando, perdonando y anunciando la esperanza. |
La fe en Cristo resucitado transforma la vida en confianza y dinamismo de perfección y apostolado. Ya poseemos "las primicias del Espíritu" (Rom 8,23) como agua viva y nuevo nacimiento. Jesús nos comunica el agua que brota de su costado (In 19,34) y que había prometido en el templo como fruta de su misterio pascual (In 7,37-39). Es la nueva creaci6n, también ahora con el "soplo" del Espíritu (Gen 2,7). Nuestro barro se hace imagen de Dios participada de su Hijo Jesús. Nuestras cenizas y huesos resecos (Ez 37,9) reviven por la llama del Espíritu. |
La misi6n apost6lica es participaci6n en la unción y misión de Jesús por obra del Espíritu (In 10,36; 17,19). Ser apóstol de Jesús supone tener en el coraz6n la paz y el gozo pascual, que se hace unidad de vida en el propio interior y en la comunidad. |
2. El regalo del perd6n |
Recibid el Espíritu Santo. A quienes perdonareis los pecados, les serán perdonados; a quienes se los retuviereis, les serán retenidos. |
(Jn 20,22·23) |
EI evangelio de Juan esta siempre impregnado de perdón y compasión. EI Verbo encarnado se hace |
encontradizo con unos recién casados en apuros |
(c. 3), con un intelectual que busca la verdad (c. 3), con una pecadora que siente la nostalgia de una vida nueva (c. 4), con un pobre lisiado marginado por la sociedad (c. 5), con la muchedumbre que busca pan, verdad y vida (cc. 6-7), con un ciego de luz natural y de fe (c. 9)... A todos y a cada uno se acerca Jesús sin discriminación alguna. Las prioridades del Señor están en los que buscan y sufren. El perdón de Jesús no humilla, sino que restaura y reconcilia hasta hacer reencontrar el verdadero rostro de cada hombre, que debe reflejar a Dios amor. |
El sacramento del perdón es regalo de pascua. El retorno al Padre ("conversión" 0 penitencia) lo describeJesús con el caminar esperanzado del hijo que ansía el reencuentro en la casa paterna. Ese hijo es el mismo Jesús que "pasa" con nosotros al Padre y que, para ello, vive en el corazón de cada hijo prodigo. |
. La sorpresa del perdón que nos regala Jesús consiste en que, en este nuestro encuentro "sacramental", escuchamos su misma voz de buen pastor que perdona y l<i voz del Padre que nos llama, también a nosotros, "hijo amado" (Mt 3,17; 17,5). Así se explica el gozo y la fiesta de las parábolas de la misericordia (Lc 15). En el sacramento de la penitencia celebramos la pascua 0 paso al corazón de Dios. La voz del ministro que absuelve y el dolor y la contestón del penitente son ahora, bajo esos signos pobres sacramentales, voz y gestos de Jesús resucitado presente. |
3. Testimonio apost6lico y fe |
Tomás no estaba con ellos cuando vino Jesús... Pasados ocho d(as, vino Jesús... Luego dijo a Tomas: Alarga acá tu dedo yaqui tienes mis manos, y |
tiende tu mano y métela en mi costado, y no seas incrédulo, sino fiel. Respondi6 Tomas y dijo: Señor m(o y Dios mío! Jesús le dijo: Porque me has visto has creído; dichosos los que sin ver creyeron. |
(Jn 20.24-29) |
Los apóstoles habían visto al Señor resucitado y habían escuchado sus palabras. Era el mismo quien les mostro sus manos y sus pies con sus llagas gloriosas (Lc 24,39-40) y les invito a tocar su mismo cuerpo glorificado. Es verdad que para creer no se necesitaban las apariciones, puesto que eran suficientes las palabras del Señor, que ya había anunciado su resurrección. Pero Jesús quiso darles estos signos externos par<i ayudar a su debilidad y a los que creerían por medio de ellos, |
El testimonio apostólico consiste en transmitir el mensaje y la vida de Jesús juntamente con la propia experiencia de encuentro con el ya resucitado. La fe se incrementa en las mismas palabras y gestos de Jesús, que llega a nosotros por el testimonio apostólico. Tomas, en un principio, no acepto estas reglas de juego y rechazo los signos pobres del testimonio fraterno. Luego, por la gracia misericordiosa de Jesús, él mismo se convirtió en pauta de la fe para los demás. Su oración se seguirá repitiendo hasta el final de los tiempos. |
Jesús esperaba de "los suyos" que dieran el salto a la fe apoyados en sus palabras y en los signos pobres de una presencia nueva: el sepulcro vacío, los lienzos plegados, el testimonio de los hermanos más humildes... Así lohizo el discípulo amado. Las bienaventuranzas evangélicas las resume Jesús en una sola: "Bienaventurados los que sin ver creen". El "ver" de la fe es más profundo que el "ver" de la constatación racional y empírica. Jesús quiere el "ver" de la fe, que compromete el corazón y que se concreta en amistad y adhesión personal a él y a su |
mensaje. Es el compartir la vida con él. Es la fe de aceptar a Cristo tal como es, "meditando en el corazón" (Lc 2,19.51). La bienaventuranza evangélica sobre la fe recuerda la fe de María, como modelo de la fe de la Iglesia, consorte de Cristo: "Bienaventurada tu que has creído" (Lc 1,42). |
4. Fe y vida |
Muchas otras señales hizo Jesús en presencia de |
los discípulos, que no están escritas en este libro; y |
. estas fueron escritas para que creáis que Jesús es el |
Mes{as. Hijo de Dios, y para que creyendo tengáis |
vida en su nombre. |
(Jn 20,30-31) |
Todos los signos de Jesús son expresión del Verbo hecho hombre. En la carne humillada y gloriosa de Jesús se transparenta la divinidad del Hijo de Dios. Por esta carne, ahora glorificada, Jesús nos ha salvado. EI resumen de todos los signos evangélicos es el mismo cuerpo de Jesús, con sus llagas abiertas y gloriosas. |
Juan ha auscultado los signos, es decir, los gestos y palabras de Jesús, reclinando su cabeza sobre su pecho, intuyendo sus amores y adorando su misterio (In 13,23). Es la actitud mariana de aceptar las palabras de Jesús, haciendo de la propia vida una asociación esponsal a su obra salvífica. María es "la mujer" modelo de esta fe y desposorio para la Iglesia y para todo creyente (In 2,1-5). Vida cristiana contemplativa equivale a compartir esponsalmente los amores y el misterio de Cristo, a oscuras y en alas del amor.. |
Quien ha encontrado a Cristo en sus gestos y en sus palabras meditadas en el corazón bajo la acción del Espíritu descubre que todo lo que decimos sobre |
Cristo no es más que un balbuceo. Por esto prefiere el silencio 0 las pocas palabras, como invitando a otros a experimentar a Cristo por el camino de la fe contemplativa y de una amistad inquebrantable. Es como repetir las palabras de Jesús: "Venid y ved" (Jn 1,39), por las que Juan estrena su propia experiencia. Para pasar a esta fe hay que aceptar la propia "soledad" de los actos responsables. Nadie nos puede suplir, aunque todos los hermanos nos ayuden. Es la fe de admitir vivencialmente a Cristo como Hijo de Dios hecho hombre, resucitado, que nos comunica su propia vida divina y que nos hace parte integrante de su propio existir (In 15,lss). Escrito el evangelio, Juan se sintió feliz porque su propia existencia ya podía resolverse en ser huella imborrable de Cristo resucitado. |
3. Presencia de Cristo en la comunidad eclesial (In 21,1-14) |
1. Caminar de hermanos |
Díjoles Simón Pedro: Voy a pescar. Los otros le dijeron: Vamos también nosotros contigo... En aquella noche no pescaron nada. Llegada la mariana, se hallaba Jesús en la playa, pero los discípulos no se dieron cuenta de que era él. D{joles Jesús: Muchachos, ¿no tenéis a mano algo que comer? Le respondieron: No. El les dijo: Echad la red a la derecha de la barca y hallareis. La echaron, pues, y ya no podían arrastrar la red por la abundancia de peces. |
(Jn 21,2-6) |
En el corazón de los apóstoles comenzaba a reinar el amor fraterno. Sentían necesidad de encontrarse |
para compartir la fe y la vida de seguimiento apostólico. Se comenzaba a cumplir la oración sacerdotal de Cristo: ~'Que sean uno" (Jn 17,Iss). El camino es largo; por esto hay que saber pasar juntos noches oscuras, insomnios y fracasos. Lo importante es que Cristo se hace presente en e1 momento oportuno, con tal de que entre "los suyos" reine el amor de armonía fraterna y de comunican. En realidad, el Señor ya estaba presente al principio cuando decidieron trabajar y caminar juntos como los dos de Emaús (Lc 24,15). |
Jesús se hace presente y habla por medio de acontecimientos y signos cotidianos. Sus palabras se entienden de verdad cuando, a su luz, afrontamos la vida con realismo y amor. Las situaciones humanas hay que vivirlas experimentándolas desde dentro y, desde allí, buscar la luz en las palabras y la presencia de Cristo. Buscar luz en otra parte seria entrar en un callejón sin salida, que produciría la ruptura de la comunican eclesial. |
Los acontecimientos se hacen signos de la presencia y del mensaje de Cristo, con tal de que respetemos la iniciativa de su palabra revelada. Un peregrino 0 emigrante en las arenas del litoral y de la marginaci6n puede ser Jesús. Una palabra y una mana que se extiende hacia nosotros para pedir 0 para dar puede ser la suya. La comunidad de hermanos en Cristo esta siempre abierta a todos, los de dentro y los de fuera, porque cada uno de nuestros pr6jimos, sin excepci6n, es portador de un deseo y de un mensaje de Cristo. |
2. Mirada contemplativa |
Dijo entonces aquel discípulo a quien amaba Jesús: ¡Es el Señor! Así que oyó Simón Pedro que era el Señor, se ciñó la sobre túnica, pues estaba desnudo |
202 |
y se arrojo al mar. Los otros discípulos vinieron en la barca... tirando de la red con los peces. |
(Jn 21,7-8) |
Las personas que se aman se comprenden con una sencilla mirada. Es un mirar en el que se compromete todo el corazón y todo el ser. Es el "mirar de una vez" (san Francisco de Sales). Sin esta mirada amorosa, contemplativa, no descubriríamos a Cristo en los acontecimientos, en e1 hermano, en la Escritura, en la eucaristía, en los sacramentos, en la comunidad, en nosotros mismos... Por esto nos perdemos tantas veces el meollo y la clave de los acontecimientos. Entonces no vemos a Cristo en el rostro humilde de un hermano, y las palabras evangélicas nos menan a rutina y monotonía. |
EI grito de Juan es su mirada amorosa, que descubre la "gloria" 0 divinidad de Cristo bajo los signos pobres de su carne. Todo el evangelio está redactado con esta luz de la fe: "¡Es el Señor!" Los mismos gestos y palabras de Jesús, que todos habían visto y oído, hay que repensarlos 0 releerlos con la luz de un enamorado que ya ha encontrado a Cristo: "Hemos visto su gloria". |
No basta con mirar; hay que comprometerse. La mirada contemplativa lleva a la entrega y a la misión comprometida. Cada hermano sirve a los demás según su propio don 0 carisma, y reconoce gozosamente en los hermanos los dones que ellos han recibido. Así es la "comunican de los santos" ya desde esta tierra. Juan y Pedro se complementan siempre, como en la narración evangélica. Pedro no podía esperar más; necesitaba de la cercanía y mirada amorosa de Cristo. Los otros discípulos aportaron sus brazos con un gesto nacido también del corazón. Jesús ama a todos ya cada uno con un amor irrepetible, que se convierte en misión y responsabilidad irreemplazable. Las envidias y los celos son estériles |
y destruyen los dones recibidos. Cada uno debe vivir su carisma en e1 "anonimato" de servir a todos para que todos se sientan amados y realizados. Seguir a Cristo dejándolo todo es, principalmente, esta actitud de servir a Cristo en cada hermano, sin hacer tantas cábalas. Se ama y se hace amar a Cristo cuando uno se olvida de sí mismo. |
3. Signos de comuni6n |
Así que bajaron a tierra, vieronunas brasas encendidas y un pez puesto sobre ellas. y pan. Díjoles Jesús: Traed de los peces que ahora habéis pescado. Subió Simón Pedro y arrastro la red a tierra, llena de ciento cincuenta y tres peces grandes; y con ser tantos. no se rompió la red. Jesús les dijo: Venid y comed... Se acercó Jesús, tomó el pan y se lodio, e igualmente el pez. |
(Jn 21,9-13) |
Jesús siempre reserva a1guna sorpresa a sus amigos. Un pez sobre unas brasas y pan serán ya un símbolo cristiano para siempre. Jesús se ofrece continuamente como "pan de vida". Su existencia de resucitado continua siendo donaci6n, compartiendo su misma vida con nosotros. El mismo, ya resucitado, seguirá siendo camino, verdad, vida, luz, alimento. En la eucaristía nos lo ha dado todo, puesto que se da a sí mismo. Cada uno de sus discípulos ha preparado la eucaristía con su propio trabajo y convivencia comunitaria. Del encuentro con Cristo como Palabra se pasa a1 encuentro con él como "pan de vida". Es un encuentro personal y comunitario a 1a vez. Así aprendemos a compartir nuestra experiencia de Cristo con los hermanos. |
La iniciativa la sigue teniendo el Señor: "Venid y comed". Su presencia de resucitado esta en relaci6n con los signos pobres de la Iglesia, de los hermanos, |
de los acontecimientos. El cómo y el cuándo de su cercanía lo escoge él. |
A veces descubrimos a Cristo en una palabra del evangelio que nos produce una luz y un movimiento en el corazón. Entonces se redescubren las largas "noches" de espera activa como historia de un amor misericordioso que se acomoda a nuestra debilidad. Esta comunican contemplativa con Cristo se hace comuni6n ec1esial con los hermanos. El velo que nos separa de Cristo se rasga con una actitud de escucha y comprensi6n respecto a los hermanos. Cuando tendemos la mano a a1guien, nos encontramos siempre con la mano de Cristo. |
4. E:xamen permanente de amor (Jn 21,15'-25) |
1. Amar es servir |
Simón, hijo de Juan, ,me amas más que estos?... Por tercera vez le dijo: ,Me amas? Pedro se entristeció de que por tercera vez le preguntase..., y dijo: Señor, tú lo sabes todo, tu sabes que te amo. Díjole Jesús: Apacienta mis ovejas. |
(Jn 21,15-17) |
E1 evangelio no está escrito para diletantes, sino para enamorados y para quienes buscan sincera-' mente a Cristo. Se acierta a creer en Cristo cuando se lo lee con el corazón abierto. Cada palabra evangélica es un examen de amor. Y lo es también cada signo pobre en el que se esconde y se acerca el Señor. La figura de Jesús no admite ser reducida a 1a caricatura de un líder político-social. Pedro fue escogido para ser nuestro guía en este camino de fe, como |
quien "preside la caridad universal", es decir, la comunión eclesial de hermanos. Por esto primero le examinaron de amor, cuando parecía menos preparado. En ocasiones anteriores, antes de experimentar su propia pobreza y limitación, tal vez hubiera respondido con un "SI" estruendoso y superficial. Ahora el "sí" le nace del corazón, como de quien ya no tiene nada más que dar que a sí mismo. Es lo que le pedía el Señor, para que luego pudiera "confirmar a los hermanos" (Lc 22,32). |
Amor es servir a Cristo en los cargos y circunstancias mas humildes, que no están de moda 0 que son rechazados por todos. A Pedro le pidieron si estaba dispuesto a amar incondicionalmente, aceptando también este servicio sin compensaciones humanas que se llama el pastoreo. Porque el "sí" supondrá renunciar a ventajas temporales, a preferencias c6modas y a éxitos inmediatos aplaudidos por la galería. |
Amar es servir en los últimos puestos, sin pensar y sin comentar demasiado que son los últimos; basta con que Cristo este ahí y me haya encargando esta misi6n. Pedro dijo que "sí" y se convirti6 en elsigno principal de Cristo cabeza, que es modelo para toda la grey y para todos los pastores (1 Pe 5,1-5). Su punto de apoyo será ya s6lo la mirada amorosa de Jesús, que conoce perfectamente el coraz6n débil y grande de "los suyos". Todo cristiano tiene su parte en la colaboración con el pastoreo de Pedro y de sus sucesores: contemplaci6n, sufrimiento, misi6n, servicio... La mirada y el "conocer" amoroso de Cristo sostienen nuestro "sí". |
2. El ultimo "sígueme" |
En verdad, en verdad te digo: cuando eras joven, tú te ceñías e ibas donde querías; cuando envejezcas |
extenderás tus manos y otro te ceñirá y te llevara a donde no quieras. Esto lo dijo para indicar con qué muerte había de glorificar a Dios. Después añadió: Sígueme... Si yo quiero que éste permanezca hasta que yo venga, ,a ti qué? Tú sígueme. |
(Jn 21,18-19.22) |
Compartir la vida con Cristo significa hacer de la propia existencia una donaci6n. Se acabaron las ocurrencias y los ensayos; nuestras manos deben extenderse generosas en la cruz de Cristo. EI vivi6 y muri6 amando. La cruz, para ell buen pastor, no es derrota, sino el momento supremo de dar la vida por amor (Jn 10,15). ASI es el amor de Cristo y así debe ser el de "los suyos". No existe la casualidad. Aunque otros nos arrastren, marginen y crucifiquen, en realidad es Dios amor quien dirige la historia, la de su Hijo querido y la nuestra. |
Hay que decidirse por ese "monaquismo" de afrontar los acontecimientos con la perspectiva del amor, encontrando siempre la oportunidad de servir a los demás olvidándonos de nosotros mismos. La vida se hace desposorio principalmente en las circunstancias anodinas. "Sígueme". ¿ A dónde, cómo, por qué? .. Después del examen de amor, ya no tienen sentido esas preguntas. Tenemos ya bastante con la presencia y la llamada de Cristo: Jerusalén, Antioquía, Roma... Ya se dejaron atrás los cálculos y miras humanas. |
EI "sígueme" se hace misi6n ("id"), presencia, permanente ("estaré con vosotros") y promesa de encuentro definitivo ("volveré"). La vocaci6n y la misión mantienen su ritmo de desposorio gracias a la espera activa (Ap 22,20), que se entrena todos los días en la celebración eucarística (I Cor 1l,26). La crucifixión de Pedro en los jardines de Ner6n, martirizado con unos centenares de cristianos, será siempre un signo que confirma la fe de los creyentes (Lc 22,32). Esta historia de amor de tantos cristianos que |
dan la vida en el anonimato (contemplación, misión, servicios), forma, juntamente con Pedro y sus sucesores, el testimonio apostólico: "Nosotros somos testigos" (He 2,32). Es el camino fraterno y misionero hacia el corazón de Dios amor. |
3. Mucho más |
Este es el discípulo que da testimonio de esto y que lo ha escrito, y sabemos que su testimonio es verdadero. Muchas otras cosas hizo Jesús, que, si se escribieran una por una, creo que este mundo no podría contener los libros. |
(In 21,24-25) |
Juan da testimonio de Cristo, el Verbo 0 Palabra de Dios, para llamar a la fe como encuentro y adhesión personal con el (Jn 20,31). Atestigua lo que ha visto y oído: "la Palabra de la vida" (I In 1,lss). A través de la carne 0 humanidad de Cristo y de sus signos ha descubierto al Hijo de Dios, el Señor resucitado, la "gloria" 0 esplendor del Padre. Su mirada de fe ha pasado de lo sensible e histórico a lo trascendente y eterno. Su testimonio se complementa con el de Pedro y los demás apóstoles, que vieron en Cristo la gloria de su filiación divina y escucharon en él la voz del Padre (2 Pe 1,16-18). Ha encontrado a Cristo quien ha visto y escuchado en el al Padre, a Dios amor (Jn 14,9). |
Quien está enamorado de Cristo, cuando habla o escribe sobre él, siempre le parece que ha dicho poco, casi nada. Juan es testigo del infinito. La contemplaci6n es la oración de los pobres, que se sienten llamados a convertirse en hijos en el Hijo. Por esto se prefiere el silencio de la adoración y de la donación. Las palabras que se escriben 0 se dicen valen por lo que dejan entrever. Al orar y al hablar, el |
silencio es más importante que las palabras, con tal que no sean silencio vacío y egoísta. |
El silencio contemplativo vislumbra siempre un mas allá o un "mucho más" admirable. A los enamorados de Cristo les parece que nunca llegan a decir lo mejor, pero intentan balbucearlo de nuevo. La oraci6n contemplativa es encuentro con Cristo, que ofrece el agua viva a los que se sienten pobres. Por esto llegamos a la fuente para beber en ella, pero aceptando con gozo la realidad de ese "mas allá", que es el "misterio" 0 el corazón de Dios amor y que un día será visión y posesión (l In 3,2). |
Caminos de contemplación (Jn 20-21) |
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• Hay que dejarse cuestionar por el amor que Dios nos manifiesta en Cristo: |
su mirada desde cada signo de la creaci6n, de |
la historia y de la Iglesia; |
escondido en el coraz6n del hermano; |
esperando. desde cada pueblo y cultura, nuestra |
transparencia evangélica y evangelizadora; |
su llamada a colaborar en la preparaci6n del |
encuentro definitivo de toda la humanidad |
con él. |
• En el encuentro cotidiano con Cristo resucitado descubrimos que Dios nos ama tal como somos, que le podemos amar y hacerle amar. EI gozo de este encuentro nos hace "evangelizadores", es decir, testigos de la esperanza, sembradores y constructores de la paz. |
• Vale la pena vivir intensamente el presente en la perspectiva de un "mas allá", "hasta que vuelva", porque "hemos visto su gloria". |
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Más...
TERCERA PARTE |
EL SIGNO DE JONAS, BODAS DEFINITIVAS: LA PASCUA |
(Jn 13-19 ) |
La narraci6n de la cena y de la crucifixi6n según san Juan (In 13-19) constituye el libro de la "gloria" |
o de la exaltaci6n de Jesús. Es su "paso" 0 pascua hacia el Padre. |
Por su amor hasta "dar la vida", Jesús, el Verbo encarnado, se manifiesta como el "esplendor" y epifanía personal del Padre. Jesús queda glorificado (In 17,5), puesto que todos los que lo ven con los ojos de la fe ya pueden conocer al Padre (In 14,9). Dios se ha hecho visible en Jesús, su Hijo, como protagonista de la historia humana, de camino hacia el Padre, bajo la acci6n renovadora del Espíritu Santo. |
La nueva creaci6n 0 nuevo nacimiento, que Cristo anuncia y promete (In 3,5), se realiza a través de una pascua nueva, es decir, del paso hacia el Padre por medio de la muerte y glorificaci6n del unigénito de Dios (In 13,1; Lc 22,15). Si toda la vida de Jesús es un conjunto de "signos" de Dios amor hecho hombre por nosotros, el gran signo de la pascua es el mismo Jesús como cordero pascual (In 1,29), cordero y siervo inocente que expía por los pecados de todos (Is 49-66; 1 Jn 2,2). |
Jesús en su paso 0 pascua hacia el Padre resume todos los signos del éxodo. La nueva alianza (Lc 22,20) será sellada con la "exaltaci6n" de Cristo en la cruz (Jn 12,32; 3,14; Num 21,8). Allí se descubre la filiaci6n divina de Jesús redentor (Jn 8,28).La sangre 0 vida de Cristo, llena del fuego 0 amor del Espíritu Santo, derramada en la cruz, ya ha penetrado |
los cielos y alcanzado la redención de todos (Heb 9,13-14). EI gran signo de la liberación humana es ya y solamente Cristo crucificado, que muere dando la vida en sacrificio por amor (Jn10,18; 15,13). |
Mirar al Verbo encarnado para contemplar su gloria de Hijo de Dios y Salvador del mundo (Jn 1,14; 4,42) significa leer los "signos" de la vida del Señor a la luz de la fe. Por esto el signo culminante, que anticipa, en cierto modo, la resurrección, es el momento en que Cristo da la vida para comunicarnos el Espíritu Santo (Jn 19,30-34). Juan evangelista invita a "mirar" a Cristo crucificado (Jn 19,37), como compendio de una vida de amor por los suyos (Jn 13,1). Pero la gloria del Señor resucitado ya aparece desde el comienzo de su existir como Verbo hecho carne (In 1,14). |
En Cristo contemplamos el amor que nos tiene el Padre y el amor con que el mismo Cristo ama al Padre y nos ama a nosotros. Todos los signos son epifanía de este amor. El signo máximo es el amor "hasta el extremo", es decir, el signo de la pascua, que comienza con la ultima cena. De la contemplaci6n del amor de Cristo (Jn 13,23), que transparenta el amor del Padre y del Espíritu Santo, pasamos fácilmente a descubrir la creación entera y toda la humanidad como una historia de amor (In 3,16). Dios, que por amor hace salir "su sol" sobre todos y cada uno de los hombres (Mt 5,45), nos muestra su amor a través de cada acontecimiento, de cada situación histórica, de cada creatura y de cada hermano: "EI Padre os ama" (In 16,27). |
La pascua de Jesús lleva a cumplimiento todas las figuras y todos. los sacrificios de la antigua alianza. Jesús es el cordero pascual que libera al pueblo de la esclavitud de Egipto (In 13,1; 1,28); es el sacrificio de la nueva alianza (Lc 22,20; In 11,51-53) y el sacrificio de propiciación por los pecados (1 Jn 2,2). Es |
el único sacrificio que puede llegar 0 "pasar" al Padre, porque es el único que cumple los requisitos queridos por el Padre (In 10,17-18; 14,31). La pascua de Jesús, es decir, la pasión, muerte y resurrección, es la copa de una fiesta de bodas que hay que apurar hasta el fin, como signo de donación total (Jn 18,11). |
En este contexto de pascua, en que se manifiesta plenamente su "gloria", Jesús confiere pleno sentido mesiánico a "la mujer", María, la Virgen fiel, como tipo y personificación de la comunidad eclesial (Jn 19,25-27; 2,4). La realidad maravillosa de la Iglesia peregrina solo aparece cuando comparte el sufrimiento de Cristo con vistas a una maternidad fecunda (In 16,21-22). De este modo la Iglesia, como María, se hará testigo y transparencia de Cristo por obra del Espíritu Santo (In 15,26-27; Ap 12,lss). |
La vida nueva en el Espíritu Santo emana del trono del cordero pascual inmolado y glorioso (Ap 22,1). Del costado abierto de Cristo, muerto en cruz, brota sangre y agua (In 19,30-34). Es el signo más hermoso de la pascua y de la nueva creación, que resume todas las promesas mesiánicas y recopila todos los signos como anticipo de la resurrección: derramando su sangre 0 dando su vida en sacrificio, Jesús ya puede comunicar la vida nueva 0 vida divina en el Espíritu Santo (Jn 7,37-39). |
Toda la vida de Cristo es declaración de amor, que postula amor de retorno. Desde el comienzo de la cena hasta el corazón abierto en la cruz, todo son gestos y palabras como máxima epifanía de este amor de Dios: "Como e1 Padre me amo, yo también os he amado; permaneced en mi amor" (In 15,9). |
La contemplaci6n cristiana es creer en el amor (1 Jn 3,16). La iniciativa es suya, "porque Dios nos ha amado primero" (l Jn 4,19). A partir de esta iniciativa y don de Dios, ya podemos responder al |
amor, en un dialogo vivencial que nos hace entrar en el corazón de Dios para encontrar alibi a todos los hermanos. Es un "tratar de amistad... con quien sabemos que nos ama" (santa Teresa). |
1. Su hora (Jn 13) |
1. Hora del amor |
Antes de la fiesta de la Pascua, viendo Jesús que llegaba su hora de pasar de este mundo al Padre, habiendo amado a los suyos que estaban en el mundo, los am6 hasta el fin ... Comenz6 a lavar los pies de los discípulos... Si yo, pues, os he lavado los pies, siendo vuestro Señor y Maestro, también habéis de lavaros vosotros los pies unos a otros. Porque yo os he dado ejemplo... |
(Jn 13,1-15) |
Ha comenzado la pascua 0 "paso" definitivo de Jesús hacia el Padre. Es el Verbo que viene del Padre para hacerse hombre como nosotros, y que ahora vuelve al Padre unido a cada uno de nosotros. Toda la vida de Jesús se mueve por el amor al Padre y a los hermanos. Es un amor polarizado por "la hora" en que da su vida en sacrificio. |
Desde las bodas de Cana, en el evangelio de Juan se va repitiendo como un estribillo, veintiséis veces, la expresión "la hora". Es el momento culminante de la donación sacrificial de Jesús. Es "la hora" de la caridad ("ágape"), es decir, de aquel amor que es propio de Dios (1 In 4,7). Jesús ama como Hijo de Dios hecho nuestro hermano y protagonista. Solo este amor merece el titulo de amor. Jesús nos comunica la capacidad de amar como él. |
"Los suyos" son los que creen en él y le siguen incondicionalmente. En la oración sacerdotal (c. 17) Jesús repite varias veces cariñosamente: "los que tú me has dado" (Jn 17,6ss). Jesús nos ama como el Padre le ama a él (Jn 15,9). EI lavatorio de los pies, el mandamiento del amor, la eucaristía, la institución del sacerdocio ministerial, la promesa del Espíritu Santo, etc., son la máxima manifestación del amor de Jesús a "los suyos". Todo culminara en la glorificacióndel crucificado, que muere dando la vida por amor. El ejemplo de Jesús no concede rebaja a sus amigos. Lo que no suene a amor de Cristo no es amor. Amar es servir como él, en el último lugar, para correr su misma suerte y compartir esponsalmente la vida con el (Me 10,35.38-39). |
2. Elegidos por amor |
Yo sé a quienes escogí... En verdad, en verdad os digo que quien recibe al que yo enviare a mí me recibe, y el que me recibe a m{ recibe al que me ha enviado. |
(Jn 13,18-20) |
Jesús conoce amando y nunca se arrepiente de este amor. Humanamente hablando, habría motivo para ello, especialmente cuando "los suyos" buscaban los primeros puestos (Lc 22,24). El amor de Cristo es eco de eternidad. Así quiere ganarse el corazón de sus amigos, suscitando en ellos una convicción y una decisión al estilo de Pablo: "Se de quien me he. fiado" (2 Tim 1,12). Este amor salta por encima de todos los obstáculos y los transforma en una nueva ocasión de darse a los demás. Jesús tiene plena confianza en "los suyos"; para él es siempre posible estampar en nuestro barro el fulgor maravilloso de su mirada. |
"Los suyos" van a ser su otro yo, su prolonga |
ción, su "gloria", su visibilidad ante el mundo. La gloria del apóstol consiste precisamente en poder desempeñar la misma misión de Cristo. El quiere necesitar de nuestras manos y de nuestra voz; por esto modela nuestro corazón a imagen suya, que se transparenta en· nuestra vida. |
El apóstol es un signo portador de Cristo porque prolonga su persona, su palabra, su amor y su acción salvífica. Nuestra arcilla ha sido modelada por el aliento amoroso de Cristo, que nos infunde su mismo Espíritu (Jn 20,22). Ya podemos mirar y amar como él. |
3. Auscultar el corazón |
Se turbo Jesús en su interior y dijo: En verdad, en verdad os digo que uno de vosotros me entregara. Se miraban unos a otros los discípulos, sin saber de quien hablaba. Uno de ellos, el que Jesús amaba, estaba recostado sobre el pecho de Jesús. |
(Jn 13,21-23) |
Jesús es el Verbo hecho hombre, que reposa en el seno del Padre (Jn 1,18). El "discípulo amado" reposa en el seno de Jesús para auscultar su amor eterno, trascendente e inmanente. Entrando en el corazón de Dios, se encuentra a todos los hermanos como en una historia común de amor sin límites. |
El "discípulo amado" es el creyente que ausculta |
la palabra de Dios (In 13,23), que persevera junto a |
la cruz (Jn 19,26), que descubre a Cristo a través de |
signos pobres (Jn 20,3-8; 21,7), que, con Pedro, da |
testimonio de la resurrección de Jesús (Jn 21,20-24). |
La "gloria" o realidad de Jesús se descubre amándole |
(In 14,21). |
La actitud de auscultar al Verbo escondido bajo signos pobres de humanidad y de Iglesia es actitud |
mariana de "meditar en el corazón" (Lc 2,19.51). Es capacidad de admiración (Lc 2,33) ante e1 "más allá" de cada persona, de cada situación y de cada cosa, donde Dios se manifiesta y comunica. Esta capacidad contemplativa de ver en todo e1 amor del Padre (Mt 6,30) se convierte en la máxima capacidad de servir, amar y comprometerse por los hermanos, según los designios salvíficos de Dios Amor. La actitud contemplativa es la actitud del pobre, que todo 10 espera de Dios amor; es actitud de escucha de la palabra de Dios sin "domesticarla"; es sintonía con la voluntad de Dios sin querer "utilizarla". |
4. Mandamiento nuevo |
Un precepto nuevo os doy: que as améis los unos a los otros como yo os he amado, así también amaos mutuamente. En esto conocerán todos que sois mis discípulos: si tenéis amor unos para con otros. |
(Jn 13,34-35; cf. 15,12.17) |
EI amor que Dios nos tiene en Cristo se nos convierte en participación de la vida divina y Se manifiesta en la caridad fraterna. "El amor viene de Dios" (1 In 4,7), irrumpe en el mundo viejo tarado por e1 pecado y 10 transforma en anticipación de un mundo nuevo y definitivo. En Cristo y en nosotros, este amor se concreta en dar la vida por los hermanos. Este es el mandato recibido del Padre (In 10,18) que Cristo nos transmite como mandamiento peculiar de la nueva alianza. |
Amar como Cristo es la actitud de las "bienaventuranzas", que transforma toda circunstancia y situación humana en una nueva posibilidad de darse. En este amor se encuentra la garantía de nuestra unión con Dios. Nuestro "si", manifestado en las casas más pequeñas de cada día, debe salir de 10 mas |
hondo del coraz6n. Jesús, que vive en nosotros, hace posible este amor. |
El discurso de Jesús en la ultima cena es la réplica neo testamentaria del discurso de Moisés con ocasi6n de la antigua alianza. La novedad de Jesús, que es el |
nuevo Moisés, arranca de su filiaci6n divina (el Verbo encarnado) y de su inmolaci6n como cordero pascual, como sacrificio de alianza en su sangre y como propiciaci6n por nuestros pecados. Es el nuevo y definitivo pacto de amor sellado con la sangre del Hijo de Dios hecho nuestro hermano. El mandamiento nuevo se nos ha dado con amor; por esto hay que recibirlo y vivirlo con amor. Dios nos pide todo nuestro ser, porque él nos comunica su propio ser. Cuando Jesús vive en nosotros, es posible amar a Dios y a los hermanos con el mismo amor |
con que Dios nos ama. |
2. Fe llena de esperanza (In 14) |
I. Camino, verdad y vida |
No se turbe vuestro coraz6n; creéis en Dios, creed también en mi. En la casa de mi Padre hay muchas moradas...; voy a prepararos el lugar..., de nuevo volveré y os tomare conmigo, para que donde yo estoy estéis también vosotros... Yo soy el camino, la verdad y la vida; nadie viene al Padre sino por mí. |
(In 14,1-6) |
La vida merece vivirse porque Cristo da seguridad a nuestro caminar zigzagueante. Su pascua 0 "paso" hacia el Padre se hace nuestra propia biografía. Quiere compartir con nosotros su ser, su misi6n, su dolor y su triunfo. El amor de Dios es así. En Jesús |
encontramos nuestra razónde ser, porque él es la plenitud de la revelación de Dios sobre el hombre y el mundo. En el encontramos la verdad y la vida eterna. Y el mismo se hace nuestro camino y nuestra historia. |
Amar es compartir, relacionarse, sintonizar, gozarse con el triunfo del amigo. Índice de este amor es el tiempo que empleamos, sin prisas psico16gicas para "estar con quien sabemos que nos ama" (SantaTeresa). |
Jesús es la verdad como plenitud de revelaci6n y epifanía personal de Dios. El es la vida, en cuanto que, entregando su propia vida (su sangre) en sacrificio, nos comunica la vida nueva en el Espíritu. Cristo se nos hace camino y compañero de viaje, compartiendo con nosotros sil vida divina. El encuentro con Cristo se hace amistad inquebrantable y vida eterna. Con élnuestra vida se orienta definitivamente hacia el Padre en el amor del Espíritu. Desde lo más hondo de nuestro ser, esta vida nueva forcejea· por transformar toda nuestra existencia en fisónoma de Cristo y en "complemento" 0 prolongaci6n y signo suyo al servicio de los hermanos. |
2. Quien me ve a mí ve al Padre |
Tanto tiempo que. estoy con vosotros y no me |
habéis conocido? Quien me ve a mi ve al Padre... V |
Yo estoy en el Padre y el Padre en mi... En aquel |
d{a c0'!10cereis que yo estoy en mi Padre, y vosotros |
en mí y yo en vosotros. |
(Jn 14,9-11.20; cf. 10,30; 12,45s) |
En Jesús se manifiesta personalmente Dios amor. Sus gestos y sus palabras son el eco terreno de una historiaeterna de amor entre el Padre y el Hijo en el Espíritu Santo. Esta historia es también la nuestra desde el día de la Encarnaci6n. Los que vieron a |
145 |
Cristo en su carne mortal pudieron descubrir en el, a la luz de la fe, al Verbo hecho hombre y al Emmanuel 0 Dios con nosotros. En su palabra siempre viva y en sus signos pobres de Iglesia, Cristo continúa manifestándose como Hijo de Dios. En las creaturas ya podemos ver las huellas amorosas de un Dios cercano; en los hermanos ya podemos entrever los rasgos de la fisonomía de Cristo. Pero a Dios, tal como es, solo lo encontramos en Cristo, su Hijo, hecho nuestro hermano. |
5i nos quedamos con los dones de Dios sin hacer referencia a él, nos encontramos con nosotros mismos y con la!' manos y el corazón vacíos. 5i sabemos adivinar en todas las cosas y en todos los hermanos el mensaje de Dios, la vida es hermosa y deja entrever un "mas allá" de infinito. El corazón se ensancha: todo es mensaje porque Dios es bueno. Pero los mensajes y los mensajeros ya no nos bastan, porque ya solo nos basta Dios amor. |
La autenticidad en el uso de las creaturas y en la convivencia fraterna estriba en este "más allá" que dejan entrever: "No quieras enviarme -de hoy mas ya mensajero, que no saben decirme lo que quiero!" (san Juan de la Cruz). Ya todo hace referencia a Cristo; todo se hace encuentro con él, camino hacia un encuentro que un día será visión y posesión mutuas. Vale la pena vivir continuamente este ensayo de eternidad. |
3. Voy al Padre |
En verdad, en verdad os digo que el que cree en mi, ese hará también las obras que yo hago..., porque yo voy al Padre... Me voy y vengo a vosotros. Si me amarais, os alegraríais, pues voy al Padre, porque el Padre es mayor que yo. |
(In 14,12.28; d 16,16.28; 20,17) |
146 |
La dinámica de ir hacia el Padre resume la identidad de Jesús, que se manifiesta tal como es: el Hijo que viene del Padre y que vuelve al Padre. En esta dinámica de paso 0 pascua arrastra a toda la humanidad y a toda la creación. Precisamente porque vuelve al Padre, después de morir y resucitar, puede revelar al Padre y comunicarnos la vida divina, que es vida nueva en el Espíritu. Así puede volver al Padre con nosotros' ya transformados en él. Viviendo nuestra vida humana de peregrinación, la ha trascendido. Amando al hombre hasta el extremo de hacerse su protagonista, ha mostrado la verdad sobre el hombre: somos hijos de Dios por participación en la vida de Cristo. |
Aplastado por los poderes de este mundo, Jesús 10 transforma todo amando; así puede "pasar" al Padre con la libertad del amor. Jesús se hace protagonista y salvador de sus mismos verdugos (Lc 23,34). Es el Hijo de Dios que ha compartido nuestra existencia para transformarla en pascua 0 paso hacia el Padre. |
Amando entrañablemente al hombre, Jesús nos revela el misterio de Dios y una historia de amor en cada hombre. Nuestro amor de retorno consiste en la alegría de descubrir a Cristo tal como es. Este es el amor que compromete nuestra existencia, haciéndola relación de amistad con él y de servicio generoso a los hermanos. Amar a Cristo es alegrarse de su filiación divina y de su resurrección, descubriendo en cada hermano su rostro y su obra redentora. |
4. Orar en su nombre |
Lo que pidiereis en mi nombre, eso hare, para que el Padre sea glorificado en el Hijo... Si permanecéis en m{ y mis palabras permanecen en vosotros, pedid lo que quisiereis, y se os dará. |
(In 14,13; 15,7; cf. 16,23) |
La oraci6n cristiana es siempre oraci6n compartida con Cristo, que ora en· nosotros, con nosotros y por nosotros. Por esto es siempre un eco de los intereses de Dios y de los problemas de los hombres. Es una comuni6n sin fronteras. La oraci6n nace del amor, y este amor "viene de Dios" (I In 4,7). Al compartir la oraci6n de Cristo, compartimos su dialogo amoroso con el Padre para el bien de todos los hombres (Heb 7,25). Jesús vive intensamente nuestro existir y nuestras intenciones, y 10 convierte todo en uni6n con la voluntad del Padre. Esta oraci6n, que es unidad de vida en Dios y actitud filial, es siempre escuchada por Dios, porque es la oraci6n de Jesús en nosotros. Para orar basta con silenciar otras voces que no sintonicen con el coraz6n de Cristo. |
La oraci6n en el nombre de Jesús es oraci6n en e1 Espíritu Santo (Gal 4,6; Rom 8,15). Gracias al Espíritu que habita en nosotros (Jn 14,16), nuestra oraci6n al Padre la hacemos con la misma voz y el mismo amor de Jesús. Esta oraci6n contemplativa se hace sintonía con todos los hermanos y con toda la creaci6n, como esperando activamente que en toda la humanidad y en todos los corazones resuene la palabra "Padre" (cf. Rom 8,22-23). |
La oración cristiana brota de un corazón que se siente pobre, pero amado y, por tanto, con la capacidad de amar y de adorar "en Espíritu y en verdad" (Jn 4,23). Esta oraci6n contemplativa se hace espera humilde, deseo ardiente, búsqueda incesante, disponibilidad, donación y sintonía, aunque sea en el silencio de un coraz6n pobre que no pide privilegios. Es la presencia y compañía de enamorado que gime porque, en nuestro peregrinar, la presencia parece ausencia. Así son los "gemidos indescriptibles" del Espíritu (Rom 8,26). Nuestra pobreza, reconocida y aceptada, se hace oraci6n y donaci6n de nuestro pequeño todo "por el gran todo que es Dios" (san Juan de Ávila). |
5. Otro Consolador |
Si me amáis, guardaréis mis mandamientos, y yo rogaré al Padre y os dará otro Abogado, que estará con vosotros para siempre. el Espíritu de verdad, que el mundo no puede recibir, porque no lo ve ni lo conoce; vosotros Io conocéis porque permanece con vosotros y está en vosotros. |
(Jn 14,15-17; cf. 14,26; 15,26s; 16,13s) |
Jesús promete el Espíritu Santo, que enviara de parte del Padre para que permanezca con los suyos. EI Espíritu será "parac1ito", es decir, valedor, testigo, portavoz, abogado, consolador... Es él quien consolara, porque dará a conocer el misterio de Jesús. EI Señor habla de una presencia (Jn 14,17) y enseñanza (Jn 14,26; 16,13) que va a glorificar al mismo Jesús (In 16,14). EI Espíritu dará testimonio de Jesús y transformara a los <ip6stoles en testigos suyos (Jn 15,26-27). Es, pues, presencia, enseñanza y acci6n santificadora del mismo Dios amor, Padre, Hijo y Espíritu Santo, que nos hace entrar en su intimidad y nos hace portadores de sus planes de amor para todos los hombres. |
EI Espíritu de la verdad hace entrar en la verdad de Jesús, garantizando la autenticidad de la contemplaci6n y de la predicaci6n de la palabra del Padre, en armonía con el testimonio de los ap6stoles (In 20,23; 15,27). EI "mundo", que no ha querido abrirse a la luz de Jesús, no va a comprender el don de Dios (In 14,17). Sólo le puede comprender el "mundo" que se abre a la fe en Jesús y al amor del Padre (Jn 3,16). |
A los creyentes en Jesús, el Espíritu les hace fieles a la verdad, a la vida verdadera y a los caminos del Señor. Es el mismo Espíritu quien trae y comunica el eco de la comuni6n divina, que se refleja en la eomuni6n eclesial y en la eomuni6n con todos los |
hermanos. Un corazón unificado por el Espíritu se abre a la comunión y a la misión sin fronteras. |
6. Presencia de enamorado |
No os dejaré huérfanos; vendré a vosotros. Toda |
vía un poco y el mundo no me vera; pero vosotros |
me veréis, porque yo vivo y vosotros viviréis. En |
\ aquel día conoceréis que yo estoy en mi Padre, y vosotros en mí y yo en vosotros... El que me ama a mí será amado de mi Padre, y yo lo amaré y me manifestaré a él... Si alguno me ama, guardara mi palabra, y mi Padre .lo amará, y vendremos a él y haremos morada en él. |
(Jn 14,18-23) |
La presencia de Jesús resucitado ahora ya no está condicionada por el espacio y el tiempo (Mt 28,20). Es presencia de un Dios enamorado, que trasciende los límites de la historia porque es el Señor de la historia. Vive con nosotros y en nosotros, con esa presencia. de enamorado como esta en el seno del Padre en unión de amor con el Espíritu Santo (In 1,18). Jesús nos hace participes de la presencia trinitaria de un Dios amor que comparte con nosotros su existir terreno. En las cosas, Dios está sosteniendo su ser contingente. En nosotros, si abrimos el corazón, Dios esta como en su hogar 0 casa solariega, donde tiene sus complacencias, porque ya somos hijos en el Hijo. |
Jesús se manifiesta a quien 10 quiera conocer amando. No quiere ser objeto de una teoría mas ni ser clasificado como un objeto curioso de investigación. Su persona, sus gestos de vida y sus palabra~ son tan actuales y vivas hoy como hace dos milenios. Escondido bajo los signos pobres de la Iglesia y de los hermanos, Jesús trasciende el tiempo para entablar relaciones personales intimas con todo corazón humano que se decida a amarle. |
ISO |
"Jesús vive" (He 25,29). Es esta la convicción de todo ap6stol que, como Pablo, ha hecho de Cristo el centro de su vida. A Jesús se le continua viendo, escuchando y tocando con la fe y la esperanza de un corazón enamorado (1 Jn 1,lss). |
7. Mi paz |
La paz os dejo, mi paz os doy; no como el mundo lo da os lo doy yo. No se turbe vuestro coraz6n ni se intimide... Me voy y vuelvo a vosotros. Si me amarais, os alegraríais, pues voy al Padre, porque el Padre es mayor que yo. |
(Jn 14,27-28; cf. 15,11; 16,205; 17,13;< 20,17) |
La paz de Cristo es su mismo gozo de resucitado. Y es también gozo en el Espíritu Santo (Lc 10,21). Jesús promete y comunica este gozo y esta paz con el encargo de compartirla con los hermanos. Es el gozo que nace de sufrir amando para cumplir los designios salvíficos del Padre en favor de todos los hombres. Jesús se somete amorosamente a estos planes de salvación. Aceptar este don de Cristo, que es también don del Padre y del Espíritu Santo, es una exigencia del amol'. |
Amar a Cristo y a los hermanos comporta afrontar la vida con la esperanza de colaborar activamente en la nueva creación, que es fruto del misterio pascual de Cristo. EI amor que nace del encuentro con Cristo se demuestra en ser sembradores de la paz, del perdón y de la esperanza. Pero primero hay que serenar el propio corazón. No podríamos acercarnos a los pobres ni amar los signos pobres de Iglesia si nuestro corazón no tuviera la paz de Cristo. |
Cuando la naturaleza se resquebraja y nuestra vasija de barro parece hacerse añicos, todavía es posible vivir y compartir con los hermanos el gozo de Cristo resucitado. EI amor se demuestra en el gozo |
por él. triunfo de la persona amada. Es gozo compatible con Getsemaní y con el Calvario, porque se apoya en la pascua '0 "paso" de Cristo hacia el Padre. Cristo ha pedido este gozo para "los suyos"; su plegaria es eficaz. El .gozo de sentirse amado por Cristo, de poderle amar con todo el coraz6n y de hacerle amar por todos, 10 hace posible la presencia amorosa del mismo Cristo resucitado. Nuestra relaci6n personal con el fundamenta nuestro gozo de sintonizar nuestra vida con la suya: una mirada al Padre, una mirada a los hombres y una inmolaci6n de sí mismo para hacer de la vida una donaci6n. |
8. Yo amo al Padre |
Conviene que el mundo conozca que yo amo al Padre, Y que según el mandato que me dio el Padre así hago. Levantaos, vámonos de aquí. |
(Jn 14,31) |
¡Con qué cariño Jesús habla del Padre! Todos sus gestos y palabras son expresi6n de este amor. Precisamente por esto nos ama a cada uno de nosotros con amor irrepetible. El amor al Padre le lleva a dar la vida por sus amigos (Jn 15,13). Para Jesús, amar equivale a ser fiel a la misi6n 0 mandato recibido del Padre. Su identidad de Hijo de Dios se ratifica en una obediencia que lo convierte, siempre y en todo, en expresi6n del Padre. |
La identidad del Verbo es una mirada sustancial ("relaci6n pura") al Padre. Jesús, el Verbo encarnado, se realiza amando al Padre y haciendo que todos los hombres amen al Padre. Contagiándonos de este amor, nos hace participes de su filiaci6n divina. En el ya podemos amar a Dios con el mismo amor con que Dios nos ama. |
La vida de Jesús es pascua, paso hacia el Padre. |
Por esto se hace nuestro camino. Nuestro caminar es el suyo. Los momentos más hermosos de la vida son inolvidables; pero son s6lo una etapa pasajera. Jesús se hace modelo y protagonista de nuestro caminar. La nueva creaci6n se construye en la medida en que la historia de cada hombre participa en la pascua de Cristo hacia el Padre. Hay pascua cuando se transforma el momento hist6rico en un momento de encuentro con Cristo y de donaci6n a los hermanos. |
3. Declaración de amor (Jn 15) |
1. Permaneced en mi amor |
Yo soy la vid verdadera y mi Padre es el viñador... Permaneced en mí y yo en vosotros. Como el /. sarmiento no puede dar fruto de sí mismo si no permaneciere en la vid, tampoco vosotros si no permanecéis en mi. Yo $OY la vid; vosotros, los sarmientos. El que permanece en mí y yo en el, ese da mucho fruto, porque sin mí no podéis hacer nada. Como el Padre me am6, así también os he amado YQ; permaneced en mi amor. |
Jn 15.1-5.9) |
Las palabras y los gestos de Jesús son siempre una declaraci6n de amor que espera una respuesta gene-I rosa. Nos ama con el mismo amor eterno con que el\( Padre y el Hijo se aman en el Espíritu Santo. Injertados en Cristo, como el sarmiento en la vid, ya podemos amarle a él y a los hermanos con su mismo amor. |
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Nuestra uni6n con Cristo afianza y sostiene nuestra identidad y nos enrola en la realidad de Cristo como transformador del cosmos y de la historia. Por |
medio de Cristo nos unimos con Dios, con los hermanos y con el cosmos. De este modo descubrimos y realizamos nuestro verdadero "yo", para hacer de et una ofrenda al amor. |
La unión con Dios, por Cristo y en el Espíritu, es don suyo. Nuestra existencia sería incapaz de realizarse amando si no estuviéramos injertados en Cristo. Solo con esta inserción 0 injerto (Rom 6,5) nuestra vida se hace vida perdurable. Así dejamos en la historia una huella imborrable e irrepetible del amor. Es el Señor mismo quien ofrece y da esta inserción y unión con él a todos los que se acercan a et con corazón sincero, abierto y autentico. La samaritana y Saulo de Tarso estrenaron su amor a Cristo en este camino sin retorno que se llama contemplación. Ya solo se aspira a una relación personal con Cristo, que sea totalidad de entrega y de misión, como respuesta a la totalidad de su amor. ''Todo 10 puedo en aquel que me conforta" (Fil 4,13). |
2. Vosotros sois mis amigos |
Nadie tiene mayor amor que este de dar uno la vida por sus amigos. Vosotros sois mis amigos si hacéis lo que os mando... Os llamo amigos porque todo lo que he oído de mi Padre os 10 he· dado a conocer. |
No me habéis elegido vosotros a mí, sino yo os elegí a vosotros, y os he destinado para que vayáis y deis fruto, y vuestro fruto permanezca, para que cuanto pidiereis al Padre en mi nombre os lo de. Esto os mando: que os améis unos a otros. |
(Jn 15.13-17; cf. 13.34ss; 15.12) |
Jesús introduce a cada uno de "los suyos" en el , secreto de su ser. Por esto les habla de corazón a corazón, como a una persona amada desde siempre y . para siempre. Dios envió a su Hijo o£reciéndolo en sacrificio por amor nuestro. Desde el día |
Encarnación, la vida de Jesús es una oblaci6n por la salvación de los hombres (Heb 10,5-7). Jesús vive de amores. Su oferta de amistad no tiene límites: se da a todos, del todo y para siempre. Amarle es compartir la vida con él, sintonizando con sus ideales de dar la vida por la gloria del Padre y la salvación de los hombres. |
La amistad se demuestra en la donación, en la convivencia y en las confidencias. Jesús nos ha contado los amores eternos de Dios por nosotros. Ya ha } comenzado nuestra participación en la vida divina. La iniciativa ha partido del Señor. La vocación es don de Dios, que sólo él hace posible cuando la queremos vivir y agradecer día a día. Su federación de amor y su "sígueme" nos 10 repite todos los días como si fuera la primera vez. Con él la vida tiene sentido, porque ya puede transformares en dialogo amoroso y filial con Dios y en donación a los hermanos. |
3. Estar con él desde el principio |
Si el mundo os aborrece, sabed que me aborreci6 a míprimero que a vosotros. Si fueseis del mundo, el mundo amaría lo suyo...; yo os escogí del mundo, por esto el mundo os aborrece... Vosotros daréis testimonio, porque desde el principio estéis con- |
m~~ . |
(Jn 15,18-19.21; cf. 14:,15) |
En Cristo hemos estrenado nuestra verdadera existencia. Por esto compartimos la vida con él, como él la comparte con nosotros. El "mundo", amado entrañablemente por Dios, rechaza muchas veces a Jesús de Nazaret, el hijo de Dios. Ese "mundo" sigue existiendo en aquella parte del corazón humano que busca el propio interés. Donde hay poder humano, dinero y honores al margen del amor, todo se con |
vierte en rechazo de Cristo y de los que siguen sus pisadas de humildad, pobreza y servicio. Nosotros no somos de ese "mundo", sino del verdadero mundo que quiere abrirse a los designios salvíficos de Dios amor (In 3,16). El rechazo y el escándalo que podamos sufrir por parte del "mundo" se convertirán en el privilegio de beber la misma copa de bodas |
del Señor. Hoy se busca una definición sobre la identidad de los seguidores de Cristo. Pero nuestra identidad consiste en la relación personal con él: hemos sido elegidos y amados por él, Lo podemos amar y hacerle amar. No necesitamos otra identidad. Cuando este amor se debilita 0 se desvía, cualquier infección es posible. Entonces las dudas ya no tendrían solución. |
Buscar la identidad del seguimiento evangélico en la duda y en las discusiones es abocarse a un fracaso irremediable. La identidad no se discute cuando uno ya la vive, porque el seguimiento de Cristo es la respuesta vivencial y comprometida a su declaración de amor. Los apóstoles de entonces y de ahora estrenan la identidad y la renuevan en el dialogo y encuentro personal con Cristo. |
4. Hacia el encuentro definitivo |
1. Ausencia y presencia |
Os conviene que yo me vaya. Porque si no me fuere, el Abogado no vendrá a vosotros,' pero si me fuere, os lo enviare... El me glorificard, porque tomard de lo mío y os 10 dard a canacer. Todo cuanto tiene el Padre es mío. |
(Jn 16,7.16; cf. 14.15-28) |
Descubrir y vivir gozosamente la presencia actual de Cristo resucitado supone haber experimentado el dolor de su ausencia. Los dones de Jesús no se pueden identificar con su persona, ni aun su visibilidad y sus consuelos. El proceso de la vida espiritual, contemplativa y apostólica pasa por una serie de pruebas y de renuncias que solo se pueden superar meditando la palabra de Dios en el carrazón (Lc 2,19.51). El Espíritu Santo ayuda a descubrir y a vivir esta presencia oculta de Jesús mas allá de sus dones y de sus consolaciones. El amor que Dios nos muestra en el misterio de la encarnación y de la redención solo se puede "experimentar" aceptando el desafío de una presencia amorosa que parece ausencia y oscuridad, pero que da sentido a todo nuestro existir. |
Descubrir a Cristo presente cuando parece ausente, solo es posible si nos decidimos a correr su suerte de "pasar" al Padre. El primer "éxodo" fue a través del mar Rojo y del desierto del Sinaí. La nueva creación, como "restauración de todas las cosas en Cristo" (Ef 1,10), pasa a través del misterio pascual de su muerte y resurrección. |
Jesús comunica su Espíritu para descubrir el amor trascendente de Dios en la contingencia de todas las cosas y en la relatividad de todos los momentos. Quien quiera hacer de las creaturas y del tiempo un valor absoluto, se encontrara con las manos llenas de ceniza, es decir, vacías. El Espíritu Santo nos hace transformar el presente en eternidad y 10 pasajero en trascendente; basta con decidirse a amar. |
2. Dolor y gozo |
En verdad, en verdad os digo que llorareis y os lamentareis, y el mundo se alegrará.... pero vuestra tristeza se convertirá en gozo. La mujer, cuando va |
a dar a luz, siente tristeza; pero cuando ha dado a luz al hijo ya no se acuerda de la tribulación. De nuevo os veré y se alegrara vuestro corazón, y nadie será capaz de quitaros esta alegría. |
(In 16,20·22) |
La aparente ausencia de Cristo, sobre todo en los momentos de "sepulcro vacío", produce el dolor del enamorado que ansia el calor de la presencia y de la palabra del amado. EI deseo de una presencia definitiva se purifica y se hace mas autentico. Entonces se aprende a mirar a todos y a todo como mensaje y huella del amado. El pasado se redescubre como historia de amor inmerecido. |
Los dones que ya se fueron han dejado una huella imborrable de amor. Las humillaciones, las burlas, los menosprecios y el olvido ya no impresionan tanto, porque ya sólo duele esa ausencia indescriptible de Cristo resucitado, que se va haciendo presencia más profunda y cariñosa. Si e asume nuestro dolor para completar el suyo, el corazón salta de gozo por el hecho de poder compartir su suerte como copa de bodas. Y este "movimiento" del corazón es un signa de la presencia del Señor. |
Jesús trata a sus amigos como adultos en el amor. A Juan Bautista, su precursor, le deja morir decapitado en la cárcel, pero no le deja solo ni un momento. Porque un movimiento del corazón, suscitado por Jesús, vale más que la resurrección de Lázaro. Jesús no abandona a los suyos. En una situación difícil parece que nos deja en la estacada; pero no es necesario que la situación cambie, porque basta con .cambiarnos a nosotros. El sufrimiento se hace instrumento de vida en Cristo, para nuestro corazón y para toda la humanidad. Las almas tienen un precio: el dolor de la maternidad ec1esial. Por esto la vida espiritual, el camino de la contemplación y la acción apostólica necesitan la presencia cariñosa de |
María, figura y madre de la Iglesia, por su dolor maternotransformado en gozo de fecundidad misionera. |
3. El Padre os ama |
Cuanto pidiereis al Padre, os lo dará en mi nombre. Hasta ahora no habéis pedido nada en mi nombre; pedid y recibiréis, para que sea cumplido vuestro gozo... Llega la hora en que... os hablare claramente del Padre..., pues el mismo Padre os ama, porque vosotros me habéis amado y creído que yo he salido de Dios. Salt del Padre y vine al mundo; de nuevo dejo el mundo y voy al Padre. |
(In 16,23-24.27-28) |
La mayor prueba del amor que Dios nos tiene es el habernos dado a su Hijo para hacernos participar en su filiación divina (In 3,16). Jesús nos habla continuamente de este amor del Padre. EI ser de Jesús, su vida, sus gestos, su mensaje, todo es expresión del Padre; es su Verbo 0 Palabra pronunciada eternamente en el silencio amoroso del Espíritu Santo. Por esto Jesús sigue hablando desde el evangelio. |
Jesús es la palabra de Dios, que se hace "pan de vida" en el encuentro vivencial de fe que llamamos oración 0 contemplación. Desde esta fe vivencial nos invita a participar en el "pan de vida" de su mismo cuerpo y sangre bajo signos eucarísticos (In 6). |
El Padre nos ama como a Jesús (In 17,23) y escucha en nosotros su misma voz y los latidos de su corazón. Jesús hace oración asumiendo amorosamente nuestra vida como materia de dialogo con el Padre. Nuestra oración es la misma oración de Cristo, si lo dejamos vivir en nuestro corazón. Entonces nuestra plegaria es siempre escuchada por el Padre como plegaria de hijos en el Hijo. Nuestro verdadero gozo consiste en esta confianza filial de quien se |
sabe amado y escuchado por el Padre. Esta actitud de hijo en la orando comporta la confianza de dejar en manos del Padre las circunstancias de nuestra vida. A nosotros nos toca manifestarle nuestra realidad, con el deseo profundo de que se cumplan en nosotros los designios de su amor infinito. |
4. Soledad llena de Dios |
He aquí que llega la hora... en que os dispersareis cada uno por su lado y a mí me dejaréis solo; pero no estoy solo, porque el Padre está conmigo. Esto os he dicho para que tengáis paz en mi; en el mundo habéis de tener tribulaci6n; pero confiad: yo he vencido al mundo. |
J |
(Jn 16,32-33) |
Jesús aparenta ser un maestro tremendamente solo. El rechazo de Cafarnaúm (eucaristía) y del Calvario confirma esta impresión. Es la suerte de quien quiere amar a todos tal como son, desde la perspectiva de Dios amor. Por esto Jesús afronta con serenidad la soledad a que quieren reducirle los fariseos (In 8,16.29). Su paso hacia el Padre se hace Pascuagloriosa, porque transforma la soledad de la pasión, muerte y sepultura en epifanía del amor de Dios al mundo. Jesús afronta esta soledad del sufrimiento y del abandono para indicarnos que, gracias a su soledad, nuestra soledad esta nena de Dios amor. |
Para Jesús, vencer no es reducir 0 humillar al adversario, sino simplemente vencer el mal y el error oponiéndoles el amor y la verdad. "Los suyos" tienen que correr su misma suerte, imitando su actitud de dar la vida· para salvar a los mismos que le atropellan. Hacer el ridículo ante los poderes de este mundo no es más que un momento pasajero de una pascua que termina en perdón, paz y glorificaci6n. Pero estos poderes del mundo, que hay que transformar |
y vencer evangélicamente, se encuentran en todo corazón humano. |
Se necesita saber perder mucha hojarasca y muchos harapos para poder presentar nuestra, vida como servido y donación. Hay que afrontar el "anonimato" olvidando esta misma palabra. Los primeros momentos parecen frustración; pero esta desaparece cuando uno descubre más profundamente el amor tierno de Cristo por nosotros y por todos. Hay que saber perder todo para ganar al todo, que es Dios. Cuanto es obra de Dios, en el campo de la santificaci6n, de la contemplaci6n y del apostolado, sigue esta misma regla de una donación callada llena de Dios. |
5. Oración sacerdotal y esponsal de Cristo (In 17) |
1. Jesús, el gran orante |
Padre, lleg6 la hora; glorifica a tu Hijo para que tu Hijo te glorifique..., para que a todos los que tu me diste les de ella vida eterna. Esta es la vida eterna: que te conozcan a ti, único Dios verdadero, y a tu enviado, ]Jesucristo. Yo te he glorificado sobre la tierra llevando a cabo la obra que me encomendaste realizar. Ahora tu, Padre, glorifícame junto a ti con la gloria que tenia a tu lado antes que el mundo existiese. |
(Jn 17,1-5) |
Jesús transforma los acontecimientos en dialogo con el Padre y en donaci6n sacrificial por la salvaci6n de los hombres. Su oraci6n es siempre sacerdotal, de mediador,' protagonista, consorte y esposo. Desde la encarnación (Heb 10,5-7) hasta la cruz Un |
19,30), su plegaria consiste en hacer de la vida un "si" de oblaci6n sacrificial (Lc 10,21; Jn 17,9). |
La oraci6n "sacerdotal" de Jesús (In 17,1-26) continua siendo realidad en el corazón de la comunidad eclesial, especialmente en la celebraci6n eucarística. Su dialogo intercesor ante el Padre durante las noches de oración (Lc 6,12) es el mismo que ahora tiene ante el Padre (Rom 8,34; Heb 7,5). Sus sentimientos y amores son los mismos, y nos invita a compartirlos. |
En la comunidad eclesial y en el corazón de cada fiel resuena la oración sacerdotal de Jesús como eco de "aquel himno que se canta perpetuamente en las moradas celestiales" (SC 83), Es la mirada personal y vivencial de Cristo al Padre en el amor del Espíritu Santo. Cristo busca la glorificaci6n del Padre por medio de su propia "glorificación", es decir, por su inmolación en la cruz como sacrificio de salvación par todos los hombres. La oraci6n contemplativa consiste en hacer "unidad de vida" en el propio corazón, ofreciéndose por medio de Jesús para que el Padre sea amado. Por Jesús y en el Espíritu Santo entramos en este conocimiento amoroso de Dios amor, que se nos convierte en vida eterna 0 vida divina participada. |
2. Los que tú me has dado |
He manifestado tu nombre a los que me has dado de este mundo. Ahora saben que todo cuanto me diste viene de ti; porque yo les he comunicado las palabras que tú me diste, y ellos ahora las han recibido. y han conocido verdaderamente que yo salí de ti. y han creído que tú me has enviado. |
(Jn 17,6·8) |
A los que lo han encontrado, Jesús los llama cariñosamente "los suyos" (In 13,1). En dialogo con el |
Padre, Jesús repite varias veces, con ternura, "los |
que tú me has dado". Desde la eternidad, cada uno |
era ya objeto de amor del Padre. Desde la encarnación, |
cada uno es una parte de la biografía de Cristo. |
El .Señor comparte con nosotros todo lo que el |
ha recibido del Padre. La única condición es la de |
aceptarle como Hijo de Dios, enviado para salvar al |
mundo, Aceptar su persona equivale a aceptar su |
mensaje de amar a los hermanos como el nos ha |
amado. La caridad es señal de que uno ha entrado |
en el corazón de Dios y se ha contagiado de sus |
amores. |
Jesús nos ha dado a conocer a Dios Amor y sus planes salvíficos universales. Sin la encarnación del Verbo, nuestra ciencia sobre Dios seria apenas una abstracción: la primera idea, el primer motor, la trascendencia... En Cristo descubrimos a Dios cercano, viviendo nuestra misma vida y sintiendo, sufriendo, gozando como nosotros. Ningún detalle de |
nuestra vida le es indiferente. |
Ya conocemos "el nomb.re" de Dios: "Yavé", elque es fiel al amor, dando origen y sentido a nuestra existencia. Este Dios amor, "el que es", se ha manifestado y acercado en Jesús, su Hijo amado, que se ha hecho consorte y protagonista de nuestro existir. Jesús comparte con nosotros la ciencia contemplativa de conocer amando a Dios, a los hermanos y a toda la creación. |
3. Por ellos |
Yo ruego por ellos; no ruego por el mundo, sino por los que tú me diste; porque son tuyos... Yo por ellos me consagro a m{ mismo, para que también ellos sean consagrados en la verdad. |
(Jn 17,9.19) |
Para Jesús, orar es comprometerse del todo, con todo 10 que es y tiene. Ora por nosotros, asumiendo |
nuestra vida corno propia. Vive intensamente nuestra existencia y la convierte en suya. Su dialogo con el Padre es siempre en nombre nuestro, con nosotros y desde nuestra misma circunstancia e interioridad (Heb 7,25). Ora por los que ya son "suyos· y por los que 10 serán gracias a su ministerio oservicio misionero (Jn 17,20). |
La oración de Jesús es eficaz si nosotros no ponemos obstáculos. Nuestra oraci6n de actitud filial, de autenticidad y caridad ya es posible gracias a Jesús, que ora en nosotros. Para orar bastaría con una mirada al Padre en unión con la mirada y los sentimientos de Jesús. Los salmos, el· padrenuestro 0 cualquier fórmula ya pueden ser oración sólo con el gozo de creer y aceptar que Cristo ora en nosotros. |
La oraci6n de Jesús se llama "sacerdotal"porque, a través de este dialogo con el Padre, manifiesta que su vida es una donación sacrificial por la salvación del mundo (Heb 10,10). Jesús es el único sacerdote del que participamos todos en diverso grado y modo, porque su vida consiste en asumir los intereses del Padre ofreciéndose en sacrificio por la salvaci6n de los hombres. Su misión sacerdotal es consagraci6n Un 10,36); por esto es misión totalizante. Jesús se inmola de modo especial por los apóstoles, que prolongaran su sacerdocio actuando en nombre suyo. Y ora para que "los suyos" sean transparencia de su caridad pastoral. Jesús contagia de estos amores sacerdotales a muchas personas que ofrecen sus vidas en sintonía con estos sentimientos sacerdotales de Cristo por la santificación de "los suyos". |
4. En ellos |
Todo lo mío es tuyo y lotuyo es mío, y yo he sido glorificado en ellos... Y yo les di a conocer tu |
nombre, y se lo hare conocer, para que el amor con que tú me has amado este en ellos y yo en ellos. |
(Jn 17.10.26) |
Las palabras de intimidad, de encuentro y de experiencia personal son las más frecuentes en el evangelio del discípulo amado. Se van repitiendo en torno a una relación interpersonal: "en mí", "en ellos"... La eucaristía como "pan de vida" (In 6) y la amistad que ofrece Jesús (In 15) tienen esta dimensión de desposorio, que hace de los amigos de Cristo su prolongaci6n y su expresión 0 "gloria". El Espíritu Santo, prometido y comunicado por Jesús, hace posible la participación en la realidad 0 "gloriall del Señor (In 16,14; 17,10 y 22). |
Somos una parte del ser de Jesús, puesto que nos .ha comunicado su misma vida divina. Somos su |
prolongación, su visibilidad, su expresión, su signo |
personal, su "olor" (2 Cor 2,15). Los ap6stoles lo |
son de modo peculiar, puesto que pueden obrar en |
su nombre. Nuestra mayor sorpresa en el mas allá |
será la de identificar, en las facciones del rostro |
glorificado de Jesús, a cada uno de los hermanos que |
hemos encontrado en esta tierra. |
"Yo en ellos" recuerda el bautismo de Jesús en representaci6n nuestra. El bautismo en el Jordán, en el que asume nuestros pecados, se transforma en el "bautismo" de sangre en la cruz, que nos invita a correr espinosamente su suerte (Mc 10,38). El desposorio de Cristo con la humanidad y con cada uno de nosotros ya desde el día de la encarnaci6n lleva a estas consecuencias de protagonismo. El Padre ve en nosotros el rostro de su Hijo Jesús; por esto nos ama como a él (Jn 19,23.26). La pertenencia esponsal mutua, entre Cristo y nosotros, es la que traza las verdaderas líneas de esperanza en la historia del hombre. Todo coraz6n humano, en cualquier momento y circunstancia, es recuperable, porque ya ha |
comenzado a formar parte de la vida intima y de la realidad o"gloria" de Jesús. |
5. Que sean uno como nosotros |
Padre Santo, guarda en tu nombre a los que me has dado, para que sean uno como nosotros.. Pero ahora yo vengo a ti, y hablo estas cosas en el mundo para que tengan mi gozo cumplido en sí mismos... No pido que los saques del mundo, Sino que los guardes del mal. Ellos no son del mundo, como yo no soy del mundo. |
(Jn 17,11-16; cf. 17,21-23) |
La unidad de Jesús con el Padre, en el amor del Espíritu Santo, debe reflejarse en "los suyos", que son su prolongación y su signo en el espacio y en el tiempo. La unidad de fraternidad 0 de "comunión" eclesial es la señal específica del cristiano, y de modo especial del apóstol. El misterio de Dios amor, que es la máxima unidad en tres personas, se refleja en su Hijo prolongado a través de la fraternidad cristiana y apostólica. De esta unidad fraterna, que es expresión de la unidad interna del corazón, nace el gozo de pertenecer a la familia eclesial, que es familia de Dios (Ef 2,19). La comunión fraterna es signo "sacramental" de Cristo (Jn 17,23). Ya por sí misma, esta comunión es "un hecho evangelizador" (Puebla 663). Pero esta caridad para con todos los hermanos salo es posible cuando hemos entrado en el corazón de Dios. . |
Hay mucha dispersión de fuerzas en el corazón y, por tanto, en la sociedad humana. Un corazón hecho añicos por los propios intereses personalistas es un avispero de discordias entre hermanos. Cuando nos apoyamos en cualquier poder humano, por legítimo que sea, si falta la verdadera caridad, se origina toda clase de rupturas. Se buscaran mil razones |
para afianzar los propios puntos de vista y las propias seguridades y derechos adquiridos; pero, en realidad, la falta de comunión eclesial, en la pequeña y en la grande comunidad, es siempre el índice de tener el corazón dividido. |
No hay poder humano que pueda crear la comunión eclesial. La pluriformidad de carismas y de cualidades, de ideas, de vocaciones y de servicios salo es autentica cuando construye la comunidad eclesial. No hay comunión (coinonia) sin servicio humilde (diaconía), que es siempre "humillación" (kenosis) de cada uno ante el único Señor y dador de todos los dones. El testimonio apostólico (Ef 2,20; 1 Jn 1,1ss) garantiza el punto de referencia de esta comunión, es decir, Jesús resucitado, presente en medio de la comunidad, encontrado, contemplado y vivido a través del mandato del amor. |
6. Santificación y misión |
Santifícalos (conságralos) en la verdad, pues$ tu palabra e$ la verdad. Como tú me enviaste al mundo, así yo los envío a ellos al mundo, y yo por ellos me consagro, para que ellos sean santificados en la verdad. |
(Jn 17,17-19) |
Para Jesús, santificación y misión son dos términos complementarios, como las dos caras de la misma medalla 0 dos aspectos de la misma realidad. Jesús pertenece totalmente a los planes salvíficos del Padre en favor de los hombres. Esta es su "consagración" 0 "santificación". Y así quiere que sean y vivan "los suyos". La inmolación 0 consagración de Jesús al Padre (Jn 17,19) tiene esta intención primordial: que "los suyos" vivan como él, consagrados totalmente a la misión salvífica en favor de todos los hermanos. |
La vida es autentica cuando queda orientada hacia Dios Amor. Los discípulos de Jesús viven, como él, orientados hacia el Padre y hacia sus planes de salvación universal. Para ello basta con vivir pendientes de los amores de Cristo, como auscultando los latidos de su corazón (Jn 13,23). |
La misión de Jesús se ejerce en el "mundo" amado por Dios. Ni Jesús ni los suyos pertenecen al "mundo" que se opone a Dios. Lo más querido de Jesús es el encargo omisión recibida del Padre, que le urge a dar la vida como buen pastor (Jn 10,1718.36). Este encargo precioso lo confía a "los suyos". Jesús quiere necesitar de nuestro pobre ser contingente, como transparencia del suyo ante el Padre y ante los hombres. La promesa y la' comunicación del Espíritu Santo hace posible la participación ontológica y vivencial en la consagración y misión de Jesús (In 15,26-27; 16,14). Esta misión totalizante nace del encuentro con Cristo resucitado yes su regalo de pascua (Jn 20,21-22). |
7. En la intimidad divina |
Yo les he da.do la gloria que tú me diste, a fin de que sean uno, como nosotros somos uno. Yo en ellos y tú en mi, para. que sean perfectamente uno y conozca el mundo que tú me enviaste y que les amaste a ellos como me amaste a mí... Quiero que dan de esté yo estén también ellos conmigo, para que vean mi gloria, que tú me has dado, porque me amaste antes de la creaci6n del mundo... ellos conocieron que me has enviado, y yo les di a conocer tu nombre... para que el amor can que me amaste esté en ellos y yo en ellos. |
(Jn 17,22·26) |
La unidad de Dios amor se refleja en el corazón y en la vida de los seguidores de Cristo. La comunidad eclesial se define como reflejo de esta unidad en |
la vida trinitaria (LG 4). Cada persona expresa su identidad a través de la relación de apertura y donación a las demás. Nuestra unión con Cristo se expresa en la unidad de comunión con los hermanos. La comunidad fraterna es signo portador del mismo Cristo (Mt 18,20; In 17,23). La participación en la vida divina y la unión con Dios se manifiestan en el servicio humilde y en la donación incondicional a los hermanos. |
Cristo comparte con nosotros el amor que tiene el Padre desde la eternidad. En nuestro ser, el Padre ya puede ver un reflejo del rostro de su Hijo. Todos los que encuentran a Cristo, es decir, que creen en él con el conocimiento amoroso de la amistad, ya comienzan a entrar en las intimidades de Dios amor. Esta "mística" 0 experiencia divina es para todos los creyentes (1 In 3,1-24). |
La experiencia de encuentro con Dios y con Jesús, su Hijo, se manifiesta y, al mismo tiempo, se' recibe a través de la experiencia de comunión con los hermanos. Esta comunión eclesial y fraterna se abre al infinito de Dios y, precisamente por ello, tiene proyección misionera sin fronteras. |
6. Sufrir amando (Jn 18-19) |
1. Identidad cristiana en el sufrir |
Sali6 Jesús con sus discípulos al otro lado del Cedr6n, donde había un huerto... Judas, pues, tomando la cohorte y los alguaciles..., vino allí con linternas, hachas y armas... Jesús les dijo: JA quien buscáis? Respondiéronle: A Jesús Nazareno. EI les |
respondi6: Yo soy... Retrocedieron y cayeron en tierra. |
(Jn 18,1-6) |
En el silencio y en la noche de Getsemaní resuenade nuevo la afirmaci6n de Jesús sobre su identidad de Hijo de Dios: "Yo soy". Ya se acerca la "exaltaci6n" de la cruz, cuando todos los que creen en el comprenderán que "el es" (Jn 8,28). Efectivamente, es el Señor que con su palabra ha dado origen, sostiene la existencia y dirige la historia humana (Is 52 6). La realidad, aunque sea Getsemaní, ya sólo tiene un nombre: manifestaci6n y cercanía de Jesús, que es el Verbo o. Palabra de Dios, en .nuestras circunstancias. La vida es hermosa también en el sufrir, porque todo suena a Dios enamorado, que nos atrae hacia él para hacernos capaces de donaClon plena. |
Su dignidad de Senor del univers9' Jesús la comparte con los suyos, con tal que quieran compartir con él su Getsemaní y su cruz Un 18,1; Mt 26,38). A Jesús le basta nuestra decisi6n de seguirle para compartir plenamente nuestra vida con él. Lo más amargo del cáliz lo bebe sólo él. Nuestro camino va siguiendo sus pisadas, que ya han abierto el camino y lo han hecho más llevadero. |
La realidad ya no es tragedia, sino camino de amigos enamorados. Jesús no ahorra el dolor a los suyos, pero les ensena a transformarlo en el gozo de compartirlo con él. En los momentos de soledad y de pobreza, Jesús se hace presente para decirnos, cuando y como él quiera, "soy yo". Nuestra experiencia de fe es un don suyo, que él no niega a nadie que quiera abrirse confiadamente a su amor. |
2. La copa de bodas |
Simón Pedro, que tenía una espada, la saco e hirió a un siervo del pontífice, cortándole la oreja derecha... Pero Jesús dijo a Pedro: Mete La espada en la vaina; el cáliz que me dio mi Padre, no lo he de beber? |
(Jn 18,10-11) |
Para Jesús, la pascua 0 paso hacia el Padre por medio de la muerte es el momento culminante de su desposorio con la Iglesia; es el momento de "la nueva alianza" 0 nuevas bodas, selladas con su sangre (Lc 22,20). Se trata, pues, de la "copa de bodas" (0 de alianza) preparada por su Padre para este momento supremo. |
Jesús va a bodas como esposo enamorado que no se detiene ante ningún obstáculo. A Jesús solo se le entiende compartiendo sus amores, que transparentan sus criterios y su escala de valores. Las palabras que Jesús dirige a Pedro son ya un anticipo del examen de amor Un 21,15ss), como continuaci6n de la primera mirada con que lo invit6 a seguirle del todo y para siempre (Jn 1,42). |
Jesús invita a los suyos a correr su suerte o a beber su misma copa de bodas (Mc 10,38). No sirven de nada nuestros planes y proyectos, si no llevan la impronta de la amistad con Cristo. Obrar al margen de su intimidad y de sus intereses sobre la gloria del Padre, y la salvación de los hombres seria el camino hacia el abismo de la duda, de la negaci6n y de la frustración. Las exigencias del seguimiento apost6lico solo se entienden a la luz de un enamoramiento. El amor es exigente porque es donación incondicional. En la perspectiva del amor, los momentos de Nazaret, de desierto y de cruz suenan a desposorio y a copa de bodas. En todas las cosas y acontecimientos se intuye un canto de amor que lleva a la contemplaci6n y a la misi6n. |
3. Atado por el amor |
Se apoderaron de él y le ataron y le condujeron primero a Anás. Seguían a Jesús Simón Pedro y otro discípulo . |
(Jn 18.12-15) |
Un cuadro inédito del buen pastor, que da la vida, sería el de representarle durante el regreso de Getsemaní con las manos atadas fuertemente y arrastrado a empujones. Cuando falta la sintonía con Cristo atado por el amor, las mejores teorías sobre la misión, la perfección, la contemplaci6n y la caridad pastoral se desvanecen ante el soplo de cualquier dificultad. |
Lo que cuenta no es cómo le ataron (¿con cadenas?), sino la libertad profunda de Jesús, que se mueve solo por e1 amor al Padre y a los hombres, hasta hacer de cada momento de su vida una donación sacrificial. Con las manos atadas, todavía su mirada amorosa convida a compartir la vida con él. |
Anás y Caifás eran también instrumentos de la Providencia. La "hora del Padre" cuenta con estos errores. Porque, en realidad, acertaran: "Un hombre tenía que morir por el pueblo" (Jn 18,14) "para reunir en uno a todos los hijos de Dios que estaban dispersos" (Jn 11,52). Jesús sigue amando a "los suyos" aun en el contexto de la negación de Pedro y del abandono de todos los demás. Sabe bien que los suyos lo aman y que, amándoles más a fondo en estas circunstancias de debilidad, los hará capaces de compartir con el e1 mismo cáliz, para testimoniar a Dios dando la vida. |
4. A la verdad por la caridad |
El pontífice pregunto a Jesús sobre sus discípulos y sobre Su doctrina. Respondió Jesús: Yo he hablado |
públicamente al mundo... Pregunta a los que me han oído... Habiendo dicho esto Jesús, uno de los alguaciles, que estaba a su lado, le dio una bofetada... Jesús le contesto: Si hable mal, muéstrame en que. y si bien, ¿por qué me pegas? .. Entretanto, Simón Pedro... le neg6 de nuevo, y al instante cant6 el gallo. |
(Jn 18,19-27) |
Jesús es siempre transparente y coherente. Vive y predica el amor y la verdad, a todas y a cada uno, en toda situación humana personal y comunitaria. Viene en nombre de Dios amor y vuelve con nosotros al seno de Dios, de donde vino para salvarnos. Nos ha contado la verdad y el amor en su origen, como fundamento y fin de nuestra existencia. Quien ve a Jesús, ve a Dios vivo. Jesús no sirve a ningún |
ídolo, ni de madera, ni de ideas, ni de intereses y poderes humanos. Su servicio hasta dar la vida tiene como objetivo recuperar. y restaurar la dignidad del hombre como imagen de Dios vivo, que es amor. |
Un golpe más en el rostro de Jesús no altera su decisión de devolver bien por mal. Jesús se defiende sin humillar al que le ha pegado. Ofrecer la otra mejilla (Mt 5,39) significaamar más hondamente al adversario y, de este modo, recuperarlo para la libertad, la verdad y la caridad. |
La libertad humana consiste en la libertad de poder hacer de la vida una transparencia de Dios amor y una donación para los hermanos. A la verdad del hombre y de Dios solo se llega por los caminos de la caridad. La verdad de Dios y del hombre se comienza a entender escuchando, admirando, amando y callando. |
5. Reino de la verdad |
Pilato le preguntó:¿Eres tú el rey de los judíos? Respondi6 Jesús: ... M i reino no es de este mundo... |
Tú dices que soy rey. Yo para esto he venido al· mundo, para dar testimonio de la verdad; todo el que es de la verdad oye mi voz. Pilato le dijo: ¿Y que es la verdad?.. Yo no hallo en este ningún delito. |
(Jn 18,33-38) |
Todo ser humano, como Pilato, comparece continuamente ante la verdad, que es Jesús. Todos, personas, comunidades e instituciones, somos juzgados por Dios amor, que nos ha hecho a su imagen. Verdad es el mismo Dios viviente, que nos ama, que es fiel a sus planes de amor y que quiere ver su rostro reflejado en sus hijos. Viviendo en nosotros y unido a nosotros, Jesús es el esplendor personal del Padre. |
Cada persona es verdadera 0 autentica si refleja algún rasgo de la fisonomía de Cristo, que da la vida por los hermanos. Siguiendo a Jesús como camino, nos hacemos verdad y fidelidad, y ya podemos comenzar a participar de la vida eterna. Buscar la verdad al margen de Jesús y de su mensaje seria, a lo mas, quedarse solo con las gotitas que salpican de la fuente. |
Jesús es rey y señor de la creación y de la historia. Ser atado y llevado ante un tribunal humano es la suerte permanente de Cristo y de los suyos. Así se expresa la debilidad omnipotente de la pobreza de Belén y de la desnudez de la cruz. Y así demuestra Jesús su señorío y su riqueza, es. decir, la máxima capacidad de darse como Dios amor. Es rey y señor que se da a sí mismo, y no solo sus cosas. Estas nos las da como signo pasajero, por e1 que aprendemos la trascendencia de su amor eterno. El que sigue a Cristo ya no se satisface con las "migajas"; ama a todos ya todas las cosas, pero como quien entrevé el misterio de cada persona y de cada cosa y acontecimiento. Este es e1 señorío de vivir la realidad de las cosas mas pequeñas y de las personas más marginadas, |
amándolas hasta lo más hondo de su misterio, donde se comienza a manifestar Dios Amor. |
6. Silencio sonora de hombre y Dios |
Tom6 entonces Pilato a Jesús y mcmd6 azotarle. Y los soldados, tejiendo una corona de espinas, se la pusieron en la cabeza, le vistieron un manto de purpura... y le daban bofetadas Sali6 Pilato fuera y les dijo: Ahí tenéis al hombre Pilato dijo a Jesús: ¿De dónde eres tú? Jesús no le dio respuesta alguna... Pilato sac6 a Jesús fuera y se sent6 ante el tribunal... y dijo: Ahí tenéis a vuestro rey. Pero ellos gritaron: ;Quita! ;Crucifícale! |
(Jn 19,1-15) |
Azotes, corana de espinas, burlas, insultos, bofetadas... porque era inocente. Y todo lo soporto por amor: "Me amo y se entrego por mi" (Gal 2,20). "¡He aquí e1 hombre!" En el hombre Jesús, humillado hasta el extremo, se van revelando los títulos que expresan su realidad: Mesías, rey, juez, Hijo de Dios... Es hombre y Dios, es decir, Dios hecho hombre. |
En Jesús se reve1a el misterio de cada hombre que sufre. Los gritos de crucifixión y rechazo no aminoraron su amor por nosotros. Su pascua, que es ya la nuestra, continua siendo así: es el "paso" amoroso que salva nuestra vida haciéndola vida eterna, y que transforma nuestro tiempo en eternidad. |
Jesús, la Palabra del Padre, habla a través de su vida de donación. Su silencio es sonora y grita amor. A través de su silencio comprendemos mejor Belén, Naza.ret, Getsemaní, la cruz y el sepulcro vacio y glorioso. El camino de la oración es camino de silencio sonora, como el de Jesús. Es silencio que suena a resurrección ya desde la cruz y desde el sepulcro vacio. Solo amando se comprende el lenguaje |
de Jesús (Jn 14,21). Cuando sus palabras, meditadas por nosotros, parecen silencio, entonces arrastran más el coraz6n. Nos basta con saber que habl6 y ca1l6, vivi6 y rnuri6 siempre por amor. Para quien aprende este silencio contemplativo, las palabras del evangelio suenan siempre a recién estrenadas. El lenguaje del amor es así; es silencio que duele, porque cura, purifica, ilumina, une y transforma. Así es la oraci6n de los pobres. |
7. Morir amando (Jn 19,16-42)' |
1. Cruz amada |
Entonces se lo entregaron para crucificarlo. Tomaron, pues, a Jesús, y el, cargando su cruz, sali6 al lugar llamado Calvario, que en hebreo se dice G6lgota, donde le crucificaron, y con él a otros dos... Sobre La cruz estaba escrito: Jesús Nazareno, Rey de los judíos. |
(Jn 19,16-19) |
El gesto de querer destruir al hombre hundiéndolo en el polvo ha sido ya vencido por el gesto de Jesús, que asume la cruz con amor para salvar a los mismos hermanos que le crucificaron. La cruz ya no es tragedia, porque se hace camino necesario de resurrecci6n. La pascua comienza en el camino de la cruz, pero no se queda en ella. Durante todos los periodos hist6ricos, y también en el nuestro, se han hecho caricaturas de la cruz. Pero ninguna caricatura, te6rica 0 practica, queda en pie ante el gesto que Jesús de tomar la cruz con sus propias manos henchidas de bendecir y acariciar. |
Cristo ya ha sufrido nuestra cruz de hoy, asumiéndola entonces como suya, también en la oscuridad de una aparente ausencia y presencia de Dios. Las circunstancias humillantes de una compañía indigna 0 de un letrero ir6nico no aminoran para nada la salvaci6n que deriva de la cruz. Otro camino de liberación que no sonara a amor crucificado seria s6lo un bronce que retine. |
Cristo sufre con nosotros, en nosotros, por nosotros. Sus manos parecen fuertes cuando aprietan la cruz por primera vez; pero paulatinamente esas mismas manos, por debilidad, dejaron resbalar el madero en el camino, arrastrando a Jesús en la caída. Es el amor el que cuenta. La debilidad ya no es obstáculo para la redenci6n, con tal que la voluntad se decida a amar siguiendo la voluntad del Padre. Nuestro sufrir puede "completar" el de Cristo (Col 1,24); Jesús entonces completa nuestra oración de pobreza y debilidad haciéndola suya. Solo el· amor hace posible perseverar en el camino hacia la cruz como "hora" y "copa" querida por el Padre; las debilidades naturales ya no harán más que aumentar la confianza y el amor. La cruz y el camino hacia ella ya se pueden amar, porque es Cristo quien nos espera en ella, quien la asume con nosotros y quien se hace camino y consorte en el caminar. |
2. Desnudez total |
Los soldados, una vez que hubieron crucificado a Jesús, tomaron sus vestidos, haciendo cuatro partes, una para cada soldado, y la túnica. La túnica era sin costura, tejida toda desde arriba. Dijéronse, pues, unos a otros: No La rasguemos, sino echemos suertes sobre ella para ver a quien le toca. |
(Jn 19.23-24) |
Para darse a si mismo hay que estar dispuesto a perderl0 todo, también las cosas más queridas. Jesús |
manifiesta su voluntad de Hijo de Dios amor, tanto. en Belén como en la cruz. No sabe dar su vida por los hermanos quien no está dispuesto a dar su dinero, su tiempo y sus ventajas y seguridades temporales. La "túnica inconsútil" de Jesús era la única que poseía, y también se la quitaron para hacerla objeto de un sorteo. La túnica se perdió, pero no el amor de las manos que la tejieron para Jesús. María, la mujer asociada a la redención,. está presente en el corazón y en todos los signos y gestos de la vida de Jesús; su trabajo de Nazaret se hizo asociación esponsal a Cristo. |
Clavarse en cruz por amor solo es posible cuando ha precedido una vida de pobreza. Cuando hay mucho oropel, riqueza y seguridades humanas, no es posible ver la cruz como donación de buen pastor. Entonces se inventan teorías alienantes que no satisfacen a nadie. Hablar de caridad pastoral y no querer afrontar las consecuencias de obediencia y de pobreza es un simple diletantismo que no lleva a nada positivo.. |
Amar como el buen pastor es sintonizar con su vida y con sus amores. Podrán quitarnos los cargos, los "derechos" adquiridos y las ventajas temporales. Inc1uso el Señor permitirá que se esfumen algunos dones suyos que eran pasajeros. Lo que nadie podrá quitarnos jamás es el poder correr la suerte de Cristo, que es la del granito de trigo. La túnica, hecha por amor, se la quitaron; pero Jesús hizo posible que el amor de su madre se perpetuara en la Iglesia, que es ahora la verdadera "túnica inconsútil'" del Señor. |
3. La máxima maternidad |
Estaban junta a la cruz: de Jesús su madre, la hermana de su madre, María la de Cleafás, y María |
Magdalena. Jesús, viendo a su madre y at discípulo amado, que estaba allí, dijo a la madre: Mujer, he aquí a tu hijo. Luego dijo al discípulo: He aquí a tu madre. Y desde aquella hora el discípulo la recibi6 en su casa. |
(Jn 19,25-27) |
La mirada de Jesús a su madre es uno de los signos que expresan su amor tierno a ella y a todos nosotros, que somos la Iglesia. En el contexto de los escritos de san Juan, María es "la mujer" Un 2,4), figura de la Iglesia, asociada a las bodas del. cordero (Ap 12,lss). Como tal, coopera para transmitir a todos la vida en Cristo. Es la madre de la Iglesia y de todos los hombres. |
EI "signo" de confiar a María al "discípulo amado" forma parte de los signos salvíficos de Jesús. Las circunstancias más sencillas de la vida, y no solo los milagros, son, para Jesús, parte de la historia de salvación. Jesús ha salvado nuestra historia haciéndola prolongación y complemento de su historia salvífica. |
El "discípulo amado" recibe el encargo de cuidar de María. En realidad se confía a Marlo continuar su maternidad sobre el cuerpo místico de Cristo. Su maternidad continua, porque Cristo vive resucitado en el corazón de cada fiel y en toda la comunidad eclesial. El discípulo amado representa a todos los creyentes; por esto todos los fieles miran a María como modelo de la fe y madre de una vida nueva. Ella será el modelo de la maternidad de la Iglesia (Mc 3,33-35). Pero es también el mismo discípulo, Juan el apóstol, quien recibe el encargo personal para sí. La ternura materna de María para con los apóstoles es escuela de contemplaci6n de la palabra y de maternidad apostólica fecunda (Gal 4,4-19). |
4. Morir de un "sí" |
Después de esto, sabiendo Jesús que yo, todo estaba cumplido, para que se cumpliera la Escritura, dijo: Tengo sed... Cuando hubo gustado el vinagre, dijo Jesús; Todo está cumplido. E inclinando la, cabeza, entrego el espíritu. |
(Jn 19.28-30) |
Jesús sigue siendo el señor y el rey del drama que se desarrolla por su causa. Es el único que tiene poder de entregar la vida por sí mismo (Jn 10,18). Jesús ha hecho de la vida un "si", y ahora, en la cruz, hace de la muerte un don al Padre, en el Espíritu, para salvar a todos los hombres. |
El Hijo de Dios ha querido hacer la experiencia de sufrir hasta la cruz, para dejarnos la señal de que nuestro existir no le es indiferente. El ha vivido nuestra vida en su propio corazón antes de que nosotros existiéramos; por esto sufre en cada hombre que sufre para ayudarle a transformar el sufrimiento en amor. Para ello nos deja la oportunidad de experimentar el silencio y la ausencia que él experimentó, para encontrar la verdadera experiencia de la palabra y de la presencia de Dios. |
Su sed es la expresión de una vida que seha hecho inmolación en las manos del Padre para. poder saciar la sed que los hombres tienen de verdad y de amor. Su "sitio" (tengo sed) es la invitación a vivir del "agua viva" 0 a participar en la vida nueva del Espíritu. El buen pastor, que da la vida en la cruz, manifiesta a "los suyos" su sed de las ovejas que todavía están lejos (Jn 10,16). La hora central de la historia del mundo es el "si" 0 la entrega que Cristo hace de sí mismo al Padre por la liberación de toda la humanidad. Muchos "maestros" enseñaron "caminos" (métodos) de purificación, oración y de paz interior; sólo Jesús puede enseñar el "camino" hacia Dios amor: vivir y morir amando. |
5. Corazón abierto: sangre y agua |
Uno de los soldados le atravesó con su lanza el costado. y 0,1 instante sali6 sangre y agua. El que lo vio do, testimonio, Y su testimonio es verdadero; él sabe. que dice la verdad. para que vosotros creáis, porque esto sucedió para que se cumpliera la Escritura: No romperéis ni uno de sus huesos... Mirarán al que traspasaron. |
(Jn 19.34-37) |
Juan invita a mirar la "gloria" de Jesús, que, exaltado en la cruz, atrae a todos a sí (Jn 12,32-33). Es el gran signo de la pascua: el cordero inocente e inmolado. Es la gran señal, en la que participa esponsalmente "la mujer", es decir, María, como figura de la Iglesia (Ap 12,1). Mirando al que traspasaron (Zac 12,10) se contempla, con los ojos de la fe, al |
cordero pascual (Ex 12,46; Num 9,12). |
Verdaderamente, en el corazón abierto de Jesús muerto en cruz "hemos visto su gloria" (In 1,14). Ya hemos visto y creído en Jesús, el Hijo de Dios que, hecho hombre por nosotros, ha dado su vida por amor. El "séptimo" signo anuncia el nuevo séptimo día, que es el día del Señor 0 el día primero de la nueva cread6n (Jn 20,1). Un día cualquiera, transformado en donación, Cristo nos lo convierte en inicio de vida eterna. |
La nueva creación en el Espíritu se realiza como nueva alianza de amor, que se sella en "sangre y agua" (1Jn 5,6). Jesús, derramando su "sangre", ya puede comunicar el "agua" de la vida nueva en el Espíritu (Jn 7,37-39). Son los torrentes de agua que brotan de la fuente de la salvación (Is 12,8). Esta es la clave de todo el evangelio: por la muerte del cordero pascual renacemos a la vida nueva del Espíritu. Nace la Iglesia esposa del costado del nuevo Adán "dormido" en la cruz (Gen 2,21). En la cruz gloriosa comienza la resurrecci6n y pentecostés. Ya se ha realizado |
la nueva alianza. Esta fe viva y contemplativa, que descubre la gloria de Jesús en su carne humillada, necesita constantemente del testimonio apostólico (In 19,35). La carne de Cristo es la fuente de todos los dones divinos: el Espíritu Santo, la Iglesia, e1 bautismo, la eucaristía, la participación en la vida divina. No se podría entrar en el corazón de Dios sin compartir con Cristo el escándalo de la cruz. |
6. Sepulcro nuevo |
José de Arimatea... tom6 su cuerpo. Lleg6 también Nicodemo... y trajo una mezcla de mirra y áloe, como unas cien libras. Tomaron, pues, el cuerpo de Jesús y lo fajaron con bandas y aromas... Había cerca del sitio donde fue crucificado un huerto, y en el huerto un sepulcro nuevo... Allí{ pusieron a Jesús. |
(Jn 19,38-42) |
En Betania Jesús ya había aceptado los ungüentos de su sepultura (Jn 12,3-7). Por parte de una pecadora convertida, basto el gesto contemplativo y comprometido de romper el alabastro. Cada uno aporta lo suyo, desde lo hondo y con autenticidad de un corazón de amigo: el sepulcro nuevo (José de Arimatea), abundancia de perfumes (Nicodemo), la presencia silenciosa y activa de "los suyos" que comparten el escándalo... Ya todo suena a nueva creación, preparada en la pobreza de una carne totalmente humillada y de una pascua 0 paso hacia Dios que parecía callar. |
La carne de Jesús y el "cuerpo" místico de su Iglesia son signos pobres, que se dejan leer e interpretar solamente por los corazones que se deciden a aceptar y vivir el don de la fe. Solo esta fe, que se expresa en "sentido" y amor de Iglesia misionera, se |
hace preanuncio de la nueva creación en el Espíritu. Sin este amor de Iglesia no habría contemplaci6n ni misión. |
Se necesita mucha audacia y, sobre todo, mucho enamoramiento para poder decir como la esposa de . los Cantares cuando parecía que todo sonaba a vacío y ausencia: "Este es mi Amado" (Cant 5,16). Es el gesto mariano de la "Pietà", con Cristo hecho pedazos en su regazo. Y es también el gesto doloroso y esperanzador de una Iglesia madre que, para engendrar a la vida nueva, tiene que mostrar una cruz y un sepu1cro. Solo por este camino contemplativo y "escandaloso" de fe, esperanza y caridad se descubre a Cristo resucitado presente. La fe no nace de un negocio fácil ni de una eficacia inmediata, porque se trata de correr la suerte de Cristo para comprender y vivir sus exigencias. La Iglesia contemplativa, como María, es la esposa engalanada con la luz y gloria de Cristo esposo (Ap 12,1; 21,2). |
Caminos de contemplaci6n (Jn 13-19) |
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DINAMICA CONTEMPLATIVA Y MISIONERA DE LA VIDA CRISTIANA
Escrito por Super UserLíneas conclusivas
DINAMICA CONTEMPLATIVA Y MISIONERA DE LA VIDA CRISTIANA |
Contemplaci6n y vida cristiana |
Juan nos ha enseñado a auscultar la persona y elmensaje de Jesús de coraz6n a coraz6n (In 13,23). Es una actitud parecida a la de Jesús que, siendo el Verbo 0 Palabra de Dios, vive en el seno del Padre (In 1,28), como una mirada 0 "relación" personal, amorosa y eterna. La mirada de Cristo a "los suyos" tiene reflejos de vida eterna e infunde en ellos la convicción de sentirse amados y 1a decisión de amarlo y de hacerle amar. |
La vida cristiana es un camino de caridad (1 Cor 12,31) que se hace encuentro con Jesús. Y es el mismo Jesús quien se hace camino y caminante con nosotros. 'La experiencia de encuentro con e1 se hace experiencia de Dios y se traduce en caridad fraterna, que es 1a experiencia del misterio de Dios amor en el hermano. La fe es siempre ir a Cristo para participar en una vida nueva. |
La encarnaci6n del Hijo de Dios, que en cierto modo, une a sí a cada hombre (GS 22), es el fundamento de la experiencia cristiana de Dios, que puede ser muy profunda sin ser necesariamente muy "sentida". Lo importante es comprometer toda la existencia en 1a adhesión personal a Cristo 0 en una opción definitiva por él. Es cuestión de convicciones y decisiones como respuesta a1 "don de Dios" (In 4,10) y como parte del mismo don. |
El "conocer" cristiano es un conocer amando (Jn |
10,14; 14,21), que hace entrar en la familia y comunión de la misma vida divina del Padre, del Hijo y del Espíritu Santo (Ef 2,18). Este don, que es de iniciativa divina, Dios lo da a todos los que se abren a Cristo. Todos son invitados a esta escuela del Espíritu (In 7,37). En Jesús descubrirnos al Verbo de Dios amor: "Hemos visto su gloria" (In 1,14). |
Los encuentros con Cristo, descritos en el evangelio de Juan, se presencializan de algún modo en los nuevos interlocutores de Cristo, que se encuentran en todas las circunstancias y en todos los momentos hist6ricos. £1 pasado de Jesús se hace presente por el don del Espíritu que Cristo ofrece a todos los hombres de todas las épocas. Las narraciones evangélicas ya tienen carácter universal y ultraternporal. El evangelio se continua "escribiendo" mejor, realizando en cada nuevo Nicodemo, samaritana, paralitico 0 ciego que somos cada uno de nosotros. La cuestión que se plantea es siempre la misma, resumida en el drama joánico: "no lo recibieron", "lo recibieron" (In 1,11-12). |
Compartir la vida con Cristo |
El camino del encuentro es la humanidad de Jesús caminando entre nosotros 0 clavado en cruz. Cristo se hace siempre luz, verdad y vida, porque se hace donación. Juan nos invita a mirar con ojos nuevos (Jn 19,37), para descubrir, a través de los. signos pobres de la "carne" de Jesús, su divinidad y nuestro misterio de comunión con él. Los ojos se ciegan cuando no miramos con corazón auténtico. |
Si no reconocernos nuestra pobreza 0 limitaci6n, no descubriremos a Dios escondido en ella (Jn 1,14) ni a "Jesús de Nazaret" que nos espera en ella (In 1,45). Ahí, en lo más hondo de nuestro ser, amasado |
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de contingencia y con sed de trascendencia, nos espera él desde siempre, para ayudarnos a pasar de las tinieblas a la luz. A Cristo se le encuentra cuando nos decidirnos a profundizar 0 "beber en el propio pozo" (san Bernardo), por el camino de la propia pobreza (autenticidad) y guiados por e1 Espíritu: "en Espíritu y en verdad" (In 4,23). Es allí donde se descubre que cada hermano y cada pueblo es turbinen una historia de amor. |
La "vida eterna", que Cristo ya comienza a comunicarnos desde ahora, es la participación en la misma vida de Dios. Es siempre un don totalmente gratuito de Dios, oferta y promesa del Espíritu, que quiere penetrar y transformar todo nuestro ser, cuerpo y espíritu, para hacerse don definitivo y para siempre. Este don se hace tarea y compromiso nuestro. El creyente es admitido a participar en la vida y comunión intima de Dios amor, uno y trino. Nos invitan a participar, corno hijos, en la familia de Dios. Nos invitan a "ver" a Dios, que se hace visible en el amor de Cristo y, de algún modo, en nuestro amor a los hermanos. Nuestra experiencia de Dios es posible desde que la luz de Dios ha penetrado nuestro barro. |
El encuentro de cada uno con Cristo es peculiar, irrepetible e irreemplazable. Por esto el camino concreto, el modo y el tiempo de este encuentro, es también peculiar. Todos los que han encontrado a Cristo nos ayudan y estimulan; pero nadie nos puede suplir. Es un encuentro que comienza, continua y llega a plenitud, como escucha humilde, confiada y contemplativa de quien ausculta el corazón y los amores de Cristo (In 13,23) y de quien medita en el corazón (Lc 2,19.51) como sintiéndose asociado a "la hora" de Cristo (In 2,4). Basta con dejarse mirar por esta mirada amorosa del Señor, que resume y comunica toda su persona y todo su mensaje. Dejarse mirar por Cristo, hasta el fondo del propio corazón, |
equivale a sacar de las pavesas de nuestra debilidad un nuevo rostro de hijos de Dios. |
El camino de la contemplaci6n, según san Juan, es sencillo y posible para todos. El signo y garantía de haber encontrado a Cristo y, en el, haber experimentado a Dios es la comuni6n fraterna por medio del mandamiento del amor. El encuentro con Dios es un examen permanente de amor, por un proceso de vaciarse de sí (purificaci6n de tinieblas), llenarse de Dios (luz y vida) y hacer de la propia vida un don para Dios y para los hermanos (unión). Es, pues, un "paso" 0 pascua permanente de nueva creaci6n a través de un proceso que es en cada momento, aunque con diversa intensidad, un proceso de purificaci6n, iluminaci6n y uni6n. Hay que emprender este camino perdiendo el miedo al amor y a sus exigencias de totalidad. |
Dios manifiesta su "gloria" en la debilidad de la carne del Verbo hecho hombre (In 1,14), que hace descubrir el sentido de la realidad hist6rica concreta. La "vida en el Espíritu", "espiritualidad" (Rom 8,49), es el camino hacia la realidad, como "camino de amor" (Ef 5,1) hacia la recuperaci6n del primer rostro del hombre y de la unidad del coraz6n humano, como reflejo de la unidad de Dios y, por tanto, de la unidad con Dios, con los hermanos y con el cosmos. Es una nueva vida 0 nuevo nacimiento, por Cristo y en el Espíritu, en la que los ojos y el corazón ya suenan a la novedad eterna de Dios amor. La acción del Espíritu unifica nuestra interioridad en la búsqueda de la verdadera sabiduría y realizaci6n de la persona humana. |
Cristo protagonista hace suyo nuestro caminar, y el mismo se hace camino hacia un "s1" de unidad y encuentro definitivo con Dios. Con el vamos hacia la restauraci6n de todo el cosmos y de toda la humanidad en la plenitud de Dios. El "mundo" es amado |
y atraído hacia la cruz gloriosa de Cristo, que muere amando para comunicar su Espíritu. Todo el que ha encontrado a Cristo queda responsabilizado de esta misi6n universalista y totalizante, a modo de desposorio. Por necesidad intrínseca ala contemplaci6n, del encuentro con Cristo se pasa a la misi6n. |
El encuentro de todos los días es inicio y pascua 0 paso hacia la vida eterna, donde "veremos a Dios tal como es" (1 In 3,2). El futuro ya comienza en el momento presente. Gracias a la victoria de Cristo muerto en cruz nuestro tiempo queda salvado, convirtiéndose en preparaci6n de unas bodas eternas 0 encuentro definitivo. |
La escuela del Espíritu |
La oraci6n contemplativa es diálogo y trato de amistad. Es apertura del coraz6n a la Palabra, 'como quien tiene sed y necesita el "agua viva". Se desea ardientemente profundizar en la persona de Cristo, que es la Palabra 0 Verbo encarnado, para permanecer en .su amor por medio de un silencio activo de donación. Es una progresiva interiorizaci6n de la Palabra revelada, asimilándola y actualizándola como María, bajo la acci6n del Espíritu Santo, para convertirla en el compromiso de toda una vida gastada por Dios y por los hermanos. Entonces nos dirá Juan: "La palabra de Dios mora en vosotros" (1 In 2,13). |
En la escuela del Espíritu se aprende esta oraci6n contemplativa, que es la oraci6n de los pobres. Buscando y mirando a Cristo, ya no nos espantan los signos pobres del encuentro. En esta escuela del "padre de los pobres" se han perdido todos los privilegios y complejos, para quedarse solo con el Señor, tal como le gusta a él. Aprendemos a hacer de nuestro ser quebradizo una atenci6n 0 advertencia |
amorosa y sosegada, que equivale a una mirada de pobre, que se abre incondicionalmente ante Jesús, luz, verdad y vida. Basta con manifestar nuestra sed a quien ofrece el agua viva del Espíritu (Jn 7,37-39). |
En Cristo aprendemos a hacer de la vida una "mística", es decir, una respuesta "intima" a una llamada eterna de amor, aunque sea en oscuridad y pobreza, pero queriendo hacer de nuestra respuesta y mirada de amor una donación de totalidad y de universalismo. Eso es el "éxtasis" 0 salir de sí mismo: amarle del todo y hacerle amar de todos. Basta con empezar balbuceando todos los días, apoyados en la presencia y en la palabra del amado. |
Desde nosotros y viviendo en nosotros, el Verbo sigue siendo la mirada (0 relaci6n) personal y pura al Padre en el amor del Espíritu. Con el entramos en la "intimidad" 0 "misterio" de Dios amor. Hemos entrado en la interioridad de Jesús, el orante, el Verbo "vuelto" al Padre, que revela los misterios 0 intimidades de Dios amor. El camino hacia el centro, hacia el misterio del amor, dura toda la vida, como |
un continuo retorno a Dios. |
En su misma persona y vivencia, Jesús se hace pedagogo de nuestro camino contemplativo. Su identidad se afirma y consolida cuando subraya su unidad con el Padre (Jn 10,30); por esto su ser y su vivencia son una mirada amorosa hacia él. De modo parecido, la identidad del hombre se salva solo cuando se hace relación de amor y de donación a Dios y a los hermanos. Es la paradoja de la contemplaci6n cristiana. Solo afirmando la trascendencia de Dios se puede salvar la identidad y el misterio del hombre. Solo admitiendo la gratuidad del don de la contemplaci6n tiene lugar la relación personal y el dialogo amoroso con Dios. De este modo, al encontrar la unión con Dios partiendo de la propia pobreza radical (contingente), atravesando el aparente "silencio |
y "ausencia" de Dios, se caen por su peso los |
ídolos pseudorreligiosos y todas las formas de· "ateísmo" camuflado: dios "idea" 0 "sistema", dios "yo", dios "comodidad" y eficacia, etc. Porque sólo Dios, totalmente "otro", puede salvar al hombre haciéndolo entrar en el misterio de su comunión divina. EI hombre, en su verdadero yo, ha sido creado para edificarse como imagen de Dios amor. |
Una oraci6n y contemplaci6n falsa conduciría a una falsa liberaci6n del hombre. Si no se parte de Dios Amor, que se comunica gratuitamente al hombre, se busca solo "liberar" al hombre para someterlo a nuevos ídolos, que son la "gnosis" de todos los tiempos.. Ese "dios ídolo", que puede ser de dinero, de drogas, poder, odio, consumismo, humanismo radical, etc., no existe. Sólo sería un nuevo ídolo que intentaría dominar la comunidad al margen de los pastores, es decir, prescindiendo de Cristo cabeza y buen pastor, que dio la vida por amor. La contemplación cristiana no es producto humano de una "gnosis", antigua 0 moderna, sino que es encuentro con Cristo, don e iniciativa suya, que deja la huella de su paz; del gozo de vivir, de la unidad y serenidad del corazón, de la pobreza compartida, de la libertad plena y, por tanto, de la vida eterna. |
La escuela del Espíritu nos ensena a decir "Padre nuestro" con una actitud filial que es prolongación de la voz y del amor de Cristo. Por esto abarca a toda la comunidad universal de hermanos y a todo el cosmos. |
Conocer amando |
Juan nos habla de nuestro conocimiento experimental y afectivo de Dos en Cristo. Se conoce a Dios cuando se le ama (l Jn 4,7). Podemos estar con |
Cristo (In 1,39), permanecer en el (In 6,56; 15,4), que equivale a permanecer en Dios (I In 4,16). Es un conocer intuyendo y amando, vivencia honda, como Jesús conoce al Padre y a los hombres en su ser mas intima. Es experimentar la amistad can Cristo (Jn 15,14) y el amor entre el Padre y el Hijo y el Espíritu Santo (Jn 15,9.10; 14,23). |
Jesús se manifiesta a los que le aman (Jn 14,21) y les invita a una cena 0 boda de encuentro definitivo (Ap 3,20); par esto nos comunica, ya desde ahora, una paz y un gozo en el Espíritu Santo que nada ni nadie nos puede arrebatar (In 16,22.23). Es el gozo de un renacer (In 3,5) que nos hace pasar a un presente eterno como victoria de nuestra fe (1 Jn 5,4). Es la actitud de "bienaventuranzas" ola convicción de que ya siempre se puede hacer lo mejor: amar. |
Conocemos a Jesús en su interioridad 0 en sus amores ("corazón") a partir de sus manifestaciones sensibles. La fe, que es don del Espíritu, se une al realismo' de la humanidad de Cristo. Conocemos su misterio y su amor tierno de amigo "por el Espíritu que nos ha dado" (l Jn 3,24). Por él podemos conocer al Padre (Jn 17,3; 14,9). |
Abriendo nuestros ojos y nuestro corazón a Cristo que viene, "conocemos" amando la encarnación del Hijo, el amor del Padre, la adopción de hijos y la inhabitación de la Trinidad en nosotros. La con· templaci6n cristiana es tremendamente realista: a partir del "ver" y del estar con Cristo (In 1,38-39), ya podemos descubrir al Dios escondido y manifestado en él(Jn 1,18). A Jesús se le conoce en la medida en que se le ama. "En el evangelio de Juan resplandecen los dones de la vida contemplativa, pero solo para quienes sean capaces de reconocerlos" (san Agustín). Los carismas básicos de la contemplación son para todos, puesto que se trata de la comunión con Dios; pero hay que aceptar gozosamente la gratuidad |
de estas gracias y vivirlas en el contexto de la comunidad eclesial. |
La contemplaci6n del Verbo, a través de su humanidad y en la escuela del Espíritu, nos conduce a la "fuente cristalina" del fondo de nuestro ser donde Dios refleja su semblante y hace nuestro semblantesemejante al suyo. Bebiendo del agua de su pozo, el hombre recupera paulatinamente su rostro 0 su imagen original. Es la sabiduría contemplativa de ir al fondo de las cosas descubriendo el misterio del hombre y del mundo, amados por Dios, y que son, por tanto, una historia de amor. |
El camino contemplativo de Juan es el camino de ver, conocer, permanecer, estar, reclinar la cabeza... Es. el mirar con amor al gran signo del corazón abierto de quien murió amando a todos los hombres para comunicarles el Espíritu (In 19,30·37). Se entabla entonces una relación personal con Cristo, que propiamente es mterre1aclOn y que tuvo en él la iniciativa, para ir pasando con él hacia la visión de D.ios amor. Solo Jesús es el pan, la luz, la verdad, la vida, el camino... No nos enseña sólo una experiencia (como los maestros espirituales 0 fundadores de otras religiones), sino que e1 mismo, con todo lo que es, se hace nuestra experiencia de Dios. |
EI encuentro con Jesús de Nazaret, que vive en los hermanos y en el mundo, deja en el corazón las huellas de una fe profunda en su misterio, y de un amor como el suyo, a Dios y a los hermanos. Es también huella de confianza, humildad, fidelidad a sus mandatos... La actitud contemplativa es actitud mariana que recuerda el desposorio 0 alianza con Dios amor (J~ 2,5; Ex 19,4-6). Es un camino y un nuevo nacimiento, hacia el infinito de un encuentro esponsal definitivo. Por esto es camino de equilibrio entre la experiencia y los signos elegidos por Jesús (sacramentos, instituciones) que se traduce en una paz |
profunda del corazón. Ya no sirve de nada el quejarse de otros y culpar a otros; basta con anunciar y construir la verdad sin complejos, haciendo de todo una vida de donación. |
Jesús Maestro |
Jesús mismo se ha hecho Maestro del encuentro con Dios por un camino de oración contemplativa, que ya puede comenzar una pobre samaritana, si se decide a orar 0 "adorar en espíritu y verdad" (Jn 4,23). Jesús nos invita a "orar en su nombre" (Jn 16,23), es decir, unidos a él, porque es él quien se nos hace el templo 0 el lugar del encuentrocon Dios (Jn 2,19). Uniéndonos a él, como amigos o amados y como el sarmiento en la vid, nuestra vida se hace mirada a Dios (Jn 1,1) y glorificación de Dios(Jn 17,4). Jesús se revela orando y enseña a orar con actitud de amistad, de relación personal y de autenticidad. Las páginas del evangelio en que se narra su encuentro coa---los discípulos y con los pobres se hacen nuestra biografía y nuestro propio camino de oración. |
En Jesús aprendemos a unificar la vida, en los momentos de oración y en los de acción (misión), haciendo de todo una actitud relacional con Dios, que se traduce en dar la vida por los hermanos. A la luz de Jesús, la naturaleza, en todos sus detalles (ag.ua, aire, luz, tierra...), refleja el amor esponsal o alianza de Dios; todo se hace epifanía de Dios amor, que ama al mundo del hombre para transformarlo en gloria definitiva de Dios y en bien del mismo hombre. Jesús, el gran orante (cc. 12 y 17 de Juan), ilumina y acompaña todo e1 camino de la contemplación, haciéndose élmismo nuestro camino. |
El proceso de la oración contemplativa o de relación personal con Dios va pasando de la reflexión, |
del sentimiento o afecto y del diálogo, a una actitud sencilla de adoración, admiración y silencio de enamorado. Es la actitud que nace de vislumbrar un misterio infinito y, al mismo tiempo, de no querer manipularlo; basta con quedarse pobremente callado ante el misterio de Jesús: "Así ama Dios al mundo" (Jn 3,16), "he aquí al hombre" (In 19,5), "mirarán al que traspasaron" (Jn 19,37)... |
En la escuela del Espíritu Santo (Jn 16,13) aprendemos a interiorizar las palabras de Jesús, haciendolas llegar a la raiz de nuestro modo de pensar, de valorar las cosas y de actuar. El Espiritu no anade nuevas revelaciones, sino que profundiza en el misterio infinito del Verbo del Padre hecho nuestro hermano. La luz del Espiritu se comunica siempre en el contexto de la comuni6n eclesial, donde la palabra de Dios es predicada, celebrada, escuchada, vivida, anunciada a todos los hombres. Sin este contexto, el hombre se encontraría con otro ídolo fabricado por él mismo. Juan contempla al Verbo a través de su carne (humanidad). Ahora encontramos a Cristo a través de sus signos de Iglesia. |
La palabra interiorizada por el Espíritu lleva a la unión con Dios, a la comuni6n con los hermanos y a la armonía con el cosmos. Por esto se convierte en misi6n sin fronteras. Quien ha encontrado a Cristo queda misionado para anunciarlo y comunicarlo a otros. La palabra de Dios se hace respuesta del hombre a Dios y vida de Dios en el hombre. Es palabra que purifica e ilumina al hombre, une con Dios, da sentido a la vida, pasa por la unificaci6n del corazón y lleva al servicio de la misión. Se contempla a Jesús, el Verbo hecho carne, para dar testimonio de él a todos los hombres de todos los tiempos. A Jesús se le encuentra en el seno del Padre, que nos lo ha dado para todos. La dinámica contemplativa es dinámica de misión eclesial, para poder ser signo transparente de Cristo: "Hemos visto su gloria". |
Iglesia} comunidad contemplativa y misionera |
La naturaleza de la Iglesia es de carácter contemplativo y mariano, que es la base de su maternidad misionera: recibe al Verbo en su seno y lo comunica al mundo bajo la acci6n del Espíritu Santo. Es la virginidad del corazón que reclama, a veces, la virginidad de todo el ser. El que ha contemplado a Jesús bajo la acci6n del Espíritu del Padre ya puede entregar al mundo la vida nueva del Espíritu. En el coraz6n de Cristo abierto en la cruz se aprende a vivir y morir amando para entregar el Espíritu a todos los hombres. |
El camino de la contemplaci6n es camino de pascua: pasa por la muerte a la vida. La suma pobreza de quien no tiene nada más que la presencia y la palabra de Dios se hace la suma riqueza que consiste en la capacidad de darse. Jesús vive en el coraz6n de "los suyos" y en el coraz6n de la Iglesia por el Espíritu, para darse a todos los hombres por medio de la misi6n de la misma Iglesia (Jn 20,21-22). La Iglesia es misionera en la medida en que viva la tensión contemplativa y escato16gica del final del Nuevo Testamento: "El Espíritu y la esposa dicen: Ven... Yen, Señor Jesús" (Ap 22,17-20). |
En el camino de la oraci6n se comparte la "pasi6n" de Cristo, que es de pascua hacia el Padre. Jesús libera del sufrimiento transformándolo en donaci6n, "como el granito de trigo" (Jn 12,24). Para la victoria definitiva de toda clase de mal, también del que enraíza en nuestro cuerpo mortal, Jesús ha querido necesitar de nuestra colaboraci6n como complemento SLJYO (Col 1,24). Cristo sufre en cada hombre que sufre, e invita a "los suyos" a correr esta misma suerte, transformando el sufrimiento en amor. El dolor puede hacerse comuni6n con Cristo, para beber su misma copa de bodas (In 18,21). |
Las circunstancias de cada día son un paso del tiempo a la eternidad. Solo es irreversible e imborrable lo que nazca del amor. Unidos a Cristo es posible vivir esta mística de pascua. La cosmovisi6n cristiana consiste en ver y amar el mundo· desde Cristo crucificado y glorioso. La mística cristiana es desposorio: unirse a Cristo para correr esponsalmente su misma suerte. |
La contemplaci6n que nos describe el evangelio de Juan continua en la Iglesia. Ningún libro, ni el mismo evangelio, lo puede decir todo, porque el encuentro de Cristo con cada hombre es un nuevo fragmento del "evangelio", aunque no sea ya palabra inspirada. |
Juan de la Cruz seinspir6 en el cuarto evangelio para hablarnos de la "fuente que mana y corre", "la llama de amor viva" (el Espíritu Santo), la palabra que Dios pronuncia en el silencio y que "en silencio debe ser oída"... De esta experiencia contemplativa, al estilo del evangelio de Juan, se pasa fácilmente a la experiencia contemplativa y misionera de Pablo. |
Muchos hombres de buena voluntad, en el seno de otras religiones, "abandonan todo para vivir en estado de pobreza y de pureza, en búsqueda del Absoluto..., llegando a hacer a veces de la propia vida una donaci6n de amor a la divinidad" (Juan Pablo II, Exhortaci6n apostólica a los j6venes, 31-3-85). La característica especial de la contemplación cristiana camina por esta misma línea, pero dando el salto al infinito del mandato del amor a la luz de las bienaventuranzas y de la encarnación del .verbo. |
Nosotros hemos sentido la llamada a acoger la gratuidad del don de Dios amor en su Hijo (In 3,16), que nos infunde su vida divina transformando nuestro ser desde lo más hondo: "El amor de Dios se ha derramado en· nuestros corazones por virtud del Espíritu Santo, que nos ha sido dado" (Rom 5,5). Es |
el "agua viva" que Cristo ofreci6 a todos los sedientos (Jn 7,37-39). |
La liberaci6n del hombre y de toda la humanidad comienza en un coraz6n pobre, es decir, abierto a la palabra de Dios amor y libre para amar (Jn 8,32). S6lo entonces se acierta en la opci6n preferencial por los pobres. |
A Juan le bastaba ver, palpar, sentir, oler y gustar el agua, la luz, la tierra, el aire, las cosas..., para descubrir a Dios amor. Pero, sobre todo, en cada persona intuía una historia de amor. En este "mas allá" de todos los días y de todas las cosas esta la gran realidad del misterio del hombre, que es ya misterio de Dios. |
Hay que decidirse a perderlo todo por el Todo. Pasar la vida buscando s6lo sucedáneos en nuevos métodos y nuevas definiciones de contemplaci6n seria cerrarse el camino a la experiencia de Dios. Hay que decidirse a ser pobre de todo, incluso de "métodos" contemplativos (valorándolos en su justo medio), para quedarse con el (mico "camino" ("método") que es Jesús, cercano a nuestra pobreza, responsable de ella y empeñado en hacer de nuestra vida una participaci6n de su "gloria". "Andando enamorada, me hice perdidiza y fui ganada" (san Juan de la Cruz). |
En nuestras cenizas y pobreza radical, donde ya se encuentra Jesús de Nazaret, podemos vivir la gran aventura contemplativa de todos los días y de todas las circunstancias: "Hemos visto su gloria". |
Caminos de contemplad6n y misi6n |
• A partir de nuestra circunstancia concreta, donde Cristo se nos hace presente, hay que aprender a dar un salto de apertura vivencial al don de la fe y del encuentro personal con Cristo para compartir la vida con él. |
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• La dinámica contemplativa es una vida "en el Espíritu, por Cristo, al Padre" (Ef 2,18). El Espíritu nos transforma en "gloria" o expresión de Jesús ante el Padre (Jn 16,14). Esta experiencia de encuentro, seguimiento, imitaci6n, unión y configuración con Cristo, se transforma en actitud de misión: "Ve a mis hermanos" (In 20,27).
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con Cristo se transforma en actitud de misi6n.: "Ve a mis hermanos" (Jn 20,17). |
• De 1a unidad de vida en e1 coraz6n, como expresi6n de la uni6n con Dios y con los hermanos, se pasa al compromiso de construir la humanidad y el universo en e1 amor. Es un proceso de encuentro con Cristo, que se concreta en respuesta a su Hamada, reconocimiento de nuestra realidad, escucha de su Palabra, amistad incondicional, despego de todo lo que no sea él, beber su misma copa de bodas, sufrir amando, hacer de la vida una donación... En este proceso Jesús deja oír su voz, aunque sea en 1a tempestad 0 en el sepulcro vacío. Entonces se vive la misi6n gritando a los cuatro vientos: "Hemos visto su gloria", "hemos conocido e1 amor", "os anunciamos lo que hemos visto y oído: la palabra de la vida". |
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SAN JUAN DE AVILA, MAESTRO DE ESPIRITUALIDAD CRISTIANA Y SACERDOTAL
Escrito por Super UserSAN JUAN DE AVILA, MAESTRO DE ESPIRITUALIDAD CRISTIANA Y SACERDOTAL
(Sumario)
I
SU FISONOMÍA ESPIRITUAL Y APOSTÓLICA
1. Algunos gestos espirituales más significativos de su vida
2. Escritos. Contenidos espirituales
II
MAESTRO DE ESPIRITUALIDAD CRISTIANA
1. Espiritalidad y vida cristiana
a) Espiritualidad, santidad, perfección
b) Las virtudes cristianas
c) La vida de oración
d) Seguimiento e imitación de Cristo
e) Ascética, sabiduría de la cruz, martirio
f) Espiritualidad y misión
2. El proceso de la vida espiritual
a) El camino contemplativo y de experiencia de Dios
b) El camino de la santidad o perfección cristiana
c) Obstáculos en la vida espiritual
d) Medios básicos de espiritualidad
3. Vocaciones y estados de vida
a) La vocación cristiana común y diferenciada
b) Vocación al laicado
c) Vocación a la vida consagrada
d) Vocación al sacerdocio ministerial
III
MAESTRO DE ESPIRITUALIDAD SACERDOTAL
1. El sacerdocio cristiano
a) Cristo Sacerdote y Buen Pastor
b) Iglesia, pueblo sacerdotal
c) El sacerdocio ministerial
2. Los ministerios sacerdotales
a) La dedicación a los ministerios sacerdotales
b) Ministerio de la Palabra
c) Ministerios litúrgicos y sacramentales
d) Servir a la comunidad eclesial
3. Vida, espiritualidad y formación sacerdotal
a) Vida al estilo de los Apóstoles
b) Caridad pastoral y virtudes del Buen Pastor: pobreza, obediencia, castidad
c) La oración sacerdotal, unidad de vida
d) Obispo, Presbiterio, diócesis
e) Formación sacerdotal. Proyecto de vida
f) Líneas básicas de la espiritualidad y santidad sacerdotal en la escuela del Maestro Juan de Ávila
IV
LINEAS CONCLUSIVAS
Trazos fundamentales de su espiritualidad cristiana y sacerdotal
I
SU FISONOMÍA ESPIRITUAL Y APOSTÓLICA
1. ALGUNOS GESTOS ESPIRITUALES MÁS SIGNIFICATIVOS DE SU VIDA
La espiritualidad del Maestro Avila aparece con toda claridad en los principales gestos de su vida y en los contenidos de sus escritos. Son momentos fuertes de experiencia de Dios, de entrega a la voluntad divina y de servicio a los hermanos. Se nota una gran coherencia entre su vida y sus escritos.
Su infancia discurre en Almodóvar del Campo (Ciudad Real, Campo de Calatrava), desde su nacimiento (fiesta de la Epifanía de 1499 ó de 1500), hasta el inicio de sus estudios en Salamanca (1513). Los biógrafos hacen resaltar su piedad eucarística y mariana, así como sus gestos de caridad para con los pobres y su espíritu de sacrificio. Los estudios jurídicos en Salamanca discurren entre 1513 y 1517. Pero dejó incompletos los estudios, tal vez por una iluminación especial sobre el sentido de la vida, y regresó de nuevo a su ciudad natal (1517-1520), aunque es posible que estuviera ausente un tiempo en una orden religiosa.[1]
Fue a estudiar Artes y Teología en la universidad de Alcalá (1520-1526), aconsejado por un religioso franciscano. Fue ordenado sacerdote en 1526 y quiso celebrar la primera Misa en Almodóvar, para venerar la memoria de sus padres ya difuntos. Repartió todos sus bienes entre los pobres, que había convidado para la fiesta. Se trasladó a Sevilla con la intención de poder embarcar hacia las Indias con Fr. Julián Garcés, que partiría como primer obispo de Tlaxcala (México).
En Sevilla inició sus primeros trabajos apostólicos (desde 1527 a 1533). Se destacaba por su vida de oración y su labor catequética y caritativa. Las fechas sevillanas incluyen también alguna correría apostólica en ciudades de alrededor (Écija) y los años en que fue procesado por la Inquisición (1531-1533).[2]
Sus primicias apostólicas las realizó conviviendo con un compañero suyo de estudios en Alcalá, el P. Fernando Contreras. Con éste y otros sacerdotes se dedicó, con estilo de vida evangélica, a la predicación popular por las calles de Sevilla, a la caridad para con los necesitados y encarcelados. Un sermón predicado en la iglesia del Salvador, ante el arzobispo de Sevilla (Don Alonso Manrique), fue la ocasión que impidió su viaje misionero hacia las Indias. Los biógrafos señalan que las extraordinarias cualidades espirituales del predicador provocaron la decisión del arzobispo.
Su modo de predicar (alrededor de Sevilla: Écija, Alcalá de Guadaira, Lebrija...) no agradaba a todos y fue acusado ante la Inquisición, donde estuvo procesado entre los años 1531-1533. Hubiera podido tachar a los testigos, que lo habían denunciado calumniosamente y tal vez por haber denunciado sus conductas desarregladas; pero el Maestro prefirió confiar en la Providencia. Aprovechó aquellos tiempos de reclusión para escribir el primer proyecto del "Audi Filia". Fue en la cárcel donde principalmente aprendió el misterio de Cristo, porque, como diría posteriormente, "la Escritura Sacra la da nuestro Señor a trueque de persecución" (carta 2).[3]
Después del proceso inquisitorial, puede considerarse clérigo de Córdoba, a donde llega en 1535, llamado por el obispo Fr. Juan Álvarez de Toledo. Con base en Córdoba, reuniendo a sus discípulos en el Alcázar viejo, fue realizando las predicaciones y misiones populares por el sur de España (Andalucía, Extremadura, parte de la Manca y Sierra Morena).
A Granada acudió en 1536 para predicar, llamado por el arzobispo Don Gaspar de Ávalos. Se le ofreció una canongía que no aceptó. Allí ayudó a Juan Cidad (San Juan de Dios) a cambiar de vida (1535). También encontró a San Francisco de Borja con ocasión de predicar durante los funerales de la emperatriz Isabel (1539). Sus mejores discípulos los consiguió también en Granada y por esas fechas: Bernardino de Carleval, rector del Colegio Real, y Diego Pérez de Valdivia. En Granada están fechadas las primeras cartas que conocemos (desde 1538).
Por donde pasaba para ejercer su labor apostólica, siempre con la colaboración de sus discípulos, dejaba instituciones educativas, residencias clericales y universitarias (que estudiamos en los apartados siguientes). A Baeza acudió en 1539 para reconciliar bandos enfrentados en luchas sangrientas; allí ayudó a organizar la universidad poniendo como formadores a sus discípulos. Este tema merece también estudio aparte.
Su retiro en Montilla (Córdoba) pudo tener inicio en 1554, ya enfermo, hasta su muerte ocurrida el 10 de mayo de 1569. Dejó huella imborrable en esta ciudad y, de modo especial, entre los clérigos, padres y novicios jesuitas y monasterios. Los "Memoriales" (1551 y 1561) para el concilio de Trento y las "Advertencias" (1565-1566) para el sínodo de Toledo, fueron también escritos en Montilla. Escribe a San Ignacio en 1549. El año 1568 escribe también a Santa Teresa aprobando su autobiografía.
Su muerte ocurrió en Montilla, el 10 de mayo de 1569. La enfermedad había sido larga y dolorosa, como "vino generoso con que Dios obsequia a sus amigos" (según él mismo afirmaba). Su oración durante el sufrimiento se expresaba con estas palabras: "Señor, crezca el dolor y crezca el amor, que yo me deleito en el padecer por vos". Pedía la Eucaristía con estas palabras: "Denme a mi Señor, denme a mi Señor". Expiró con la mirada puesta en el crucifico después de recitar la oración mariana "Recordare, Virgo Mater" y los nombres de Jesús, María y José. Según su última voluntad, fue enterrado en la Iglesia de la Compañía de Montilla. El epitafio de su sepulcro resume su carisma: "Messor eram" (fui segador).[4]
2. ESCRITOS. CONTENIDOS ESPIRITUALES
Los escritos avilistas ofrecen contenidos profundos (bíblica y teológicamente), siempre con un enfoque muy pedagógico en el uso de imágenes y ejemplos. Se siente al Maestro muy cercano, claro, invitando a la vivencia evangélica. Las expresiones culturales son las de la época, dejando entrever las circunstancias sociológicas y eclesiales. El tono es de suma confianza en el amor de Dios, pero llamando a la perfección de la caridad. El lenguaje es el de un clásico castellano, sobrio, amalgamado con la imaginación y el calor meridional.[5]
El Audi Filia es el documento más característico del Maestro Ávila, puesto que resume toda su enseñanza y refleja su misma vida. En realidad, las cartas y algunas pláticas tienen los mismos contenidos (cfr. cartas 20, 85 y plática 3ª). El objetivo es el de orientar a las personas que pedían consejo en el camino de la vida espiritual. Aunque la redacción se hizo en diversos momentos, el núcleo primitivo y permanente consiste en el comentario al salmo 44 (45) ("escucha, hija"), en relación con Cantares 3,11 ("salid y mirad").[6]
El tratado tiene una fuerte dimensión cristológica y eclesial, puesto que se trata del camino del desposorio de la Iglesia con Cristo. Hacia el final del tratado (en su última redacción) pueden constatarse las líneas principales del mismo. A la luz de los versículos 11 y 12 del salmo 44 (45) ("Oye, mira, inclina tu oído, olvida tu pueblo y la casa de tu padre, y codiciará el rey tu belleza"), se describe un proceso de vida espiritual como conocimiento propio para seguir a Cristo Esposo y llegar a la unión transformante.
Ha sido el mismo Maestro quien (en la redacción que sería publicada en 1574, después de su muerte) describe los contenidos del texto, esbozando las etapas clásicas de la vida espiritual: incipientes, proficientes, perfectos. Por esto, expone, en primer lugar, la realidad humana con sus limitaciones (engaños o tentaciones del mundo, carne y demonio), indicando los medios ascéticos para superarlas. Expone ampliamente los contenidos de la fe católica, que ilumina todo el camino espiritual y supera la tentación del sujetivismo (sentimentalismos). El conocimiento propio, adquirido en el proceso de la oración (especialmente por la meditación de la pasión), infunde confianza en la misericordia divina y alienta hacia el amor a Dios y al prójimo. La "salida" de sí mismo equivale al itinerario de dejar la propia voluntad (y el pecado) para revestirse de la hermosura espiritual, merecida por Cristo Redentor y comunicada a nosotros por los medios de vida espiritual (conocimiento propio, oración, penitencia).
Es Cristo Esposo quien llama a escuchar su palabra, para salir de sí mismo, venciendo las tentaciones y entregándose a la perfección. Todo el proceso espiritual es, pues, una respuesta a la llamada de Dios Amor. La vida cristiana es camino de "justificación" y perfección. La humanidad vivificante de Cristo Esposo, que se ha entregado al Padre por amor a la Iglesia su esposa, es el hilo conductor.
Se ha constatado la influencia del "Audi Filia" en santos y autores espirituales. Gran parte de la doctrina avilista pasó a formar parte del patrimonio espiritual cristiano de la humanidad, por medio de estas figuras de alto nivel: Fr. Luís de Granada, San Francisco de Sales, San Alfonso María de Ligorio, etc.[7]
Los Memoriales al concilio de Trento fueron escritos a petición de Don Pedro Guerrero, quien, recién nombrado arzobispo de Granada, hubiera querido llevarse al Maestro para la segunda convocación del concilio (1551). Ambos Memoriales fueron escritos en Montilla, donde el Maestro Ávila estaba ya imposibilitado por la enfermedad, para ir al concilio.[8]
El primer Memorial (1551) ("Reformación del estado esclesiástico") se centra en este objetivo señalado por el mismo título, ofreciendo una perspectiva eclesiológica que abarca todos los estamentos de la Iglesia. En el texto aflora la base teológico-bíblica del Maestro, así como su formación jurídica y su propia experiencia pastoral y de vida evangélica. Los temas principales que se tratan son: institución de los Seminarios, selección y educación de candidatos, atención a la formación continuada de los clérigos, línea teológica-pastoral-espiritual de esta formación inicial y permanente, instancia en los diversos ministerios (párrocos, predicadores, confesores), especialmente en la catequesis, sacramentos y servicios de caridad, los matrimonios clandestinos, santidad evangélica de los clérigos, cuestiones políticas internacionales (tribunal para impedir las guerras), etc.
El segundo Memorial ("Causas y remedios de las herejías"), escrito diez años más tarde (1561), responde detalladamente a cuestiones nuevas que se habían suscitado en torno al concilio, y que habían agravado las situaciones anteriores. El tono es más incisivo, reclamando con urgencia la reforma eclesial que ya habían pedido los concilios anteriores. En este llamado a la conversión y renovación, ofrece un análisis objetivo y propone soluciones acertadas y factibles. Las causas de las herejías se encuentran precisamente en esa lentitud de reforma evangélica. El Maestro describe, desde su experiencia, la realidad concreta, es decir, los defectos de los diversos ambientes eclesiales; pero sus propuestas se basan en la confianza en "la misericordia de Dios" que es siempre "sin tasa". La renovación eclesial sólo se dará a partir de las exigencias evangélicas, aplicadas a Jerarquía y clero, reyes y autoridades civiles, vida consagrada y fieles en general. Este objetivo se conseguirá por medio de la predicación y la catequesis, así como la formación de la juventud y especialmente de los futuros sacerdotes. Al final detalla la reforma de los monasterios (vida religiosa o consagrada).
Las Advertencias al concilio de Toledo (1565-1566) fueron escritas en vistas a aplicar las decisiones conciliares tridentinas en España, por medio de sínodos provinciales (Toledo, Granada, Santiago, Valencia). El documento está escrito para Don Cristóbal de Rojas y Sandoval, obispo de Córdoba (1562-1571), presidente del sínodo de Toledo, por ausencia de su arzobispo Bartolomé de Carranza (procesado por la Inquisición). Se presenta con una amplia base pastoral y jurídica, además de un conocimiento muy minucioso de los decretos conciliares y de las cuestiones eclesiales de la época. El Maestro redactó este documento, haciendo uso de sus propio conocimientos jurídicos y con la colaboración de su discípulo Lic. P. Francisco Gómez.[9]
Se suelen dividir los Sermones del Maestro Ávila en dos grandes apartados: ciclo temporal y ciclo santoral. El número total es de 82. El ciclo temporal (59 sermones) abarca todo el año litúrgico, resaltando al adviento, Navidad, Epifanía, cuaresma, Pascua (pasión y resurrección), Pentecostés (Espíritu Santo), Ascensión, Corpus Christi (Eucaristía). El ciclo santoral puede distribuirse en sermones en las fiestas de Nuestra Señora (14 sermones) y sermones de santos (10 sermones).[10]
Van apareciendo, en los sermones, todos los temas del mensaje cristiano: contenidos de la fe, moral cristiana (mandamientos, virtudes), sacramentos y liturgia en general, oración. Los temas se presentan en el contexto litúrgico y a partir de los textos de la misma liturgia. En todo se nota un gran equilibrio entre la acción de la gracia (la misericordia divina, la redención) y la cooperación y dignidad de la naturaleza humana. La fundamentación es eminentemente bíblica, con reflexiones teológicas en el momento oportuno, con una dicción literaria excelente, máxima claridad en la exposición, adaptación al auditorio.
El Maestro muestra gran respeto y aprecio hacia los oyentes, mientras, al mismo tiempo, les llama a la conversión o cambio radical de vida, para poder participar en el Misterio de Cristo. Invita a recibir el perdón y a entregarse generosamente al camino de la perfección.
La persona de Jesús es el punto constante de referencia. Por esto hace entrar al oyente en el texto evangélico, como si estuviera sucediendo en el momento presente. De este modo, Jesús sigue pasando, hablando y llamando. Se invita a entrar en la interioridad o sentimientos de Cristo (su Corazón). La palabra predicada lleva al encuentro con el Señor en los sacramentos y en la oración personal. Los temas cristológicos de la Encarnación y redención aparecen en esta perspectiva de llevar a los creyentes a la justificación por la fe y las obras, según los criterios de la Iglesia.
El Maestro, en sus Pláticas, tenía predilección por los clérigos "porque en ellos veía a todo el mundo" (Proceso de canonización, Baeza, testimonio de Pedro de Lomas). Pero fueron también frecuentes las pláticas dirigidas a religiosas, como en los monasterios de Montilla, Zafra, Granada, Baeza y Córdoba. No se excluía la asistencia del pueblo, como puede constatarse por algunas expresiones en las que se invita a todos los creyentes a reflexionar sobre el tema de la vida consagrada. Se conservan 16 pláticas, de las que 14 están dedicadas a sacerdotes y 2 a religiosas monjas. En el bloque sacerdotal aparecen los temas principales referentes a la santidad y a la vida ministerial.[11]
El rico Epistolario avilista se compone de unas 260 cartas, casi siempre de dirección espiritual. Entre los destinatarios se pueden encontrar todas las clases sociales. Muchos son discípulos suyos, entre los que destacan grandes predicadores como Fr. Luís de Granada. No son pocas las cartas que proponen un plan de vida, especialmente de espiritualidad, estudio y trabajo.[12]
Desde gente sencilla, hasta obispos, gobernantes e intelectuales, todos los destinatarios reciben la misma atención por parte del Maestro, orientándolos por el camino de la perfección según el propio estado de vida: laicos, sacerdotes, religiosos y religiosas, personas dirigentes y nobles, enfermos, personas atribuladas, jóvenes, matrimonios, grupos de amigos, alguna villa, etc. Destacan las cartas de dirección o consejo espiritual, dirigidas a sus discípulos o dirigidos: San Juan de Dios, Fr. Luís de Granada, Diego Pérez de Valdivia, Antonio de Córdoba, Doña Sancha Carrillo (a quien dedicó la primera redacción del "Audi Filia"), Doña Ana Ponce de León (condesa de Feria, que ingresó como monja en el monasterio de Santa Clara de Montilla), Inés de Oces (la gran convertida, carta 126)...
Entre los santos a los que se dirige el Maestro Ávila, además de San Juan de Dios (su dirigido espiritual), destacan: San Ignacio de Loyola, San Francisco de Borja y Santa Teresa de Jesús. En la carta 178, dirigida a Don Pedro Guerrero, hace mención de la relación con San Juan de Ribera, entonces obispo de Badajoz.
Los contenidos de las cartas del Maestro Ávila se refieren casi siempre a temas de consejo o dirección espiritual, con una perspectiva de renovación eclesial. Por medio de estas cartas, respondía a problemas concretos de la vida, en plena sintonía con el interlocutor, analizando objetiva y serenamente la realidad, para buscar luz en los textos bíblicos y, a veces, en las reflexiones teológicas, sin olvidar, cuando se presenta el caso, alguna comparación e incluso alguna nota de humor. En el epistolario aparece una gran maestría en los caminos del espíritu, por un proceso de discernimiento y de invitación a la perfección de la caridad, como meta posible si se usan los medios adecuados.
Disponemos de dos amplios comentarios bíblicos: las lecciones sobre Gálatas (de antes de 1537), las lecciones sobre la primera carta de San Juan (de 1546). Aunque en estos comentarios ya aparece toda su doctrina escriturística, se puede decir que la base principal es eminentemente paulina[13]. Las lecciones empiezan citando el texto que se va a comentar y se pasa enseguida a su explicación textual, en relación con otros textos. La explicación fluye de modo armonioso y claro, intentando captar al auditorio con medios pedagógicos e intentando proponer unos contenidos catequéticos. Se tiende a aplicaciones prácticas de tipo espiritual y de compromisos sociales. Se invita siempre a la santidad cristiana con todas sus consecuencias personales y comunitarias.
La "Doctrina cristiana" está distribuida en cuatro partes y contiene las oraciones del cristiano, las fórmulas del credo, de los mandamientos, los sacramentos, las obras de misericordia, las virtudes y dones, las bienaventuranzas, los novísimos, los pecados, los misterios del rosario. A cada una de las partes se añaden una preguntas para recapitular y memorizar lo contenidos.[14]
El Tratado del amor de Dios parece ser originariamente un sermón que después retocaron sus discípulos. Se nota la mano de Fr. Luís de Granada, quien, el 21 de diciembre de 1586, escribía al P. Juan Díaz, heredero de los escritos avilistas: "Holgaría de ver este tratado del amor de Dios con las Reglas". El Maestro había muerto en 1569.[15]
La redacción literaria se coloca entre los mejores escritos de la literatura lírica española. Los contenidos (sobre la interioridad de Cristo y la contemplación del misterio de la Encarnación) sirven para poderle clasificar entre los mejores escritos de la teología mística española del siglo XVI. Se puede considerar una obra clásica de la literatura cristiana. Se constata el influjo de este escrito durante la vida del Maestro y en todo el siglo XVI (ya antes de ser publicado).
Es una síntesis sapiencial del misterio de la Encarnación. Todos los temas se hilvanan a partir de la interioridad de Cristo o de su misterio: Amor de Dios, sentimientos de Cristo, predestinación en Cristo, desposorio con Cristo, humanidad y Corazón, locura de la cruz (pasión), redención, justificación, beneficio de Cristo, Cuerpo Místico (Cristo Cabeza), esperanza, Eucaristía...
El Tratado sobre el sacerdocio es relativamente breve y esquemático. Corresponde a los contenidos (ampliados) de las pláticas 1ª y 2ª, dirigidas a los clérigos de Córdoba en 1563. Estas pláticas están redactadas teniendo a la vista los esquemas del Tratado.[16]
Los Avisos o Reglas de espíritu, son orientaciones prácticas de vida cristiana, muy frecuentes en los escritos avilistas. Precisamente la primera edición del "Audi Filia" (1556, publicada sin autorización del autor) tenía este título: "Avisos y reglas christianas para los que desean servir a Dios". A veces son "Avisos" esporádicos, mientras que frecuentemente es todo un plan de vida espiritual. Sigue el mismo método de las sentencias de la "Imitación de Cristo" (que el Maestro tradujo e hizo preceder de un prólogo especial).[17]
El libro de la Imitaciónde Cristo (atribuido a Tomás de Kempis), clásico en la espiritualidad cristiana, fue traducido y prologado por el Maestro Ávila. Este prólogo avilista es un resumen de su doctrina espiritual y ofrece la clave de su traducción. Probablemente es una labor realizada durante los años en que el Maestro estuvo procesado por la Inquisición (1531-1533). Se publicó en Sevilla (1536), mientras el Maestro ya radicaba en Córdoba; posteriormente fue publicado también en Baeza (1550). Los contenidos del prólogo a la "Imitación de Cristo", son parecidos a los de los "Avisos" y "Reglas", pero en este prólogo se insta más a la meditación de la Palabra de Dios, a la oración y a "recebir muchas veces el precioso cuerpo de nuestro Señor Jesucristo". Afirma que estas tres cosas son la clave de esta "pequeña obra... tan pobre en pompa de palabra y tan rica y harta en las sentencias".[18]
II
MAESTRO DE ESPIRITUALIDAD CRISTIANA
1. ESPIRITUALIDAD Y VIDA CRISTIANA
Los datos fundamentales de la espiritualidad cristiana afloran continuamente en las enseñanzas de San Juan de Ávila. Es un clásico de espiritualidad, conocido universalmente, especialmente a nivel teológico y académico. Es precisamente este campo de la espiritualidad el que le coloca al lado de los grandes santos, místicos y amigos suyos del siglo XVI.[19]
a) Espiritualidad, santidad, perfección
En los escritos avilistas, se habla de este tema con una expresión tradicional: "vida espiritual" (cfr. AF cap. 74, 7618; también la Plática 3ª, 378). Se hace referencia constante al bautismo y a la redención, para llamar a la "perfección" de la caridad (cfr. Mt 5,48). Es participación en la vida trinitaria, por "espirituación del Espíritu Santo", enviado por el Padre en nombre del Hijo (cfr. Ser 30, 78ss, 309ss).
La vida espiritual, por ser actitud de fidelidad respecto a la vida divina participada, tiene dimensión trinitaria. Por ser templos de la Trinidad, participamos en la misma vida de Dios. La vida espiritual se adentra en este misterio con confianza y generosidad: "Ensanche vuestra merced su pequeño corazón en aquella inmensidad de amor con que el Padre nos dio a su Hijo; y con él nos dio a sí mismo, y al Espíritu Santo y todas las cosas" (Carta 160, 14ss).[20]
En la doctrina avilista, la vida espiritual cristiana parte de la fe en Dios Amor, se basa en la bondad y misericordia divina (y en los méritos de Cristo) y está toda ella movida por el amor a Dios y a los hermanos. La referencia continua a los santos y autores espirituales, deja entrever que la doctrina avilista sobre la vida espiritual forma parte de una herencia común de gracia. El Maestro se inspira frecuentemente en San Pablo y en San Juan; las expresiones son fuertemente agustinianas y tomistas.
La vida según el Espíritu es marcadamente eclesial, en el sentido de expresar el desposorio de Cristo con su Iglesia (tema del "Audi Filia"). Se puede afirmar que el itinerario espiritual se desarrolla en línea trinitaria, cristológica (humanidad de Cristo), pneumatológica, eclesial, mariana, apostólica y de cercanía al hombre concreto.[21]
Se tiende siempre hacia la unión plena con Dios, sabiendo que, en esta vida, nunca puede ser plena y definitiva. Es Dios Amor quien toma la iniciativa en todo el proceso y es, pues, elamor el que lo mueve todo, desde el ejercicio de las potencias hasta la unión mística, sin olvidar la purificación y la iluminación. "Háceseles Dios su pedagogo" (Plática 3ª, 292s). Pero, a la luz de este objetivo, se valoran con equilibrio todos los aspectos de la vida ascética (abnegación), que, por ello mismo, tiende a la intimidad profunda (mística) con Cristo.[22]
La vida espiritual, precisamente por su marcada tendencia hacia la unión con Dios, se concreta en un gran aprecio de las cosas creadas, ordenándolas en la perspectiva del amor. La posesión o el uso es sólo en la perspectiva de encontrar en esos dones al mismo dador. Así es el desprendimiento cristiano: "Ya en ellas no se para tanto como en el amor de la verdad y del Dador de ellas; y ésta es vida espiritual. Hácese un con él por amor" (Plática 3ª, 314ss).
Esta vida es obra del Espíritu: "Esta unión de que se dice, obra del Espíritu de los perfectos" (Plática 3ª, 327s; cfr. Heb 12,23). "Todo cuanto hacen nace del amor; y ansí no sola la voluntad está enamorada de Dios, pero todas las potencias exteriores e interiores obran por amor" (Carta 222, 631ss). El corazón se va unificando, como proceso de unión con Dios y con los hermanos. La unificación consiste en "gozarse del bien de quien quiere" (Plática 3ª, 341s).
Es un paso doloroso, porque el corazón debe irse desprendiendo de los dones de Dios, para quedarse con el absoluto del mismo Dios. Por esto, la "vida espiritual es entendimiento ilustrado y voluntad inflamada para con Dios" (Plática 3ª, 378ss). El dolor es una amalgama misteriosa de luz y oscuridad. La "oscuridad y el sentimiento de la ausencia y disfavor de Dios", puede ser una señal de "cuán cercanos estamos a Él" (Carta 20, -1-, 84ss, 145), aunque el alma parezca "dejada como en unas oscuras tinieblas" (Carta 20 -2-, 15s). "¡Oh si viésemos cuán metidos nos tiene en su corazón y cuán cerca estamos de Dios cuando a nosotros nos parece que estamos alanzados!" (ibídem, 233ss).
El Maestro Avila habla frecuentemente del "corazón", en el sentido de la interioridad humana (criterios, valores, actitudes). Es el hombre todo entero ("con todo el corazón") el que es interpelado por Dios Amor: "No quiere Dios sino el corazón... no se contenta Dios con todo si no le dais el corazón" (Plática 16ª, 304ss). Así, pues, "el principal cuidado del cristiano ha de ser del corazón. Guárdenos Dios de tener el corazón dañado y enfermo" (Ser 10, 49ss). El corazón humano se limpia "con el amor de Dios, con el amar a Dios de todo corazón sobre todas las cosas" (Ser 21, 318s).
Por "corazón" se entiende principalmente "la voluntad" con todos los afectos, que "es la fuente de donde mana" el agua del amor (cfr. Ser 51, 383ss). "El corazón del hombre es como una fuente, que, si está clara, claros arroyos salen de ella, y si sucia, sucios" (Carta 11, 339s). El corazón está allí donde está "su tesoro" (cfr. Ser 63, 214ss; Mt 6,21).
Dios dirige su llamada y su palabra al corazón, que es un amasijo de miseria y de grandeza, porque "tiene mil cuidados" (Ser 22, 458s). La redención de Cristo se dirige especialmente al "corazón" humano, frecuentemente "maleado" (Ser 28, 405), "obstinado y endurecido", a modo de "piedra" porque "perdió la imagen de Dios" (Ser 26, 500s). Por esto, "si el Mesías ha de ser Mesías, sáneme esta llaga que tengo en mi corazón; que si no me quita este mal, no quiero bien ninguno" (Ser 2, 227ss). Recibir a Cristo como huésped, es fuente de gozo para el corazón humano (ibídem, 234s).[23]
El camino del corazón es camino de sencillez, de actitud filial, como se expresa en el "Padre nuestro" y en la llamada a la perfección: "Amad... como vuestro Padre" (Mt 5,44.48). En la vida espiritual hay que adoptar la actitud filial de un niño que resume su vivencia en la expresión "mi padre". Efectivamente, "bastarnos debería esta palabra «mi Padre», si nosotros fuésemos niños y hijos... No haya «yo» en arrimo, no «yo» en amor, no «yo» en nada, sino «mi padre» en todo y en mí" (Carta 134, 37ss). Entonces "toma Dios a su cargo a los pequeños" (ibídem, 50s). La actitud filial se traduce en decisiones generosas: "Guárdese de hurtar a Dios su honra y de levantar ídolo contra Él, mas en verdadera niñez se dé a Él" (ibídem, 59ss).
Esta actitud filial, que podríamos llamar infancia espiritual, es un don del Espíritu Santo en el proceso de contemplación y perfección, enraizado en la vida concreta, como actitud de confianza filial en la Providencia divina: "El Espíritu Santo es ayo de niños. ¡Y qué bien enseñado será el niño que de tal ayo saliere enseñado" (Ser 32. 733s)[24]. Presenta las enseñanzas de San Francisco, modelo de sencillez, para comentar el mensaje evangélico de Jesús: "Has revelado estas cosas a los pequeños" (Mt 11,25; cfr. Ser 78, inicio).[25]
El tema corresponde a la doctrina evangélica (cfr. Mt 18,3) y paulina (cfr. 1Cor 14,20) sobre hacerse como niños. En el ambiente navideños, el Maestro insta a adoptar esta actitud sencilla, generosa y alegre, puesto que el Señor se ha hecho niño "para conformarse con los pequeños" (Carta 134, 6). Nuestra vocación cristiana consiste en "ser, como dice San Pablo, niños en la malicia y grandes en el sentir" (ibídem, 30ss; 1Cor 14,20).[26]
Por ser la espiritualidad cristiana eminentemente cristológica y eclesiológica, tiene también dimensión mariana. La vida según el Espíritu Santo ("espiritualidad") es relación con María e imitación de sus actitudes de fidelidad a la Palabra de Dios y al Espíritu Santo. La configuración con Cristo, bajo la acción del Espíritu Santo, es un proceso de virtudes y dones (cfr. AF cap 84, 8772ss), que mira a María como modelo y como Madre (cfr. Ser 61-71). Así, pues, la espiritualidad mariana es cristocéntrica: "Aquel tiene a la Virgen que tiene a su Hijo o lo quiere tener; el que está en gracia le tiene" (Ser 66, 308ss).[27]
En el proceso de la vida espiritual hay una presencia activa y materna de María, que ayuda a seguir a Cristo (cfr. Ser 66, 219ss). Ella se hace presente en el inicio de la vida espiritual y en todo el itinerario: "Entiende que anda por tu corazón el favor de la Virgen María, que te ha alcanzado la gracia preveniente" (Ser 60, 529ss). María sigue acompañando en todo el camino de santidad: "Hermano, pasa adelante... porque crezca en ti la gracia de Dios. Porque así como hallaste a la Virgen fuerte y piadosa para que salieses de la escuridad de la noche a la lumbre del alma, de la mesma manera la hallarás también para que crezcas en la buena vida que con su oración te alcanzó" (ibídem, 651ss).[28]
La dimensión misionera o apostólica de la espiritualidad, como derivación de la dimensión eclesial y mariana, es evidente en los escritos avilistas. Invita al celo apostólico a partir de la contemplación y de una mayor entrega a la santidad.
En la doctrina avilista, la santidad consiste en participar de la misma vida de Dios, el Santo, Dios Amor. "La santidad verdadera no consiste en estas cosas (sentimientos), sino en el cumplimiento de la voluntad del Señor" (AF cap. 55, 5666s). Efectivamente, "aquel es más santo... que, con profundo desprecio de sí, tiene mayor caridad, en la cual consiste la perfección de la vida cristiana y el cumplimiento de toda la ley" (ibídem, cap. 76, 7749ss).
La vocación cristiana es vocación a la santidad y al apostolado. Tal es la exigencia que deriva de hecho de haber sido bautizado y de formar parte responsable del Cuerpo Místico en crecimiento constante, espiritual y apostólico. Por esto, los bautizados son "los llamados a la santa cristiandad que se llama reino de Dios" (Carta 86, 165s). La naturaleza de la vocación cristiana es, pues, de llamada a la santidad: "¿Qué es ser cristiano? Tener la condición de Jesucristo" (Ser 57, 439). Configurarse a Cristo suponía un proceso de conversión para pensar, sentir y amar como él. "El ser bautizado señal es de que te ha llamado Dios a la gracia. Cuando te tomó por hijo en el santo baptismo, allí se te dio señal de que nunca te faltaría Dios... ¿Pensáis que es poco ser cristiano?" (Ser 62, 343ss).
También San Juan de Ávila afirmaba que en cualquier estado de vida se puede y se debe conseguir la santidad, sin necesidad de cambiar a otro estado: "Ya os puso Dios en ese estado, en ése os salvaréis; tened cuidado de hacer en él todo lo que debéis, que ahí os dará Él su gracia con que vais al cielo" (Ser 29, 215ss).
En todos los escritos avilistas se puede encontrar una fuerte llamada a la santidad. En el tratadito llamado "Meditación del beneficio que nos hizo el Señor en el sacramento de la Eucaristía", se afirma que la gracia divina hace "semejante el hombre a Dios en la pureza de vida, y después en la bienaventuranza de la gloria, que es hacer al hombre divino, deificada su ánima y haciéndola participante de las costumbres y naturaleza de Dios" (ibídem, 25ss). La llamada a la santidad es, pues, debida a que el hombre tiene que ser "participante del mismo Dios" (ibídem, 65). Dios, por la gracia, hace "a los hombres deiformes" (Ser 45, 80).
La expresión conciliar "perfección de la caridad" (LG 40) se encuentra casi literalmente en los escritos avilistas, cuando afirma que la perfección consiste en la caridad. Efectivamente, los cristianos estamos llamados a ser "perfectos guardadores de la Ley, que tenemos, cuyo principal mandamiento es el de la caridad" (AF cap. 34, 3528ss). El aspecto negativo de la renuncia queda enriquecido por el lado positivo de revestirse de Cristo: "La vida de perfección en dos cosas consiste: ... en desnudarnos de nosotros mismos, que llama San Pablo despojarnos del hombre viejo y vestirnos del nuevo y de Jesucristo" (Dialogus, n.21, 811ss).
Los medios de santidad son necesarios, pero no constituyen la esencia de la santidad: "Rezas mucho, pero no amas a Dios, no amas al prójimo, tienes el corazón seco, duro, no partido con misericordia; no lloras con los que lloran; y si esto te falta, bien puedes quebrate la cabeza rezando y enflaquecerte ayunando; que no puso Dios en eso la santidad, principalmente, sino en el amor" (Ser 76, 232ss).
Como predicador, el santo Maestro insta siempre a mayor generosidad en el campo de la perfección. Invita a "las personas de ánimos generosos" a enamorarse de "joya tan preciosa", deseando que "se ocupasen y sudasen en escardar su ánima de la yerba de las malas pasiones, la arasen y revolviesen con el arado de la cruz e imitación de ella, y se sembrase en ellas Jesucristo crucificado, no con cualquier fruto, sino colmado y perfecto" (Ser 54, 281ss).
Hay que apuntar a la perfección de la caridad. Respetando las etapas del proceso de perfección (que veremos más adelante), hay que tender al "amor de perfectos" (Juan I, lec. 7ª, 1701ss), porque "la caridad perfecta es cuando Dios le ha hecho misericordia que no ame otra cosa sino a Dios" (ibídem, 1724ss). Entonces "hácese una con él por amor" (Plática 3ª, 317).
El amor es el que rige todo el camino de perfección, como hemos indicado al presentar la virtud de la caridad. Se trata de reaccionar amando o de ordenar la vida según el amor (cfr. Sto. Tomás, I-II, q.62, a.2). Es la actitud de las bienaventuranzas. En la "Breve exposición de las bienaventuranzas" se dedica una frase muy breve a cada una de ellas. Se pueden resumir en la "defensa de la virtud y justicia, hasta sufrir martirio, si fuere necesario" (ibídem, 43ss).
La primera bienaventuranza resume la actitud sincera de perfección: "Bienaventurados los pobres de espíritu, los que no hallan cosa buena en sí, no tiene en sí arrimo, no en su sabor, en su discreción, no en su razón; en todo se halla pobre, en todo tener necesidad de Dios; a Él van por consejo, de Él mendigan lo que han menester y sin Él no hallan remedio en otra parte"(Ser 13, 297ss). Es el resumen final del sermón de la montaña: "Amad... sed perfectos como vuestro Padre" (Mt 5, 44.48).
Los santos son modelos y ayuda intercesora en el camino de la santidad. Se celebran sus fiestas y se acude a su intercesión, no sólo para alivio en las necesidades, sino especialmente para seguir su mismo camino. Ellos son propiamente los amigos de Dios porque cumplieron la voluntad de Dios.[29]
Esta expresión, "los amigos de Dios", es relativamente frecuente en los escritos avilistas (Carta 49, 95ss). Aunque se trata de todos los santos en general, el tipo o modelo y punto de referencia es principalmente Abraham (cfr. Gálatas n.28, 1497ss). La amistad que tienen con Dios es obra de la gracia y puede ser imitada por todo creyente. A veces, se refiere a alguna misión especial (como en el caso de Abraham), dentro de la historia de salvación narrada por la Sagrada Escritura.
La amistad con Dios, característica de los santos, consiste en la fidelidad a sus planes salvíficos, siguiendo los signos que Dios deja entrever en los acontecimientos históricos: "Siempre veremos esto en los amigos de Dios, que cualquiera corrección que de parte de Dios se les da, cualquiera reprehensión que se les haga, la admiten con grande voluntad y con muy alegre corazón, sin indignarse contra los ministros que Dios toma para aquel oficio" (Gálatas, n.19, 855ss).
Los santos son testigos del amor de Dios por el camino de la perfección: "Los amigos de Dios van por camino contrario" al de los malos, mostrándose como "grandes amigos de la verdad y grandes aborrecedores de la mentira" (Gálatas n. 45, 2438ss). La amistad con Dios produce libertad y gozo del corazón: "En grande libertad viven, grande razón tienen para estar contentos" (Gálatas, n.51, 2799ss). El "camino angosto" que siguen se les convierte en "caminos seguros, dichosos, rectos, que llevan a buen paradero" (ibídem).
Son "amigos" de lo planes divinos como "amigos de la gloria de Dios" (Carta 222,383ss), dispuestos a "sufrir trabajos" (Carta 63, 97), capaces de comer el "pan" de las tribulaciones (cfr. Carta 49, 95ss) con paciencia e incluso con alegría (cfr. Carta 28, 105ss); tienen un "corazón lleno de fe y de caridad" (Carta 63, 38ss). Ellos nos manifiestan a todos "un gran Amigo que es Dios", quien hace posible que también nosotros "tengamos otros muchos amigos, que son sus santos" (Carta 222, 662ss).
La santidad o perfección cristiana se concreta en el seguimiento e imitación de Cristo, la relación y la transformación en él. La doctrina avilista acentúa la dimensión esponsal en la relación entre Cristo y la Iglesia, con las consecuentes aplicaciones a la vida de santidad. Esta perspectiva cristológica y eclesiológica de la espiritualidad y santidad cristiana deriva lógicamente hacia la espiritualidad mariana, como hemos visto en el apartado anterior.
b) Las virtudes cristianas
La vida y moral cristiana que aflora en los escritos avilistas es más bien moral de virtudes, aunque éstas se presentan siempre en la perspectiva del amor de Dios y a Dios, quien, precisamente porque nos ama, nos ha comunicado sus mandamientos. En los escritos del Maestro van apareciendo las virtudes teologales y cardinales, así como los dones y frutos del Espíritu Santo. Todas las virtudes están encuadradas en el proceso de unión, imitación y configuración con Cristo.
Su convicción aparece de modo firme: sin la práctica de virtudes, no habría verdadero recogimiento ni verdadera contemplación. Los sentimientos o fervores sensibles pueden ayudar, pero no son constitutivos de la santidad. Las virtudes configuran con Cristo, hasta revestirse de él a modo de hombre nuevo: "Y es de notar que no sólo tú has de ser vestido del hombre nuevo y de Cristo, sino tus pensamientos, palabras y obras, y cada una de ellas vestida de todas las virtudes y de Cristo" (Dialogus, n. 22, 1024ss; cfr. Ef 4,24).
El proceso de las virtudes es posible precisamente por influjo de la gracia: "Sabed que de la gracia que Dios pone en el ánima sale conocimiento de Dios... De aquí le procede al alma amor de Dios; procédele siete dones del Espíritu Santo, ocho bienaventuranzas; viénele de aquí siete virtudes, cuatro cardinales y tres teologales" (Juan I, lec. 3ª, 145ss). Del Espíritu Santo "recibimos virtudes y dones, para que podamos obrar conforme al alto ser de la gracia, que nos fue dada" (AF cap. 84, 8775ss).
Las tres virtudes teologales están íntimamente relacionadas: "Creyendo firme con el entendimiento que todo el poder es de Dios, y confortados con el capacete de la esperanza, y ofrecidos a Dios con el amor, tomando de buena gana lo que El nos enviare, venga por donde viniere, haremos burla de nuestro enemigo, y adoraremos al Señor" (AF cap. 30, 3168; cfr. Ef 6,10-11). Las cuatro virtudes morales (prudencia, justicia, fortaleza, templanza), así como todas las que de ellas derivan, enraizan en la caridad.
Para recibir la Eucaristía se requiere tener las virtudes teologales: "Lleguemos, pues, con firmeza de fe, con buena esperanza, con fuego de amor a este fuego inefable que aquí está encerrado, que sin falta acrecentará lo bueno que Él mismo nos dio y quemará lo que hallare extraño" (Ser 51, 783ss; cfr. Carta 54, 79ss).).
Las virtudes quedan reforzadas por los dones del Espíritu Santo: "Infúndele Dios estas virtudes que llaman los teólogos hábitos... Y ansí pone Dios cosas en las potencias, cosas con que mejor obren" (Ser 31, 289ss). Del Espíritu Santo "recibimos virtudes y dones, para que podamos obrar conforme al alto ser de la gracia, que nos fue dada" (AF cap. 84, 8775ss; cfr. cap. 93, 9832ss; Juan I, lec. 3ª, 147ss). La acción de los dones es más fuerte que la de las virtudes ordinarias: "Una cosa es obrar como hombre bueno, aunque favorecido de Dios; otra cosa que sea el Espíritu Santo el auctor y movedor, y que sea el hombre cuasi no más que instrumento... como si un gran pintor tomase la mano a uno que no sabe pintar... obra Dios acompañando, el hombre como órgano del Espíritu Santo" (Ser 31, 355ss). Su operación es regeneración. Pone "perfectísima conformidad en la voluntad del hombre con la voluntad de Dios" (AF cap. 30, 5167ss).
La virtud de la fe
La virtud de la fe es una actitud de admitir "las verdades de la fe católica con suprema certidumbre" (AF cap. 30, 3079s). Esta actitud incluye también la confianza en la bondad divina, puesto que "uno, por conjeturas probables, cree que está perdonado de Dios y en su gracia" (ibídem, 3093ss). La relación entre la fe y las obras es un tema que corresponde al proceso de la justificación.[30]
Esta actitud de fe tiene las cualidades de la "virginidad": "La fe sin error es parte de virginidad, y una esperanza firme que Dios te ha de salvar y que te ama" (Ser 6, 114ss). Es fe que se transforma en vida (cfr. Ser 46) y que guía a modo de "estrella" para buscar a "Dios escondido" (Carta 43, 21ss). Por esto, "la fe ensancha el corazón a creer que aquello que nos parece tan sobre nuestro juicio, aquello tan sobre nuestro merecimiento y medida, aquello es Dios y propio rastro y señal de El" (Carta 133, 45ss).
La fe viva es la que justifica: "Ni circuncisión, ni obras, todo vale nada delante de Dios si no hay fe; y tampoco la fe vale delante de sus ojos si no tiene vida... Vida tiene de tener nuestra fe, caridad y amor de Dios y del prójimo, que ésta es su vida, y éstas son las señales de que no es muerta" (Gálatas, n.52, 2818ss; cfr. Gal 5,6). Sin obras de caridad, la fe sería muerta: "Cristo no sólo es verdad, mas bondad; pues negáis la bondad, contra Cristo sois" (Juan I, lec. 15ª, 4449s).
Esta fe viva va acompañada de la esperanza y caridad. Comentando la doctrina paulina de Ef 3,16-17, afirma: "Por la fe con caridad, dice que mora Cristo en nosotros. La fe es la que le aposenta, la que le da el señorío, la que con él nos liga; y ella mesma es las arras, los dones y los collares que da Cristo a la esposa con quien se casa" (Gálatas, n.52, 2854ss; cfr. Gal 5,6).[31]
La fe es un don de Dios, que pide la colaboración libre y generosa del creyente. La aceptación de los contenidos de la fe debe ser no sólo por parte del entendimiento, sino también de todo el corazón, con manifestaciones concretas y comprometidas en la vida. "Él pone este don en nosotros, y después de haberle puesto, él le fortalece, para que confiemos en él... Este don pone Dios en sus grandes amigos y en aquellos que saben aprovecharse de él como fue en Abraham" (Gálatas, n.28, 1485ss; cfr. Gal 3,7; Rom 4,18). "La Palabra de Dios no puede faltar, sino que es verdadera... Más vale creer que ver" (Ser 41, 307ss, 452s).[32]
La fe es asentimiento de las verdades divinas por la autoridad del mismo Dios que las revela (cfr. AF cap. 31-32 y 38). "Cree la fe lo que no ve, y adora con firmeza lo que a la razón es escondido" (AF cap. 31, 3243ss). Las razones no son determinantes: "Esta fe no está arrimada a razones ni motivos... Mas la fe que Dios infunde está arrimada a la Verdad divinal y hace creer con mayor firmeza que si lo viese con sus propios ojos... porque ni puede el entendimiento alcanzar con su propia razón a tener claridad de las cosas de la fe, ni la fe es tener evidencia, porque no sería fe ni habría merecimiento" (AF cap. 43, 4232ss). Es "honra de Dios, del cual, mientras cosas más altas creemos y que sobrepujan a nuestra razón, más le honramos y más nos le sometemos" (Carta 150. 93ss).
El Maestro explica el tema de la fe especialmente en relación con todo el itinerario de la vida espiritual. Efectivamente la fe es "el principio de la vida espiritual", como don de Dios y fruto también de nuestra escucha de la Palabra de Dios (AF cap. 1, 21s). Al empezar el "Audi filia", se invita a esta escucha de fe respecto a la Palabra de Dios: "Estas palabras, devota esposa de Jesucristo, dice... Dios a la Iglesia cristiana, amonestándole lo que debe hacer para que el gran Rey Jesucristo la ame, de lo cual a ella se le siguen todos los bienes" (AF cap. 1, 10ss; glosa las palabras del salmo 44 -45- 11-12).
La vida espiritual está sembrada de dificultades que sólo se pueden superar con gran espíritu de fe: "Cuando un ánima, con el amor de Dios, que es vida de la fe, desprecia lo próspero y adverso del mundo, y cree y confía en Dios, al cual no ve, no hay por donde el demonio le entre" (AF cap. 29, 2810ss; comenta 1Pe 5,8-9 y Ef 6,16). Con esta fe, "no haríamos tanto caudal" de las cosas de este mundo (cfr. Ser 13, 385ss).[33]
La virtud de la esperanza
Al leer cualquier escrito avilista, el lector se siente inmerso en un ambiente de confianza en el amor de Dios y en los méritos de Cristo Redentor. Dios nos perdona en Cristo y en él nos comunica la vida nueva. La tensión hacia el encuentro definitivo con Dios da aliento a nuestro caminar. La esperanza es confianza en Dios y tensión hacia él: "Sea Él en quien esperamos, y Él sea lo que esperamos, porque de nadie podemos alcanzar a Dios, si el no se da, ni es razón esperar de Dios cosas menos que el mesmo Dios" (Carta 44,400ss).
Al haber experimentado la misericordia de Dios, manifestada por Jesucristo y comunicada con la gracia del Espíritu Santo, el creyente está anclado firmemente en la esperanza: "Y en esta esperanza, y no en la nuestra, hemos de osar emprender la empresa del servicio de Dios" (AF cap. 27, 2712ss). "Nuestra esperanza" estriba en "los merecimientos y muerte de Jesucristo" (Ser 43, 755ss).
La humillación del Verbo encarnado y redentor fundamenta nuestra salvación: "Aquí está el Hijo de Dios, como semilla debajo de la tierra; vive debajo de esperanza: Spe enim salvi facti sumus" (AF cap. 18ª, 5553ss; cfr. Rom 8,24). Nuestra esperanza está anclada en Cristo, "como áncora firme y segura del ánima" (AF cap. 30, 3140s; cfr. Heb 6,19).
La tensión escatológica de la esperanza no significa huir del presente, sino transformarlo. La Eucaristía relaciona estos momentos (el presente y el futuro), como "retablo de las cosas que están por venir... recogidas están allí todas las grandezas de Dios que esperamos, que aun no son venidas. Figura es el Sacramento de la gloria que esperamos" (Ser 41, 684ss). Esta esperanza da sentido a la lucha por afrontar la realidad y transformarla: "¡Bienaventurado el que esta esperanza tuviere en su seno, que todos los trabajos del mundo no bastarían para derribarlo!" (Ser 18, 292ss). Se ponen como modelo los patriarcas del Antiguo Testamento, según la carta a los Hebreos (ibídem, 308ss; cfr. Heb 10,34). La esperanza infunde seguridad: "Arrimaos a Dios, subíos al cielo, do no llegará tormenta de los trabajos, poné vuestra esperanza en Dios" (ibídem, 469ss).
La esperanza es fuente de gozo. Glosando los textos de la Epifanía (segundo domingo), afirma: "Hoy se canta en la epístola spe gaudentes. Habéisos de gozar con la verdadera esperanza. Es tanto el gozo, el que esta esperanza tiene, que cualquiera prosperidad desprecia y cualquier trabajo pasa primero que ofender a Dios... No andes desmayado y triste, sino esforzado y alegre, esperando tan grandes bienes como están guardados. Es esto gran joya, siempre viva, en cualquier tiempo esperar en Dios: tu amor en Dios y lo que amares en amor de Dios" (Ser 6, 127ss).
Con esta actitud de esperanza se van superando las pruebas. Si hay desprendimiento de las cosas de la tierra, "crece el amor y la esperanza de las cosas del cielo" (Ser 82, 65s). Pone el ejemplo del herrero que machaca el hierro para moldearlo (ibídem, 129ss). Así se aprende a "sufrir con alegría" (ibídem, 204; cfr. Rom 12,12). Con esta esperanza, el creyente queda estimulado al proceso de santificación (ibídem, 229; cfr. 1Jn 3,3). La "esperanza viva" es una joya, un regalo de Dios (ibídem, 375ss, 498ss; cfr. 1Pe 1,3).[34]
La esperanza cristiana se apoya en la misericordia de Dios, quien no sólo perdona, sino que da los medios necesarios para salvarse. La "confianza cristiana... arrimada a los merecimientos de Cristo, hace vivir consolados y morir confortados" (Ser 43, 222ss). Los sacramentos, especialmente la Eucaristía, son signos especiales que fundamentan esta confianza (cfr. AF 18-19, 23-24, 27, 30, 76). "Ten, pues, hermano, confianza en estos merecimientos que Jesucristo tuvo" (Ser 27, 478s).
En la vida espiritual, el "desmayo" es obra del espíritu del mal. "Es la desesperación y caimiento del corazón, tiro tan peligroso de nuestro enemigo que, cuando yo me acuerdo de los muchos daños que por ella han venido a conciencias de muchos, deseo hablar algo más en el remedio de aqueste mal" (AF cap. 23, 2195ss). A la luz de la Encarnación redentora, descubrimos el amor de Dios (cfr. AF cap. 19). Dios es siempre fiel: "Es imposible que Dios falte verdaderamente. Yo os pondré mi cabeza que me la cortéis, que no os faltará Dios " (Juan I, lec. 3ª, 128ss). "¡Qué prueba nos dio para tener confianza! Desconfiar los hombres de la misericordia de Dios, después de la muerte de Cristo, blasfemias son grandes" (Juan I, lec. 22ª, 6870ss).
Cuando surgen las tribulaciones, es el momento de profundizar en la confianza en la Providencia divina (cfr. AF cap. 30). "Si, pasando el río, se te desvanece la cabeza mirando las aguas, levanta los ojos en alto y mira los merecimientos del Crucificado, que te esforzarán a pasar seguro... Echa tus cuidados en Dios y asegúrate con su Providencia en medio de tus tribulaciones; y, si crees de veras que el Padre te dio a su Hijo, confía también que te dará lo demás, pues todo es menos" (Amor, n.13, 533ss).[35]
Para avanzar por el camino de la perfección se necesita adoptar esta actitud de confianza inquebrantable (cfr. Carta 222). Estamos en unas manos que fueron clavadas en la cruz por amor (cfr. Carta 20 -1-, 273ss). Por esto hay que "alzar los ojos arriba, considerando a Jesucristo nuestro Señor" (Carta 44, 93ss), mirando al "abundantísimo mar de su amor, que no tiene término" (Carta 90, 96s).[36]
La esperanza no excluye el santo temor de Dios: "Así entre estas dos cosas camina: temor y esperanza. Y cuanto más crece el amor, crece también la esperanza y va creciendo aqueste temor" (AF cap. 29, 2929ss). El "temor santo" de Dios, se traduce en "buena confianza de su misericordia", que va acompañada de humildad y de conocimiento de sí mismo para no desviarse: "No os fiéis de santidad ninguna, si le falta el temor santo y casto que hace humillarse, mirando ser ajeno el bien que tiene, y hace estar colgado de las orejas de Dios, suplicándole con oración continua no le quite el bien que por su bondad le ha dado, el que sin injusticia le puede quitar" (Carta 174, 22ss).
La vida espiritual se apoya en la confianza y en el temor de Dios, evitando tanto un temor exagerado como una confianza ilusa. Comenta el texto de Sal 117,6: "Las cuales y semejantes palabras no quitan del todo el temor que un cristiano, por su parte, debe tener, mas quitan el demasiado, con la confianza que en Dios debe tener. Y así entre dos cosas camina: temor y esperanza" (AF cap. 29, 2927ss).[37]
El santo temor de Dios se expresa en humildad y confianza. como garantía para evitar nuevas caídas (cfr. AF cap. 57, 5930; Prov 28,14). Dios nos atrae hacia él por medio de estas dos motivaciones: el fervor de la caridad y el temor. "Así trae Dios dos espuelas: la derecha, si fueses caliente, servir a Dios con fervor... La otra espuela que tiene Dios es su izquierda, que es frío. Es el temor para los hombres fríos. ¡Ojalá tuviere tu anima espuela, agora fuese por amor o por temor!" (Juan I, lec. 7ª, 1811ss).
La virtud de la caridad
La doctrina avilista rebosa de amor de Dios y amor a Dios y a los hermanos. Se basa especialmente en la doctrina joánica sobre Dios Amor (primera carta de San Juan) y en los textos de Pablo sobre la caridad y sobre nuestra elección en Cristo (cfr. Ef 1-3). La explicación teológica la toma de Santo Tomás y del Pseudo Dionisio. Al Maestro Ávila se le podría llamar el Doctor del amor, con la connotación de amor misericordioso. Anunciando este amor de Dios, se reclama respuesta de amor por una vida de caridad vertical y horizontal.
El amor de Dios se muestra en la creación y en la redención. Dios Amor nos ha comunicado el Espíritu de amor para invitarnos a la donación de totalidad. El pequeño "Tratado del amor de Dios" es una síntesis de este amor que reclama amor. A partir de esta perspectiva del amor, se entiende la llamada urgente a la conversión y renovación personal y social.[38]
La vida tiene sentido si se realiza amando. La vida espiritual es expresión de este amor. En los momentos relacionales de la oración, "este negocio más es de corazón que de cabeza, pues el amar es fin del pensar" (AF 75, 7658s). Y en el camino de perfección, la persona que busca a Dios "hácese una con él por amor" (Plática 3, 317). "Como Dios sea amor, de sólo amor se deja cazar"(Carta 67, 34ss). El amor lleva a la unión con Dios: "Amemos, y será nuestro Dios, porque sólo el amor lo posee" (Carta 74, 86ss).
Los contenidos de la primera carta de San Juan son una invitación a responder al amor de Dios. Es amor que llega a la comunicación de lo que es el mismo Dios, a cierta "igualdad" y "amistad" (Juan I, lec. 8ª, 1955ss). Es "amor fecundo", puesto que "nunca Dios ama a nadie sin que le haga bien con su amor" (Juan I, lec. 3ª, 88ss). "Porque Dios es Dios, por eso nos ama libremente" (Carta 61, 47s). Es amor unitivo y transformante, puesto que "el mismo Dios se da a sí mismo a aquel que le ama" (Ser 23, 143s). La invitación a responder al amor es lógica: "¿Por qué no amamos a nuestro Señor, el cual creemos ser sumo bien, y habiéndonos Él amado primero, aun hasta morir por nosotros?" (AF cap. 48, 4896ss).
Por parte nuestra, el amar a Dios consiste en hacer su voluntad y alegrarse de las perfecciones del mismo Dios: "Traer un querer perpetuo... con que siempre queráis que nuestro Señor Dios... sea en sí tan bueno, tan santo... Un querer, con que quisiéramos que el Señor fuese en sí quien es; porque caridad en este querer consiste... eso es fruto del Espíritu Santo" (Carta 26, 46ss; cita a Santo Tomás, II-II, q. 23, a. 1).
El Maestro, comentando 1Jn 2,5 (en relación con la doctrina de Santo Tomás: II-II, q.184, a.1, ad 3), explica "tres maneras de amor" o de la caridad, que corresponden a los tres grados del camino de perfección: "Amor de principiantes, amor de aprovechantes y amor de perfectos" (Juan I, lec. 7ª, 1701ss). En esta perspectiva, habla de las excelencias de la caridad: "La caridad es como un fuego que enciende en un leño muy verde, comiénzale a encender el fuego, échase de sí mucho humo; esto es los principiantes... El aprovechante va poquito a poquito aprovechando... no es tan descuidado en el servicio de Dios. La caridad perfecta es cuando Dios le ha hecho misericordia que no ame otra cosa sino a Dios" (ibídem, 1724ss).
La caridad hacia Dios no consiste, pues, en meros sentimientos, sino en decisiones y unión de voluntad, a modo de donación. "El verdadero amor está escondido allí en lo profundo de las virtudes" (Carta 184, 383ss). "Amémoste, pues, y conozcámoste por el conocimiento que del amor resulta" (Carta 64, 126s). La totalidad es la única regla del amor: "Demos, pues, nuestro todo, que es chico todo, por el gran todo, que es Dios" (Carta 64, 67ss). Por esto, el justo hace todo "por solo el amor de Dios" (AF cap. 50, 5180). "Aquel ama a Dios verdaderamente que no guarda nada de sí mismo para sí" (Ser 5 -2-, 419s). Las obras valen según el peso del amor: "No mira tanto Nuestro Señor al don cuanto a la voluntad y amor con que se da" (Ser 8, 127s).[39]
El amor es unitivo: "Ninguno se junta con Él sino por el amor, y quien más ama, más junto está" (Ser 50, 28ss). Dios nos pide el amor de "amistad" (cfr. Ser 64, 165ss). La unidad consiste en que el amor "hace el corazón uno con Dios y trata a Dios como a Dios" (Ser 71, 268s). Es "fuego" que quema todo lo que no suene a amor: "El fuego de amor de ti, que en nosotros quieres que arda hasta encendernos, abrasarnos y quemarnos lo que somos, y transformarnos en ti, tú lo soplas... lo haces arder con la muerte que por nosotros pasaste" (AF cap. 69, 7015ss). Es "amor arraigado", no principalmente por esperar el cielo o temer el infierno (Juan I, lec. 7ª, 1685ss).
La caridad no es amor de "concupiscencia" o de interés propio, sino de "amistad" (cfr. Ser 64 y Carta 222). Es el "primer amor" o el fondo del corazón, que Dios ha creado para sí: "Dame este primer amor, porque es mío... No lo quiero por fuerza ni por temor, sino dame tu amor, y dámelo por amor" (Ser 64, 176ss; cfr Ap 2,4). La pauta es el mismo Dios, que es Amor.
La caridad nace de Dios, que es Amor. El Maestro Ávila, siguiendo la doctrina del Pseudo-Dionisio, expone las dos cualidades de la verdadera caridad: salir de sí y unirse a la persona amada. Dios "salió de sí" y se unió a nosotros por la Encarnación "y porque tomó flaquezas y muerte". Por el sacramento de la Eucaristía, "el que es vida y resurrección junta consigo por manera inefable a nosotros mortales y miserables" (Ser 50, 64ss).
No es posible a la naturaleza humana conseguir, con sus propias fuerzas, esta caridad, que es vida divina. Pero Dios nos comunica su mismo amor por medio de Jesucristo su Hijo. Es la "caridad y amor de Dios y del prójimo, que ésta es su vida" (Gálatas n. 52, 2840ss; cfr. Gal 5,6), que se manifiesta en las obras: "La caridad, donde quiera que está, produce grandes y excelentes fructos. No se contenta con tener el amor ocultado, sino que da muestras de él con sus obras" (ibídem, 2902ss; comenta 1Cor 9,22).
El amor a Dios se goza en que Dios sea tal como es: "Siempre queráis que nuestro Señor Dios, delante del cual habéis de andar, sea en sí tan bueno, tan santo, tan lleno de gloria como en sí mesmo; ansí con un gozo y complacencia en todo los bienes de Dios, holgándoos y regocijándose vuestra ánima en ver que vuestro Señor, verdadero amor, tiene todo aquello que merece" (Carta 26, 127ss).[40]
Por esto, la caridad se demuestra en la unión efectiva y afectiva con la voluntad de Dios. Comentando la doctrina paulina sobre la caridad como "plenitud de la ley" (Rom 13,10), va exponiendo que se trata de la unión de voluntad con la voluntad divina, tomando como ejemplo los santos en el cielo, "transformados en un querer con el de Dios" (Carta 26, 47ss). El Maestro invita a sus dirigidos a llegar a la "perfecta caridad". La caridad es, pues, la sintonía de la propia voluntad con la de Dios: "Por eso os dije que trujésedes un querer, con que quisiésedes que el Señor fuese en sí quien es; porque la caridad en este querer consiste" (Carta 26, 208ss).
La caridad consiste, pues, en armonía de la propia voluntad con la de Dios: "El amor de caridad, dicen los santos teólogos, que ha de nacer de la voluntad... la verdadera esencia del amor consiste en aquesto, y ansí entonces diremos que una ánima ama a Dios cuando quiere a Dios y su gloria" (Carta 222, 347ss; cfr. II-II, q.24, a.1). "Andar en perpetua caridad" consiste en caminar por "una vía de amistad" (ibídem, 534ss y 551ss). Entonces no es sólo la voluntad, sino también "todas las potencias exteriores e interiores obran por amor", "porque todo cuanto hacen nace del amor" (ibídem, 631ss).
La vida espiritual se mueve, pues, por este camino de la caridad, como unión con la voluntad de Dios: "No quite sus ojos de Dios y de su santa voluntad, que es el norte al cual hemos de mirar en la noche y mar de aqueste mundo, para aportar al puerto de salud, que no tiene fin" (Carta 78, 13ss). Seguir la voluntad de Dios es señal de garantía en la vida espiritual: "Ésta es la verdadera señal de los hijos de Dios, que dejan su voluntad propia y hacen la de Él; y esto no en las prosperidades (que aquello poco es), mas en las adversidades" (Carta 81, 118ss).[41]
Este ideal sublime se hace asequible, si se parte de la propia realidad amada por Dios: "Confíe que es amada de Él, y tenga esperanza de ver con alegría la faz del Señor... Subjétese del todo a la voluntad del Señor, y tórnese un poco de lodo, y diga al Señor: ... haz de mí a toda su voluntad" (Carta 135, 19ss). Así se va llegando al olvido de sí, para donarse a Dios y a los hermanos: "Ofrecerse tal cual es a nuestro Señor y no querer ella nada para sí, sino que Él la ponga donde Él quisiere, y que allí estará contenta... Ofrézcase a la voluntad de Dios y no elija por donde ha de ser salva, que Él tiene cuidado de ella" (Carta 90, 363ss, 397ss). Se trata de que nuestra voluntad "esté aparejada a querer todo lo que Dios quiere que queramos, sin sacar alguna excepción" (Carta 52, 32ss). Por esto, "todo el saber del siervo de Dios es hacer la voluntad de Él y a ojos cerrados esperar en Él" (Carta 77, 35ss).
El don de la sabiduría pertenece al campo de la caridad, a modo de conocimiento amoroso de Dios. La sabiduría cristiana se apoya en la revelación divina, en su misma palabra personal que es Cristo, el Verbo encarnado. Es siempre un don de Dios, que consiste en reconocer la propia realidad creada a la luz del misterio de Dios Amor: "Tiene esto la inmensidad de Dios y la grandeza de sus obras, que mientras más un hombre conoce de Él y de ellas, tanto más le parece que es poco lo que ha conocido y mucho el camino que le queda de andar" (Ser 53, 4ss). El encuentro auténtico de una parte de la verdad, hace al hombre sabio, en cuanto que sigue siempre buscando la verdad infinita.
Este don de la sabiduría se comunica a los humildes: "No se comunica la sabiduría de Dios, sino a los pequeños y humildes. que con sencillez se llegan a Él, inclinando su oreja a Él y a su Iglesia, y reciben de su bondad muy grandes mercedes, con las cuales queda el ánima satisfecha, hermoseada con fe y con obras" (AF cap. 49, 5071ss). En realidad, la sabiduría, por estar enraizada en la caridad, abarca todo el itinerario de la vida cristiana: "Dice San Bernardo: «Ése es sabio, a quien le sabe cada cosa como ella es»; aquel es sabio que le amargan los pecados más que la hiel, quien pone la honra debajo de los pies, quien se huelga con los trabajos, quien ama a Dios más que a sí, quien ama al prójimo como a sí mismo. Este tal tiene lumbre y esta lumbre es sobrenatural" (Juan I, lec. 4ª, 557ss; cita a San Bernardo, Sermo 18, 1).[42]
La caridad fraterna: El mandato del amor
Si la revelación cristiana se resume en Dios Amor manifestado por Cristo, la señal característica del cristiano es también el amor. Dice el Maestro Ávila que "el mandamiento de la caridad del prójimo (es) semejable al mandamiento de amar a Dios"; pero hay que reconocer que somos "muy flacos en la caridad" (Ser 36, 592ss). El mandato del amor es un reto al cristianismo: "Si los cristianos fuésemos perfectos guardadores de la Ley, que tenemos, cuyo principal mandamiento es el de la caridad, sería tanta la admiración que en el mundo causaríamos que... creerían que moraba Dios en nosotros" (AF cap. 34, 3528ss).
Comentando la doctrina paulina sobre la caridad, concluye: "Si no tienes caridad con que ames a Dios y al prójimo, aunque te vendas en tierra de moros y des por Dios el precio que dieron por ti, no vale nada" (Ser 8, 415; cita 1Cor 13,1). La señal de vivir en esa caridad para con Dios es "el amor del prójimo, que desciende de este profundísimo amor" (Carta 26, 235s; cfr. Carta 222, 640ss).
El tema de la caridad fraterna tiene en el Maestro Ávila textos de antología. Todo hermano, especialmente el más necesitado y el más pobre, es algo que pertenece al Señor: "Vuestros prójimos son cosa que a Jesucristo toca" (Carta 62, 37ss). Por esto, "prueba del perfecto amor de nuestro Señor es el perfecto amor del prójimo" (Carta 103, 30ss).
La profunda doctrina avilista sobre el Cuerpo Místico no podía menos de afrontar el tema de la caridad fraterna en su perspectiva de comunión. Amar a los hermanos equivale a entrar en sintonía con los sentimientos de Cristo: "Porque, si Cristo en vos mora, sentiréis de las cosas como Él sintió y veréis con cuánta razón sois obligada a sufrir y amar a los prójimos; a los cuales Él amó y estimó como la cabeza ama a su cuerpo, y el esposo a la esposa, y como hermano a hermanos, y como amoroso padre a sus hijos" (AF cap. 95, 9930ss).
La caridad fraterna es la nota de garantía de la vida cristiana en todos sus niveles. El Maestro alude frecuentemente al mandato del amor (cfr. Juan I, lec. 9ª, 18ª, 22-23ª) y, por tanto, al ejemplo del Señor, indicando que corresponde a la razón de ser de la Iglesia como Cuerpo Místico (cfr. Ser 10, 512ss). La explicación, basada en los principios evangélicos, se aplica a compromisos concretos de caridad (cfr. Ser 25, 425ss; Carta 110, 51ss). La contemplación cristiana tiene también esta nota de garantía: mirar a los demás redimidos por Cristo "con los ojos que Él los miró" (AF cap. 95, 9930). Entonces, cumpliendo su mandato, se ama a Cristo "por sí, y a ellos por Él y en Él" (9978s; comenta el texto del "mandato" según Jn 15,12).[43]
Quien ama al hermano necesitado, no distingue entre buenos y malos: "Más gente cabe en este mandamiento del amor, que cabe en el cielo, porque en el cielo no caben más que buenos y en este mandamiento caben malos y buenos... Y los que están en pecado mortal son hijos bastardos, mas hermanos son. Y los infieles que lo pueden ser, viniéndose a la fe, manda Dios que entren en esta cuenta" (Juan I, lec. 21ª, 6474ss). La novedad del mandato del amor consiste en amar con el mismo amor de Cristo, "como lo cumplió nuestro Señor Jesucristo..., que fue desinteresadamente... Pues mandamiento de amor de esta manera, nuevo es, nunca notificado ni a gentiles ni a judíos" (Juan II, lec. 9ª, 1050ss).[44]
Virtudes morales
Todas las virtudes encuentran su fuente y su raíz en la caridad. Las virtudes "morales" indican el actuar humano concreto en la perspectiva del amor. Respecto a la virtud de la prudencia, tratándose del recto y equilibrado modo de obrar de cada una de las demás virtudes, puede constatarse especialmente en el consejo o dirección espiritual, en el discernimiento del Espíritu y en modo de ejercer la autoridad por parte de los gobernantes.
Las reglas de la prudencia se aplican a todos los campos del actuar humano. El Maestro presta más atención a la vida espiritual. En las cartas a los dirigidos les ofrece algunas orientaciones, invitándoles a la docilidad a las mismas, en vistas a no exagerar. Así, por ejemplo, en carta a su dirigido San Juan de Dios, comenta Mt 24,45 (el siervo "fiel y prudente") y dice: "Para ser fiel es menester ser prudente... porque si no hay prudencia, cae el hombre en mil cosas que desagradan a Dios y es castigada su necedad con necio castigo" (Carta 46, 22ss).
En el campo del gobierno (eclesiástico o civil) es donde la prudencia necesita una actuación mayor, puesto que se trata del bien de los súbditos, a los que se sirve como al Señor: "Notoria cosa es, para cumplir bien con este oficio, ser necesaria la lumbre de la prudencia, con la cual disponga bien los medios, con que alcance su fin, que es la paz y virtud de los ciudadanos" (Carta 11, 484ss). Norma de prudencia para el gobernante es buscar consejo de personas entendidas (cfr. ibídem, 927ss). Pero por tratarse de una virtud sobrenatural, es necesaria "la mayor lumbre celestial que de la contemplación de Dios resulta", la cual se encuentra o se debe encontrar especialmente en quienes rigen la Iglesia (ibídem, 942).
Respecto a la justicia, además de referirse al campo de la "justificación", el Maestro también la explica como virtud moral o cardinal: la virtud que consiste en la actitud habitual de dar a cada uno (a Dios, al prójimo, a la comunidad humana) lo que es debido.
Al exponer explícitamente el término de "justicia" en la primera carta de Juan (1Jn 2,28-29), el Maestro recuerda los tres tipos clásicos de justicia: "Tres maneras hay de justicia: una es conmutativa, otra es distributiva, otra es justicia universal" (Juan I, lec. 17ª, 5160s). La justicia conmutativa se refiere a los contratos: "Justicia conmutativa es la de los contractos de daca y toma, vender la cosa por lo que vale y comprarla por lo que merece" (ibídem, 5161ss). La justicia distributiva se refiere al buen ejercicio de los oficios públicos (ibídem, 5166ss). La justicia "universal", según el Maestro Ávila, se refiere a la santidad y virtudes (al "hombre justo"), que tiene su primer modelo en Dios justo (cfr. ibídem, 5171ss). Esta última es la que se explica en el texto de Juan, como fuente de toda justicia: "Dios hace justicia porque es justo; pues sabed que todo hombre que es justo ha nacido de Dios" (ibídem, 5203s; cfr. 1Jn 2,28-29).
La aplicación de la justicia por parte de los gobernantes consiste en hacer cumplir las leyes, con tal que no se pierda de vista el objetivo para que han sido dictadas: para el bienestar del pueblo y para la recta distribución de los bienes entre todos los ciudadanos (cfr. Carta 11)[45]. La justicia debe llegar también a corregir los abusos cometidos por parte de quienes tienen algún cargo especial en la sociedad (cfr. Carta 11, 979ss; Carta 180, 5ss).[46]
Un verdadero tratado de orden público es la descripción sobre el arte de gobernar, que se hace en la carta 11 (con 1330 líneas de contenido), dirigida "a un Señor de este Reino, siendo asistente en Sevilla". Después de dar una normas generales, hace la aplicación a los diversos campos de la vida social. Todo gobernante tiene que buscar no el propio interés, sino el "cuidado de la gobernación y provecho de otros" (Carta 11, 29s).
La persona que ejerce un cargo público ha de "llevar las cargas de su súbditos" (Ser 35, 539s). Los mismos reyes y gobernantes deben humillarse dando buen ejemplo en la confesión y comunión (ibídem, y Ser 55, 430ss). En las celebraciones dentro de la Iglesia, "no es razón que el rey ni los grandes tengan aquel aparato de estrados como en otras partes suelen tener" (Ser 35, 765ss). Nadie puede abusar de su "poderío" como si no hubiera "quien juzgue a ellos" (ibídem, 794). Poniendo el ejemplo del rey David (cfr. 2 Reg 6,14ss), comenta: "Y aquel baila bien cuyo cuidado único es beneficiar a los suyos, y para el bien público tiene ofrecida su hacienda, su honra y su vida, al ejemplo del Señor, que vino a servir y a dar la vida en rescate de muchos" (ibídem, 828ss; Mt 20,20).
El problema de la corrupción en los niveles de la actuación pública disminuiría si los gobernantes atendieran al verdadero fin de su actuación: "No se contenten con sólo mandar - que aquello sin amor se puede hacer -, mas desciendan de su majestad por subir en la bondad, y dejen el ocio y regalo y tomen el azadón en la mano, y caven, con sudor de su cara, la dura tierra de los corazones de sus súbditos, si quieren gozar del fructo y del nombre de gobernantes cristianos, imitadores de Jesucristo" (Carta 11, 314ss). Pero "hay pocos que entiendan esta carga, aneja al oficio público, de procurar de hacer buenos a los que les son encomendados... como buenos padres, para que sus hijos sean virtuosos" (ibídem, 321ss).
No descuida el Maestro el respeto a la autoridad, puesto que se trata de un "lugarteniente de Dios" (Carta 12, 395). Pero, precisamente por ello, se atreve denunciar los abusos: "Aprendan los grandes a no extender sus grandezas, ni piensen que mientras más libremente hicieren lo que quieren, tanto más grandes son. No es poder usar mal del poder, mas usar de él según razón y derecho" (Ser 50, 523ss). Recuerda que "los lugares altos hacen muchas veces a los buenos malos; ninguna o pocas, de los malos buenos", porque quienes llegan a ellos están, a veces, "embriagados del falso vino del mandar, de las riquezas y placeres" (Ser 69, 49ss).[47]
La virtud de la fortaleza no aparece explicada con amplitud, sino relacionada con la esperanza, con la paciencia, con el anuncio (el profetismo), con el martirio, con el sufrimiento y las pruebas, etc. La esperanza es confianza y también "tensión" hacia el encuentro definitivo, por encima de las dificultades. El anuncio de la verdad con fortaleza profética puede llevar a la persecución y al martirio. Las pruebas de esta vida son medios en los que se acrisola la virtud, especialmente la virtud de la esperanza y de la fortaleza. La fortaleza se demuestra también en el cumplimiento del propio deber y en la obligación del trabajo.
La paciencia es la concretización de la virtud de la fortaleza en los momentos de dificultad (dolor, pruebas, sufrimiento, tribulaciones). La paciencia se adquiere meditando en Cristo crucificado. La paciencia se adquiere en las pruebas de esta vida, sufridas por amor: "Que así como una castidad es probada con cosas contrarias, una humildad con deshonras, una paciencia con trabajos, una caridad con hacer bien a quien nos hace mal, así es la fe y confianza probada con enviar Dios trabajos que parecen sacar de juicio, y esconderse Él" (Carta 22, 69ss).
La paciencia es también imitación de Cristo, contemplando su pasión y esperando su venida final: "El Padre amó a su Hijo mucho, y le entregó en poder de muchos dolores. Ama el Hijo a vuestra merced mucho, y por esto envíale éstos: llévelos con paciencia, como el Hijo llevó los suyos, y será amada de Él, y sentirse ha en el trono de Él, como Él se sienta en el trono del Padre" (Carta 27, 148ss; cfr. Carta 115, 108ss).
Dios mismo tiene suma paciencia con nosotros: "Ninguno hay que con tanta paciencia os sufra como el Señor benigno, que conoce muy bien vuestra flaqueza" (Carta 48, 84ss). Y las pruebas que nos envía son señales de su amor para probar nuestra paciencia: "Ansí que, señor, aunque la salud de vuestra merced se emplease bien, más se huelga Dios con la paciencia en la enfermedad, porque es cosa donde más se ejercita el amor, que con la paciencia de la salud" (Carta 168, 21ss).
La virtud de la templanza (virtud que ordena y modera los deseos y tendencias) queda expuesta en relación con la castidad, la mortificación, la orientación de la concupiscencia, el recto uso de la bebida y comida, la moderación en el vestir y en el uso de los bienes de esta tierra, la modestia en el aprecio de sí mismo, etc.
La virtud de la castidad orienta las inclinaciones afectivas según la caridad. Puede también referirse al dominio de la concupiscencia, o también al seguimiento radical de Cristo por medio de la virginidad y celibato. La castidad se traduce en dominio de sí mismo en el campo de la sexualidad y de las inclinaciones de la carne. Este vencimiento es necesario para que Cristo viva en el alma: "La preciosa joya de la castidad no se da a todos, mas a los que con muchos sudores de importunas oraciones y de santos trabajos la alcanzan de nuestro Señor" (AF cap. 5, 413ss). Este bien "por mucho que cueste, siempre se compra barato", puesto que hace posible "aposentar a Cristo en sí" (ibídem, 419ss). No es posible guardar "castidad entre regalos" (ibídem, 468).
La castidad se presenta en armonía con las demás virtudes. Se han de poner los medios para adquirirla o conservarla, especialmente la templanza, la oración y la recepción de la Eucaristía (Ser 11, 543ss). Sin sacrificio no es posible ser casto: "¿Pensáis que holgando y durmiendo y teniendo el vientre lleno se gana la castidad? No, hermano, que en corporales limpios y de lienzo se aposenta Cristo" (ibídem, 583ss).
Para guardar la castidad cristiana, además del espíritu de sacrificio y de la oración ferviente, se requiere "procurar alguna buena ocupación" (AF cap. 6, 519ss). La meditación de la pasión es un medio eficaz para superar las tentaciones. La soberbia suele terminar en pecados contra la castidad (cfr. AF 7-16). La devoción a María es una ayuda imprescindible: "Ella oye y recibe de muy buena gana, como verdadera amadora de lo que le pedimos" (AF cap. 14, 1305ss). Amar a María y acudir a ella es camino de castidad: "Si la carne te tienta, llama a María... veis aquí una Virgen que, mientras más un hombre se enamora de ella, será más casto" (Ser 63, 496ss).
La moderación de las ambiciones y de la estima de sí mismo se llama humildad. Es la actitud de reconocer los dones recibidos y también la propia limitación humana. El realismo de la doctrina avilista se basa en el conocimiento de la naturaleza humana a la luz de la redención. Se reconoce la propia debilidad y, al mismo, los dones de Dios.
La humildad cristiana no es apocamiento, sino actitud de confianza, generosidad, magnanimidad y audacia (cfr. AF, cap. 67). Sin actitud de humildad, no existe la santidad. "No sólo la humildad alcanza y conserva la gracia, mas es señal que da la entender que está allí la gracia... Quien a Dios tiene, en la humildad se conoce... No creáis haber santidad sin humildad, ni aunque seáis subido al tercer cielo" (Ser 66, 149s).
La doctrina sobre la humildad cristiana no tiene origen en una reflexión humana, sino en los ejemplos y enseñanzas de Jesucristo (cfr. Ser 21, todo). Todos los momentos de la vida del Señor, desde la Encarnación hasta la cruz, son una llamada a la humildad: "Y si te acordares que está Cristo en un pesebre, ¿habrás vergüenza de ensalzarte en este mundo? Que este Niño que está en este mundo, verdad es de Dios Padre... Cuando nace, en pesebre; cuando muere, en cruz" (Ser 4, 451ss). "Está Dios humillado y puesto en palo, ¿y quieres tú estar ensalzado?" (Ser 3, 745s). "¡Oh humildad! ¡Oh pobreza, cuán amada sois de este Señor, pues os santifica, tomándoos en su misma persona, para después llamar bienaventurados a los humildes y pobres de espíritu!" (Ser 75, 1236ss, sermón sobre San José).
Puesto que la humildad es la verdad (según enseñanza de Santa Teresa), será un acto de humildad reconocer y agradecer los dones de Dios: "Si alguna cosa buena tengo, vos me la distes; y si a otros la diérades, mejor os sirviera con ella que yo" (Ser 18, 624ss). La misma actitud de autenticidad se traduce en reconocer la propia miseria y pecado: "Mira cuánto vale la humildad que, puestos en una balanza muchos pecados, y en otro buenas obras con soberbia, pesa más la humildad con pecados. ¡Cuánto más si pusieras buenas obras con humildad!" (Ser 21, 392ss).
El reconocimiento de los dones de Dios lleva al agradecimiento y a la alabanza del mismo Dios. La gratitud es un proceso que queda descrito en tres momentos: "Tres grados se suelen poner de la virtud del agradecimiento. El primero es conocer en el corazón el beneficio recebido; el segundo, alabarlo y contarlo con palabra; el tercero, satisfacerlo con la obra, según la posibilidad de quien lo recibió" (Carta 76, 1ss). Hay que agradecer especialmente el perdón de los pecados (cfr. AF cap. 12). Efectivamente, "el ánima... se debe ocupar en hacimiento de gracias por tan grande y no merecida merced, de no sólo haber Dios perdonado el infierno, mas haberle recebido por hijo y dádole su gracia y dones interiores, por merecimiento del verdadero Hijo de Dios, Jesucristo nuestro Señor" (ibídem, 7410ss; cfr. Rom 4,25).
El reconocimiento de la propia miseria no lleva al desánimo, sino a la confianza en la misericordia divina: "Y así, Señor, siempre tu gracia y tu misericordia anduvo delante de mí... Porque si tú, Señor, esto no hubieras hecho, todos los pecados del mundo hobiera yo hecho" (AF cap. 66, 6748ss; cfr. San Agustín, Sermón 99, cap. 6, etc.). Se puede decir que para conocer la bondad de Dios, hay que aprender a conocer la propia bajeza: "Y si quiere hallar un gran libro para leer cuán bueno es Él, mire cuán malo es vuestra merced, y crea que Dios le ama, y verá un retablo de hermosura de amor pintado en vileza de sus propias maldades" (Carta 93, 41ss).
En el camino de la perfección y de la contemplación la humildad es garantía de acierto: "A quien Él levanta a grandes cosas, primero le abate en sí mismo, dándole conocimiento de sus propias flaqueas; para que, aunque vuelen sobre los cielos, queden asidos a su propia bajeza, sin poder atribuir a sí mismos otra cosa sino su indignidad" (AF cap. 52, 5401ss). Precisamente la contemplación es camino de humildad, "contentándose con aquella vista sencilla y humilde, acatando a los pies del Señor y esperando su limosna y misericordia" (Carta 1, 361ss).
La humildad es un don de Dios; la cooperación a este don consiste en el conocimiento propio y la aceptación de las humillaciones. Mirando a Cristo en su vida humilde, "tendréis gana de ser despreciada, por ser conforme al Señor" (AF cap. 3, 185s). Ante las injurias, es mejor adoptar una actitud de propia humillación: "Iros a vuestro rincón y delante de Dios quejaros de vos diciendo: Señor, debiéndote yo tanto, que soy obligado a pasar por ti otro tanto como tú pasaste por mí, no sufro una palabrita, una nonada; quéjome, Señor, de mí y de mi poquedad" (Ser 2, 215ss). Por esto, el humilde huye de las honras del mundo, "huyendo con mucho cuidado de ser preciado de aquel que a su Señor despreció; y teniendo por grande señal de ser amado de Cristo, el ser despreciado del mundo, con Él y por Él" (Carta 93, 215ss). "Mire, pues, qué de bienes vienen con la ceniza de la humildad, y no esté sin ella, porque no esté sin Dios" (Carta 85 -1-, 19ss). Recordaba a sus dirigidos que "muy mal se guarda la humildad entre honras" (AF cap. 5, 467s).
En las "Reglas de espíritu", el Maestro señala unos grados de humildad, a modo de invitación a conocerse, negar la propia voluntad, obedecer, adoptar signos externos de sencillez ("no hacer alguna singularidad notable en las cosas exteriores"), aceptar con paciencia y alegría las humillaciones, confesar las propias faltas, "anteponer a los otros a sí", "hablar cosas pocas y buenas", "pretender estado y hábito humilde", etc.
El discernimiento de las mociones del buen Espíritu o del mal espíritu, tiene lugar por el camino de la humildad. Entre las señales del buen Espíritu, "la principal sea si os dejan más humillada que antes. Porque la humildad... pone tal peso en la moneda espiritual, que suficientemente la distingue de la falsa y liviana moneda" (AF cap. 52, 5345ss; cita a San Gregorio Magno, Moral, lib. 34, cap. 23). Los engaños del demonio se superan con la humildad: "Huirá el demonio con la piedra de la humildad, que es golpe que le quiebra la cabeza como a Goliat" (AF 51, 5265ss). La humildad va acompañada de la obediencia, "porque la humildad que no es obediente, no es humildad. Y no se engañe nadie con color de virtudes" (Ser 33, 402ss). "Humíllese mucho a Dios y a los hombres, que no hay otra arte para escapar de los lazos del demonio... sino ser chiquito" (Carta 105, 72ss).[48]
c) La vida de oración
El Maestro explica la oración vocal (personal, comunitaria) e invita a vivir la oración y celebración litúrgica. Aconseja con frecuencia la meditación e invita a adentrarse en la unión contemplativa. Pero recalca especialmente las actitudes interiores que hay que adoptar en la oración.
La oración avilista, profundamente contemplativa, sigue la dinámica de humildad (realismo), confianza (en el amor de Dios) y unión (con la voluntad de Dios). Los tres aspectos de la actitud oracional (humildad por nuestra condición de criaturas, confianza en la bondad de Dios) y unión, se reflejan en toda la doctrina avilista: "El hablar con Dios ha de ser con gozo y temor; con temor, teniéndose por indigno de hablar con tal alto Señor, y con grande alegría de contemplar tan grande honra como Dios tuvo por bien de hacer a los mortales en tener de nosotros tan especial cuidado, que continuamente podamos gozar de su divino coloquio".[49]
La actitud relacional de la oración se concreta en una "muy estrecha y familiar comunicación" con el Señor (AF cap. 70, 7136). La oración es una actitud filial. En este sentido hay que entender su expresión: como "un niño o uno que oye órgano y gusta" (Plática 3ª, 167ss); "con un afecto sencillo, como niño ignorante" o con "una sosegada atención para aprender de su maestro" (AF cap. 75, 7656ss). Esta la actitud filial de autenticidad y confianza, se resume en la "humildad y simplicidad de niño" (AF cap. 75, 7728).
El Maestro Ávila invita continuamente a una actitud relacional con Dios, expresada en alabanza, acción de gracias, confianza, petición, amor. Este contexto relacional resume los contenidos tradicionales de la oración: "Por oración entendemos aquí una secreta e interior habla con que el ánima se comunica con Dios, ahora sea pensando, ahora pidiendo, ahora haciendo gracias, ahora contemplando, y generalmente por todo aquello que en aquella secreta habla se pasa con Dios" (AF cap. 70, 7138ss). Esta oración es posible gracias al Espíritu Santo que se nos ha comunicado: "La oración que no es inspirada del Espíritu Santo, poco vale; la que no se hace según Él, la que no inspira y ordena Él, de muy poco fruto es, poco aprovecha" (Ser 30, 41ss; cfr. Rom 8,26).
Parte siempre de la bondad de Dios y de la realidad humana (personal y comunitaria), para pasar a la confianza filial y a la unión con Dios. La oración cristiana consiste en dejar orar a Cristo en nosotros. Citando a San Agustín, afirma: "Cuando nosotros oramos, Él (Cristo) ora en nosotros" (AF cap. 84, 8868; cfr. San Agustín, Enarr. in Ps., 85,1). En este sentido se puede comprender mejor cómo la oración es actitud filial, a imitación de la oración de Cristo.[50]
La actitud filial de la oración se refleja especialmente en el "Padre nuestro" (cfr. Plática 3ª y AF cap. 70 y 75). "Y Padre nuestro es, con el cual nos habíamos de holgar, conversando, aunque ningún provecho de ello viniera" (AF cap. 70, 7170ss). Nuestra actitud filial (de confianza y autenticidad) se funda en su amor paterno: "Verdaderamente te ama y procura tu bien. Padre tuyo es y buen padre; y a todos ayuda, y hace bien a los que en él esperan" (Ser 9, 309ss). La garantía de esta actitud filial es el amor a todos los hermanos: "Y no ha de pensar que teniendo tan buen Padre en el cielo, como tiene, que no ha menester a nadie, porque este Padre es amigo de caridad y humildad, y quiere aprovechar a unos por medio de otros" (Carta 90, 348ss).
El tono de intimidad y de confianza lo comenta a partir de algunas escenas evangélicas. Comentando la escena de Jesús esperando a la Samaritana (Jn 4,2), invita a encontrar a Cristo en la soledad: "Quédase allí solo, descansando. Por esto quien quisiere negociar con Él, vaya, que allí lo hallará solo, y el negocio que Él más quiere es que vais a regocijaros con Él; id, que allí lo hallaréis solo" (Ser 11, 80ss).
La necesidad de la oración la recordaba a toda clase de personas: "Si tuviésedes callos en las rodillas de rezar y orar, si importunásedes mucho a Nuestro Señor y esperásedes de Él que os dijese la verdad, otro gallo cantaría. ¿Quieres que te dé su luz y te enseñe? Ten oración, pide, que darte ha. Todos los engaños vienen de no orar" (Ser 13, 560ss). Explica la oración de modo asequible para todos. Es oración del corazón y que puede realizarse continuamente: "Oración de corazón, que mana de fe viva, alcanzará lo que pidiere" (Ser 10, 102s). Comenta Lc 18,1 (sobre la oración continua): "Graciosa y muy agradable oración haréis si, dondequiera que os halláredes, alzardes vuestros corazones a Dios y lo tuvierdes presente en vuestra memoria. ¿Quién os estorbará que no podáis hacer esto?" (Sermón 10, 321ss). Invita a todos los fieles a practicar esta oración: "Comunicaos con Él, recogeos un poco a solas con Él en vuestro rinconcillo, si queréis sanar de vuestros males" (ibídem, 376ss).
En las cartas a sus dirigidos, explica frecuentemente los modos de hacer esta oración continua y sencilla. Aconseja una lectura que lleve a contentarse con una "vista sencilla y humilde, acatando a los pies del Señor y esperando su limosna y misericordia" (Carta 1, 361ss). Se puede hacer oración a partir de los acontecimientos: "No esperaréis horas ni lugares ni obras para recogeros a amar a Dios; mas todos los acontecimientos serán despertadores de amor. Todas las cosas que antes os distraían, agora os recogerán" (Carta 56, 104ss). "Ningún rato haya en el cual vuestro corazón no ofrezca a Dios sacrificio de alabanzas y de amor encendido" (Carta 66, 69s). En cualquier dificultad, "perseveremos en mirar a Dios" (Ser 129, 19s).
Siendo la oración una actitud relacional que tiende a la unión con Dios, es normal que presente esta dimensión contemplativa de la oración, siempre en relación con el proceso de perfección: incipientes, proficientes y perfectos (cfr. toda la Plática 3ª).
El tiempo para orar se encuentra más fácilmente cuando la oración es actitud relacional, por parte de quien busca a la persona amada. Hay que encontrar tiempo para orar, "porque no tener algunos ratos de ella, sería yerro muy grande" (AF cap. 6, 549s). Hay que evitar los obstáculos para esta "secreta y amigable habla". Por esto, además de explicar la naturaleza de la oración y su necesidad, no deja de invitar a poner los medios concretos.
Para conseguir estos objetivos de la oración, recomienda planes concretos, ambiente propicio, toma de conciencia sobre la presencia de Dios, petición, lectura, etc. (cfr. AF cap. 58-61). A sus discípulos recomienda orar por la mañana meditando la pasión, y por la tarde haciendo un examen para llegar al conocimiento propio. Todos esos medios son ayudas (caminos, métodos) para pensar, sentir, examinarse, dialogar... Pero la oración es siempre un don de Dios: "Y de ninguna manera presumáis en el acatamiento de Dios, de estribar en vuestras razones ni ahinco, mas en humillaros a Él con un afecto sencillo, como niño ignorante y discípulo humilde, que lleva una sosegada atención para aprender de su maestro, ayudándose él. Y sabed que este negocio más es de corazón que de cabeza, pues el amar es el fin del pensar" (AF cap. 75, 7654ss).
La valoración de los medios es positiva, pero nunca pueden sobrevalorarse por encima de la actitud sencilla de oración. El Maestro habla por experiencia: "Y a muchos he visto llenos de reglas para la oración, y hablar de ella muchos secretos, y estar muy vacíos de la obra de ella" (AF cap. 75, 7724ss). No hay que dejar de lado los medios necesarios, pero sí hay que insistir en la confianza y en el amor. "Y no os digo esto para quitar las industrias razonables que de nuestra parte hemos de poner, especialmente cuando somos principiantes en ellos, mas para que se haga con tanta libertad que no nos impidan el estar colgados del Señor, esperando sus mercedes por la vía que Él las quisiere hacer. Y tened por cierto que en este negocio aquél aprovecha más que más se humilla, y más persevera, y más gime al Señor; y no quien sabe más reglas" (ibídem, 7729ss; cfr. Carta 222, 182ss).
La oración avilista tiende, pues, a la actitud relacional de unión. Es oración fuertemente contemplativa en el sentido sencillo de un corazón que se quiere abrir del todo a Dios y a su Palabra, reconociendo la propia pobreza y donándose totalmente a él. Por esto, el camino de la oración contemplativa (que veremos después) es, al mismo tiempo, camino de perfección. En la terminología avilista, equivale, a veces, al camino de meditación.
La meditación es un modo de hacer oración, muy recomendado por los santos y también por el Santo Maestro. Es también un medio peculiar de perfección. En el Maestro se expone como un camino de oración contemplativa, especialmente por tratarse de la meditación de la pasión (unión con los sentimientos de Cristo).[51]
Esta meditación se desarrolla por medio de la lectura, reflexión, afectos y resoluciones, centrándose en la persona y doctrina de Jesús, como "escuchando a Dios en aquellas palabras que de fuera leéis, como si a él mismo oyérades predicar cuando en este mundo hablaba" (AF cap. 59, 6052ss). Es, pues una lectura "meditativa" (escuchar), que lleva al examen de actitudes y de vida, para pasar a la petición y a la unión con la voluntad de Dios. Es el proceso clásico de la "lectio divina".
La meditación avilista se hace más con el corazón que con la cabeza. El Maestro la llama "meditación sosegada" y "sosegada atención": "Y de ninguna manera presumáis en el acatamiento de Dios, de estribar en vuestras razones ni ahinco, mas en humillaros a Él con un afecto sencillo, como niño ignorante y discípulo humilde, que lleva una sosegada atención para aprender de su maestro, ayudándose él. Y sabed que este negocio más es de corazón que de cabeza, pues el amar es el fin del pensar... Y, si Dios os hace esta merced de meditación sosegada, será mas durable lo que en ella sintiéredes, y más larga y sin pesadumbre" (AF cap. 75, 7654ss).[52]
d) Seguimiento e imitación de Cristo
El camino de la perfección cristiana se concreta en la imitación y seguimiento de Cristo. El Maestro invita a este seguimiento, para imitar el estilo de vida de los Apóstoles (cfr. AF cap. 76, 7803ss; cfr. ibídem, cap. 88-89). El seguimiento de Cristo comporta imitarle (cfr. Gálatas, n.4).
En la doctrina avilista, el seguimiento evangélico tiene sentido de desposorio con Cristo. "Sabéis a qué entrastes?... A tratar amores con vuestro esposo Jesucristo" (Plática 15ª, 86ss). Las grandes exigencias de la abnegación se encuadran en esta perspectiva de seguimiento: "Si con Jesucristo fuéredes, id sin vos" (Ser 15, 368). "Señor, que siempre os seguí yo por vos y en vos" (Ser 15, 188s). En sentido eclesial general y particularmente en el seguimiento radical, el alma que sigue al Señor es para "ser esposa de Cristo" (AF cap. 104, 10894s).
La exposición del seguimiento de Cristo sirve para toda vocación cristiana. Sólo a partir de esta actitud cristiana fundamental, muchas personas descubren su llamada específica a la profesión de esta misma vida evangélica. El Maestro no se cansa de predicar para todos que hay que buscar a Dios por sí mismo: "¡Señor, tú solo mi bien y descanso; fálteme todo y no me faltes tú; piérdase todo y no tú! Aunque me quieras quitar todo cuanto me quieras dar, dándome a ti no se me da que me falte todo" (Ser 2, 581ss). Entonces se aprende a perderlo todo por él: "Comencemos vida nueva, pues el Niño la comienza... Vais por humildad, por pobreza. A la corte vais por mis negocios. Quiérome ir con vos" (Ser 4, 526ss; cfr. Ser 5 -1-, 180ss).[53]
Además de los sermones, también las cartas contienen esa misma llamada frecuente al seguimiento, con la particularidad de aplicar la llamada a la persona concreta, según su estado de vida: "No estime a Dios en tan poco, que quiera dar poco por Él, pues Dios le estimó a él en tanto, que no quiso dar menos que a sí por él" (Carta 2, 149ss). "Su Amado es, y más Amador que Amado" (Carta 22, 99). "No tengáis en el corazón a criatura alguna aposentada, por darle corazón y posada desembarazada a Él... dejad todo lo que no es Él" (Carta 47, 32ss, 72s; cfr. Carta 127, 75ss). Hay que vivir en continuo agradecimiento por esta vocación de dejarlo todo por el amor (cfr. Carta 94, 13ss).
El seguimiento, como actitud de compartir la misma vida, incluye la imitación de Cristo. El Maestro es un apasionado por Cristo, en sintonía con su interioridad. Por esto invita a una relación y unión profunda con él, para imitarlo y transformarse en él: "Cristo nos amó; imitadle en sus virtudes y en el desprecio del mundo... Cristo os es dado por ejemplo, para que, mirando a él, rijáis vuestra vida" (Memorial II, 515ss).
Aludiendo a la doctrina paulina de "revestirse de Cristo" (Col 3,10), invita a la imitación del Señor, para poder participar en su divinidad: "Habemos de tener compañía con Cristo en sus costumbres... Hemos de parecer a la humanidad de Cristo en padecer trabajos y persecuciones" (Juan I, lec. 3ª, 218ss). No es algo inabarcable, sino factible. Cristo es modelo de amor misericordioso y de humildad: "Otro remedio no tenéis para acertar el camino sino mirar dónde este Niño pone los pies y caminar por allí. Mirad su humildad, su mansedumbre, su caridad, su obediencia... Y quien le ama, fácilmente cumple lo demás. Y no sólo nos convida a le amar, mas Él nos infunde el amor, si aparejados nos halla" (Ser 4, 647ss).
La imitación de Cristo es una exigencia de la vocación cristiana: "¿Qué quiere decir cristiano? - Imitador de Jesucristo. - ¿Quién imita a Cristo? - El que blasfemare los pecados y amare los trabajos" (Ser 26, 488ss). Especialmente las personas que quieran vivir el desposorio con el Señor, "han de mirarse en Jesucristo, viéndose como en un espejo, no tengan alguna mancha en la cara... porque su Esposo no las deseche" (Ser 27, 152ss).[54]
No es una imitación simplemente externa o rutinaria, sino que se convierte en unión con Cristo. En el Maestro Ávila, la unión e imitación incluye la incorporación a Cristo. Nos unimos a él como hermano, pero "aun hay otro grado de unión, por el cual llega el hombre a ser hecho... no sólo cristiano, mas aun Cristo" (Ser 53, 616ss). Dios ama al creyente porque "lo ve unido con Jesucristo e encorporado con Él... Misterio grande, unión inefable, honra sobre todo merecimiento, que el hombre y Cristo sean un Cristo" (ibídem, 669ss).
e) Ascética, sabiduría de la cruz, martirio
San Juan de Ávila presenta el camino espiritual por una serie de etapas hasta llegar a la unión con Dios. Es el camino de la ascética que deriva hacia la intimidad con el Señor ("mística"). El habla más bien de "incipientes", que progresivamente pasarán a "proficientes" y "perfectos". En la etapa de los incipientes "hase de comenzar por los defectos propios y por la meditación de la pasión" (Plática 3ª, 144ss). Es, pues, un momento fuerte para conocerse a sí mismo y fundamentar la confianza en el amor de Dios; de ahí se seguirá una entrega mayor.
En la doctrina avilista, tan profundamente arraigada en el amor de Dios, se invita continuamente al esfuerzo ascético o la puesta en práctica de las obras buenas. Es, pues, la actitud contraria a la de los "alumbrados" o "dejados", que entendían el "recogimiento" como actitud pasiva y sin esfuerzo. La verdadera actitud ascética comienza por reconocer la propia "miseria" y decidirse a cumplir los mandamientos (cfr. Plática 3ª, 212ss). Esta actitud ascética (de humildad y de práctica de la voluntad de Dios) es necesaria en todo el proceso de la vida espiritual. "Si quisiera correr por los hermosos caminos de Dios, no vaya muy cargado de tierra; que cuanto más dejare por Dios, tanto El más le dará de su gracia" (Carta 10, 115ss).
La ascética es necesaria durante todo el proceso de la vida espiritual, sin dicotomías, aunque distinguiendo claramente las diversas etapas, que pueden ser de tono más ascético o místico. Hay una continuidad en todo el proceso de la vida espiritual, marcado por la atención al conocimiento de sí mismo y a la voluntad de Dios. Lo importante es llegar a la unión con Cristo, por un proceso de abnegación o negación de sí mismo.
La "abnegación" es la actitud evangélica de "negarse a sí mismo" para "seguir" a Cristo tomando su "cruz" (cfr. Mt 16,24). En la doctrina avilista, el tono del amor suscita una mayor confianza y una mayor negación de todo cuanto no suene a amor a Dios y a los hermanos: "Se prueba el amor... en la propia abnegación" (Carta 103,19s; comenta Mt 16,24). El camino del desposorio con Cristo trae consigo la abnegación de todo cuanto no sirva para la unión con él.
El ejemplo de Cristo que sufre en la pasión, es el punto de referencia de la abnegación cristiana, como actitud de respuesta al amor: "Si vienes tras mí, ven sin ti" (Ser 15, 294). Cuando uno se busca a sí mismo, se pierde a sí y no encuentra a Dios (cfr. Ser 19, 221s). Para entrar en sintonía con los criterios, escala de valores y actitudes de Cristo, hay que despojarse del propio "parecer" y de la propia "voluntad". "Enseñados en la escuela del Espíritu Santo", dice, "destetaos de vuestra voluntad, de vuestro propio parecer, salíos de vosotros mismos, salíos de vuestro natural" (Ser 30, 464ss).
En sana lógica evangélica, el Maestro explica que no se trata de "vaciarse" de algo válido, sino de "desembarazarse" para "llenarse" de Dios (cfr. Ser 44, 75ss). Es vaciarse de sí para llenarse del amor y hacerse donación: amor a Dios y a los hermanos. En este proceso de donación, el hombre se siente plenamente realizado: "Hermano, si os dais vosotros a Dios, todo es vuestro; si no, no tenéis nada" (Ser 64, 335s).[55]
Se apunta al gran "todo" que es Dios, dispuestos a dejar nuestro "todo" que es nada: "Si todo lo dejásemos, de veras hallaríamos al todo" (Plática 15ª, 239s); "demos, pues, nuestro todo, que es chico todo, por el gran todo, que es Dios" (Carta 64, 67ss). Este es "el mayor sacrificio que se puede hacer a Dios", puesto que es la ofrenda de sí mismo (Plática 16ª, 2s); es un "trueque" que vale la pena (ibídem, 321s).
Es, pues, un proceso de "liberarse" de todo lo que "contradice" al amor de Cristo (cfr. Carta 58, 59s). En aras de este amor, vale la pena cualquier renuncia: "Echéis de vuestro corazón todo aquello que Dios no es" (Carta 62, 104ss); "no viváis en vos, que moriréis, arrojaos en El, transformaos en El" (Carta 82, 15ss); "tanto alcazaréis de El, cuanto perdiéredes de vos" (Carta 164, 75ss); "no os quedéis en vos, pasaos a El, perdeos en El" (Carta 226, 72ss).[56]
Abnegarse es "desprenderse", en el sentido de un buen uso de las criaturas. Nada ni nadie puede ocupar el puesto del absoluto de Dios: "Diga a todas las cosas: Apartaos de mí, que no soy vuestro ni debo ser mío" (Carta 147, 66ss). Equivale a despojarse de todo para revestirse de Cristo, compartiendo su misma cruz: "Desnudo murió Jesucristo en la cruz, desnudos nos hemos de ofrecer nosotros a El. Nuestra vestidura sola ha de ser hacer su santa voluntad" (AF cap. 26, 2593ss).
Compartir la misma vida de Cristo equivale a correr su misma suerte de cruz. Es el tema del "Audi Filia", como desposorio que se traduce en el desprendimiento de "salir" del propio "pueblo" (Salmo 44 -45-), "fuera de la puerta", como Cristo, para seguirle por el camino de la cruz (cfr. AF cap. 98, 10268ss; Heb 13,13-14). Quien se desposa con Cristo, "huye toda la gloria de la vida presente, para que alcance todo lo que se promete en el siglo que está por venir" (AF cap. 99, 10423ss; cita a San Jerónimo, Epist. 148, 21).[57]
Es muy frecuente, en el Maestro Ávila, el tema del dolor o sufrimiento. Es la realidad cotidiana en todos los períodos históricos y en todas las latitudes. Lo importante es descubrir el misterio de la cruz. El sufrimiento no resulta estéril cuando se ha transformado en donación, en unión con Cristo crucificado.[58]
El "Tratado sobre el amor de Dios" describe toda la interioridad de Cristo, desde la Encarnación hasta la cruz (sus "miradas" de amor). Quien sigue a Cristo, se deja conquistar por el misterio de su cruz: "¿Qué te parecería un día de la cruz por desposarte con la Iglesia, y hacerla hermosa, que no la quedase mancilla ni ruga?" (Amor, n. 8, 352ss; cfr. Ef 5,25-27). El creyente entra en la locura de la cruz: "¡Oh cruz! hazme lugar, y véame yo recibido mi cuerpo por ti y deja el de mi Señor. ¡Ensánchate, corona, para que pueda yo poner mi cabeza! ¡Dejad, clavos, esas manos inocentes y atravesad mi corazón y llagadlo de compasión y de amor!" (ibídem, 397ss).[59]
No se mira directamente el dolor, sino el amor, que es siempre el único modo de descifrar el misterio del dolor: "No solamente la cruz, mas la mesma figura que en ella tienes, nos llama dulcemente a amor; la cabeza tienes inclinada, para oírnos y darnos besos de paz... los brazos tendidos, para abrazarnos; las manos agujereadas, para darnos tus bienes; el costado abierto, para recebirnos en tus entrañas, los pies clavados, para esperarnos y para nunca te poder apartar de nosotros. De manera que mirándote, Señor, todo me convida a amor: el madero, la figura, el misterio, las heridas de tu cuerpo; y, sobre todo, el amor interior me da voces que te ame y que nunca te olvide de mi corazón" (Amor, n. 11, 454ss).
El camino de la contemplación y de la perfección está marcado por la cruz, como signo de desposorio entre Cristo y su Iglesia. La esposa no tiene más honra que la del esposo crucificado (cfr. AF cap. 2, 92ss) y "lleno de deshonras" (ibídem, cap. 3, 161). Con "el báculo de la cruz" y sus cinco llagas (como las cinco piedras de David), Cristo ha vencido el pecado (cfr. AF cap. 22, 2135ss). Así es "el camino de la cruz... por el cual Cristo anduvo" (AF, cap. 26, 2632s). Por esto, "el verdadero y perfecto amor del Señor crucificado estima... el padecer por su Dios" (ibídem, cap. 2702ss). La Iglesia esposa aprende a seguir el mismo camino de Esposo: "Alce sus ojos a Jesucristo, puesto en la cruz, y cobrará esfuerzo" (AF cap. 68, 6871s).
Cuando sobrevienen las tribulaciones y sufrimientos, el creyente (la Iglesia esposa) mira a Cristo crucificado, "enclavado en la cruz hasta que el mundo se acabara" (AF cap. 69, 7052s). "En este espejo" se mira la Iglesia esposa "muchas veces al día" (AF cap. 69, 7116ss). Todos los creyentes, según la doctrina paulina, son invitados a vivir "crucificados en el corazón con Él" (AF cap. 111, 11563s; cfr. comenta 2,19; cfr. Juan I, lec. 14ª, 4096ss). Toda "oveja legítima de Jesucristo", ha de estar "señalada con su señal" (Carta 213, 26ss).[60]
Era un queja bastante frecuente del Maestro (en sermones y cartas) la de que son pocos los que siguen a Cristo por el camino de la cruz (cfr. Ser 13, 401ss), prefiriendo quedar "vivos a las pasiones" (ibídem, 586). No hay verdadero seguimiento de Cristo que no lleve a la cruz (cfr. Ser 15, 265ss). Caminar con él, "romero a la cruz" (Ser 16,92ss), trae consigo recibir "la miel del Espíritu Santo" (Ser 27, 488s). Para encenderse de amor por el Señor, bastaría tomar "una rajica de la cruz de Jesucristo" (Ser 38, 314s). Su figura puesta en cruz se convierte en "saetas" de amor que atraviesan nuestros corazones (Ser 39, 171ss).
Tomar la cruz significa: "Que tengáis el corazón tan sellado con el de Cristo, que antes deseéis estar con Él con trabajos que sin él con mucho descanso" (Ser 78, 370ss). Si hemos sido amados en la cruz, estamos invitados a amar en la cruz: "Amado fue en cruz, ame en cruz; caro costó a Cristo y con gemidos le parió quien le ganó... Ofrézcale su vida y honra en las manos del crucificado" (Carta 2, 152ss). "Todo se dio en la cruz por nuestro amor; mucho se ha de dar por el que es mucho" (Carta 15, 29ss).
Así es "la sabiduría de la cruz" (Carta 22, 83ss), por parte de quien ha decidido seguir caminando, con la esperanza de un encuentro definitivo: "Cristo crucificado... este Cristo quiero, aquí lo busco, y fuera de aquí no lo quiero" (Carta 23, 113ss). "¿Quién es aquel que te ama, y no te ama crucificado?" (Carta 58, 55ss). "En cruz conviene estar hasta que demos el espíritu al Padre; y vivos, no hemos de bajar de ella, por mucho que letrados y fariseos nos digan que descendamos" (Carta 97, 58ss). "La cruz le dan, confíe que le dan al que se puso en ella" (Carta 102, 26ss). El creyente en Cristo ha de poner su confianza en la cruz: "Levante la cabeza y considere delante de sí a Cristo crucificado, y no espirado, sino que le mira vivo y le espera con los brazos abiertos" (Carta 232, 176ss).
Entre las tribulaciones de quienes se han decidido a seguir a Cristo por el camino de la cruz, cabe destacar el tema de la persecución y el martirio. Fue la suerte que tocó al Maestro Ávila y a algunos de sus discípulos, acosados por las calumnias y también por las enfermedades. La doctrina avilista deja siempre la impresión de confianza en el amor de Dios, de suerte que siempre se puede hacer lo mejor. Es la actitud de las bienaventuranzas.[61]
Con relativa frecuencia hace alusión el Maestro a la realidad del martirio: por el derramamiento de sangre o por la caridad en la vida espiritual o en el sufrimiento. El martirio estricto es la "confesión de la fe"; el martirio espiritual es "confesión de amor" (Carta 76, 102ss). Dios providente muestra así la santidad de la Iglesia: "Quitadme la crueldad de los tiranos, y no hubiera la hermosura de los mártires que hay en la Iglesia" (Juan I, lec. 16ª, 4681ss). Los mártires cristianos "morían por no perder la fe o la virtud. De manera que ninguna cosa temporal amaban, ni cosa temporal temían, por recia que fuese" (AF cap. 33, 3397s). Era de verdad "gente... tan llena de sabiduría" porque "ha derramado la sangre por Cristo" (ibídem, 3411s).
A partir del martirio de sangre, el Maestro estimula a sufrir amando en las tribulaciones y persecuciones. "Padecían de antes por no perder la fe; padecen agora por no apartarse de tu voluntad" (Carta 76, 103ss). "Como los mártires querían antes morir que negar la fe, así tú, padecer lo que padeces por no quebrar su santa voluntad. Y hacerte ha compañero en la gloria con ellos" (AF cap. 15, 1402ss).
El itinerario de la vida espiritual se puede comparar a un martirio por causa de Cristo Esposo: "Nuestro Señor la haga mártir de su amor" (Carta 104, 36). Por esto el itinerario tiene significado martirial y esponsal. En este sentido de lucha espiritual "la vida del cristiano es un continuo martirio y una molesta guerra" (Carta 32, 14ss). Por tratarse de seguir a Cristo Esposo, la persona llamada a la santidad tiene que ser "mártir de amor y para que beba su cáliz con El" (Carta 116, 27ss). Es el martirio de la cruz: "Aparejémonos a ser mártires de la caridad, pues no lo somos de la fe; y poniendo nuestros ojos en Aquel que en la cruz subió tan denodado para sufrir, corramos esta carrera con alegría, en cuyo fin está Dios puesto por joya" (Carta 76, 109ss).
En la vida espiritual el martirio no es sangriento, sino de caridad: "Ya se dio a Él, no conviene tornarse a tomar. En el punto que deseó su amor, se obligó a ser mártir de él" (Carta 102, 36ss). Los santos y mártires del pasado son un recuerdo estimulante: "Debéis pensar que estáis en un martirio por amor de Jesucristo, pues por servirlo sois martirizada" (Carta 19, 169ss). La paciencia puede tener sentido martirial: "Trabajemos nosotros de ser mártires en la paciencia, que aunque no es tan grande nuestro trabajo como el de ellos, es más largo" (Carta 23, 68ss). En cualquier clase de martirio, siempre se trata de "morir por Cristo" (AF cap. 111, 11556).[62]
Los casos de caridad heroica son también equiparables al martirio. Así es cuando algunos, inspirados por la caridad cristiana, se someten a cautiverio "en tierra de moros", con el riesgo de perder la propia vida. "Mártir sería este tal por el cumplimiento de la palabra de Dios, y el que muere por sus prójimos, mártir es" (Juan I, lec. 22ª, 7168ss). El apóstol, especialmente en el cargo de pastor de la comunidad, debe estar dispuesto a denunciar la verdad y, por consiguiente, a "morir por la honra de Dios" (Ser 5 -2-, 267).
La actitud martirial es un don de Dios, una gracia, que reclama, como toda gracia, la cooperación del creyente. "Los mártires no tendrían fuerzas para padecer los tormentos que padecían si no tuvieran los trabajos de Jesucristo delante" (Ser 47, 202ss; cita a San Bernardo, In Cant., ser. 61, 6-7). Sólo con la gracia es posible transformar los sufrimientos en donación: "No os espantéis de lo que sufrían los mártires... No os espantéis que el alma sufra tanto, conociendo que mora en ella Jesucristo, que la ama, que la está mirando cómo pelea" (Ser 62, 659ss). "Que eso de Dios es; que el morir por Dios, el querello, de Dios fue dado; y el podello pasar, efecto es de la predestinación" (Ser 79, 330ss).
f) Espiritualidad y misión
Al entrar en sintonía con los deseos de Cristo Esposo, la persona espiritual o contemplativa se deja contagiar su celo de almas: "Si de veras nos quemase las entrañas el celo de la casa de Dios... ver las esposas de Cristo enajenadas de El y atadas con ñudo de amor tan falso" (Carta 208,11ss). Así se imita el celo del Buen Pastor (cfr. Plática 7ª, 62ss; cfr. Ef 5,25).[63]
La caridad del apóstol se alimenta en la oración y está en relación con ella: "¿En qué examinará Dios? En la caridad para con todos y en la oración" (Ser 10, 132ss). Es la caridad que se traduce en "amor de Dios y prójimo" (Ser 81, 179ss). Esta caridad pastoral hace que los pastores "velen su ganado" y, que puedan decir como el Señor respecto a las almas: "No me las arrebatará nadie" (Ser 15, 539ss; cfr. Jn 10,30). De la oración nacen los "corazones de madre" para llorar a los "espirituales hijos" (Plática 2ª, 375ss). El celo apostólico es amor de "verdadero padre y verdadera madre", que nace de "tener verdadero amor a nuestro Señor Jesucristo" (Tratado sobre el sacerdocio, n. 39, 1449ss).
La referencia a la santidad de la primitiva Iglesia, es para llamar a una renovación constate, en vistas a la evangelización, y también para señalar que ésta sigue dándose "en nuestros tiempos... entre nosotros; y en las Indias Orientales y Occidentales, con más abundancia" (AF 32, 3365ss). El Maestro subraya la necesidad de este testimonio de santidad en la acción evangelizadora entre los no cristianos, especialmente en las "Indias" (cfr. Memorial II, n.14, 631ss; Juan I, lec. 15ª, 4575ss). Si son muchos los que van a esas tierras con grandes riesgos, bien puede el Señor reclamar a todos una entrega total a sus planes de salvación: "Dame acá tu primer amor" (Ser 64, 176; cfr. Ap 2,4).
Respecto al encuentro entre religiones (en su época), invita a recordar la responsabilidad cristiana de ofrecer el testimonio evangélico: "Es verdad que a esos moros que están en Granada no les lucimos como dice sant Pablo, porque somos nosotros tan malos, tan amigos de hacienda... dicen que lo aprendieron de nosotros" (Juan I, lec. 4ª, 494ss). Haciendo alusión al gran sacrificio que hacen los musulmanes en su peregrinación a La Meca, algunos de los cuales, según se decía, "se sacaban los ojos para no ver con ellos otra cosa alguna", afirma: "Sácatelos tú, no como aquéllos, según la letra, mas mortificándolos para que no vean cosa indecente, pues han visto a este Señor, fuente de bondad y limpieza" (Ser 36, 2073ss).
2. EL PROCESO DE LA VIDA ESPIRITUAL
Encontramos a San Juan de Avila como Maestro y director de espíritus, como compañero de viaje, no sólo por los contenidos de los temas espirituales, sino especialmente por los aspectos prácticos en todos los campos y facetas de la vida espiritual.
a) El camino contemplativo, experiencia de Dios
La oración, descrita por el Maestro Ávila, apunta hacia la contemplación, en un proceso que él mismo resume con la clasificación tradicional de incipientes, proficientes y perfectos (Plática 3ª). En el primer grado de oración sobresale el esfuerzo de las potencias. En el segundo grado hay una acción más profunda de Dios en las mismas potencias. El tercer grado es ya la unión. Todo el proceso tiende a la unión con Dios y, por tanto, a la contemplación.
En este camino de contemplación se busca una "secreta y amigable habla con Él" (AF cap. 6, 577). Es un camino de silencio y de pobreza espiritual, a la luz de Dios Amor. En las explicaciones avilistas se puede constatar el sentido nupcial del camino contemplativo. La "contemplación" es la misma oración, especialmente por parte de quien está enamorado de Dios, en cuanto que quiere "ver" a Dios, a quien ama profundamente.
El camino se puede llamar nupcial en el sentido de ser camino de desposorio con Cristo, de incorporación y transformación en él, a modo de conocimiento por amor. Pero se parte de la misma creación (como mensaje de Dios amor), de la propia realidad donde se refleja Dios, de la Palabra de Dios que entra en el corazón y, especialmente, del misterio de Cristo, el Hijo de Dios hecho hombre por amor. La contemplación es "un silencio de Dios", a modo de "unas bodas (entre Dios y el alma) que no se pueden decir", puesto que "no hay palabras y, si hay algunas, serían bajas y estorbarían el amor muy estrecho" (Plática 3ª, 182ss).
Se describe como "la experiencia particular del amoroso trato de Dios con quien El quiere", más allá de lo que uno pueda entender (Carta 158, 80ss, a Santa Teresa). Es como "secreta y familiar comunicación" (AF cap. 70, 7136). La persona llamada a este encuentro expresa su experiencia "con un afecto sencillo, como niño ignorante" o con "una sosegada atención para aprender de su maestro" (AF cap. 75, 7656ss). "No conviene fatigar la cabeza con el recogimiento, porque este negocio es de pura gracia de Señor" (Carta 93, 64s).
En buena doctrina avilista, como también en la doctrina teresiana y sanjuanista, se describe el camino de la contemplación como camino de perfección. Aunque el Maestro explica las tres etapas (que hemos citado más arriba), todo el proceso lo presenta como una escucha contemplativa de la Palabra de Dios. Es el tema del "Audi Filia": "Oye, mira, inclina tu oído, olvida tu pueblo y la casa de tu padre" (Salmo 44)... Pero para llegar a la unión transformante, que ya es la contemplación propiamente dicha, hay que profundizar continuamente en el conocimiento propio y en el seguimiento e imitación de Cristo.
A veces se describe la contemplación en sí misma, en relación con una experiencia peculiar de Dios: "Los ejercitados en el ejercicio del perfecto amor... de un vuelo se ponen derechamente en contemplación y amor del bien sumo, que es Dios; y enamorados de El tan de verdad, que buscan la faz de El y, olvidados de su propio interés, quieren ser todos enteros para Dios más que para sí" (Ser 69, 438ss). Se tiende a la unión con el Amado: todo se resuelve en amar: amor dialogal, unión afectiva y efectiva de voluntad.
El proceso, aunque se describe por grados o etapas, no tiene dicotomías y siempre necesita la gracia de Dios. Es "negocio de gracia", que Dios "lo da a quien le parece" (Plática 3ª, 135ss). Cuando se recibe este don, "aunque el entendimiento obra poco o nada, la voluntad obra con gran viveza, y ama fortiter"; entonces hay que "cerrar el entendimiento a todo y suspenderse con gran atención viva a Dios, que suspende, como quien escucha a uno que habla de alto, aunque siempre está como acechando el entendimiento. Y no haya reflexión en lo que está haciendo, sino como un niño o uno que oye órgano y gusta" (ibídem, 167ss).
Hay que disponerse para este don "con ejercicios de aspiraciones y unión. No es menester que haya obras de entendimiento para esto" (Plática 3ª, 193s). Por grandes que sean las dificultades, "cuando Dios viene, todo se acierta a hacer" (ibídem, 192). El mismo Maestro admite que otros autores se explican de otro modo: comenzar "pensando, como quien pone leña y salta la centella... y el amor reposado" (ibídem, 205ss).
El Maestro Ávila, más que explicar la naturaleza de la contemplación (aunque no deja de anotar los contenidos esenciales), prefiere guiar a los oyentes y dirigidos por el camino de la misma, a partir de la propia realidad y aceptando la acción amorosa de Dios que pide un cambio y una entrega de totalidad. Por esto, prefiere invitar a una actitud profunda de humildad: "Comenzar... por su miseria, vida de Cristo y beneficios... es primero necesario escuchar algunas veces a Dios... Ejemplo del que oye al que habla de lejos o del perro que espera el hueso que le quieren echar" (Plática 3ª, 212ss). Es, pues, el conocimiento de sí, bajo la mirada a amorosa de Dios, que lleva a "ejercitarse en mortificaciones y en obras de obediencia, humildad, cosas bajas" (ibídem, 236ss).
La gracia de la contemplación la da Dios a quien se humilla ante el Señor. El motivo consiste en que "a quien Él levanta a grandes cosas, primero le abaje en sí mismo, dándole conocimiento de sus propias flaquezas; para que, aunque vuelen sobre los cielos, queden asidos a su propia bajeza, sin poder atribuir a sí mismos otra cosa sino su indignidad" (AF cap. 52, 5402ss). Con esta humildad, el contemplativo estará "contentándose con aquella vista sencilla y humilde, acatando a los pies del Señor y esperando su limosna y misericordia" (Carta 1, 361ss; cfr. Carta 8, 113). Sin la humildad, se caería en un engaño (cfr. Ser 48, 230ss). Los eventuales fenómenos extraordinarios, que pudieran producirse, no pertenecen propiamente a la contemplación.
El camino contemplativo es camino de conocimiento propio, de confianza y de amor. "Este negocio es más de corazón que de cabeza, pues el amar es el fin del pensar" (AF cap. 75, 7658s). Este amor es unión con Dios, con su voluntad, en el sentido de tener un mismo querer con él (Carta 26, 46ss). Por esto aconseja a sus dirigidos: "Cuando delante se hallaren de Dios, trabajen más en escucharle que por hablarle y más por amarle que por entenderle" (Carta 54, 99s).
Esta unión de voluntad se convierte en trato de amistad. El amor que Dios infunde "hace el corazón uno con Dios, y trata a Dios como a Dios, y tras Él -siendo verdadero- va todo lo demás" (Ser 71, 267ss). Entonces la oración contemplativa se traduce en una "secreta y amigable habla" (AF cap. 6, 577), "una vía de amistad, a la manera que inclina el corazón a holgarse de los bienes de un grande amigo que tiene" (Carta 222, 534ss). El resultado en la vida práctica es que "todo cuanto hacen nace del amor" (ibídem, 631s).
Siendo camino de amor y amistad, no excluye un proceso de "silencio" (que también parece "ausencia"), puesto que Dios se va comunicando él mismo, más allá de sus dones y de nuestra manera de entender. Aceptar este silencio con actitud de adoración "es honra muy propia de Dios... confiesan con el silencio que es el Señor mayor de lo que pueden entender ni decir... porque este secreto de quién Él es... para sí solo es, pues Él solo se comprende" (AF cap. 31, 3277ss).
Es interesante notar cómo, al comentar el texto de 1Jn 1,1ss ("os anunciamos lo que hemos contemplado"), lo hace con la explicación del Pseudo Dionisio sobre las tinieblas u oscuridad luminosa (donde entró Moisés para hablar con Dios). En esta oscuridad del entendimiento se aprende a amar a Dios en su mismo misterio. El mismo Maestro confiesa que no lo puede explicar: "Sabéis amar al que no sabéis entender. No lo puedo decir más claro, porque es cosa que se puede sentir y no decir... quédese vuestro entendimiento fuera, pues no puede entender, y entre la voluntad a amarle, pues le puede amar" (Juan II, lec. 1ª, 83ss; cfr. AF cap. 31; Ser 13, 71ss).
En realidad, es un "silencio" lleno de "alguien". El creyente va callando a todo lo que no sea el mismo Dios, para no impedir "la secreta habla con el Señor, que pide silencio... debe el alma callar aun a sí misma" (Carta 155, 11s; cita a San Agustín: "in magno silentio cordis" (Enarrat. in Ps. 38, 20). En estos momentos, no hay que "escudriñar", sino "abrir la boca de vuestro corazón y tragar esta píldora de oscuridad y el sentimiento de la ausencia... de Dios, con obediencia al mismo Dios" (Carta 20 -1-, 83s).
El profundo deseo de ver a Dios deja esta impresión de silencio y ausencia, sabiendo que se camina hacia una presencia y un encuentro indescriptible: "El vivir me da pasión, pues viviendo no te veo". Ello es como una muerte más dolorosa: "Estar ausente de ti, pues está mi gloria en verte" (Composiciones en verso, n.3). Saber "mirar" a Cristo, como Hijo enviado por el Padre y palabra personal suya, es el camino contemplativo que lleva a la visión de Dios en el más allá (cfr. Juan II, lec. 1ª, 93ss).[64]
El Maestro describe la contemplación de María desde su Corazón o interioridad, especialmente a partir de la Ascensión del Señor. El camino contemplativo de María tiene la particularidad de quien es Inmaculada y Virgen. La oscuridad y dolor de la fe (ansiando el encuentro final con Cristo) indican un tendencia más profunda hacia la visión de Dios. Señala, como características de la contemplación mariana, la unión perfecta de amor, la pobreza bíblica radical y la tensión dolorosa y gozosa de presencia-ausencia de Dios.
En su camino contemplativo, María estaba "enferma de amor" (Ser 69, 473; Cant 2,5) y este amor hería al mismo Dios: "¿Quién contará los misterios del amor que entre Dios y la Virgen pasaban, hiriendo Él a ella con la contemplación de su hermosura y de su bondad, y ella a El con amarlo y pensar en Él con grandísima fidelidad?" (Ser 70, 223ss). María "hería" a Dios "con esta intención y vista amorosa y con recoger sus pensamientos y contemplación en uno, trayéndolo siempre en el acatamiento de Dios, como dice David" (Ser 71, 212ss; cita al Pseudo Dionisio, De div. nomin., 4,14 y el Salmo 24,15). A imitación de María, el contemplativo "hace el corazón uno con Dios... y enseñórase Dios de todo ello, porque Él se enseñoreó del amor, que lo enseñorea todo" (ibídem, 267ss).[65]
La expresión "recogimiento" equivale, en la doctrina avilista, a la contemplación en cuanto que es intimidad con Dios y reclama atención del corazón. "Recogidos" eran personas dedicadas al camino de la oración interior.
En la doctrina avilista, la palabra "recogimiento" significa concentración o silencio del corazón y del ambiente, a modo de "continuo desierto por Cristo" (Plática 16ª, 282ss), para poder orar mejor (cfr. Ser 11, 22s). Es la actitud sanjuanista ("quedéme y olvidéme") y teresiana, de estar "muchas veces tratando a solas con quien sabemos que nos ama". El recogimiento, en la doctrina avilista, cuida mucho de la práctica de las virtudes y también del modo de orar: "Comunicaos con Él, recogeos un poco a solas con Él en vuestro rinconcillo, si queréis sanar de vuestros males" (Ser 10, 376ss).[66]
Cuanto hemos dicho en los apartados anteriores sobre la oración y el camino contemplativo, se encuadra en el contexto del "recogimiento" avilista: "Íntimo recogimiento de la oración" (AF cap. 10, 904s) que se transforma en "un continuo desierto por Cristo" (Plática 16ª, 282ss). Es a modo de "pesebre" (Carta 46, 57). "Este negocio es de pura gracia de Dios" (Carta 93, 65). Pero la voluntad tiene que colaborar libremente con esta gracia: "Echada toda la gente de casa, hallaremos dentro al que en todas partes está... nuestra voluntad muy quieta, habiendo recogido todo su amor y puéstolo en Dios" (Carta 57, 15ss). Este "recogimiento del pensamiento y vivir dentro de sí", es "para el trato familiar con nuestro Señor" (Carta 109, 50ss).[67]
En este contexto de oración contemplativa, el Maestro no deja de referirse a la experiencia de Dios. La oración, por ser actitud relacional con Dios, tiene esta característica vivencial. "Entonces sabrás por experiencia... Experimente yo, Señor, la fortaleza de vuestra presencia, que dais a los que bien os reciben" (Ser 55, 863). Es "la noticia experimental que del amor nace" (Carta 10, 29ss). Así es el trato personal con Dios, para conocerle y amarle: "Mientras más tratare a este Señor, más le conocerá, y mientras más le conociere, más le amará" (Carta 33, 44ss).
Esta experiencia tiene lugar en el encuentro con Cristo: "Ven a Jesucristo... en El, y no en otro, está el consejo, el remedio y ayuda contra todos los males" (Ser 39, 394ss). "¿Nunca has probado a ir cuando lo has menester? Ve, pues, a El, hermano, y verás cuán blando lo hallarás para abrazarte, para consolarte y remediarte" (Ser 47, 190ss). "Jesucristo... te llama, te quiere bien y te busca" (Ser 39, 261s; Ser 49, 314ss).
El mismo Maestro se siente impotente para explicar la experiencia de Dios: "Quiere Dios venir a vosotros, y si me preguntásedes qué es venir Dios en un ánima, no creo que os lo sabría decir... Probadlo y veréis lo que es. Basta deciros que el huésped que os quiere venir es Dios. Hermanos, Dios quiere venir a vosotros" (Ser 2, 156ss). "Diréisme: - Padre, ¿en qué sabemos si Cristo nos ha hallado? -Una sola señal os daré, en que lo podéis conocer. Mirad si andáis vos buscando a Jesucristo, y en eso veréis si os buscó y os halló. Haced lo que quisierdes; si El no os hiere el corazón, poco aprovecha... Luego, cuando vos anduvierdes herida a buscar a Jesucristo, entonces creed que El os ha buscado y os ha hallado a vos" (Ser 19, 408ss).[68]
En la doctrina avilista, los fenómenos extraordinarios (o epifenómenos) no constituyen la esencia de la vida espiritual cristiana. Aún en el caso de que sean auténticos, no son señales de santidad (cfr. Carta 158, a Santa Teresa). Lo importante es caminar por la vía de la humildad, confianza y caridad. "Quien bien ama, siente sus pecados y maldades, y se aprovecha de los merecimientos de Cristo" (Carta 222, 679ss).
En el siglo XVI, como en otras épocas de la historia eclesial (también en la nuestra), diversos grupos espirituales o personas particulares tenían fenómenos extraordinarios (visiones, locuciones o revelaciones privadas, éxtasis, levitaciones, glosolalia, etc). El Maestro Ávila alude a algunos de estos fenómenos al hablar de la contemplación, al tratar de los "alumbrados" y al escribir a Santa Teresa. Para discernir la autenticidad de los mismos, hay que tener en cuenta la armonía con la revelación, los frutos espirituales duraderos y el consejo de personas competentes.[69]
Aunque estos fenómenos pueden ser efecto de la gracia, no son señal, por sí mismos, de santidad o de contemplación. Siempre deben mirarse con "cautela" y "recelo" e incluso "se deben temer": "Estas cosas no se dan por merecimientos, ni por ser uno más fuerte, antes algunas veces por ser más flaco; y como no hacen a uno más santo, no se dan siempre a los más santos" (Carta 158, 70ss, a Santa Teresa). Si dejan el fruto de humildad y conocimiento propio, y, al mismo tiempo, están de acuerdo con la doctrina de la Iglesia, "no hay para qué huir ya de ellas" (ibídem, 56ss; se remite a San Agustín: In Io. Ev. tract. 40, cap. 8).[70]
Para discernir la autenticidad de esos fenómenos, el Maestro afirma que es "necesaria... lumbre del Espíritu Santo, que se llama discreción de espíritus" (AF cap. 51, 5319s). Pero hay que guardarse de "gente sin letras" o malos directores, que fomentan esas manifestaciones (cfr. AF cap. 74). La señal de autenticidad es la humildad, que lleva siempre al conocimiento propio y a la consulta con personas competentes (cfr. AF cap. 50-54). Se inclina decididamente a "creer a las palabras de Dios sencillamente" (Ser 41, 416s).
b) El camino de la santidad o perfección cristiana
A grandes trazos y recordando la doctrina tradicional sobre las diversas etapas de la vida espiritual (incipientes, proficientes, perfectos), el "Audi Filia" comenta los versículos 11 y 12 del salmo 44 (45): "Oye, mira, inclina tu oído, olvida tu pueblo y la casa de tu padre, y codiciará el rey tu belleza".[71]
En realidad, las preferencias del Maestro Ávila son en favor de un proceso de conocimiento propio (humildad), seguimiento de Cristo (con confianza y decisión) y unión transformante (perfección de la caridad). Son los mismos contenidos de las pláticas 3ª y 4ª y de la carta 222. Del conocimiento propio, se pasa a la confianza y a la entrega generosa. "Lo que vuestra merced ha de hacer para ser muy santa es lo primero, tenerse por muy mala y tener a Dios por muy bueno" (Carta 103, 6ss). De ahí nace la humildad, la confianza y la entrega: "Desconfiemos, pues, de nos, y confiemos en Dios, y comencemos en virtud del Omnipotente; y nuestro principio sea la humildad, figurado en la ceniza, y nuestro fien es el amor, figurado en la resurrección" (Carta 74, 164ss).
En todo el proceso, no se notan dicotomías entre ascética y mística, pero sí una acción del Espíritu Santo cada vez más profunda. Hay que ir paso a paso: "Como dice el experimentado, y santo Bernardo, «el camino de la perfección no se ha de volar, sino pasear». Ni piense nadie que es todo uno, entenderla y tenerla" (AF cap. 26, 2594ss).
Con el trasfondo paulino de despojarse del hombre viejo y revestirse de Jesucristo (cfr. Ef 4,22-24; Rom 13,14 ), describe la acción del Espíritu Santo por un proceso de virtudes y de dones. Esta acción del Espíritu de amor nos transforma en Cristo e "introduce su forma perfectamente en nuestras ánimas, que entonces se dicen estar llenas de Espíritu Santo. Y ésta es la mayor perfección que hay en esta vida, puesto que tiene grados, porque siempre crece hasta que salgamos de este mundo" (Dialogus, n.21, 863ss).
Inspirándose en la imagen del fuego, describe así la acción del Espíritu en el proceso de perfección: "Pues así como el fuego no se contenta con echar del leño la humedad y frialdad, sino que le da su forma, así vos no os habéis de contentar con echar de vos el hombre viejo, sino vestiros de Cristo" (Dialogus, n.21, 867ss; cfr. Ef 4,22-24; Rom 13,14). Es, pues, un proceso de rica dimensión cristológica y pneumatológica: "Vestirnos del hombre nuevo es adquirir virtudes, gracia, caridad, dones del Espíritu Santo, buenos ejercicios, buenos pensamientos, buenas palabras, obras, oración, etc.... porque crucificar al hombre viejo es como la corrupción de la forma preexistente, y el vestirnos del hombre nuevo es la última disposición para vestirnos de Cristo y recebir su Espíritu Santo" (ibídem, 894ss).
El proceso de transformación en Cristo, por obra del Espíritu Santo, compromete a toda la personalidad. Así, pues, para transformarse en Cristo, hay que mortificar "el entendimiento... no siguiendo nuestro consejo; la voluntad, obedeciendo; las pasiones... haciendo contra ellas; los sentidos, con encerramiento y silencio; las imaginaciones con la continua oración; la carne y la sensualidad, con la aspereza" (Dialogus, n.22, 922ss). Siempre se tiende a "la caridad, amando a Dios porque es bueno" y a "la humildad, pensando de Dios y conociendo vuestra vileza" (ibídem, 939ss).
En el "Audi Filia", en la plática 3ª y en la carta 222 se resume todo el proceso: conocerse con humildad y realismo (cfr. Carta 222, 10ss), confianza en Cristo Redentor (ibídem, 125ss), entrega de amor (ibídem, 337ss). Pero todo el proceso es "una vía de amistad" (ibídem, 534ss, 585ss), puesto que se dirige hacia la perfección de la caridad: "hácese una con él por amor" (Plática 3ª, 317).[72]
En el proceso espiritual es necesario mantener el deseo de perfección. El deseo de encontrarse con Dios es expresión de la actitud de humildad (conciencia de la propia necesidad), de confianza (convicción de posibilidad) y de generosidad (decisión de llegar a la meta). Es Dios mismo quien ha sembrado en el corazón humano el deseo insaciable de él: "Mas ¿qué es esto que nos puso Dios? Un deseo, una gana tan entrañable de subir, que nunca jamás nos contentamos hasta tener lo que queremos... Y ansí, aunque fueses señor de los ángeles y de los cielos, no estarías contento si no subieses a ver a Dios" (Ser 21, 38ss). Jesucristo es "el Deseado de todas las gentes, y no quiere venir sino donde es deseado" (Carta 42, 106ss).
El Maestro intenta suscitar este deseo de perfección: "¡Qué lástima es ver que sea Dios poco amado y deseado!... ¡que no sea amada y deseada aquella suma Bondad!... Una de las mayores faltas que hay en nosotros es no tener deseo de Dios" (Ser 2, 548s; domingo tercero de adviento). Los defectos se corrigen más fácilmente cuando hay verdadero "deseo y propósito de mejorar" (Plática 2ª, 510s). En este sentido se puede decir, con San Bernardo, que "el deseo y cuidado de la perfección, por perfección se reputa" (ibídem, 312s; cfr. San Bernardo, Ep. 254,3).
Quien desea es que ya ha encontrado, en parte, el objeto de sus deseos: "Mucho tiene andado del camino el que tiene buena gana de andar" (Carta 63, 8s). El Señor, para comunicarse, espera este deseo ardiente de él, casi como único precio de la donación: "Conténtase Jesucristo nuestro Redemptor, en lugar de precio para alcanzarle, que tengamos sed y deseo de El; no quiere más de nosotros; con sólo esto se contenta, que estemos sedientos y deseosos" (Ser 62, 6ss). "¿Y quién es aquel que puede sufrirse de no ir a ti y tomarte, pues por la sola hambre te das" (Carta 67, 47ss).
Hay una pedagogía divina que hace pasar por este deseo gozoso y doloroso: "Suele Él probar a sus deseosos con dilación del deseo, para que, cuando les diere el deseo de su corazón, tanto mejor les sepa la merced" (Carta 112, 29ss). Esa pedagogía tiene la particularidad de purificar algún obstáculo en la vida espiritual: "¿Qué hará quien desea conocer a Dios y no tiene posibilidad, no tiene lumbre, no vista, como ciego?... Pongamos lodo en nuestros ojos, y conozcamos que somos ciegos y que no podemos ver, si no vamos a las aguas donde fue enviado y a donde Jesucristo moró, que fueron el corazón y entrañas de la Virgen María Nuestra Señora" (Ser 13, 13sss).
El deseo verdadero es confiado y audaz. Quien está enamorado de Dios, desea verle y encontrarle: "¡Oh Señor, que me tenéis muerto de vuestro deseo! Tanto años ha que os ando buscando, y no os puedo hallar; dádmeos ya, Señor, por quien vos sois, a conocer. ¡Oh, Señor, que mucho os deseo y no puedo topar con vos!" (Ser 62, 46ss). Se puede afirmar que el deseo de Dios es eficaz: "Los deseos que tienes de Dios, aposentadores son de Dios, y señal es que si tienes deseo de Dios, que presto vendrá a ti. No te canses de desearlo, que, aunque te parezca que lo esperas y no viene y aunque te parezca que lo llamas y no te responde, persevera siempre en el deseo, y no te faltará. Hermano, ten confianza en El, que, aunque no viene cuando tú le llamas, El vendrá cuando sea que te cumple" (Ser 27, 191ss).
En el proceso de perfección (que es vida según el "Espíritu"), es determinante la venida del Espíritu Santo, el cual viene a la medida de nuestros deseos: "No vendrá el Espíritu Santo a ti si no tienes hambre de Él, si no tienes deseo de Él" (Ser 27, 190s). Por esto, "conviene mucho para que el Espíritu Santo tenga por bien venir a nuestros corazones, ... tener deseos de recibirle y que sea nuestro convidado, un cuidado muy grande, un deseo muy firme y ansioso" (ibídem, 80ss).
c) Obstáculos en la vida espiritual
Entre los obstáculos principales de la vida espiritual, además del pecado y de las tendencias desordenadas, el Maestro va señalando el amor propio, las tentaciones (del mundo, demonio, carne), los escrúpulos, la tibieza (con la tristeza), la dejadez o comodidad y el sentimentalismo.
El amor propio está en la raíz de toda actuación humana, como consecuencia del pecado original. La tendencia buena hacia la verdad y el bien, ha quedado debilitada y desorientada, traduciéndose en una búsqueda del propio interés, sin tener en cuenta la caridad hacia Dios y hacia el prójimo. Se trata del "amor propio", que es la "raíz de todos los males" (Carta 52, 3ss) y la "causa de que no falten vicios en las cosas espirituales" (Carta 184, 213ss). En las cartas de dirección espiritual, el Maestro ayudará a vencer este amor propio, primero con examen de las tendencias del corazón, y, luego, procurando orientar las tendencias hacia el verdadero amor a sí mismo (la verdadera autoestima) que es la entrega al camino de perfección.
No basta con la introspección del examen de conciencia (que veremos luego entre los medios de perfección), sino que hay que adoptar una actitud de "negación" o "abnegación". Es el espíritu de "sacrificio" (también como medio de perfección). Este proceso de conocerse y corregirse ("negarse", según la expresión evangélica) está orientado por las exigencias del amor. Este esfuerzo más ascético queda dinamizado por la convicción de ser amados por Cristo. El verdadero amor a sí mismo consiste en la entrega generosa al camino de perfección. "Amaos para Dios, pues ya una vez os distes a El" (Carta 64, 5ss).
Las tentaciones, provenientes del mundo, demonio y carne, se valen de la debilidad y de las tendencias desordenadas de la naturaleza humana. Las tentaciones se pueden concretar en malos ejemplos (mundo), sugestiones del espíritu del mal (demonio) y malas inclinaciones (carne). En realidad, las tentaciones del mundo y del demonio comienzan por la vanidad, "haciéndonos caer en la soberbia" (AF cap. 17, 1558). Esos engaños se vencen "con la fe" (cfr. Carta 150, 27ss; 1Pe 5.9).
Las enseñanzas del Maestro Ávila son siempre muy objetivas, como conocedor de la realidad humana y, especialmente, como contemplativo asiduo de la Palabra de Dios y de la historia de gracia en la vida de los santos. Se pueden vencer fácilmente las tentaciones si se tiene fuerte confianza en Dios y se ponen los medios ascéticos practicados por los santos. Con estos medios, "no tendrán fuerza las tentaciones para vencer, porque en la oración de debilitan" (Ser 12, 617ss). El esfuerzo para vencer las tentaciones se traduce en la oración y puede transformarse en un martirio benéfico. "Llámale con humildad y con fiucia, que no dejará de socorrer a quien por su honra pelea, que, al fin, Él hará que salgas con ganancia de aquesta pelea, y te contará este trabajo en semejanza de martirio" (AF cap. 15, 1399ss).
A veces, las tentaciones son pruebas que Dios permite en los designios de su Providencia, para el necesario proceso de purificación: "Con el trabajo de la tentación se purgan los pecados pasados y se anima el hombre más a servir a Dios, viendo que le ha más menester... Las tentaciones serán como golpes que te ayudarán a arraigar más en ti la limpieza... Y acuérdate que vale más buena guerra que mala paz" (AF cap. 15, 1372ss). Incluso hay tentaciones que pueden ser señal de madurez en el camino espiritual. "Y sucede de aquí que, estando nuestra ánima en flor de principios, comience a dar fruto de hombres perfectos; pues, mamando antes leche de devoción tierna, comemos ya pan con corteza, manteniéndonos con las piedras duras de las tentaciones" (ibídem, cap. 28, 2753ss).
El modo de vencer las tentaciones es también indirecto, puesto que el "vencimiento" de la tentación "más viene por maña de tener paciencia en lo que nos viene, que por fuerza de querer hacer que no nos venga" (AF cap. 27, 2654ss). En el "Dialogus inter confessarium et paenitentem", se resume el modo de actuar ante las tentaciones: dar gracias a Dios por este beneficio suyo, orar con instancia y confianza, discernir de dónde vienen las tentaciones, sopesar lo que se pierde si se consienten, considerar la vileza del pecado, acordarse de la pasión del Señor, pensar en los novísimos, etc. Esta larga lista de consejos prácticos tiende a la intimidad con Cristo y a la configuración con él por obra del Espíritu Santo (Dialogus, nn. 27-28).
Jesucristo, sin tener inclinaciones desordenadas, fue tentado en el desierto (cfr. Mt 4,1-11). Ello es una señal de que las tentaciones pueden venir en cualquier período de la vida espiritual, también cuando parece que la persona ha adquirido la perfección: "Y aun los siervos y muy siervos de Dios, a cabo de mucho tiempo ejercitados en su santo servicio, se hallan nuevos con este guerrero, y les arma cosa en las cuales no se saben dar a manos sin la ayuda particular de nuestro Señor" (Ser 9, 144ss).
Los escrúpulos figuran también entre los obstáculos en el camino de la perfección. El sano equilibrio de la doctrina avilista ayuda a desterrar toda suerte de rigorismo y de laxismo, sin dejar espacio para los escrúpulos, que sería una manifestación de poca confianza, cuando no es fruto de la propia debilidad psicológica. Esta enfermedad psicológico-espiritual puede ser un gran obstáculo para la generosidad (con mucha pérdida de tiempo), pero, al mismo tiempo, puede superarse y desembocar en una gran entrega en el campo de la perfección.
Como era de esperar, en las cartas de dirección espiritual es donde más se trata este tema, que angustia a muchas personas espirituales. El Maestro resume las pautas que ofrece la doctrina tradicional: "Los escrúpulos de las confesiones son tentaciones del demonio para atormentaros, y quitaros la dulcedumbre del corazón, y dejaros sin gusto en las cosas de Dios. Porque el corazón escrupuloso no está bueno para amar ni para confiar... Haced burla de ellos, y subjetaos a lo que os dicen vuestros confesores... Daos, hermana, prisa a amar, y quitárseos han los escrúpulos, que nacen del corazón temeroso, y el amor perfecto echa fuera el temor" (Carta 62, 75ss).[73]
El modo paternal con que el Maestro trata a los escrupulosos no está reñido con su firmeza en ayudarles a salir de la dificultad. Por esto les invita a no perder "la dulcedumbre del corazón" y el "gusto de las cosas de Dios", necesario para servir al Señor (cfr. Carta 62, 76s). Estimula a confiar en Cristo Esposo y a caminar decididamente por el camino de la perfección: "Bien parece, hermana, que no sois para prueba ni habéis salido de la niñez, pues en dejándose de reír el celestial Esposo con vos, luego ponéis sospecha que está con vos enojado" (Carta 139, 1ss). Hay que recordar la bondad que Dios ya ha demostrado en el pasado: "Fiadle este crédito, que os ama, aunque agora no os lo muestre" (ibídem, 10s).
Del propio conocimiento hay que pasar al amor de Dios, colocando las propias miserias ("llagas") en las llagas gloriosas de Cristo crucificado: "¿Quién de los hombres tendrá descanso ni paz, pues todos pecamos? Quiere el Señor que os arriméis a El y os gocéis en El, y que pongáis vuestras llagas en las suyas, para quedéis sana y consolada, por recias y sensibles que sean las vuestras" (Carta 139, 14ss). Un buen método para salir del escrúpulo consiste en ayudar a otros a salir de este mal. Después de ofrecer una buena lista de consejos a su discípulo Don Diego de Guzmán, dice: "Ya creo tendrá vuestra merced tantas receptas, que pueda dar a otros" (Carta 216, 35s).
Un defecto por el extremo contrario de los escrúpulos es la tibieza, que no hay que confundir con la sequedad, sino que es la actitud habitual de falta de generosidad y de entrega, a modo de "enfermedad asaz peligrosa", y "mujer que gasta y no gana" (Carta 162, 1ss). Se suele detectar en la actitud de cometer pecados veniales deliberados y habituales sin intención de corregirse. El Maestro señala su causa en el "descuido en el corazón", como en el caso del descontento del pueblo en el desierto durante el éxodo: "Por cierto, no otra sino el descuido del corazón, que es madre de tibieza, y la tibieza del descontento, y el descontento de la disolución; y ésta de todos los males" (Carta 38, 87ss).
Es la ruina de la vida espiritual para quienes se dejan llevar por ella, porque "ni conocen a sí ni conocen a Dios" (Carta 66, 39). "Y así nosotros ni tenemos hambre de Él ni hartura en las criaturas, mas estamos helados, ni acá ni allá, llenos de pereza y desmayados, y sin sabor en las cosas de Dios" (Carta 74, 40ss). El desastre espiritual de la tibieza se concreta en la tristeza estéril, porque "el mayor trabajo que hay en este mundo... es no trabajar en tu ánima, en tu viña; el hacer mal, ser tibio" (Ser 8, 508ss). Y advierte: "Habéis comenzado a servir a Dios; guardaos de la tibieza, no eche a perder la devoción que os dieron, que la quema y abrasa peor que cierzo" (ibídem, 696ss).
Una carta dirigida "a un su amigo" está dedicada enteramente al tema de la tibieza. Hace un resumen de la misma y de sus consecuencias: "Una paja hace tanto peso al tibio, que lo derriba en el suelo, y le hace dejar lo comenzado, y aun arrepentirse de lo haber comenzado" (Carta 138, 13s). Hace al hombre "desleal al Señor" y "vivirá una vida tan miserable, que de pesada la haya de dejar" (ibídem, 33s). "Riéndose está el tibio por defuera y carcomiéndose de dentro... ¿Por qué no entendemos que Dios es joya de nuestros trabajos y que tal joya no se debe ganar bocezando y durmiendo y mano sobre mano?" (ibídem, 49ss). "No permitamos reinar sobre nos tibieza, que, como hiel, hace amargo el camino de Dios al hombre y a Dios el servicio del hombre" (ibídem, 79ss).
Como buen predicador y pedagogo, el Maestro invita a huir de este mal, que es causa de muchos pecados y de la tristeza: "Eso es otro duelo, hijos. Guardaos de tibieza, por quien Dios es. ¡Oh carcoma! ¡Y cuántas ropas ha roído y comido y cuántos tiene perdidos!... La tibieza es madre de la tristeza, del temor; madre del desasosiego, del desconsuelo, y lo que comenzáredes, creedme que en eso acabaréis; el vicio os llevará; si con tibieza comenzáredes, con tibieza acabaréis" (Ser 62, 571ss, 614ss). A veces pone comparaciones llenas de colorido: "Es cierto que, cuando una olla está hirviendo, no llegan las moscas a ella; mas, después que se enfría, lléganse todas a ella" (Juan I, lec. 7ª, 1492s).
Como en todos los otros temas, la solución de la tibieza consiste en experimentar el amor de Cristo. Refiriéndose al amor del niño Jesús en Belén, formula una pregunta y él mismo da la respuesta: "¿Por qué queréis, Niño, quitaros de los brazos de vuestra Madre y poneros en el pesebre? Para dar una gran bofetada a nuestra tibieza y flojura" (Ser 4, 423ss). Considerar el ejemplo de los santos, es también un buen remedio para la tibieza: "Si queréis sentir el mucho esfuerzo y poco temor que sienten los varones perfectos, alanzad de vos la tibieza, y tomad el negocio de la virtud a pechos, y leeréis en vuestro corazón el esfuerzo y seguridad que leéis en los libros" (AF cap. 29, 2932ss).
El sentimentalismo era en el siglo XVI una verdadera plaga de la vida espiritual, especialmente a partir del alumbradismo. La doctrina avilista recomienda siempre obrar con espíritu de fe, practicar el sacrificio, seguir la voluntad de Dios, ahondar en la humildad. Su perspectiva fundamental es el amor. La verdadera consolación y devoción no se confunden con el sentimentalismo. La "salvación" no consiste en "devoción y sentimientos", sino "en la guarda de los mandamientos de Dios" (Carta 136, 49ss).
Seguir a Cristo comporta negación, en vistas a ordenar la vida según el amor. Quien sigue a Cristo "por consolaciones y gustos del ánima", es como si le siguiera "por dineros" (AF cap. 26, 2574s). Los sentimientos o "lágrimas" se pueden seguir sólo cuando no se fuerzan y hay moderación: "Y por esto habéis de tomar estos sentimientos, o lágrimas, de tal arte que no os vais mucho tras ellas, porque no perdáis por seguirlas aquel pensamiento o afección espiritual que las causó" (AF cap. 74, 7592ss).
Son buenas las lágrimas cuando nacen del dolor de los pecados. Entonces, si son moderadas, pueden ser expresión de una actitud filial: "Y sintiéndolas, no las olvidéis, mas ponedlas delante los ojos y presentaos a Jesucristo, Salvador y Médico nuestro, y lloraos delante de Él, que sin falta él os acallará. No hay armas tan fuertes como lágrimas de niño para su padre, ni hay cosa que así nos haga victoriosos delante de Dios como llorarnos delante de Él y quejarnos de nosotros a Él, no para que haga justicia, mas misericordia" (Carta 63, 65ss).
La devoción verdadera se fundamenta en el amor, que consiste en la unión de la propia voluntad con la voluntad de Dios: "Esta manera de amor no habéis de pensar que está colocada y asentada en la afección y ternura del corazón, porque de esta manera muchas personas se hallarían impotentes para amar... El amor de caridad, dicen los santos teólogos, que ha de nacer de la voluntad... la verdadera esencia del amor consiste en aquesto, y ansí entonces diremos que una ánima ama a Dios cuando quiere a Dios y su gloria" (Carta 222, 341ss; cfr. II-II, q.24, a.1).
Hay que aprender a seguir al Señor por consolación y desolación. Todo puede venir de él, según sus planes de amor: "No le parezca a vuestra señoría fuera de ley de amor darle un tiempo gusto de la miel y en otro de hiel, porque, entre estas mudanzas en los efectos, uno es el corazón de su Amado, que por una vía y por otra procura el bien de ella" (Carta 130, 11ss). Cuando la consolación viene de Dios, hay que aceptarla como un don suyo, para servirle mejor: "Y advertid que nos os digo esto para que algún rústico entienda por ello que quiero decir que son malos los sentimientos de Dios y sus dulzores, los cuales da a los que no le ofenden y le sirven y se mortifican" (Carta 184, 572ss).
Es normal, en el proceso de la vida espiritual, que se alternensequedad y fervor. Ni sequedad ni fervor son señales de perfección, sino el afrontar los sufrimientos cumpliendo la voluntad de Dios: "Hurtad el cuerpo a todo lo que os pide deleite, devoción y gusto y sabor, y no lo procuréis hasta que Dios os lo dé, y ejercitaros en un puro padecer a secas por Cristo en vuestra lección y oración, penitencias, confesiones, comuniones y obediencias" (Carta 184, 187ss). Lo importante es la práctica de las virtudes: "Y porque se queja vuestra merced que no tiene aquel fervor agora que al principio deste camino, me parece avisarle que, si esta falta de fervor es falta de ternura y devoción, ya criado en sustancia de virtudes, no tiene por qué tanto se queje" (Carta 234, 35ss).
Con la búsqueda de sentimientos, se mezcla frecuentemente el "deseo de revelaciones". El Maestro invita a "guardar la ley de Dios por camino llano", puesto que, "por no estar desasidos los corazones de estos deseos, por eso permite el Señor grandes ilusiones" (Carta 247, 1ss).
d) Medios básicos de espiritualidad
En los escritos avilistas van apareciendo todos los medios de vida espiritual señalados por la tradición eclesial: sacramentos (especialmente la Eucaristía), oración (meditación, presencia de Dios), devoción mariana, obras de caridad, sacrificio o mortificación, examen, plan de vida (retiros), lectura espiritual, dirección o consejo espiritual, silencio... No se trata de quedarse sólo en esos medios, sino de pasar al objetivo final: "Notad que el vestirnos de Cristo es el fin de desnudarnos de nosotros mesmos" (Dialogus, n.21, 842s). "El vestirnos del hombre nuevo es la última disposición para vestirnos de Cristo y recebir su Espíritu Santo" (Dialogus, 906s).
La meditación perseverante
En el contexto de la oración y contemplación (que hemos resumido más arriba), el Maestro expone ampliamente y aconseja frecuentemente el modo de orar que se llama "meditación". Da mucha importancia a la meditación de la pasión. Al estilo de la "Devotio Moderna", destribuye los temas de la meditación según los días de la semana. Se realiza por un proceso de reflexión, afectos, resoluciones y petición. Pero, en la doctrina avilista, todo el proceso tiende a "recogimiento" (contemplación, unión con Dios), por medio del conocimiento propio y de la confianza en el amor de Dios.
Ordinariamente aconseja meditar la pasión por la mañana y reservar el examen para el atardecer. Se inclina porque se haga diariamente, en un lugar apartado y durante un tiempo determinado. Aunque el ejercicio de meditación puede hacerlo cualquier cristiano, de modo especial se requiere por parte de los ministros y personas consagradas (cfr. AF cap. 58, 6018ss). Para hacer posible y asequible la meditación, da unos consejos prácticos sobre cómo pasar de la lectura a la reflexión, a mover los afectos, a unirse a la voluntad de Dios y también a saber callar con un silencio contemplativo.
La oración como medio de perfección, además de concretarse en la meditación sistemática, se expresa también por medio del ejercicio de la presencia de Dios. Los momentos especiales de oración, sin dejarlos de lado, deben llevar a una actitud habitual de relación personal con Dios. Es el tema que el Maestro aconseja a sus dirigidos, invitándoles a vivir de esta presencia providencial y amorosa.
Como hemos indicado más arriba, al aconsejar el ejercicio de la meditación, no deja de aludir a la conveniencia de encontrar lugares adecuados. Pero a Dios se le encuentra en todas partes y hay que vivir de esta presencia con una actitud relacional: "Mire mucho vuestra señoría no ensangoste a Dios, pues es inmenso; no piense que no le ha de buscar ni hallar sino en tal lugar o tal obra. En todo está si ella está con Él; y si en todo le busca, en todo lo hallará" (Carta 30, 170ss).
El ejercicio de la presencia de Dios
Entre los muchos consejos, "avisos" o "reglas", que pueden encontrarse en los escritos avilistas, una de las listas tiene el título de "Diez documentos" y empieza con este consejo: "El primero será que trabaje siempre de acordarse que nuestro Señor Dios, trino en personas y uno en esencia, está en todo lugar, y en su corazón, y dondequiera que se hallare; y así trabaje de estar con mucha reverencia estando presente tan gran Señor; y, acordándose de Él, tenga en su voluntad un gozo y querer con que esté muy contento y alegre de que este Señor está tan lleno de gloria como nuestra fe nos dice" (Reglas de espíritu, n.3, Diez documentos; cita a Tob 4,6 y 3Reg 17,1). Como puede observarse, se invita a adoptar un actitud de respeto y confianza gozosa en la presencia de Dios.
Este ejercicio de la presencia de Dios se concreta también en la llamada oración continua, siguiendo la enseñanza del Señor (cfr. Lc 18,1). El Maestro Ávila lo explica así: "Quiere decir que lo hagamos muchas veces y con cuidado... Graciosa y muy agradable oración haréis si, dondequiera que os halláredes, alzardes vuestros corazones a Dios y lo tuvierdes presente en vuestra memoria. ¿Quién os estorbará que no podáis hacer esto?" (Ser 10, 315ss).
Sacrificio y mortificación
El esfuerzo por santificarse comporta la actitud y la práctica concreta del sacrificio o mortificación. El dolor del sacrificio tiene sentido a la luz de Cristo crucificado. Toda la vida cristiana se hace oblación con él, especialmente por medio del sacrificio eucarístico. Es una respuesta del creyente a la oblación del mismo Cristo: "Él mismo se ofrece a Dios en recompensa de que el mismo Dios se da a él" (Ser 43, 693ss). Por esto, la mejor preparación para participar en el sacrificio eucarístico es la entrega de sí mismo: "El aparejo que tú has de llevar no tanto consiste en las cosas fuera de ti como en ti mesmo... tu voluntad dada al Señor por amorosas obras de sus santos mandamientos y de su Iglesia... Y ofreciéndote a ti de esta manera, haces al Señor más señalados servicios en esto que si mil mundos le dieses" (Ser 43, 673ss).
La purificación de las propias tendencias y la tensión hacia la entrega, comporta frecuentemente sacrificio doloroso (cfr. AF cap. 5, 430ss). El dolor que comporta el sacrificio de la vida espiritual, se redimensiona a la luz del amor de Cristo Esposo: "Porque tal esposo como Cristo no se da de balde a quien lo ha de llevar. Dice Él: «Algo le tengo que costar; quien me quisiera hame de dar la sangre». ¡Oh cuán pocos amigos tiene Cristo!... ¿Queréis alcanzar la joya? No miréis la costa, sino lo que ganaréis con la costa" (Plática 16ª, 404ss).
En la práctica, el Maestro aconseja una "prudente templanza", cuando se ponen "particulares remedios", especialmente para ordenar las tendencias de la carne (cfr. AF cap. 5, 427ss). La vida espiritual o vida según el Espíritu, se concreta en ofrenda de la propia mortificación al Espíritu Santo: "Dale de comer al Espíritu Santo, y dale de comer tu corazón; que carne come; pero mira que es carne mortificada lo que come... Muerta ha de estar tu carne y manida, castigada y mortificada, domada con ayunos y disciplinas" (Ser 27, 302ss).[74]
Examen de conciencia
El tema del examen de conciencia aparece en el contexto de una llamada a la conversión y a la perfección. Así sucede en los sermones: "La palabra dicha en el púlpito, que no revuelve al malo los humores, no se dice como palabra de Dios ni se recibe como palabra de Dios" (Ser 28, 409ss). Es una llamada que examina de amor, infundiendo la confianza en la misericordia divina. A veces habla de la conciencia, que es como "perrillo" que ladra (cfr. Ser 3, 353).
Por el examen de conciencia, el creyente intenta conocerse a sí mismo para mejor responder a la voluntad de Dios: "Los pies con que nuestra alma se menea son el examen y la oración. Con los primeros se va al conocimiento propio; con el segundo, al amor de Dios" (Carta 232, 16ss). El examen es necesario también para hacer una buena confesión: "Si flojos habéis sido hasta aquí en barrer vuestra casa, tomad agora vuestra escoba, que es vuestra memoria. Acordaos de lo que habéis hecho en ofensa de Dios y de lo que habéis dejado de hacer en su servicio, íos al confesor y echad fuera todos vuestros pecados, barred y limpiad vuestra casa" (Ser 2, 475ss).
El escrito llamado "Dialogus inter confessarium et paenitentem" es un examen no sólo sobre los pecados, sino también sobre la fe y las actitudes cristianas. Se ayuda al penitente no sólo para la acusación de los pecados, sino especialmente para un encuentro con Cristo. La explicación del Maestro, también en otros escritos, es de guiar hacia la autenticidad (conocimiento propio), la confianza (conocimiento de la bondad divina) y la generosidad: "El primer cuidado que tengáis sea cavar en la tierra de vuestra poquedad, hasta que, quitando de vuestra estimación todo lo movedizo que vos tenéis, lleguéis a la firme piedra que es Dios, sobre la cual, y no sobre arena, fundaréis vuestra casa" (AF cap. 58, 5949ss).
Recomienda el examen diario de conciencia al terminar la jornada: "Entra en ti y ponte cada noche en cuenta con Dios" (Ser 1 -2-, 664s). Un buen examen de la noche consiste en reconocer "todas las culpas de aquel día... delante de Cristo crucificado" (Carta 232, 175ss). Pero ha de ser un examen sobre las disposiciones y actitudes acerca de la caridad: "No os entretengáis en saber cosas curiosas, volved vuestra vista a vos misma, y perseverad en examinaros... perseverando en sosiego, poco a poco veréis con la gracia de Dios lo que en vuestro corazón hay, aunque sea en los más secretos rincones" (AF cap. 58, 5969ss). En algunas cartas señala algunas materias concretas de examen (cfr. Carta 232).
En el camino de la vida espiritual, el examen es una gran ayuda para conocerse, pedir perdón y enmendarse: "Porque por maravilla hallaréis cosa tan provechosa para enmiendo de la vida, como tomarse el hombre cuenta de cómo la gasta, y de los defectos que hace... Haced cuenta que os han encomendado una hija de un rey, para que tengáis cuidado continuo de mirar por sus costumbres y que, a la noche, le pedís cuenta... Entrad en capítulo con vos a la noche, juzgándoos muy particularmente, como haríades a otra tercera persona" (AF cap. 62, 6282ss).
El Maestro Ávila habla por experiencia propia. Su examen de conciencia lo plastifica con la imagen del publicano (cfr. Lc 18,33), que se reconoce pecador ante Dios: "¡Señor, sed manso a mí, pecador! El hombre le había de decir a Nuestro Señor de corazón estas palabras. Yo hace más de quince años que primero que me acueste las digo. Dice San Agustín: Si nos juzgamos, Dios no nos juzgará... si tú te acusas, Él te excusa" (Ser 21, 373ss; cfr. San Agustín, Sermón 278, c.12). Por esto puede concluir: "Ni veo que hay rato mejor gastado que entender en reprenderse a sí mismo; ni cosa más provechosa para nuestra enmienda que examinar nuestros errores" (Carta 12, 40ss).
Plan de vida
Un medio de vida espiritual, frecuentemente sugerido por el Maestro Ávila, es el plan de vida. A veces se trata de un plan para una persona en unas circunstancias concretas (a modo de dirección espiritual). Pero también ofrece unas líneas o "avisos" más generales en las "Reglas de espíritu". Esas líneas podían ser también pautas para una dirección espiritual posterior.
El plan es a modo de programa de vida espiritual, en el que no faltan los momentos de meditación y lectura, así como el tiempo de apostolado y de descanso. A veces incluso parece un horario de retiro. Según la persona concreta o grupo especial al que se dirige, el plan acentúa más un aspecto u otro. Así ocurre en las cartas n.5 (al Maestro García Arias, sobre el estudio), n.8 (horario de vida espiritual para un sacerdote), n.148 (vida comunitaria para un grupo de canónigos), n.225 (un plan de estudio para un discípulo), n.236 (plan de vida espiritual para un discípulo).[75]
La práctica del silencio
Un medio de vida espiritual, muy apreciado por el Maestro Ávila, es el silencio. El tema está relacionado con la oración contemplativa o recogimiento, de que hemos hablado más arriba. A veces, el tema forma parte del plan de vida. Pero propiamente es el silencio interior, a modo de actitud de adoración y admiración: "Y este silencio es honra muy propia de Dios, porque es confesión que se le deben tales alabanzas, que son inefables a toda criatura" (AF cap. 31, 3277ss; cap. 75, 7644ss). En realidad "el recogimiento es un silencio en Dios" (Plática 3ª, 182).
Lectura espiritual
Respecto a las lecturas espirituales, además del consejo insistente sobre la lectura de la Sagrada Escritura y la invitación al estudio, invita a leer libros de santos y autores espirituales que fomentan la vida espiritual. Da mucha importancia a lectura y estudio de autores recomendados o "libros de buenos autores" (Memorial II, n. 64, 2682). En el mismo Memorial al concilio de Trento, se remite a la práctica de los "santos pasados", los cuales recomendaban buenas lecturas de "doctrina llana, segura y provechosa" (ibídem, n.61, 2613ss). Los sacerdotes, además de los libros sobre dogma y moral, "tengan libros devotos en que leer... y Biblia, pues éstas son armas, que, como capitanes de los pueblos, han de tener" (Advertencias II, n.97).
No deja de aconsejar prudencia, cuando se trata de autores que pueden producir alguna confusión. Así lo hace respecto el tercer abedecedario de Francisco de Osuna: "La tercera parte no la dejen leer comunmente, que les hará mal, que va por vía de quitar todo pensamiento, y esto no conviene a todos" (Carta 1, 340ss). Entre los Santos Padres, recomienda especialmente a "Jerónimo y Crisóstomo" (Carta 225, 19). Aunque el consejo se refiere también para el modo de estudiar teología, no siempre se distinguen los campos entre estudio y lectura espiritual, especialmente cuando aconseja leer San Agustín, San Ambrosio, San Bernardo y San Buenaventura.[76]
Dirección espiritual
Un gran Maestro de vida espiritual, como es San Juan de Ávila, no podía menos de recomendar la Direcciónespiritual, que él mismo ejercía con asiduidad, a veces en relación con la confesión, casi siempre por medio de correspondencia epistolar. No usa propiamente la palabra "director" o "dirección espiritual", sino más bien "confesor", "guía", "maestro", "padre"... El tema viene de los primeros siglos de la Iglesia y se ha ido desarrollando posteriormente, a nivel expositivo y práctico.
Los destinatarios de la dirección espiritual impartida por el Maestro Ávila reciben orientaciones sobre todos los temas y etapas de la vida espiritual, especialmente sobre la vocación, contemplación, perfección y deberes del propio estado de vida. El Maestro señala objetivos precisos, motiva el camino, indica las etapas, los peligros y los medios adecuados. Parte de los planes salvíficos de Dios (que reclama nuestra entrega de amor) y tiene en cuenta la realidad concreta y circunstancial de la persona guiada. Se trata de personas de toda condición social: laicos, sacerdotes, religiosos y religiosas, así como también obispos y personas de gobierno.[77]
Al hablar de las figuras que se encontraron con él (capítulo I), hemos aludido a su dirigido San Juan de Dios. Entre sus discípulos (cfr. el cap. II), hay que destacar a Diego Pérez de Valdivia, Luís de Granada, Antonio de Córdoba... A algunas de sus dirigidas les escribe orientaciones concretas o les dedica algún escrito. Por parte del Maestro, se puede observar (a partir de sus escritos) una actitud de gran respeto, sentido paterno, motivaciones hondas. En la perspectiva de grandes exigencias, deja siempre grande espacio a la confianza.
En el "Audi Filia" se describe propiamente todo el proceso de la vida espiritual (inicialmente concretada en Doña Santa Carrillo). Los consejos oscilan entre una decidida renuncia a todo lo que pueda ser impedimento, y una invitación a la unión íntima con Dios (por medio de Cristo Esposo). Guía a personas que ciertamente desean la perfección, por un proceso de fidelidad a la acción del Espíritu Santo y de escucha contemplativa y comprometida de la Palabra de Dios.
No deja de anotar las cualidades del "director" (que él llama "guía y padre"). Se trata de una "persona letrada y experimentada en las cosas de Dios" (AF cap. 55, 5638s). Debe ser un "confesor sabio y experimentado" (AF cap. 28, 2728). Entre las "Reglas de espíritu" (redacción 2ª), señala estas mismas directrices: "Conviene que para el regimiento de vuestra conciencia toméis por guía y padre alguna persona letrada, y experimentada, y ejercitada en las cosas de Dios, y no toméis quien no tenga uno sin otro" (II, n.9).
La época en que se escriben estas orientaciones, estaba necesitada de un gran discernimiento. Había que compaginar ciencia y experiencia, además de la prudencia. Las letras solas ciertamente serían insuficientes. La experiencia que se basara sólo en cierta "devoción" subjetivista, conduciría también a engaños. La verdadera experiencia consiste "en el cumplimiento de la voluntad del Señor" (AF cap. 55, 5666ss). La falta de formación espiritual en algunos directores hacía mucho daño: "¡Oh, cuánto mal ha hecho a sí y a otros, gente sin letras. que ha tomado entre manos negocio de la vida espiritual, haciéndose jueces de ella, siguiendo solamente su ignorante parecer!"(AF cap. 74, 7616ss). Si no es hombre de oración, no podrá dirigir bien a los demás, porque "debe orar mucho al Señor la salud de su enfermo; y no cansarse porque le pregunte el tal penitente muchas veces una misma cosa... Encomiéndele la enmienda de la vida y que tome los remedios de los sacramentos" (AF cap. 28, 2734ss).
Además de la ciencia, experiencia y prudencia, el Maestro indica el sentido de paternidad (sin paternalismos), como expresión de su celo apostólico y fruto de su propia experiencia de Dios (cfr. Carta 1). Esta carta. dirigida a Fr. Luís de Granada, es un tratadito práctico de dirección espiritual, principalmente en vistas a orientar al mismo director o confesor. Se describe el sentido de paternidad para guiar en la filiación divina adoptiva, al estilo de San Pablo (cfr. 1Cor 4,15) y según la doctrina de San Juan (cfr. 1Jn 3,1).
Darse a los dirigidos, por parte del director, significa que no deje de cumplir con sus obligaciones y que "les enseñe a andar poco a poco y sin ayo, para que no estén siempre flojos y regalados, mas tengan algún nervio de virtud; y no se dé él tanto a otros, que pierda su recogimiento y pesebre de Dios" (Carta 1, 219ss). También conviene que "no se meta en remediar necesidades corporales... y sépanlo así sus hijos, que no han de llegarse a él ni esperen de él favor temporal alguno" (ibídem, 227ss).[78]
Por parte del "dirigido" o de la persona que busca este consejo espiritual, ha de acudir a la oración para pedir la gracia necesaria en el discernimiento de la voluntad de Dios y las mociones del Espíritu Santo, siempre con una apertura total: "Y pues tanto os va en acertar con buena guía, debéis con mucha instancia pedir al Señor que os la encamine El de su mano, y, encaminada, fiadle con mucha seguridad vuestro corazón, y no escondáis cosa de él, buen ni mala" (AF cap. 55, 5672ss). Los importante es "darle a entender las raíces de la tentación, de manera que él (el consejero) quede satisfecho y entienda el negocio; y darle muy entero crédito en lo que dijere" (AF cap. 28, 2728ss).
No se trata propiamente de "obediencia" al director, sino de docilidad y humildad, para no fiarse de sí mismo ni tampoco apoyarse o condicionarse de modo absoluto a nadie: "No confiéis en el saber ni fuerza del hombre, mas en Dios, que os hablará y esforzará por medio del hombre" (AF cap. 55, 5685ss). Así se evitan dos errores: el de la autosuficiencia personalista y el de la confianza exagerada en un hombre (ibídem). No hay que olvidar nunca que el verdadero director es el Espíritu Santo. "El siervo de Dios, el confesor y el predicador, no te han de ser estorbo para el Espíritu Santo; hate de ser una escalera para que tú subas a Dios" (Ser 27, 261ss).
En el contexto de los medios de perfección, cabe destacar también una línea de gozo o consolación, que hemos visto, de algún modo, al hablar de la esperanza, así como de los sentimientos (consolación y desolación). Los amigos de Dios "en grande libertad viven, y grande razón tienen para estar contentos" (Gálatas, n.51, 2799s). En realidad, "un ánima no puede estar mucho tiempo sin buscar consolación, buena o mala" (AF cap. 9, 820s). El hecho de estar bautizado es una llamada a vivir con el gozo de la esperanza (cfr. Ser 62, 349ss).
3. VOCACIONES O ESTADOS DE VIDA
San Juan de Ávila ha sido más estudiado como Maestro de vida espiritual en los estados de vida sacerdotal y consagrada. Pero leyendo con atención sus escritos espirituales, nos encontramos con un Maestro de la vida cristiana en todas sus vocaciones y estados de vida. Todo estado de vida y vocación cristiana (laical, vida consagrada, vida sacerdotal) encuentra abundante materia en la doctrina avilista.
a) La vocación cristiana común y diferenciada
El tema de la llamada de Dios, la "vocación", lo explica el Maestro Ávila en relación con la predestinación, la fe, la santidad y el seguimiento evangélico. Lo aplica a todo bautizado, también a los "seglares", pero habla más directamente de los religiosos y sacerdotes. Cada uno es llamado por Dios con especial vocación: "No andéis todos por un camino; que ni todos han de ser casados, ni todos clérigos, ni todas monjas" (Ser 76, 399ss; en el monasterio de Santa Clara de Montilla). El discernimiento vocacional tiene como objetivo acertar con la voluntad de Dios: "Señores, lo que habéis de desear es que, donde fuéredes, os lleve Dios; que vuestra mudanza de estado sea conforme a su voluntad; y estad seguros, confiad en Él, que Él mira por vos" (ibídem, 460ss).
A veces, comenta los textos evangélicos de la llamada, recordando el "sígueme" y la mirada de Cristo (cfr. Juan I, lec. 14ª, 4135ss). Comenta la vocación de San Mateo con estas palabras: "Sígueme. Levántase de su banco, dejado todo lo que tenía delante; deja los libros, deja las cuentas y deja los dineros. Vase tras Jesucristo" (Ser 77, 59ss). Esta palabra está preñada de amor, es un "recia palabra" (Plática 16ª, 67), que reclama un respuesta comprometida.
Todos hemos sido llamados o elegidos en Cristo. Hay que agradecer la vocación respondiendo con generosidad: "San Pablo ruega a Dios que dé a entender a los de Éfeso el grande bien para que son llamados; e yo suplico lo mesmo para vos, para que, conociendo el gran valor de vuestra esperanza, seáis más agradecida a quien os llamó" (Carta 94, 19ss). Apreciar la llamada es fuente de gozo, puesto que se trata de recibir al mismo Dios: "¿Sabéis, hermana, para qué os llama Dios? ¿Sabéis cuál es el fin del camino que habéis comenzado? ¿Sabéis cuál es la joya de vuestra pelea y la corona de vuestra victoria? Dios mismo es" (ibídem, 26ss).
Aunque la vocación es un don para toda la familia, no pocas veces los padres presentan cierta resistencia. Los padres cristianos deben responder con generosidad, aún en el caso de grandes sacrificios. Refiriéndose al caso de la condesa de Feria (Sr. Ana de la Cruz), que ingresó en el monasterio de Santa Clara de Montilla, afirma: "Y si los padres ven a sus hijos que quieren servir a Dios de alguna manera buena, que a ellos no es apacible, deben mirar lo que Dios quiere; y, aunque giman con amor de los hijos, vénzanse con el amor de Dios, y ofrezcan sus hijos a Dios, y serán semejantes a Abraham" (AF cap. 98, 10372ss).
El modo de discernir la vocación se basa en los mismos criterios del discernimiento del Espíritu (del que se ha hablado en torno a las virtudes. La respuesta a las consultas es muy diversa, según las disposiciones de quienes han buscado el consejo. En las cartas 7 y 8 puede intuirse el discernimiento acerca de la recta intención, de la libre voluntad y de las cualidades.
Toda vocación reclama una formación adecuada. El tipo de formación que el Maestro Ávila proponía era integral, basada en el conocimiento teórico y en la educación humana y cristiana. La formación vocacional debe darse desde la infancia, "por ser aquella edad el fundamento de toda la vida" (Carta 11, 1152ss). Toda formación debe apuntar a "buenas costumbres" (ibídem). Los dos pilares en que se apoya son la escuela y la familia (cfr. Ser 46, 592ss). Pero siempre habrá que dar el enfoque catequístico, ya desde la infancia y juventud, ofreciendo "alguna lección de doctrina sagrada y piadosa" (Memorial II, n.88, 3315ss; cfr. Advertencias I, n.48). Esta formación será específica para cada estamento: seglares (Advertencias I, n.47, 1630s, 1628s), religiosos (Carta 141, 45ss; Memorial II, n. 96, 3681ss) y sacerdotes (cfr. Tratado sobre el sacerdocio, n. 42, 1504ss).
b) Vocación al laicado
La acción ministerial y los escritos del Maestro Ávila se dirigen a todos los sectores del pueblo de Dios. Muchas veces se hace alusión a los seglares (laicos), especialmente a personas casadas, gobernantes, seglares jóvenes y adultos. La invitación general a la santidad se aplica al campo de la familia y de los servicios en la sociedad civil.
La doctrina sistemática actual sobre el laicado no existía en el siglo XVI. En la doctrina avilista se hace resaltar, con la llamada a la santidad de todos los bautizados, la participación en el sacerdocio de Cristo. Las enseñanzas sobre el bautismo hacen explícita la llamada a la santidad.
La preocupación formativa del Maestro llega claramente al sector laical. Así, por ejemplo, en las "Advertencias al concilio de Toledo" el Maestro Ávila pide una formación "reformada" de "los laicos", con el objetivo de "poderse reformar en sus costumbres" (Advertencias I, n.47, 1628s). Propone una especie de "seminario de ellos todos" (ibídem, 1630s), siguiendo las pautas del concilio tridentino (ses. 24, cap. 4).
Para los laicos que trabajan en el sector educativo, pide que se le seleccione y que se les proporcione una educación más cuidadosa y "reformada" (Advertencias I, n.47, 1630s). Pide esta formación , instando a aplicar las normas del concilio tridentino (cap. 4 de la ses. 24). Sugiere se les proporcione publicaciones adecuadas (cfr. Advertencias I, nn. 48-52).
En el sector de los gobernantes, urge a los responsables a que no sólo den leyes justas, sino principalmente su propio testimonio y la aplicación adecuada de esas mismas leyes. En las "Advertencias necesarias para los reyes" (escrito dirigido a Don Cristóbal de Rojas y demás Prelados del concilio de Toledo) y en la carta 11 (dirigida "a un Señor de este Reino"), se dan pautas para el gobernante cristiano. Es un caso típico de la inserción de los valores evangélicos en las estructuras humanas por parte de los laicos.
En las enseñanzas avilistas, así como en la actuación del Maestro, se puede observar un gran respecto y aprecio de la dignidad de la mujer. Son muchas las mujeres dirigidas por él; las considera muy capaces de vivir el misterio de Cristo en toda su hondura. Había, entre sus dirigidas, mujeres casadas, solteras y viudas, de toda clase social, seglares y consagradas, grandes convertidas y almas verdaderamente santas. A algunas de ellas (como Sancha Carrillo y Ana Ponce de León) dedica escritos importantes.[79]
Donde puede apreciarse mejor este aprecio y respeto por la mujer, es en las cartas dirigidas a Santa Teresa. Precisamente este respeto hace descubrir las grandes cualidades de la mística española del siglo XVI, mientras, al mismo tiempo, ofrece, con libertad, directrices de discernimiento en cuanto a los fenómenos extraordinarios.[80]
Al describir la vida espiritual como desposorio con Cristo, es lógico que personifique al creyente con la "esposa". En esta perspectiva (Cristo Esposo, la Iglesia esposa) se encuadra el "Audi Filia", libro escrito, en su primera redacción, para dirigir espiritualmente a Doña Sancha Carrillo. La Santísima Virgen, es "la mujer" por excelencia, la figura de la Iglesia esposa: "Nuestra bendita mujer fue criada para que ayudase al segundo Adán, Cristo, a restaurar lo que el primer hombre y mujer echaron a perder" (Ser 68, 421ss).[81]
La actuación concreta respecto a las mujeres, dentro de este aprecio a que hemos aludido, se encuadra también en las normas de prudencia. Las cartas dirigidas a mujeres son muy atentas, sin aires de superioridad, respetuosas, invitando siempre a la confianza y, al mismo tiempo, a la fidelidad y a la generosidad. Las recibía ordinariamente en la iglesia. A las mujeres casadas, las invita a cumplir con sus obligaciones del hogar (cfr. Carta 3, 173ss). Para indicar que cada miembro de la familia tiene que desempeñar un trabajo peculiar, igualmente digno, afirma: "El oficio de la mujer, el oficio de la señora de casa es guisar muy bien de comer a los que andan trabajando en la hacienda de sus maridos, para que, cuando vengan cansados, se refresquen y descansen y huelguen" (Ser 8, 12ss).
No tiene empacho en criticar defectos evidentes de la época, como cuando se trata de denunciar el despilfarro y el excesivo lujo en los vestidos (Ser 12, 261ss; Ser 36, 263ss). Al mismo tiempo, se preocupa por buscar una solución para las mujeres públicas, víctimas y también cómplices de las pasiones de los varones (Carta 11, 1209ss). No hay que olvidar que, en el proceso de la Inquisición, se le acusó de defender la autonomía las mujeres en el hogar; su opinión consistía más bien en que las mujeres podían usar libremente su pratrimonio para limosnas.
c) Vocación a la vida consagrada
La naturaleza y características de la vida consagrada
Además de un gran aprecio por la vida consagrada, el Maestro ofrece un conjunto muy valioso de doctrina, siempre en las líneas básicas de seguimiento evangélico radical como desposorio con Cristo, vida fraterna, disponibilidad para la caridad (misión). Su aprecio por la vida consagrada se demuestra especialmente por la dirección espiritual de muchas personas que seguían este camino evangélico.[82]
Se puede observar en todo el decurso de la vida del Maestro, su cercanía a algunas instituciones religiosas y, de modo especial, la relación espiritual con algunas personas concretas: San Juan de Dios, Fr. Luís de Granada, San Francisco de Borja, San Ignacio, Santa Teresa... No pocos discípulos ingresaron en instituciones de vida consagrada.
Se encuentra, a veces, una amplia y detallada explicación de cada uno de los votos y, por tanto, de los consejos de pobreza, castidad y obediencia (Carta 224). Las exigencias evangélicas, acompañadas siempre de oración, sacrificio, humildad y vida comunitaria, se presentan en la perspectiva del desposorio con Cristo: "Por tanto, conviene, como esposa de Jesucristo, que claramente entienda; y, entendiendo, continuamente considere; y, considerando, ardientemente ame; y, amando, con toda diligencia obre con perseverancia aquello para lo cual pretende de entrar en religión" (Carta 224, 10ss).
Los tres consejos (profesados por medio de los votos) expresan la entrega total del corazón: "conservar el corazón de las cosas terrenas y vanas" (Carta 224, 53s). Efectivamente, "son instituidos para limpiar y purificar el ánima del amor de sí mismo, conviene a saber: de la mala afición cerca de las cosas exteriores o interiores o carnales, procurando con toda diligencia despojarse de sí mismo y de todas las cosas de este mundo y vestirse de caridad e inflamarse en amor de Jesucristo, de tal manera que sea una misma cosa con Él" (ibídem, 332ss).
El sentido de desposorio es, pues, el prisma para entender esta consagración: "Las madres monjas, las religiosas y doncellas... han de mirarse en Jesucristo, viéndose como en un espejo, no tengan alguna mancha en la cara... porque su Esposo no las deseche" (Ser 27, 152ss). La entrega total es por un amor esponsal (cfr. Ser 54, 234ss).[83]
Es siempre la perspectiva del enamoramiento de Cristo, que pide la entrega de totalidad: "El mayor sacrificio que se puede hacer a Dios es ofrecerle cada uno a sí mismo; y aquél se ofrece a sí mismo que le ofrece su voluntad" (Plática 16ª, 2ss). María es modelo de esta vida de consagración a Cristo Esposo (ibídem (cfr. Carta 40). Los detalles de la vida claustral sólo pueden entenderse con esta perspectiva de entrega al Señor: "Las rejas con humildad, ¿qué son? Paraíso, y los moradores de ellas, ángeles. Rejas sin humildad, ¿qué son? Infierno, y los moradores, demonios" (ibídem, 359ss).
El "sí" a Dios resume la donación total: "Decir a Dios de sí. Vaso sois, echad toda la hiel, y recebiréis miel... Podad de vos todo lo que Dios no es... Y quien tal Sí quiero ha de dar, menester ha pedir la gracia del Señor para ser bien casada" (Carta 40, 68ss, 188ss). El ofrecimiento es de totalidad: "Pueda darle su corazón todo como morada sosegada y apacible" (Carta 142, 5s); "ofrézcase en perpetuo don a Aquel cuyo es por muchos títulos" (ibídem, 22). No se olvida la dimensión escatológica, en cuanto que se tiende al encuentro final con Cristo Esposo en el más allá: "De todo corazón se pase al siglo por venir... el cual no tanto consiste en tiempo presente o futuro, cuanto en espíritu" (ibídem, 73ss).
Es por amor a Cristo que se dejan todas las cosas. Quienes han sido llamados "han despreciado todo, y por agradar más a Dios eligieron vida de cruz en pobreza y trabajos, y en obediencia a Dios y a los hombres"(AF cap. 34, 3469ss). Es una respuesta a su "sígueme", que va acompañado de su mirada de amor (cfr. Juan I, lec. 14ª, 4135ss; Ser 77, 59ss). Sólo quien capta ese amor sabe comprender el significado de esa "recia palabra" (Plática 16ª, 67).
Esta grandiosidad de la vida consagrada se concreta, en la vida práctica, con servicios humildes. En el sermón para la toma de velo de la Condesa de Feria (Ana Ponce de León), en el monasterio de Santa Clara de Montilla, invita a los presentes a descubrir el verdadero valor de la vida consagrada: "¿Sabéis a qué entra en el monasterio? A fregar, si se lo mandaren, si le pareciere a su prelada; a cocinar, si fuere menester; a abajarse, a ser esclava de las otras y a besar la tierra que las otras huellan" (Ser 76, 359ss).
En el siglo XVI, la vida religiosa, especialmente femenina, no estaba tan orientada hacia la vida activa, salvo en el caso de los misioneros de todas las épocas (incluso monjes). En este sentido, el Maestro presenta a los religiosos como cooperadores en la acción pastoral: "Los religiosos son añadidos para ayudar a los perlados y curas" (Ser 81, 95s; cfr. Memorial I, n.41). Es lo que hoy llamaríamos cooperación en los planes pastorales de la diócesis.[84]
La realidad de la vida clerical y religiosa del siglo XVI no era muy halagüeña, como puede observarse por los escritos avilistas (especialmente los Memoriales para el concilio de Trento). El Maestro señala algunos defectos que existían incluso en los monasterios: "Creen que dejan el siglo y no lo dejan, mas múdanse de un siglo a otro, engañados y embaucados de sí mismos" (Carta 224, 7ss). Por esto, "más es de llorar el religioso flojo que el pecador engolfado en vicios" (Carta 157, 11s).
Como hizo sobre la vida clerical, proponiendo la selección de los candidatos y la formación en los Seminarios, de manera semejante propugnó la renovación de la vida religiosa por medio de una mejor selección (cfr. Carta 141, 45ss) y de una mejor formación doctrinal y espiritual (cfr. Memorial II, n.96). Las síntesis que ofrece en algunos sermones y cartas, así como en las pláticas, son un buen ideario sobre la identidad de la vida consagrada.
Las normas de selección son, a veces, circunstanciales, como en el caso de los primeros seguidores de San Juan de Dios (su dirigido), a quien le dice: "Y los que viéredes que son chismosos, no los consintáis en vuestra compañía, que son para disfamar el Hospital... porque veces hay que, por no hacer enojo a uno, echáis a perder a muchos" (Carta 141, 45ss). Algunos monasterios de clausura dejaban mucho que desear en cuanto a la formación: "Muchos monasterios de monjas hay que se les pasa casi todo el año que no oyen sermón por no tener dineros que dar al predicador... Mírese mujeres muchas juntas, y descontentas, y sin doctrina qué harán; y póngase en ello remedio" (Memorial II, n. 96, 3681ss).
Aunque el estado de vida consagrada (religiosa) es mejor, en cuanto que es un signo más fuerte de perfección, no obstante, lo mejor para cada uno es seguir la voluntad de Dios: "Aunque el estado de la religión sea mejor, no para todos es mejor. Mejor es ser religioso que casado; mas acaece que a uno, por su flaqueza, no le es mejor. Mas cuando el estado es en sí mejor, y para éste es mejor, misericordia es de Dios tomar este estado" (Ser 76, 401ss).[85]
Los sermones del Maestro son, a veces, una maravillosa propaganda vocacional hacia la vida consagrada. Aunque llama a todos a la perfección de la caridad (como exigencia del bautismo), dice de los religiosos que son "el corazón" de la Iglesia: "Sabéis que son los religiosos en el cuerpo místico de la Iglesia? El Papa es la cabeza; los brazos, los caballeros; el corazón, los religiosos. Él es el primero que vive y el postrero que muere; él es la fuente del calor, él es el que está más guardado" (Ser 18, 428ss).
Por esto, presenta a la vida consagrada como estímulo para que todos vivan las exigencias evangélicas: "En esto las personas religiosas nos llevan la ventaja; porque si están en el coro, si están en el refitorio, si en el retraimiento, en todas partes están en servicio de Dios... siempre alabando a Jesucristo" (Ser 27, 87ss). Seguir la vocación a la vida consagrada, es un don del Espíritu Santo. Todo se deja "por amor a Jesucristo... Más quiere agradarle a Él y servirlo que ser señor de toda la redondez de toda la tierra" (Ser 29, 476ss). El Espíritu Santo mueve a vivir "en cruz" con Cristo "obediente, pobre, desechado" (ibídem, 564ss).
La práctica de cada uno de los consejos evangélicos
Hemos visto en este mismo capítulo el seguimiento evangélico (y el desposorio con Cristo) como uno de los temas básicos de espiritualidad cristiana. Ahora resumiremos la práctica de cada uno de los consejos evangélicos (la castidad, la pobreza y la obediencia) en este contexto esponsal del seguimiento radical de Cristo por la vida consagrada.
Al hablar de la virginidad (o castidad evangélica), el Maestro se refiere especialmente al desposorio con Cristo que tiene lugar en la vida religiosa (o consagrada) (cfr. Ser 77, 328s). El seguimiento evangélico de los Apóstoles ha sido imitado por las vírgenes y por otras formas de vida consagrada durante la historia posterior. Se trata de compartir la misma vida con Cristo Esposo. No es fruto de una lógica humana, sino un don de Dios. Esta "dádiva de nuestro Señor" sólo la comprenden "aquellos a los cuales es dado por Dios" (ibídem, cap. 14, 1279ss; Mt 19, 11). Es don del Espíritu Santo (cfr. AF cap. 16, 1432ss).
Este camino de desposorio, que es la clave de la vida espiritual, queda descrito en el "Audi Filia", en el que se privilegia el tema de la virginidad por parte de quien es "casta esposa" de Cristo (AF cap. 7, 640). Cristo es el centro del corazón, "donde Cristo solo quiere morar" como Esposo único (AF cap. 8, 746ss). Ya nadie más puede ocupar ese mismo lugar: "Todo aquel lugar ha de ocupar en vuestro corazón Jesucristo, que si os casáredes había de ocupar el marido" (AF cap. 8, 700ss; San Agustín, Serm. 137, cap. 8, 9).[86]
Como era de esperar, siguiendo la tradición espiritual, se presenta la virginidad como camino hacia el encuentro definitivo (escatológico) con Cristo Esposo en el más allá: "Obra habéis comenzado de gran corazón, pues queréis... tener por vía de virtud lo que los ángeles tienen por naturaleza; y pretender particular corona en el cielo y ser compañera de las vírgenes, que cantan el nuevo cantar, y acompañan al Cordero dondequiera que va. Mirad vuestro título, que de presente tenéis, que es ser esposa de Cristo, y el bien que esperáis en el cielo" (AF cap. 11, 1072ss; cfr. Ap 14,4).
Esta línea escatológica se convierte, en esta tierra, en servicio a Jesucristo por la caridad. Quienes son llamados a la virginidad son "personas dadas al servicio de Jesucristo, que por darle vuestra virginidad sois tomados por sus esposas" (Ser 11, 502ss). Por esto, "las vírgenes son la porción más entera que hay en el cielo", como las "primicias" y "las más excelentes moradas que Dios tiene entre los hombres", quien "se huelga en los corazones enteros" (Ser 29, 512ss; cita a San Cipriano, De habitu virginum 3, 22-23).
La virginidad supone grandes renuncias, no sólo en el campo de la sexualidad, sino en el de la afectividad. Pero la renuncia cristiana, también en este campo, es verdadera liberación para entrar en sintonía con el amor esponsal de Cristo, a quien nada ni nadie puede suplir: "Libertóos el Señor para que fuésedes toda suya, y vuestros ojos a Él solo mirasen, como la esposa casta a su solo esposo suele mirar" (AF cap. 56, 5794ss). De ahí deriva el significado cristiano de esta renuncia, "pues la virginidad se toma entre cristianos no por sí sola, mas porque ayude para con más libertad dar el corazón a Dios" (ibídem, cap. 58, 6014ss). Es causa de "mucha alegría" y "estado de fecundidad", a imitación de la Virgen María, quien siendo "Virgen de las vírgenes... dio fruto y no perdió la flor de su limpieza" (ibídem, cap. 105, 10966ss; cfr. Ser 63, 499ss).
Esta alegría y libertad del corazón se convierte siempre en donación y servicio: "Esta dignidad y estado no se ha de escoger por no poder más; no ha de ser sino por Jesucristo, con solo deseo de le agradar y servir... por los amores de Jesucristo" (Ser 29, 527ss; cfr. Cant 1,5). Son numerosas las cartas avilistas dedicadas a "doncellas", en el claustro o también en la soledad de sus casas particulares. Lo importante es "tomar por esposo al Rey celestial" (Carta 33, 3), y consagrarle todo el corazón. Por esto, "aunque el matrimonio es bueno, la virginidad es mejor", porque se imita "a la bienaventurada María, Virgen, Madre y Esposa", Madre de las vírgenes (Carta 38, 191ss). La soledad está llena de Cristo Esposo, quien les da "su compañía en pago de la soledad que acá pasaron por Él" (ibídem, 206s; cfr. Ap 14,4).
La totalidad de la entrega se expresa en el cuerpo y en el corazón. "El cuerpo de la virgen particularmente es de Cristo y tierra suya... Vaso sois, echad toda la hiel, y recebiréis miel... Podad de vos todo lo que Dios no es... sola vos y Cristo" (Ser 40, 96ss; cfr. Cant 2,10-12). La virginidad es como "martirio", porque es una lucha continua por amor (Carta 70, 159ss). En esa lucha hay que invocar al "virginal Esposo y a su limpísima Madre" (ibídem).
La referencia a la Santísima Virgen es en la lógica evangélica, puesto que las personas vírgenes "tienen más semejanza con la Madre Virgen"; por esto, Cristo "se huelga mucho... de ser concebido, nacido y envuelto y tratado de cuerpo virgen, porque Él es virgen" (Carta 84, 9ss). Cristo "quiere ser tratado de brazos y corazones limpios, y por eso se puso en los brazos de la Virgen, y Josef fue también virgen limpísimo, para dar a entender que quiere ser tratado de vírgenes" (Ser 4, 340ss).
A partir del amor a Cristo Esposo, la persona consagrada quiere compartir su misma vida de pobreza. Se imita la misma vida de Cristo, que fue peregrino en este mundo. Comentado la pobreza de Cristo, según Mt 8,20, dice: "No tuvo renta, casa ni posesión. Santa Marta lo acogía como a pobre, y otros le ayudaban con sus haciendas, siendo Él Señor de todas las cosas del mundo, tanto que nace en casa ajena, que el día de su muerte en sábana y sepultura de otro le enterraron e celebraron sus exequias" (Ser 16, 61; cfr. Ser 2, 240ss).
Muchos cristianos, considerando este ejemplo de Cristo, han sentido la llamada a vivir como él. Es la pobreza voluntaria: "¡Qué cosa tan pesada era la pobreza antes que Cristo viniese al mundo, qué aborrecida, qué menospreciada! Pero bajó el Rico del cielo y escogió madre pobre, y ayo pobre, y nace en portal pobre, toma por cuna un pesebre, fue envuelto en pobres mantillas, y después, cuando grande, amó tanto la pobreza, que no tenía dónde reclinar su cabeza" (Ser 3, 206ss).[87]
Cuando habla para personas consagradas, les recuerda el ejemplo de San Francisco: "No ha habido quien tan amigo haya sido de la pobreza" (Ser 78, 12s). De hecho, al resumir los tres votos, empieza por el de la pobreza, porque es el más llamativo en la vida del Señor; tiene también sentido esponsal: "Este voto muchas personas le prometen, mas pocas le guardan y menos son las que llegan a la perfección de la pobreza... Conveniente es a la esposa de Jesucristo no se aficionar a tener hábito de rico paño ni a tener cosas curiosas de mucho precio, sino una simple cama y un oratorio simple y devoto, y que todo lo demás que tuviere dé de sí olor de pobreza" (Carta 224, 55ss).
El tema de la obediencia puede referirse a la virtud general y cristiana de seguir los signos de la voluntad de Dios, manifestados expresamente por los mandamientos y también por quienes tienen la misión de regir la comunidad eclesiástica o civil: "Basta para el cristiano que estime en mucho al pastor, al príncipe, o al maestro, que los ministros de Dios por tal le señalen; que aquellos que tiene las veces de Dios les pongan en aquel estado... y hagan cuenta, en haberlos puesto sus ministros, que el mesmo Espíritu Santo los puso" (Gálatas n.2, 77ss; comenta Gal 1,1).
El Maestro se refiere a la obediencia general en muchas ocasiones. Al tratarse de las personas consagradas, las invita a practicar esta obediencia con mayor asiduidad para no caer en engaños. La obediencia constituye uno de los consejos evangélicos (votos) y se concreta en cumplir las disposiciones de los superiores según las reglas de la institución. Se trata de no buscar la propia voluntad o "libertad" malentendida, sino en orientarse hacia el amor de Dios: "No os espantéis de que tanto os encomiende la obediencia... porque vuestra seguridad está en no querer libertad" (AF cap. 101, 10629ss).
Como en las otras virtudes y consejos evangélicos, el punto de referencia es siempre el ejemplo del Señor: "Mandó César que cada uno fuese a su tierra a escribirse y a dar cierto tributo, y obedicióle Dios, ¿y no tendré yo vergüenza de no seros obediente? Antes que salga del vientre obedece, y no yo. Si es cosa recia resistir a tu voluntad, ahí está Dios en la obediencia, en lo bajo, en el establo. Ahí está el Niño" (Ser 5 -2-, 324ss).[88]
Al hacer la aplicación a personas que se han desposado con Cristo, les recuerda que el camino de la obediencia ha sido siempre el de los santos y de las instituciones de perfección. "Y tened por cierto que aunque mucho busquéis, no hallaréis otro camino tan cierto ni tan seguro, para hallar la voluntad del Señor, como éste de la humilde obediencia, tan aconsejado por todos los santos, y tan obrado por muchos de ellos, según nos dan testimonio las vidas de los santos padres, entre los cuales se tenía por muy gran señal de llegar uno a la perfección en ser muy sujeto a su viejo" (AF cap. 55, 5689ss).
Si en la vida consagrada hay más ocasiones de practicar la obediencia, ello equivale a disponer de más medios de liberación interior. Usando imágenes de la época, afirma: "Echad vuestros pies en el cepo de la clausura, y vuestro cuello debajo del yugo de la obediencia; haceos captivo por Cristo, y aherrojaos por su amor, y tened fuerte; que más anchura hallaréis que en todo el mundo... Obedeced, doncella, abajaos, servid, barred, haced todo cuanto pudiésedes... y más honrado será vuestro collar en el cielo. Perded aquí y ganaréis acullá" (Ser 29, 593ss, 617ss).
No oculta la dificultad de la obediencia, especialmente en la vida consagrada; pero insiste en su importancia y necesidad: "¡Oh señoras, y qué cuerda de la vigüela hemos tocado! ¡Qué vena tan rica hemos descubierto para vosotras, la obediencia! A esta virtud, señoras, de la obediencia es la que habéis de traer muy arraigada en vuestros pechos y metida dentro de vuestros corazones. Obedeced a vuestra perlada y perlado como si el mismo Dios os lo mandase" (Plática 15ª, 290ss; en el monasterio de Santa Clara, Montilla). Pero la dimensión esponsal dará sentido a la renuncia: "Miraos vos en el espejo de vuestro Esposo... Obedecé aunque os cueste la sangre y la vida, que por obediencia la derramó y murió vuestro Esposo. Comed de su mismo plato" (ibídem, 300ss). En otra plática, a las monjas de la Cruz, de Zafra, afirma: "¿Qué será de la esposa de Cristo si obedeciendo Él, no fuese ella obediente?" (Plática 16ª, 494s).
La dificultad de la obediencia deja entrever su valor y necesidad: "Señoras, gran bien tenéis en estar subjetas, en haberos Dios dado quien os mande, y a quien obedezcáis, y por cuyo parecer os rijáis antes que por el vuestro. Sabedlo agradecer" (Ser 78, 356ss; sobre San Francisco de Asís, "en un monasterio de monjas").
La humildad está también en estrecha relación con los votos. Así lo recuerda el Maestro en la Carta 224 ("a una doncella"). La vida de Cristo y de su Madre estaba adornada de esta virtud: "Procure de continuo traer a la memoria la profunda humildad de nuestro Salvador, el cual, siendo Dios, se sometió a la obediencia del hombre, conviene a saber, de la Virgen María, su Madre, y de San Josef, que ansí lo dice el Evangelio" (Carta 224, 310ss; cita y comenta 1Reg 15,22; Fil 2,8; Lc 2,51). La humildad y obediencia de la Virgen Santísima son también el punto de referencia (cfr. Ser 75, 887ss).
La vida comunitaria
Toda la vida cristiana es "comunión" o fraternidad, como reflejo de Dios Amor. La realidad de ser Iglesia, Cuerpo Místico, se concreta en la vida fraterna. El Maestro Ávila se remite a la primera comunidad cristiana de Jerusalén, donde todos eran "un solo corazón y una sola alma" (Act 4,32; cfr. AF 33, 3355ss). Los primeros cristianos, al recibir el Espíritu Santo, mostraban "el grande amor que tenían en sus corazones y entrañas a Jesucristo, y a su santa pobreza" (Ser 29, 427ss; sermón de Pentecostés). Esta vida fraterna y comunitaria se concreta de modo especial en la comunidad religiosa.
La enseñanza de Jesús sobre la unidad (cfr. Mt 18,20; Jn 17,21-23) indica la importancia de reflejar la unidad divina en nosotros: "En gran manera es Nuestro Señor amigo de la unidad; es su oficio ayuntar las cosas apartadas y divididas, y las juntas conservarlas en su unidad. Veremos en esto, si bien miramos, el mesmo ser de Dios, que es... unísima esencia, simplicísima" (Ser 6, 11ss).
La unidad de la comunidad depende de la unidad del corazón: "Y todos generalmente guardad la unidad del corazón, que Cristo oró al Padre... No haya división -que es cosa del infierno- entre los llamados a la santa cristiandad que se llama reino de Dios; no traigan pleito los que son hijos de paz... no haya envidias entre los que so miembros de un cuerpo" (Carta 86, 162ss). Las rupturas de la comunidad se originan en las rupturas del corazón: "¡Oh locura grande la nuestra, que, pensando que nos amamos, nos aborrecemos, y buscando, a nuestro parecer, el bien, caemos en todos los males!" (Carta 148, 6ss, a unos canónigos que habían recuperado la vida fraterna).
La aplicación a la comunidad de vida consagrada aparece también en los consejos dados a sus discípulos que se hicieron jesuitas: "No se turben con la diversidad de las condiciones que en las comunidades suele haber, mas piensen que hasta que uno es probado con prójimos, es muy poco lo que de Dios tiene. Y a esto principalmente enderecen sus fuerzas... a llevar injurias con alegría. Pongan sobre sí los ojos y no curen de hacerse maestros de otros" (Reglas de espíritu, n.4: Avisos para D. Diego de Guzmán y el Dr. Loarte para entrar en la Compañía).
La vida comunitaria no se fundamenta en grandes cualidades humanas, sino en el servicio humilde que exprese la donación, porque "aunque sea fregar escudillas, es convertir almas" (ibídem, 33s). Son los servicios humildes hechos por amor al Señor y a los demás. "¿Sabéis a qué entra en el monasterio? A fregar, si se lo mandaren; a abajarse, a ser esclava de las otras y a besar la tierra que las otras huellan" (Ser 76, 364ss, con ocasión de la toma de velo de la condesa de Feria, en el monasterio de Santa Clara de Montilla).
La vida fraterna de la Sagrada Familia en Nazaret es modelo para toda comunidad. Se describe especialmente la figura de San José, alabando a Dios por las cualidades de Jesús y de María, admirando "tanta humildad, tanta caridad y tanta virtud en aquella Señora que por esposa le había sido dada", adorando, al mismo tiempo, "al bendito Niño Jesús, siendo informado que estaba en el vientre de nuestra Señora" (Ser 75, 586ss).
d) Vocación al sacerdocio ministerial
El tema del sacerdocio encuentra abundante materia en la doctrina avilista y en el testimonio del mismo Maestro. Lo desarrolamos ampliamente en el capítulo siguiente (cap.III).
En los escritos avilistas aparecen los temas básicos: Cristo Sacerdote, Iglesia pueblo sacerdotal (sacerdocio de los fieles), sacerdocio ministerial, ministerios, espiritual, formación... El tema merece un estudio especial, que ofrecemos en el apartado siguiente. En el presente capítulo, nos ceñimos a unas nociones generales sobre la vocación sacerdotal.
La vocación, como hemos visto en este mismo capítulo, es un don de Dios, expresado por medio del "sígueme", "recia palabra" (Plática 16ª, 67), que Jesús dirige a algunas personas y, de modo especial, a los Apóstoles. Así describe la vocación de San Mateo: "Sígueme. Levántase de su banco, dejado todo lo que tenía delante; deja los libros, deja las cuentas y deja los dineros. Vase tras Jesucristo" (Ser 77, 59ss).[89]
El Maestro Ávila insta a una buena selección de los candidatos al sacerdocio: "Los que hubieren de ser elegidos para estos colegios sean de los mejores que hubiere en todo el pueblo, haciendo inquisición de ello muy de raíz el obispo y los que el concilio le señalare por acompañados. Y de esta manera vendrán llamados y no injeridos, y entrarán por la puerta de obediencia y llamamiento de Dios" (Memorial I, n.17, 458ss; cfr. Memorial II, n.91, 3407ss).
Hay dos cartas (nn. 7 y 8), dirigidas respectivamente"a un mancebo que le pidió consejo si sería sacerdote" y "a un sacerdote", en las que se pueden encontrar criterios de discernimiento de la vocación. En el primer caso desaconseja seguir la vocación sacerdotal, por no haber intención recta ni buenas disposiciones. En la segunda carta (al sacerdote) le alienta a perseverar en la vocación para poder hacer mucho bien a las almas; si se ponen los medios necesarios (oración y estudio), se pueden superar las dudas y dificultades.
La idoneidad, además de la recta intención y libre voluntad, consiste en tener las cualidades necesarias: "Han de procurarse sea gente de la cual se entiende que vive Dios en ellos, amigos de virtud, aficionados a las cosas de la Iglesia, probados en la castidad" (Advertencias I, n.39, 1405ss).
La selección y formación comienza ya en lo que yo llamamos pastoral vocacional (en las familias, parroquias, escuelas...). El Maestro recomienda encargar este servicio a personas cualificadas: "Y para hallar éstos es menester que los obispos tengan en cada pueblo personas de fiar que los inquiran y procuren, informándose de los maestros de las escuelas y de los lectores de gramática" (Advertencias I, n. 39. 1412ss).
Sobre la escasez de vocaciones, hace una observación muy al estilo evangélico: "Y, si acaso los obispos del sínodo dijeren que no se halla de esta gente; dígales que es grande engaño pensar que nuestro Señor falte en dar tales personas en su Iglesia, que puedan ser ministros verdaderos suyos. Porque el mismo Dios, que pide que sean sus ministros tales y derramó su sangre por tenerlos, ha puesto su Espíritu divino en muchos para poder serlo; y el parecer que no los hay es porque no los buscan los perlados, ministros del Señor, cuyo es este cuidado" (ibídem, 1417ss).
Nota: El tema sobre la vocación, vida y ministerio sacerdotal será ampliamente desarrollado en el capítulo siguiente (III).
III
MAESTRO DE ESPIRITUALIDAD SACERDOTAL
1. EL SACERDOCIO CRISTIANO
En este proceso histórico de sistematización de la doctrina sacerdotal, San Juan de Ávila (s. XVI) es un eslabón imprescindible. En sus escritos se pueden encontrar todos los contenidos fundamentales, con formulaciones, a veces, distintas de las nuestras, pero siempre basadas en la Escritura, tradición (Padres), magisterio, teólogos y santos. Su fuerte reflexión, tomista y agustiniana, parte de los contenidos evangélicos y paulinos.[90]
a) Cristo Sacerdote y Buen Pastor
La doctrina avilista sobre Cristo Sacerdote es dinámica, a partir de su mediación redentora. Por ser Dios hecho hombre, su mediación es perfectamente salvífica. Es sacerdote y víctima porque su mediación se realiza ofreciéndose él mismo en sacrificio. "Catad que tenemos negociador en la corte" (Juan I, lec. 6ª, 1285s). Nuestra "causa" es la suya (cfr. Ser 53, 430ss). "Sepan todos que otro medianero principal no hay si El no" (Ser 34, 105). "El Padre Eterno puso un Medianero entre nosotros y El para que por su medio alcanzásemos misericordia" (Carta 222, 262ss).
La unción sacerdotal de Jesucristo tiene lugar en la Encarnación. Por esto el Señor es el "Cristo" o "Mesías" ("ungido"): "Jesucristo es ungido propiamente, es nombre de nuestro Señor" (Juan I, lec. 16ª, 4724s). De este modo, Cristo es el "principal sacerdote y fuente de nuestro sacerdocio" (Tratado sobre el sacerdocio, n.10, 342s)[91]. De su sacerdocio participa toda la Iglesia, cada bautizado según la gracia peculiar recibida.
Su "unción" o consagración no es de dominio o de privilegios, sino de servicio e intercesión: "Sacerdote es, porque en cuanto hombre está delante del Padre rogando por nosotros... Ungido viene, no con aceite, sino con sangre; y si ungido, no viene bravo, sino blando y manso" (Ser 1,162ss).
Cristo es Sacerdote y víctima porque, desde la Encarnación, se ofreció "a la redempción del linaje humano" (Gálatas n.31). Su mediación es sacrificial y redentora: "El Padre Eterno puso un Medianero entre nosotros y Él para que por su medio alcanzásemos misericordia" (Carta 222, 262ss). "Jesucristo se puso en medio de Dios Padre y de mí, y Él recibió los golpes en sí mismo y en Él me perdonó el Padre lo que yo había de pecar" (Ser 3, 682ss). "Sepan todos que otro medianero principal no hay si Él no" (Ser 34, 105).
Con este ofrecimiento sacerdotal, Cristo lleva a cumplimiento las realidades sacrificiales del Antiguo Testamento, puesto que "en todas ellas estaba Cristo como encerrado" (Gálatas n.11, 1791s; cita Heb 10,5-7). Como redentor, es también "legislador" (ibídem, 1837s).
Jesucristo Sacerdote sobresale sobre todas las figuras veterotestamentarias que le precedieron y prepararon: "Si de fuera lleva el gran sacerdote escritos los nombres de los doce hijos de Israel sobre sus hombros, y también en su pecho, muy mejor el nuestro los tiene encima sus hombros, padeciendo por los hombres, y los tiene escritos en su corazón" (AF cap.78, 8178ss). "Y no falta aquí la vara sacerdotal, pues este Señor, por institución y juramento irrevocable de su Padre eterno, es Sacerdote para siempre, según el orden de Melquisedec, sacerdote más digno que el de Aarón" (Ser 35, 155ss; cfr. Sal 109,4). Jesús, como "Pontífice Sumo", ha penetrado los cielos con el sacrificio de su propia sangre (cfr. Ser 67, 666ss)
La realidad sacerdotal y sacrificial de Cristo se resume así: "Cristo fue sacerdote y sacrificio; Él fue el que ofreció y lo que ofreció fue, como dice San Pablo, que ansí como Abel ofreció a Dios corderos de su manada, y pareció bien a Dios aquel sacrifico, ansí Cristo se ofreció a sí, cordero sin mancilla, y agradó a su Padre" (Juan I, lec.16ª, 4733ss; se refiere a la carta a los Hebreos).[92]
El Maestro va presentando la realidad sacerdotal de Cristo desde su interioridad o desde su Corazón. Los amores de Cristo Sacerdote por su esposa la Iglesia (Ser 6, todo) se manifiestan en su inmolación en la cruz y en el derramamiento de su sangre. "¿Qué te parecería un día de la cruz por desposarte con la Iglesia, y hacerla hermosa, que no la quedase mancilla ni ruga?" (Amor, n.8, 352ss; cfr. Ef 5,25-27).[93]
La interioridad de Cristo Sacerdote se resume en las "miradas", que son un tema avilista muy peculiar: mirada al Padre para seguir sus designios, mirada a la humanidad necesitada (pecadora) y mirada a sí mismo para inmolarse. Su amor sacrificial hacia nosotros se origina en su mirada al Padre: "No nace este amor de mirar lo que hay en el hombre, sino de mirar a Dios y del deseo que tiene de cumplir su voluntad" (Amor n.11, 469ss). Nos mira, pues, "en el eterno Padre" (ibídem, n.4, 92ss). El Maestro se entusiasma ante esa mirada de amor entre el Padre y el Hijo: "¡Miraos, siempre, Padre e Hijo, miraos siempre, sin cesar, porque ansí se obre mi salud!" (Amor n.12,492ss).
La figura del Buen Pastor resume también la realidad sacerdotal y sacrificial de Cristo, que lleva a su plenitud toda figura anterior, desde el justo Abel, quien "es figura de nuestro justo y soberano pastor, el cual dice de sí: Yo soy el Buen Pastor. Y también es sacerdote; y, por consiguiente, como dice San Pablo, ha de ofrecer dones y sacrificios a Dios... No tenía este gran sacerdote qué ofrecer por los pecados del mundo, sino a sí mismo... somos lavados de nuestros pecados, mirados de Dios, y agradables a Él, como sacrificio ofrecido por ese sumo Sacerdote y Pastor" (AF cap.87, 9202ss; relaciona Jn 10,10 con Heb 5,1).
La caridad pastoral o celo apostólico se inspira en la figura del Buen Pastor. El Maestro Ávila glosa los contenidos de Juan 10 (el buen pastor) y de Lucas 15 (la oveja perdida). Pero tiene también en cuenta el transfondo veterotestamentario de Dios Pastor y del futuro pastor, el Mesías, anunciado por los profetas (cfr. Ser 79,80ss: Isaías; 185ss: Ezequiel).
La predicación sobre Cristo Buen Pastor suscita profunda confianza: "Encorporados en Él, somos lavados de nuestros pecados, mirados de Dios y agradables a Él, como sacrificio ofrecido por este sumo sacerdote y pastor" (AF 87, 9202ss; cita 1Pe 3,18). El motivo principal consiste en que el Padre mira a "nuestro justo y soberano pastor", por cuya "sangre" hemos sido "ataviados con la hermosura de su gracia y justicia" (ibídem). Por esto "las ovejas" quedan invitadas a "velar y orar al verdadero pastor" (AF cap.29, 2805s).[94]
En Cristo Buen Pastor se manifiesta la elección y el amor de Dios hacia nosotros. El sermón 15 explica ampliamente el tema, comentando el cap.10 de San Juan. La iniciativa de amarnos es suya: "Por su gracia nos eligió" (Ser 15,59s). Nuestra confianza se apoya en ese amor, que cuida premurosamente de cada una de las ovejas: "¡Buen Pastor tenemos, que nos escogió para guardarnos y de tanto tiempo!" (ibídem, 76ss). Su conocer es amar, hasta derramar su sangre (como cordero y pastor) y curar a "la ovejita coja y cansada" (ibídem, 155s). Nos invita a seguirle con confianza: "Alegraos, que, si alguna vez cayésedes, Buen Pastor tenéis que volverá y sacará del barranco" (ibídem, 446ss). No desfallece quien medita en su pasión: "Mirando que mi pastor, sólo por sacar mi ánima de entre las espinas, porque no me espinase, quiso Él entrar en ellas y espinarse" (ibídem, 520ss).
El Maestro Ávila llama a la conversión, describiendo al Buen Pastor con la oveja ya reencontrada: "¿Habéis visto tan lindo cielo estrellado, como ver a Jesucristo venir con la ovejita en sus brazos?" (Ser 19, 333ss). El término sangre indica su donación total: "¿Qué pastor hubo que apacentase sus ovejas con la propia sangre de él?" (Ser 50, 307ss; cfr. Ser 79, 80ss).
A veces, la descripción sobre el Buen Pastor se une al tema de la presencia eucarística: "Dios humanado... Jesucristo, Médico y Pastor amoroso, está entre nosotros" (Ser 54, 355-415). Su amor trasciende nuestros pecados y miserias: "Bien conoció el Eterno Padre la flaqueza de los hombres, y por eso el Pastor que nos envió les henchió primero de tan grandísimo amor para con sus ovejas, que por mucho que ellas tengan pesadumbres y faltas, Él tiene mucho más sin comparación para las sufrir y llevar encima de sus hombros" (ibídem, 681ss).
El tema está relacionado con Cristo Redentor. La cercanía de Cristo a las necesidades hunanas constituye "lo más entrañable de su corazón" (Carta 20 -1-,180s). Es que "llevó a cuestas nuestros pecados, pagando por ellos, y tráenos en su seno, porque nos tiene tan guardados" (Ser 79, 82ss; cita Is 40,11).
Quienes dirigen la Iglesia han sido elegidos "para pastores y criadores del ganado, que los apacienten en los pastos de ciencia y doctrina... y aunque sea con derramar sangre y dar la vida, como hizo Cristo, y dijo que este tal es el Buen Pastor" (Advertencias I, n.6; cfr. Ser 81, 88ss). Por esto, el Maestro invita a la renovación sacerdotal: "¡Oh eclesiásticos, si os mirásedes en el fuego de vuestro pastor principal, Cristo, en aquellos que os precedieron, apóstoles y discípulos, obispos mártires y pontífices santos!" (Plática 7, 92ss).
El tema se complementa con la referencia a María, "nuestra Pastora" (Ser 15,23), que es modelo del cuidado materno que ha de tener todo pastor: "Pastora, no jornalera que buscase su propio interés" (Ser 70,737ss).[95]
b) Iglesia, pueblo sacerdotal
La eclesiología del Maestro Ávila se expresa con los títulos bíblicos de "cuerpo", "esposa", "pueblo". La imagen paulina de "cuerpo" invita a construir la armonía, la comunión y el crecimiento espiritual. La expresión "esposa" presenta los contenidos de relación con Cristo Esposo, de seguimiento evangélico, de alianza esponsal y de entrega.[96]
La Iglesia es "pueblo" sacerdotal (cfr. 1Pe 2,9-10; Ser 73,4ss). En realidad, el término indica propiedad esponsal ("esposa") y tiene connotación comunitaria (como el título "cuerpo"). El Maestro usa también el término "congregación": "Otro nombre tiene esta compañía general, que comprende todos éstos, que es Iglesia, el cual quiere decir congregación; porque toda esta congregación recibe gracia por Jesucristo" (Juan II, lec. 2ª, 239ss; cfr. Ef 4,15).
En el ámbito sacerdotal, se trata del sacerdocio de los fieles, es decir, de todo el pueblo de Dios. El Señor "a los cristianos hízolos sacerdotes en el espíritu... así todo cristiano tiene poder para en el altar de su corazón sacrificar a Dios" (Juan I; 16ª, 4756ss). Por el bautismo, participamos de la realidad filial y sacerdotal de Cristo: "Nos hizo hijos siendo Él Hijo, y sacerdotes siendo Él Sacerdote" (Carta 1, 14ss).
Ésta es una de las ideas más repetidas por el Maestro, hasta el punto que el camino de la contemplación y de la perfección (al que están llamados todos los bautizados) es un proceso de oblación sacrificial o de donación por amor. Esta participación sacerdotal es la más importante para todo cristiano: "Y ofreciéndote a ti de esta manera, haces al Señor más señalados servicios en esto que si mil mundos le dieses" (Ser 43, 680ss). Así es el sacrificio del corazón: "Pareceos que es poquito bien éste que Cristo nuestro Redemptor os hizo, que tengáis derecho para ofrecer a Dios vuestro corazón y que le parezca a Dios bien?" (Juan I, lec.16ª, 4762ss).
El término "espiritual", aplicado al sacerdocio de los fieles, significa el cumplimiento del Antiguo Testamento en la plenitud de Cristo. Comentando los textos de Ap 5,10 y 1Pe 2,9, afirma: "Una manera hay de sacerdocio espiritual, y éste conviene a chicos y grandes, casados, hombres y mujeres. Dándosele gracias al Cordero, le dicen: Fecisti nos Deo regnum et sacerdotes. Gran merced hacernos reyes, libres y francos, Lo cual declara San Pedro: Vos estis genus electum, regale, etc., pueblo escogido, linaje real" (Ser 73, 4ss; cfr. 1Pe 2,9).
La llamada a la santidad y el camino hacia la misma, es un proceso de oblación sacerdotal, en el que se ha comprometido todo cristiano. El reino de sacerdotes equivale a reino que se rige por la nueva ley del amor: "Que no en balde se dice en la Escriptura el reino de los fieles reino sacerdotal, sino porque no sólo ha de ser regido por humana razón, para alcanzar su fin y ser llamado humano, mas también con la ley divina, para ser llamado santo y cristiano, pasando de lo humano a lo divino, como cuando a uno baptizan y le ponen nombre nuevo" (Carta 11, 249ss).
El significado del sacerdocio "espiritual" de los fieles es eminentemente esponsal: "Nos llamamos esposa suya toda la congregación de los fieles" (Ser 6,64s). De ahí la urgencia de fomentar entre los cristianos el deseo de santidad o de perfección. Todo creyente está llamado a compartir la oblación sacrificial de Cristo Esposo: "Él mismo se ofrece a Dios en recompensa de que el mismo Dios se da a él" (Ser 43, 69311). La oblación de Cristo reclama nuestra propia oblación (cfr. Ser 81, 100ss).
El sacerdocio ministerial está ordenado a hacer posible la oblación sacerdotal de todo el pueblo de Dios. De ahí deriva el celo apostólico por "formar a Cristo" en los creyentes (cfr. Gal 4,19): "¡Cómo tendrá paciencia en ver las esposas de Cristo enajenadas de El y atadas con ñudo de amor tan falso como el que el Señor aborrece!" (Carta 208,11ss).
Los elementos fundamentales del sacerdocio común de los fieles son, pues: participación en el sacerdocio de Cristo por medio del bautismo (unción), posibilidad de ofrecerse a sí mismos unidos al sacrificio de Cristo (actualizado en la Eucaristía), relación y diferenciación respecto al sacerdocio ministerial.
c) El sacerdocio ministerial
Se participa en el sacerdocio de Cristo (en grado y en modo diverso), por medio del bautismo, de la confirmación y del Orden. La doctrina avilista sobre el sacerdocio ministerial es muy abundante, aunque se refiere preferentemente al actuar "en persona de Cristo" (Carta 157,264).[97]
Los conceptos con los que se expresa la realidad sacerdotal giran en torno a la participación en la unción de Cristo, la representación de su persona, la prolongación de su acción apostólica y la imitación de su mismo estilo de vida. Es una transformación que hace posible su representación: "Ha de ser la representación tan verdadera, que el sacerdote se transforme en Cristo" (Tratado sobre el sacerdocio, n.26, 1025s). Por esto, "el sacerdote representa en la misa a Jesucristo nuestro Señor" (ibídem, n.10, 342s).[98]
La representación y prolongación se convierten en imitación: "Quiso Jesucristo dar parte a los sacerdotes para que exteriormente pudiesen ofrecer sacrificios" (Juan I; 16ª, 4755ss). "Allí (en los sacramentos de la Eucaristía y de la penitencia) representamos y prolongamos su sagrada persona, y decimos las palabras en persona de Él" (Plática 1ª, 64ss). En este sentido se puede decir que "Dios obedece a la voz del hombre en las palabras de la consagración" (ibídem, 63s). La consecuencia que se sigue es la de la imitación, porque "nos veremos todos enteros consagrados al Señor con el trato o tocamiento del mesmo Señor" (ibídem, 89s).
Las exposiciones del Maestro Ávila son descriptivas y llevas de colorido, para hacerse entender y para invitar a la perfección sacerdotal. Así ocurre principalmente en las pláticas y cartas a los sacerdotes. La celebración eucarística es el principal punto de referencia: "En el oficio sacerdotal representamos la persona de Jesucristo nuestro Señor" (Plática 2ª, 223s). "En la Misa nos ponemos en le altar en persona de Cristo a hacer el oficio del mismo Redentor" (Carta 157, 264ss). Por hacer al Señor presente, "relicarios somos de Dios, casa de Dios y, a modo de decir, criadores de Dios" (Plática 1ª, 123).
La doctrina sacerdotal, que supone la participación en la unción de Cristo, se orienta hacia el obrar apostólico como "personas públicas" o "embajadores" de Cristo (cfr. Plática 13ª, 7ss). El sacerdote es "padre de todos" (Plática 2ª, 135ss). Esta realidad eclesial del sacerdotes se concreta en que Dios "no mira a los merecimientos de aquel sacerdote en particular, sino mira a los merecimientos de la Iglesia universal, en cuyo lugar ofrece el sacerdote aquello" (ibídem, 10ss).
El carisma sacerdotal es para el bien de toda la Iglesia, puesto que "somos los ojos de la Iglesia, cuyo oficio es llorar los males todos que vienen al cuerpo" (Plática 2ª, 449ss). Más concretamente, con respecto al ministerio de la reconciliación: "¡Cuán mal te sabemos agradecer el poder que has dado a los sacerdotes y cómo los has hecho despenseros de tus merecimientos!" (Ser 58, 157ss).
Esta donación eclesial de ser "enseñadores" (Ser 55, 784) y "guardas de la viña" (Ser 8, 600s) explica el sentido ministerial del sacerdote ordenado: "Suya es la obra; ministros suyos somos nosotros, y quiere especialmente nuestra fe y caridad y paciencia, con que no veamos luego el provecho que deseamos" (Carta 136, 39ss).
Apoyado en este doctrina, el Maestro pide a Trento una mejor selección y formación de los candidatos, "porque no tengamos la liviandad de mozos que ahora tenemos por presbíteros, sin serlo en edad, ni seso, ni santidad. Y contra esto no se dispense" (Memorial I, n.36, 1005ss). Y al concilio de Toledo pedirá la aplicación de las normas tridentinas: "Pídese también bondad y todo lo demás requisito para un tal ministerio" (Advertencias II, n.41, 622s; cfr. Ses.23, cap.14 de Trento).[99]
La doctrina sacerdotal avilista se refiere a obispos y presbíteros. Pero es importante observar, por una parte, la insistencia en la renovación del episcopado, y, por otra parte, la estrecha relación entre obispos y presbíteros, que forman, con los diáconos, la unidad del Presbiterio (de que hablaremos más adelante en este mismo capítulo). La clave se encuentra en la sucesión apostólica, que reclama una vida según el estilo de los Apóstoles: "Como un apóstol moría, dejaba otro para que entendiese en lo que él. ¿Por qué pensáis que se llama Ecclesia apostolica? Porque viene desde allí, y así tenemos el catálogo de los Papas desde San Pedro, para que sepamos que viene la secuela desde él" (Plática 9ª, 60ss).
Los obispos y presbíteros, con la ayuda de los diáconos, se entregan al bien de la Iglesia diocesana (llamada "particular" o "local"). La vida pastoral tiene sentido de servicio ("ministerio"), sin derecho a privilegios: "¡Oh dichosas ovejas que en tiempo de tal Pastor fueron vivas, y dichosas lo serán la que cayeren en manos de prelado que imitare este celo! Él así lo dejó ordenado: que el Papa quedó en su lugar, y los prelados suceden a los Apóstoles, y los curas a los setenta y dos discípulos, como San Hierónimo dice; y éstos son de la intrínseca razón de la Iglesia; y los religiosos son añadidos para ayudar a los prelados y curas" (Ser 81, 88ss).
Teniendo en cuenta la situación en que se encontraba el clero de entonces (obispos y presbíteros), no es de extrañar la insistencia del Maestro en la renovación de los obispos (elección y cualidades), como principio de la renovación eclesial. No habría buenos sacerdotes (presbíteros) si no hubiera buenos obispos: "Elíjanse hombres de prudencia natural, de letras sólidas, de buena vida y ejemplo; déseles instrucción: qué materias han de predicar y con qué modo" (Memorial II, n.43, 1869ss, 1883ss).
El desposorio con la Iglesia de parte de todo sacerdote ministro (obispo y presbítero) se realiza en el servicio de caridad concreta hacia los más necesitados. Por esto ha de mirar "cómo se ejercita el catecismo de los rudos; qué cuidado tiene de las viudas, pobres y personas miserables, de las cuales es padre el obispo... Tenga cuenta que de aquí adelante no será elegido a dignidad obispal persona que no sea suficiente para ser capitán del ejército de Dios, meneando la espada de su palabra contra los errores y contra los vicios, y que pueda engendrar hijos espirituales a Dios, pues es esposo de su Iglesia, y en señal de ello trae anillos en sus manos" (Memorial II, n.42, 1823ss).
La doctrina actual del Vaticano II sobre la pobreza del obispo y del presbítero (cfr. PO 17) es una enseñanza permanente, ya recordada por el Maestro Ávila al remitirse a los concilios antiguos. Así, pues, "en lo que toca a sus personas y casas" (Advertencias I, n.1), o la morada del sacerdote, el Maestro invita a que "cualquiera halle en ella olor de cielo muy mayor que en las casas de las más estrechas religiones. Que, pues el estado es más perfecto que de religiosos, justo es que lo sea la vida y todo lo demás" (Advertencias I, n.5, 177ss). De otros modo se estaría en oposición con la figura de Cristo clavado en cruz (ibídem, n.5) y Buen Pastor (ibídem, n.6). El Maestro no deja de detallar: muebles, comida, criados, rentas... (Advertencias I, nn.7-13). Insiste también en aplicar las directrices de Trento sobre la residencia en la diócesis (ibídem, n.16).
El rechazo del sacerdocio ministerial por parte de los reformadores, pudo ser debido a los abusos por parte de los pastores: "Y es una justa permisión que, pues han dejado la santidad, por la cual fueron amados, y reverenciados, y obedecidos como padres y pastores verdaderos, les haya permitido el Señor venir a dar en majestad y vanidad de mundana pompa por ser tenidos como lobos y tiranos" (Advertencias I, n.2, 75ss).
El oficio episcopal, con la necesaria cooperación de los presbíteros, consiste en la oración, la enseñanza, el testimonio y la dirección de la comunidad, puesto que son "los pilotos de la navecilla de San Pedro... Ellos son la guía que enseñan los caminos" (Advertencias I, n.4, 124). En este sentido, "debían mirar que tienen el oficio de Moisés y que ellos son los que tienen que subir al monte y hablar con Dios; y que cual tienen el oficio había de ser su vida, llena de resplandor de rostro, y en sus manos las tablas de la Ley... habían de tener tan gran resplandor de doctrina y tan gran observancia de la Ley para el buen ejemplo, que bajasen tras sí aun a los muy malos" (ibídem, n.4, 149ss).
El modelo a que se remite el Maestro es el de los Apóstoles, puesto que los sacerdotes ministros son "el retrato de la escuela y colegio apostólico, y no de señores mundanos" (Advertencias I, n.4, 162s).
De la renovación de los obispos depende la renovación de sus sacerdotes y de toda Iglesia particular: catedrales, predicadores y confesores, Seminarios, seglares, juventud, colegios y educación cristiana en general (cfr. Advertencias I, nn.33-52). La predicación será su principal ministerio (ibídem, n.17). La visita pastoral, practicada con la periodicidad conveniente, ha de ir acompañada por la predicación, sacramentos, caridad hacia los necesitados y reforma de vida; habrá que celebrar también los sínodos diocesanos e interdiocesanos (ibídem, nn.19-23).
La carta 177 (dirigida a Don Pedro Guerrero) es toda ella un plan de vida para el obispo, con repercusión en los sacerdotes y en toda la comunidad eclesial. De su vida de oración, dependerá la calidad de su predicación. La actuación ministerial debe ser sin favoritismos de parte, cuidando de la disciplina eclesial, del propio testimonio de pobreza, de la atención a los pobres y de la formación de predicadores.[100]
La referencia al diaconado permanente de los primeros siglos (recuperado de nuevo a raíz del Vaticano II), sirve para recordar la misión evangelizadora de todo ministro del Señor, especialmente de los párrocos: "En el principio de la Iglesia era oficio del diácono catequizar a los que habían de ser cristianos, instruyéndolos en los artículos de la fe y purgándolos de las malas costumbres... Mas ahora, como cesó el oficio de los diáconos, está a cargo del cura enseñar a los parroquianos lo que les conviene obrar para que se salven" (Tratado sobre el sacerdocio, n.38, 1398ss).
El diácono se cuidaba también del campo caritativo, colaborando con el obispo: "En la Iglesia primitiva, los diáconos eran como los ojos de los obispos, para mirar las necesidades y peligros de ofender a Dios, par que el obispo, siendo de ello avisado, pudiese remediarlo" (Advertencias I, n.25, 853ss; cita a San Clemente, Constit. Apost. lib.2, cap.3).
2. LOS MINISTERIOS SACERDOTALES
La acción ministerial, realizada y descrita por el Maestro Ávila, abarca los tres campos principales de la pastoral: predicación, sacramentos, servicios de caridad y dirección. Más que cada uno de los ministerios por separado, conviene ver el conjunto armónico y equilibrado, tal como aparece en el concilio Vaticano II (PO 4-6) y en el postconcilio (PDV 13-18), gracias a la referencia explícita al Buen Pastor (caridad pastoral).
En el Maestro Ávila, la referencia a Cristo Buen Pastor (que hemos visto en el apartado anterior) es determinante, tanto para captar el enfoque de los ministerios (el presente apartado) como para enfocar mejor la espiritualidad (el apartado siguiente). La acción pastoral del sacerdote ministro se presenta como prolongación de la misma acción del Señor, por el hecho de obrar en su nombre.[101]
a) La dedicación a los ministerios sacerdotales
Toda la pastoral sacerdotal gira n torno a dos coordenadas: línea vertical (hacia Dios y desde Dios), línea horizontal (hacia los hermanos y desde la propia entrega y testimonio). "Los sacerdotes somos diputados para la honra y contentamiento de Dios y guarda de sus leyes en nos y en los otros" (Plática 1ª, 235ss). Por ello mismo, los sacerdotes se distinguen por ser "abogados por el pueblo de Dios, ofreciendo al unigénito Hijo delante del alto tribunal del Padre... maestros y edificadores de ánimas" (Memorial I, n.12, 317ss).
Por el hecho de ejercer "una misión en Jesucristo" (Ser 27,55s), los pastores son "ayudadores" o continuadores de esta misma misión del Señor. El celo apostólico, llamado también celo de almas, equivale a vivir en sintonía con los deseos salvíficos de Cristo: "¡Oh si tuviéramos atravesadas en el corazón estas joyas que trujeron atravesado el del Señor, hasta ponerlo y alancearlo en la cruz!" (Carta 208, 12ss).
La misión pastoral del sacerdote es prolongación, en el tiempo, de la misma misión del Señor: "Y porque hobiese más voces que predicasen y más médicos que curasen las ánimas, aunque Él solo lo podía hacer, quiso tomar ayudadores para tener ocasión de les galardonar sus trabajos y de hacer bien a los otros por medio de aquestos ayudadores" (Ser 81, 73ss).
La vida y ministerio sacerdotal se mueve en la línea de San Pablo: "Vivo estaba el Apóstol para Dios, pues con tanto cuidado entiende en las cosas que tocan a su servicio" (Gálatas, n.27, 1225ss). Comentando Gal 4,19 y 1Tes 2,7, describe la actitud paulina: "Debía de tener entendido el Apóstol que haberle hecho Dios pastor en su Iglesia no había sido hacerle señor, sino padre y madre de todos" (Gálatas n.42, 2262ss).
La acción pastoral tiende con preferencia al "cuidado de curar las ovejas enfermas. atar las perniquebradas, esforzar las flacas, mantener y engordar las sanas" (Memorial II, n.8, 250ss). Para ello se necesita una preparación adecuada: "¿Cómo ejercitarán el oficio de médicos, pues nunca aprendieron el arte?" (ibídem, n.10, 341s).
Los pastores, como los pilotos de navíos, no pueden quedar "dormidos" (cfr. Ser 73, 130ss). Los mismos pastores deben ayudar a los creyentes a despertarse, como el ángel que despertó al profeta Elías (cfr. 3Reg 19,4-6): "Fue oficio de sacerdotes, oficio de ángeles de Dios, convidar, rogar, importunar a los dormidos, a los desmayados, a los temerosos" (Ser 46, 577ss). Dios mismo es quien quiere pastorear por medio de pastores que sean fieles (cfr. Ser 54, 309ss; Ez 34,10-16).
La acción pastoral exige "ferviente y eficaz oración, y también santidad... y más particular obligación tiene de dar ejemplo a sus parroquianos" (Tratado sobre el sacerdocio, n.36, 1342ss). El Maestro insta a la santificación personal en relación con el ministerio: "Rigiéndoos bien a vosotros, regís al pueblo" (Plática 1ª, 215s). La acción apostólica exige santidad en el ministro: "Allende de esta obligación que tiene de ser buen sacerdote y de guardar su propia conciencia, sucede el tener por oficio ayudar y enseñar las ánimas de los feligreses, cosa que requiere, como San Gregorio dice, no menor santidad que para ofrecer el santo sacrifico del altar" (Tratado sobre el sacerdocio, n.37, 1361ss; cfr. San Gregorio Magno, Regla pastoral, parte 1ª, cap.10).
La relación entre vida interior y acción pastoral se resuelve en unidad de vida. Cuando nacen de la caridad e imitación de Cristo Buen Pastor, uno y otro aspecto de la vida sacerdotal se armonizan y postulan mutuamente: "Trabajo es mirar uno por sí solo, y más que doblado por sí y por otros; y pocos hay que sepan cumplir con estas dos partes, que no defrauden a alguna, según cada uno se aficiona más o menos" (Carta 136, 3ss). Se armonizan la oración y la acción "mezclando la una vida con la otra, y así vuestra merced lo haga, no descuidándose de lo uno por lo otro" (ibídem, 12ss).
Frecuentemente daba este consejo a sus discípulos: "El ministro del Evangelio" se da a "las ocupaciones de las ánimas", de suerte que, al mismo tiempo, le permitan "seguir él su camino" y aprovechar "de virtud en virtud" (cfr. Carta 228, 81ss).[102]
b) Ministerio de la Palabra
El ministerio de la predicación ocupa un puesto de preferencia en el apostolado sacerdotal. Por parte de los obispos, "predicar a sus ovejas" es "oficio principal" (Advertencias I, n.17, 477ss).[103]
Para que el sacerdote esté a la altura de este ministerio profético, necesita profundizar en la formación teológica, pastoral y espiritual (cfr. Advertencias I, n.34). Se ha de predicar "doctrina de palabra de Dios y de los santos, dicha con calor de Espíritu Santo" (Memorial II, n.12, 499ss).[104]
El Maestro deja constancia de las lagunas de la época respecto a esta materia. Refiriéndose a San Pablo, afirma: "Éste sí es buen predicador,que no los que son el día de hoy, que no hacen sino hablar. ¿Pensáis que no hay más sino leer en los libros y venir a vomitar aquí lo que habéis leído?" (Ser 49, 173ss). En el Memorial primero para el concilio de Trento, se queja con estas palabras: "Restan los predicadores de la palabra de Dios, el cual oficio está muy olvidado del estado eclesiástico, y no sin gran daño de la cristiandad. Porque como éste sea el medio para engendrar y criar hijos espirituales, faltando éste, ¿qué bien puede haber sino el que vemos, que, en las tierras do falta la palabra de Dios, apenas hay rastro de cristiandad?" (Memorial I, n.14, 345ss).[105]
La predicación, por ser anuncio evangélico, incluye el testimonio del predicador (cfr. Memorial II, n.12, 497ss), a imitación de Cristo, quien "no solamente nos despierta con palabras, mas con obras" (Ser 80, 37s). "Gran dignidad es traer oficio en que se ejercitó el mesmo Dios, ser vicario de tal Predicador, al que es razón de imitar en la vida como en la palabra" (Carta 4, 18ss). Por esto, "el predicador, el confesor, delante ha de ir. No ha de hablar palabra buena que primero no la haya él obrado" (Ser 5 -2-, 276ss).
Pero tampoco hay que olvidar la eficacia de la palabra divina, más allá de la persona de los predicadores. Después de recordar que éstos son "espuertas de la semilla de la palabra de Dios", añade: "no tengáis en poco la semilla si la espuerta es vil" (Ser 28,380).
Los predicadores "son luz del mundo, que están puestos sobre candelero; que son ciudades asentadas sobre monte" (Gálatas, n.3, 144ss; cfr. Is 62,2). Pero esto será realidad si el predicador anuncia de verdad los contenidos de la palabra de Dios: "El verdadero predicador, de tal manera tiene de tratar su palabra de Dios y sus negocios, que principalmente pretenda la gloria de Dios. Porque si anda a contentar los hombres, no acabará; sino que a cada paso trocará el Evangelio y le dará contrarios sentidos o enseñará doctrina contraria a la voluntad de Dios: hará que diga Dios lo que no quiso decir" (Gálatas, n.8, 388ss; cfr. n.45).
Esta predicación evangélica es la que consigue la auténtica renovación de la Iglesia: "Los que predican reformación de Iglesia, por predicación e imitación de Cristo crucificado lo han de hacer y pretender" (Plática 4ª, 26ss; pone el ejemplo de Santo Domingo y San Francisco). Cuando los predicadores "son tibios", se siguen consecuencias funestas para la Iglesia (cfr. Ser 55,728ss, 750ss).
Subir al púlpito "templado", según su expresión, significa predicar "con una muy viva hambre y deseo de ganar con aquel sermón alguna ánima para Cristo"[106]. Y aunque recordaba a sus discípulos que "en la oración se aprendía la verdadera predicación y se alcanzaba más que con el estudio"[107], no dejaba de aconsejar oración y estudio a la vez: "El día antes del sermón ocuparlo en gustar lo que ha de decir, y no predicar sin estudio ni sin este día de recogimiento particular" (Carta 7, 234ss).
A sus discípulos predicadores, como en el caso de Fr. Luís de Granada, les da pautas concretas de predicación, instándoles a buscar la gloria de Dios y no el propio éxito o el aprecio y afecto de los oyentes. La predicación es una especie de dirección espiritual, que reclama amor de padre: "Resta pedir oficio de padre para con sus hijos que hubiéremos de engendrar" (Carta 1, 67s).
Las dificultades provenientes de la predicación, pueden superarse con relativa facilidad cuando prevalece la caridad pastoral: "Muchas veces, padre, acaece en este oficio ser honrados y ser despreciados; mas el siervo de Dios, tan sordo debe pasar a lo uno como a lo otro, aunque más se debe alegrar con el desprecio que con la honra" (Carta 4, 53ss).
Además de las cartas a discípulos predicadores (como es el caso de las cartas 1 y 4), la doctrina avilista sobre el ministerio sacerdotal de la predicación queda expuesta en el Tratado sobre el sacerdocio: "Dichoso oficio por el cual Dios es engrandecido en los corazones humanos y estimado por digno de ser temido, y reverenciado, y amado... (los predicadores) son comparados al mismo sol, porque con el calor y fuego de la Palabra de Dios producen en las ánimas fruto provechoso a quien lo hace, y sazonado y sabroso al Señor" (Tratado sobre el sacerdocio, n.45, 1579ss).
La predicación "es oficio de ángeles" (Plática 4ª, 17) y reclama santidad y disposiciones parecidas al del Precursor, San Juan Bautista. El mismo Maestro reconoce su propia indignidad, mientras, al mismo tiempo, anuncia el evangelio con confianza audaz y con el gozo de ser predicador de Cristo: "¡Pobre de mí y de otros como yo, que tenemos el oficio de San Juan y no tenemos su santidad... El sacerdote, el predicador, ángel, quia angelus signifcat nuntius, y el predicador es mensajero de Dios y háblaos de Dios por su boca. Somos mensajeros de Dios, aposentadores de la persona real... Que si el predicador se llorase primero por indigno del tal oficio... y os aparejásedes para oir bien la palabra de Dios; que, aunque las predica un hombre pecador y miserable como yo, palabras son de Dios, que no suyas, y en nombre de Dios os las dice" (Ser 2, 35ss; cfr. Mal 2,7; ver también: Ser 4, 53ss; Ser 5 -2-, 255ss).
c) Ministerios litúrgicos y sacramentales
El anuncio del misterio de Cristo lleva a su celebración y a una vivencia personal y comunitaria consecuente. Los ministerios sacramentales específicos del sacerdote, que trata con más amplitud el Maestro Ávila, son los de la Eucaristía y de la penitencia (confesión, reconciliación).[108]
La identidad del sacerdote ministro, en cuanto tal, se hace patente en la Eucaristía, puesto que "el sacerdote representa en la Misa a Jesucristo nuestro Señor" (Tratado sobre el sacerdocio, n.10, 342s). El Señor pone "en manos" de sus sacerdotes, "su poder, su honra y su misma persona" (Plática 1ª, 13s; cfr. Tratado sobre el sacerdocio, n.25, 1007ss).
Representar a Cristo y pronunciar las palabras de la consagración en su nombre, es una muestra de su amor: "Con inefable amor dio a los sacerdotes ordenados... que, diciendo las palabras que el Señor dijo sobre el pan y vino, hagan cada vez que quisieren lo mismo que el Señor hizo el Jueves Santo" (Ser 35, 217ss).
La relación del sacerdote ministro con María, se fundamenta en el paralelismo con la Anunciación y Encarnación: "Y así hay semejanza entre la santa encarnación y este sacro misterio; que allí se abaja Dios a ser hombre, y aquí Dios humanado se baja a estar entre nosotros los hombres; allí en el vientre virginal, aquí debajo de la hostia; allí en los brazos de la Virgen, aquí en las manos del sacerdote" (Ser 55, 235ss).[109]
Esta dimensión eucarística del sacerdocio ministerial es eminentemente cristológica: hacer de la propia vida una oblación unida a la oblación de Cristo (cfr. Tratado sobre el sacerdocio, n.12). Efectivamente, "en este espejo sacerdotal se ha de mirar el sacerdote para conformarse en los deseos y oración con Él" (ibídem, n.10, 348ss).
La vida sacerdotal se inspira en la vida de los santos. El Maestro Ávila no disimula su predilección por San Juan Bautista: "En tales espejos se mire el sacerdote que va a consagrar, y entre ellos no olvide aquel tan principal que es San Juan, que, de solamente de echar agua en la cabeza de Cristo, se tenía por indigno, y con profundo temblor y reverencia decía: Ego a Te debeo baptizari, et Tu venis ad me? Y, a esta cuenta, mayor santidad ha menester un sacerdote y mayor espanto y admiración le ha de tomar, pues trata al Señor con trato más familiar que San Juan Baptista" (Tratado sobre el sacerdocio, n.20, 818ss).
Se acentúa la importancia de la Eucaristía como sacrificio (además de la presencia sacramental). En "el santo sacrificio de la Misa" se "significa" o hace presente "muy en particular la muerte del Señor" (Ser 37, 121ss).
La obra redentora de Cristo, desde la Encarnación hasta la cruz, se hace presente en la Eucaristía. Ello reclama del sacerdote ministro una sintonía de sentimientos y actitudes: "Piense que esto es un traslado de aquella obra, cuando el Padre Eterno envió a su Hijo al vientre virginal para que salvase el mundo, y de la vida y muerte del Señor... Acuérdese de este misterio de la pasión y muerte del Señor y agradézcala... Luego ofrezca al Eterno Padre este sacrificio, que es su Hijo... acordándose de cómo se ofreció el Señor en la cruz por todo el mundo, y pídale una poquita de aquella encendida caridad para que el ministro sea conforme con el Señor" (Carta 8, 30ss).
La celebración eucarística exige santidad de vida en el sacerdote. El Maestro hace resaltar la dimensión o paralelismo mariano (que ya hemos indicado más arriba): "¿Con qué agradecimiento serviremos a Dios esta merced? ¡Cuán grande ha de ser nuestra santidad y pureza para tratar a Jesucristo, que quiere ser tratado de brazos y corazones limpios, y por eso se puso en los brazos de la Virgen, y Josef fue también virgen limpísimo, para dar a entender que quiere ser tratado de vírgenes" (Ser 4, 338ss; cfr. Carta 6, 88ss).
De ahí la instancia en prepararse para celebrar el sacrificio eucarístico y saber dar gracias después de su celebración. El Maestro aconseja pensar "en los trabajos de Cristo" y retirarse "un rato en un rincón", para vivir en sintonía con lo que allí se va a hacer presente (cfr. Ser 47, 347ss). Después de la celebración, hecha sin "prisas", hay que dar gracias y no salir inmediatamente "a sus negocios" (Tratado sobre el sacerdocio, n.30, 1158ss). Con "falta de aparejo" (Carta 6, 8), podría impedirse el fruto de la celebración eucarística.[110]
Este dinamismo de la perfección, en relación con la práctica sacramental, encuentra un momento privilegiado en el ministerio de la reconciliación o del sacramento de la penitencia (confesión). La práctica de este sacramento, en la doctrina avilista, se presenta como un medio privilegiado de dirección espiritual. Se tiende a despojarse del pecado, para pasar a una vida nueva en Cristo: "Despojarse del hombre viejo y vestirnos del nuevo y de Jesucristo" (Dialogus, 814s; cfr. Rom 13,14; Ef 4,24).[111]
De ahí se desprende la importancia que el Maestro da al sacramento de la reconciliación: "¡Cuán mal te sabemos agradecer el poder que has dado a los sacerdotes y cómo los has hecho despenseros de tus merecimientos!" (Ser 58, 157ss).
La necesidad de buenos confesores aparece en estrecha relación con el ministerio de los predicadores. Se necesita preparación y disponibilidad. En las "Advertencias al concilio de Toledo", se pide que se organicen las misiones populares con confesores y predicadores, que "discurran por el obispado, predicando y confesando" (Advertencias I, n.34, 1163s). En efecto, "los confesores son como las redes, en cuyas mallas vienen a parar las almas movidas del Señor o por medio de los predicadores, o de otras inspiraciones del Señor, y ellos son en cuyas manos se ponen comunmente los negocios de todos" (ibídem, 1183ss).
El término "confesor" equivale frecuentemente al de director espiritual. Por esto se aconseja "buscar un confesor sabio y experimentado, y darle a entender las raíces de la tentación... Y el tal confesor debe orar mucho al Señor por la salud de su enfermo" (AF cap.28, 2727ss). El camino de la santidad requiere la práctica frecuente de la reconciliación: "El mejor remedio contra los pecados veniales es la frecuente confesión de ellos" (Juan II, lec. 7ª, 898s).[112]
De este modo, por medio del ministerio de la reconciliación, se puede ayudar al penitente a "esforzarlo en la virtud... y llorar con él... y decirle mucho de la misericordia de Dios, que lo ha esperado, y esto por bien e sin reñir, por amor" (Plática 5ª, 480ss). "El buen confesor ha de ser leído y letrado, y como el pescador prudente, que, cuando tiene un pescadillo chico, luego le saca con un tirón y le echa en la cestilla; cuando viene un barbo grande, dale soga... el pescador le saca poco a poco" (Plática 11ª, 87ss).[113]
d) Servir a la comunidad eclesial
El anuncio evangélico y la celebración litúrgica (sacramental) tienen a construir la comunidad cristiana en la caridad. La tarea de los predicadores y confesores, que discurren por el obispado (cfr. Advertencias I, n.34, 1163ss), presupone la organización de las parroquias con sus respectivos curas residentes.
El número y distribución de parroquias de be ser según la necesidad de las comunidades, teniendo también en cuenta la distancia geográfica: "No sólo se haga aumentar el número de los sacerdotes que sirven, mas se hagan nuevas parroquias... Y en esto se debe tener grande miramiento, porque la distancia grande de la iglesia parroquial suele ser causa de faltar los sacerdotes a los parroquianos" (Advertencias II, n.12, 197ss). También pueden establecerse algunas capillas dentro de la demarcación parroquial, con sacerdotes residentes (cfr. ibídem).
La figura sacerdotal del "cura" (párroco) se hace resaltar por tener "más particular obligación de dar ejemplo a sus parroquianos" (Tratado sobre el sacerdocio, n.36, 1342ss). Se requiere "mucha diligencia... para hacer bien el oficio de cura" (ibídem, n.39, 1431s). A veces, el Maestro pone a los curas como modelo a imitar por parte de los canónigos de las catedrales: "Y miren que los curas, cuyo oficio es de muy mayor trabajo, no se quejan de tener sermones todas las fiestas, con tener muy menos rentas" (Advertencias I, n.18, 558ss).
El cuidado que los sacerdotes deben tener de la comunidad cristiana, es debido al hecho de ser como "ciudad para que descansen los trabajados y cansados, y refugio de los atribulados; y puesta en alto para que no se pierdan los caminantes" (Juan I, lec. 4ª, 486ss). Por esto, "ha de arder en el corazón del eclesiástico y un fuego de amor de Dios y celo de almas" (Plática 7ª, 62ss).
Esta acción "ministerial" de caridad y de dirección (que completa la del anuncio y de la celebración), tiene siempre la característica del servicio. Hay que imitar la actitud del Señor: "Porque para servir a los hombres se quitó Él lo que lícitamente pudiera tener" (Ser 33, 359ss; cfr. Mt 20,28). "Vino a servir para que aprendamos a servir, para que te abrases en amor cada vez que vieres a Jesucristo servir por ti, derramando su sangre por ti" (Ser 80, 321ss).
Pero esta actitud ministerial debe mostrarse también en el modo de vivir y de vestir: "Para servir conviene quitar el ornato, porque muchas veces la pompa del mayor le estorba que no aproveche a sus súbditos. Olvidad la majestad y superioridad, y haceos humilde... si no queréis que huigan de vos las ovejas y que osen llegar a descubriros sus llagas" (Ser 33, 368ss).
La dirección espiritual activa forma parte del ministerio sacerdotal (aunque no exclusivamente). Ello tiene lugar especialmente cuando se consulta al sacerdote sobre el camino de perfección. El sacerdote es entonces "guía y padre", pero ha de ser "confesor sabio y experimentado" (AF cap.28, 2728), "persona letrada y experimentada en las cosas de Dios" (ibídem, cap.55, 5638s).[114]
La carta n.1 (dirigida a Fr. Luís de Granada) es un resumen de orientaciones prácticas para los directores espirituales, que pueden ser confesores o predicadores. Es una especie de paternidad espiritual, al estilo de San Pablo (cfr. 1Cor 4,15), que participa de la paternidad divina (cfr. 1Jn 3,1). Por esto, quien ejerce este ministerio "debe orar mucho al Señor la salud de su enfermo; y no cansarse porque le pregunte el tal penitente muchas veces una misma cosa... Encomiéndele la enmienda de la vida y que tome los remedios de los sacramentos" (AF cap.28, 2734ss).[115]
Este ministerio de la dirección espiritual, a partir de la confesión (así como en relación con la predicación), se practica orientando a los creyentes por el camino de la perfección, proponiendo los medios que han usado los santos, según su propio estado de vida: frecuencia de sacramentos, lectura espiritual, meditación, examen, obras de caridad, etc.
El Maestro Ávila, en su acción apostólica, practicó estos servicios de caridad y dirección según las diversas situaciones de sus dirigidos: infancia y juventud, estudiantes y formadores en colegios y universidades, pobres y enfermos, etc. Bajo su dirección espiritual se encuentra todo género de personas (seglares, religiosos, sacerdotes) y se aprovechan las diversas áreas de pastoral (catequesis, misiones populares, etc.).
3. VIDA, ESPIRITUALIDAD Y FORMACIÓN SACERDOTAL
En el campo de la espiritualidad sacerdotal, la teología y la espiritualidad han logrado una síntesis bastante satisfactoria. Es la espiritualidad que se concreta en la sintonía (relación, intimidad, imitación, configuración) con Cristo Buen Pastor.
En el Maestro Ávila, el tema, aparentemente estudiado con amplitud, queda todavía abierto a nuevos estudios e investigaciones. Su punto de vista principal es la figura del Buen Pastor, imitado al estilo de los Apóstoles, con una línea marcadamente paulina. Su preocupación preferencial por la formación sacerdotal (Seminarios y estudios posteriores) deja entrever el nervio de la espiritualidad: la caridad pastoral, con sus exigencias de amistad profunda (desposorio con Cristo) y de imitación de las actitudes del Buen Pastor (obediencia, castidad, pobreza).[116]
a) Vida al estilo de los Apóstoles
El estilo de vida de los Apóstoles, aplicado especialmente a la vida sacerdotal en el Presbiterio y, consecuentemente, a la vida consagrada (según las diversas modalidades históricas), se ha llamado "vida apostólica" o "apostolica vivendi forma". Se concreta en el segimiento evangélico radical (por la práctica permanente de los llamados consejos evangélicos), en la vida fraterna o comunitaria y en la disponibilidad misionera.
La referencia a la "vida de los Apóstoles" es frecuente en la doctrina sacerdotal avilista. Los sacerdotes deben ser "retrato de la escuela y colegio apostólico y no de señores mundanos" (Advertencias I, n.4. 162s). La selección y formación de los candidatos debe guiarse por eta orientación: "Los mejores son aquellos que, dejadas todas las cosas, contentos con letras y virtud, buscan esta dignidad para servir a Cristo imitando a Él y a sus Apóstoles" (Advertencias II, n.10, 140ss).
Por el hecho de ser sucesores de los Apóstoles, cada uno según su grado, los obispos y los presbíteros deben vivir su mismo estilo de vida, siendo "un dibujo de los Apóstoles, a quien suceden; tal, que por la vida obispal todos saquen por rastro cuáles fueron los antiguos Apóstoles, y no tales que no haya cosa que más los haga desconocer que mirar a sus sucesores" (Advertencias I, n.10, 316ss). Una vida mundana "no es imitar a Cristo, ni a Pedro, ni a los Apóstoles, cuyos ellos son sucesores" (Advertencias I, n.8, 259ss).
En este testimonio de "vida apostólica" se inspira la comunidad cristiana en todos sus estamentos. En un sermón con ocasión de la fiesta de los evangelistas, afirma: "¡Oh dichosas ovejas que en tiempo de tal Pastor fueron vivas, y dichosas lo serán la que cayeren en manos del prelado que imitare este celo!" (Ser 81, 88ss).
Es la vida que llevaba San Pablo, centrada en Cristo y sin anteponer nada a él: "Decir, pues, el Apóstol que no vivía para sí, es decir, que no buscaba sus intereses ni su gloria, sino los intereses, la gloria y la honra de Dios: que conforme a la voluntad de Dios era gobernada su vida" (Gálatas, n.25, 1168ss, comentando Gal 2,19).[117]
b) Caridad pastoral y virtudes del Buen Pastor: pobreza, obediencia, castidad
El Maestro Ávila habla de "ferviente celo", como de "verdadero padre y verdadera madre" (Tratado sobe el sacerdocio, n.39, 1450ss). Los sacerdotes ministros han sido elegidos "para pastores y criadores del ganado, que los apacienten en los pastos de ciencia y doctrina... y aunque sea con derramar sangre y dar la vida, como hizo Cristo, y dijo que este tal es el Buen Pastor" (Advertencias I, n.6; cfr. Ser 81, 88ss).[118]
El celo de almas es la concretización más visible de la caridad pastoral. Es consecuencia de una fuerte experiencia de oración y de desprendimiento evangélico: "Si de veras nos quemase las entrañas el celo de la casa de Dios... ver las esposas de Cristo enajenadas de El y atadas con ñudo de amor tan falso" (Carta 208,11ss). "El jornalero, que principalmente trabaja por el dinero, en viendo el lobo, salta por las tapias" (Plática 7ª, 72ss).
Esta caridad se concreta en "amor de Dios y prójimo", puesto que tales han de ser los que van a predicar o ser curas" (Ser 81, 179ss). Por esto, "ha de arder en el corazón del eclesiástico un fuego de amor de Dios y celo de almas", a imitación del Buen Pastor que da la vida por sus ovejas (Plática 7ª, 62ss) y que "amó a la Iglesia hasta entregarse en sacrificio por ella" (Ef 5,25).
Dios examina a sus pastores sobre el amor y la oración: "Cuando los quieren ordenar, examínanlos si saben cantar y leer, si tienen buen patrimonio; pues ya, si saben unas pocas de cánones y tienen buen patrimonio, ¡sus!, ordenar. ¿En qué examinará Dios? En la caridad para con todos y en la oración" (Ser 10, 132ss). Es caridad que se aprende en relación estrecha o en intimidad con Cristo. Así serán pastores "que velen su ganado, que puedan decir como el Señor: No me las arrebatará nadie" (Ser 15, 539ss; cfr. Jn 10,30).
La sintonía con los amores de Cristo por parte de los pastores de la Iglesia, se traduce en oración y acción apostólica: "Que si hubiese en la Iglesia corazones de madre en los sacerdotes que amargamente llorasen de ver muerto a sus espirituales hijos, el Señor, que es misericordioso, les diría lo que a la viuda de Naím: No quieras llorar. Y les daría resucitadas las ánimas de los pecadores" (Plática 2ª, 375ss). El apóstol debe "tener verdadero amor a nuestro Señor Jesucristo, el cual le cause un tan ferviente celo, que le coma el corazón" (Tratado sobre el sacerdocio, n.39, 1449ss). Por esto, todo apóstol ha de tener "verdadero padre y verdadera madre" (ibídem).
Vida de pobreza
La pobreza evangélica caracteriza la vida de todo santo sacerdote; así fue la vida del Maestro ÁVila: "Fue obrero sin estipendio... y habiendo servido tanto a la Iglesia, no recibió de ella un real"[119]. Es la imitación de la misma vida del Señor. El Maestro concreta esta vida pobre a la luz de Mt 8,20: "No tuvo renta, casa ni posesión. Santa Marta lo acogía como a pobre, y otros le ayudaban con sus haciendas, siendo Él Señor de todas las cosas del mundo, tanto que nace en casa ajena, que el día de su muerte en sábana y sepultura de otro le enterraron y celebraron sus exequias" (Ser 16, 61; cfr. Ser 2, 240ss).
Esta pobreza evangélica no entra en los baremos y criterios puramente humanos: "¡Qué cosa tan pesada era la pobreza antes que Cristo viniese al mundo, qué aborrecida, qué menospreciada! Pero bajó Rico del cielo y escogió madre pobre, y ayo pobre, y nace en portal pobre, toma por cuna un pesebre, fue envuelto en pobres mantillas, y después, cuando grande, amó tanto la pobreza, que no tenía dónde reclinar su cabeza" (Ser 3, 206ss).
La eficacia apostólica dependerá especialmente del testimonio de pobreza por parte de los evangelizadores: "En cruz murió el Señor por las ánimas; hacienda, honra, fama y a su propia Madre dejó por cumplir con ellas; y así quien no mortificare sus intereses, honra, regalo, afecto de parientes, y no tomare la mortificación de la cruz, aunque tenga buenos deseos concebidos en su corazón, bien podrán llegar los hijos al parto, mas no habrá fuerza para los parir" (Ser 81,100ss).
Quien representa a Cristo, debe presentar la misma vida de Cristo, como garantía de prolongar su misma misión: "Cierto es que nació en pobreza y aspereza, y de la misma manera vivió, y con crecimiento de esto murió. Y habiendo Él traído la embajada del Padre con este tan humilde aparato, no se agradará que su embajador, pues es de rey celestial, vaya con aparato de mundo" (Carta 182, 100ss).
El testimonio de pobreza acompaña la vida de los sacerdotes por ser "padres de los pobres" (Advertencias II, n.99, 1290ss; cfr. Plática 8ª, 55ss). Sin la actitud de pobreza, tampoco habría disponibilidad apostólica, puesto que "no podrán vacar bien al oficio de ánimas, que pide a todo el hombre, y plega a Dios que baste" (Ser 81, 184ss).
La renovación de la Iglesia no sería posible sin vida de pobreza evangélica, especialmente por parte de los pastores, quienes no han de ir "buscando prebendas, sino salud de almas" (Memorial I, n.15, 394ss). Las épocas más fecundas de la Iglesia han sido aquellas que estaban marcadas por las dificultades y la pobreza: "Bienaventurados eran aquellos tiempos, cuando no había en la Iglesia cosa temporal que buscar, mas adversidades y angustias que sufrir; y aquel solo entraba en ella que por amor del Crucificado se ofrecía a padecer estos males presentes con cierta esperanza de reinar con Él en el cielo" (Memorial I, n.7, 187ss).
La dignidad sacerdotal se demuestra "en la humildad aun exterior, en vestidos y pompas" (Memorial II, n.91, 3530ss). La falta de pobreza en los clérigos (obispos y presbíteros) era un "escándalo común" en aquella época (cfr. Memorial I, n.20, 599).[120]
El Maestro no rechaza las rentas (y prebendas) que son anejas a los cargos pastorales. No olvida procurar "un razonable mantenimiento" de los clérigos (Memorial I, n.22, 768s). Pero pide que se evitan "los patronazgos que algunas personas tienen de presentar a beneficios y capellanías" (ibídem, n.24, 811ss) y que se cambie el modo de hacer oposiciones a canongías (cfr. Memorial II, n.70, 2839ss).
El uso de las rentas debe orientarse hacia el sustentamiento de una vida clerical modesta, de suerte que lo restante se de a los pobres: "Los obispos y beneficiados todos no pueden gastar de las mismas rentas todas, más de lo necesario para poder vivir moderadamente; y que lo demás deben dar a pobres" (Advertencias I, n.25, 795ss). "En esto se fundan las rentas eclesiásticas: en mantener al obrero, y no a enriquecerlo... si el Evangelio les da que se mantengan, todo lo que a esto sobra se ha de restituir en obras pías" (Plática 8ª, 13ss).[121]
Vida de obediencia
El seguimiento y la imitación de Cristo por parte de todo cristiano y, de modo especial, por parte del sacerdote, incluye una vida de obediencia. La redención se realizó por medio de la obediencia de Cristo a los designios salvíficos del Padre: "Cristo, obediente fue a su Padre en vida y en muerte; y también obedeció a su santísima Madre, y al santo Josef, como cuenta San Lucas. Y no piense nadie de poder agradar sin obediencia al que tan amigo fue de ella, que, por no la perder, perdió la vida en la cruz" (AF cap.101, 10625ss; cfr. Lc 2,51).
A sus discípulos y dirigidos les recomienda continuamente esta virtud, que consiste en orientar la propia voluntad según la verdadera libertad (no el libertinaje): "No os espantéis de que tanto os encomiende la obediencia... porque vuestra seguridad está en no querer libertad" (AF cap.101, 10629ss).
La obediencia del sacerdote encuentra una motivación especial en el hecho de que el mismo Cristo obedezca a las palabras del sacerdote: "¿Qué sacerdote, si profundamente considerase esta admirable obediencia que Cristo le tiene, mayor a menor, Rey a vasallo, Dios a criatura, ternía corazón para no obedecer a nuestro Señor en sus santos mandamientos y para perder antes la vida, aun en cruz, que perder su obediencia?" (Plática 1ª, 46ss).
Se concreta especialmente en la relación con el propio obispo: "Debe mirar que es eclesiástico, y ha de servir a su prelado en lo que le mandare, pues le prometió obediencia" (Memorial II, n.71, 2885ss). La relación del sacerdote con el obispo, aunque no puede ceñirse sólo a este aspecto más jerárquico, se ha de tener en gran aprecio, en vistas a la actuación pastoral, así como a la vida personal del mismo sacerdote y a su renovación y actualización permanente.
Vida de castidad evangélica
Por el hecho de representar a Cristo Buen Pastor, el sacerdote ministro está llamado a ser su expresión personal. La castidad evangélica (llamada también virginidad y celibato) no es sólo la orientación de la sexualidad según el amor, sino que es principalmente imitación de la vida virginal del Señor. En la doctrina avilista, la virginidad evangélica tiene sentido esponsal.
Esta virtud está incluida en el seguimiento evangélico, al estilo de la vida de los doce Apóstoles. Los candidatos al sacerdocio ministerial deberán ser seleccionados y formados en esta vida evangélica y apostólica, no como una imposición jurídica, sino como una exigencia de la misma llamada a formar parte de los Apóstoles: "Procuren traellos a la Iglesia y hacerlos ministros de Dios" (Memorial II, n.91, 3418ss). "Búsquese hombres que posean castidad y las otras virtudes; déseles aparejo y buenos ejercicios de virtudes y estudio" (ibídem, 3505ss).
Dada la realidad eclesial de la época, por falta de Seminarios y de formación adecuada, así como de escasos medios de perseverancia, algunos aconsejaban la eliminación del celibato para los sacerdotes seculares. El Maestro escribe a Trento exponiendo lo que ha sido siempre doctrina común de la Iglesia: "Y como esto entendiesen los sumos pontífices pasados, alumbrados por el Espíritu del Señor... mandaron que el que hubiese de ser sacerdote fuese virgen" (Tratado sobre el sacerdocio, 632ss).[122]
Un motivo determinante para reafirmarse en esta tradición apostólica, es la disponibilidad misionera por el desprendimiento de ocupaciones más seculares: "El remedio de esto no entiendo que es casarlos; porque, si ahora, sin serlo, no pueden ser atraídos a que tengan cuidado a las cosas pertenecientes al bien de la Iglesia y de su propio oficio, ¿qué harían si cargasen de los cuidados de mantener mujer e hijos, y casarlos, y dejarles herencia? Mal podrían militar a Dios y a negocios seculares" (Memorial, n.91, 3468ss).[123]
Al hablar de la pobreza sacerdotal, el Maestro recuerda que sin esta virtud evangélica, no sería posible el celibato. El modo de evitar que entren en la vida clerical personas ambiciosas de ventajas económicas, será el de "quitarles el cebo que les hace venir" (Memorial II, n.91, 3515ss). En realidad, se quiere un "sacerdote evangélico", al estilo de la vida de Jesús y de los Apóstoles. Por esto, la castidad es su "virtud propia, muy propia y propísima" del sacerdote, puesto que "cuerpo y alma se nos pide limpia, para consagrar al Señor y recibirle con fruto... cuán justa y debida cosa es que se reciba y trate el purísimo cuerpo de Jesucristo por cuerpo de sacerdote limpio en todo y por todo" (Tratado sobre el sacerdocio, n.15, 592ss).
El motivo principal de la virginidad sacerdotal, de acuerdo con la tradición eclesial, es el de la celebración eucarística, en cuanto que, en ella, se representa a Cristo Esposo ante la Iglesia esposa. Las expresiones del Maestro corresponden a la época, pero los contenidos son los mismos: "Algo más se debe pedir al que tiene por oficio siempre orar y está sublimado en más excelente estado que el lego; y en ninguna manera, salva Ecclesiae et maiorum determinatione, me podría persuadir ser cosa agradable a Dios que se huelgue de ser consagrado y tratado su virginal cuerpo por hombres que juntan su cuerpo con otro, ni que pueden tener espíritu levantado a las cosas celestes y gustar de ellas, como su oficio requiere" (Memorial II, n.91, 3477ss).[124]
Un cambio en este campo, equivaldría a "hacer novedad en la Iglesia". Es más acertado superar las dificultades por medio de una adecuada selección y formación sacerdotal. "La mayor seguridad que se puede tener para no errar es seguir los caminos antiguos de la Iglesia católica". Por esto, "sería cosa más conveniente, aunque en ello se pasase trabajo, procurar que haya en la Iglesia legítimos y limpios ministros de Dios, cuales la santa Iglesia los ha pintado y mandado, antes que, por condescender a flaqueza de flacos, disminuir la limpieza del trato de los ministros celestiales y hacer una novedad en la Iglesia, de la cual se ha de seguir mayor incentivo de codicia, y de vida derramada, y de mayor negligencia y descuido" (Memorial II, n.91, 3494ss).
c) La oración sacerdotal, unidad de vida
El significado y la importancia de la oración sacerdotal se encuadra en el contexto de la oración cristiana en general. Por el ejercicio de la oración y de la celebración sacrificial, se hace realidad la mediación sacerdotal: "Y aquél ha de tener por oficio orar, que tiene por oficio el sacrificar, pues es medianero entre Dios y los hombres, para pedirle misericordia" (Plática 2ª, 125ss). "Conviénele orar al sacerdote, porque es medianero entre Dios y los hombres" (Plática 3ª, 207s).
Su oración se traduce en gemidos del Espíritu Santo (cfr. Plática 2ª, 200ss; Rom 8,26-27). Es oración intercesora de irradiación universal, mucho más eficaz que la oración de Moisés y de Elías: "No pienso que la confianza de Moisés y Elías es bastante para tal oración, porque, como a hombre que le es encomendado todo el mundo universo y que es padre de todos, así se allega orando a Dios que se apacigüen las guerras dondequiera que las haya... que se ponga remedio a todos los males que hay, privados y públicos" (Plática 2ª, 134ss). El sacerdote está llamado a tener "tan gran fuerza en la oración, que aproveche a todo el mundo" (ibídem, 153s).
Esta oración es necesaria en la Iglesia y, por ello, se necesitan "en la Iglesia corazones de madre en los sacerdotes que amargamente llorasen de ver muertos a sus espirituales hijos" (Plática 2ª, 375s); ellos son "los ojos de la Iglesia" (ibídem, 449s). "¡Oh sacerdotes!... habíamos de andar siempre importunando a Nuestro Señor con oraciones" (Ser 13, 604ss).
Siempre puede el sacerdote encontrar tiempo suficiente para orar o "a lo menos tiene sus ratos diputados para ello" (Plática 2ª, 496s). Sin la oración, reflejará en su predicación y en sus consejos sólo su propio parecer: "El sacerdote que no ora... darme ha por consejos de Dios consejo suyo" (Ser 5 -2-, 423ss).
Junto con esta característica intercesora de la oración (como parte integrante del ministerio sacerdotal), se puede detectar el aspecto de la intimidad y confianza, "un trato muy familiar con Dios, un admitirlos Dios a su conversación como amigos suyos" (Plática 3ª, 64s). "Esto, padres, es ser sacerdote, que amansen a Dios cuando estuviere, ¡ay!, enojado con su pueblo; que tengan experiencia que Dios oye sus oraciones y les da lo que piden, y tengan tanta familiaridad con él" (Plática 1ª, 194ss).
Como puede observarse, la oración sacerdotal, además de ser medio para la propia santificación, es también y principalmente ministerio, como prolongación de la oración de Jesús. Es oración que compromete la propia existencia: "Pues tiene oficio de orar, tenga vida de orador" (AF 76, 7767s).
La oración como ministerio se ejerce, de modo especial, en la celebración eucarística y en el oficio divino (liturgia de las horas). Fr. Luís de Granada afirma que el Maestro Ávila se preparaba devotamente para celebrar el oficio (Vida, parte 3ª, cap.4). En este ministerio de la oración se realiza también la caridad pastoral. Caridad y oración intercesora son dos cualidades necesarias para que uno sea admitido a la ordenación sacerdotal: "¿En qué los examinará Dios? En la caridad para con todos y en la oración, si saben bien orar y importunar a Dios por los prójimos y amansarlo y hacer amistades entre Dios y los hombres, y sentir males ajenos y llorarlos" (Ser 10, 140ss).
d) Obispo, Presbiterio, diócesis
La "realidad sobrenatural" del Presbiterio (PDV 74), como realidad de gracia, no se encuentra explicada en el Maestro Ávila con nuestra terminología actual; pero en los escritos avilistas aparece la realidad de la vida sacerdotal del Presbiterio, a modo de familia, que reclama una estrecha relación entre el obispo y sus sacerdotes, en vistas a servir a la misma Iglesia particular.
La relación entre obispo y presbíteros del mismo Presbiterio se concreta en responsabilidad del obispo respecto a los diversos sectores de la vida sacerdotal, así como, por parte de los sacerdotes, en obediencia y colaboración efectiva y afectiva.
La dinámica del Presbiterio, en la doctrina avilista, tiene la característica de una familia sacerdotal: "Y pues prelados con clérigos son como padres con hijos y no señores con esclavos, prevéase el Papa los demás en criar a los clérigos como a hijos, con aquel cuidado que pide una dignidad tan alta como han de recibir; y entonces tendrán mucha gloria en tener hijos sabios y mucho gozo y descanso en tener hijos buenos, y gozarse ha toda la Iglesia con buenos ministros... Y éste es el punto principal del negocio y que toca en lo interior de él" (Memorial I, n.5, 122ss).
La relación familiar es mutua (de relación interpersonal). Es relación basada en realidades de gracia, que reclaman actitudes de atención y colaboración mutua: "Con deseo de nuestra enmienda (Dios) nos envía prelado que, por la misericordia de Dios, tiene celo de nos ayudar a ser lo que debemos. No trae ganas de enriquecerse, no de señorearse en la clerecía, como dice San Pedro, mas de apacentarnos en buena doctrina y ejemplo y ayudarnos en todo lo que pudiere, ansí para el mantenimiento corporal, que es lo menos, como para que seamos sabios y santos, los más sabios y santos del pueblo... A los prelados manda San Pedro que hagan estas cosas con la clerecía, y a la clerecía manda que sea humilde y obediente a su prelado" (Plática 1ª, 264ss).
La construcción de este Presbiterio es competencia principal del obispo, especialmente cuando todavía no existen los presbíteros formados para constituir esta familia sacerdotal. El prelado es el principal responsable de la formación inicial y permanente de sus presbíteros: "El prelado es obligado a, si tales oficiales no hay, hacerlos él, dándoles aparejo para estudio, y ayudar para ello a los que no tienen; y con doctrina y buenos ejemplos hacerlos tales que sean modelos, a cuya forma se edifiquen las ánimas; porque para esto el prelado es prelado y para esto principalmente le es dada la renta; porque el fin de él ha de ser la edificación de las ánimas, y no hay mejor medio para esto que hacer gente tal que sea para ello" (Ser 81, 122ss).
Los obispos "son obligados a dar a sus ovejas pastores que las sepan apacentar" (Memorial II, n.71, 2915s). Al mismo tiempo, el Maestro insta a conseguir obispos que estén dispuestos y sean capaces de formar a sus clérigos: "Adviértase que para haber personas cuales conviene, así de obispos como de los que les han de ayudar, se ha de tomar el agua de lejos, y se han de criar desde principio con tal educación, que se pueda esperar que habrá otros eclesiásticos que los que en tiempos pasados ha habido" (Memorial II, n.43, 1883ss).
La unión entre obispo y presbíteros del mismo Presbiterio es como un signo eficaz de evangelización: "Y, si cabeza y miembros nos juntamos a una en Dios, seremos tan poderosos, que venceremos al demonio en nosotros y libraremos al pueblo de sus pecados, porque... hizo Dios tan poderoso al estado eclesiástico, que, si es el que debe, influye en el pueblo toda virtud, como el cielo influye en la tierra" (Plática 1ª, 274ss).
La realidad del Presbiterio (obispo y presbíteros) se describe en la doctrina avilista como quienes "son de la intrínseca razón de la Iglesia" (Ser 81, 94s), puesto que son "retrato de la escuela y colegio apostólico" (Advertencias I, n.4, 162s).
La renovación de la vida sacerdotal en el Presbiterio abarca diversas áreas o niveles: humano, espiritual, intelectual, pastoral. El Maestro Ávila ofrece material para cada nivel, especialmente en cuanto a la vida espiritual, intelectual (estudio) y pastoral.
El interés que el Maestro manifiesta por la formación permanente de los sacerdotes (como veremos en el apartado siguiente), así como la importancia que da al reforma de las catedrales y de la vida canonical, son el marco en el hay que encuadrar los planes de vida sacerdotal en el Presbiterio.
La reforma de la "catedral", que es la Iglesia "madre", donde tiene la "cátedra" el obispo (cabeza de la Iglesia particular y del Presbiterio), tendrá gran repercusión en la vida del Seminario y del mismo Presbiterio. En los escritos avilistas, la reforma de la catedral está estrechamente unida a la formación y a la vida sacerdotal.
Los "canónigos" son los clérigos que dan testimonio de vivir según los "cánones" o directrices de la Iglesia sobre la "vida apostólica", colaborando en solemnizar el culto y en las derivaciones pastorales. La catedral, pues, con sus clérigos servidores, será el punto de referencia de la renovación del Presbiterio y de la pastoral de la Iglesia particular.
La renovación de la Iglesia dependerá, en gran parte, de la catedral. El Maestro pide que se aplique el concilio tridentino: "Y primero conviene que reformen a los más conjuntos, que es el clero todo, y luego a los demás; y de estos más conjuntos, primero a los que están más inmediatos, que son todos los señores de las catedrales, de los cuales habla el c. 4 de la ses. 22 y el c. 12 de la ses. 24" (Advertencias I, n.33).
En la catedral, los clérigos se dedican al culto y a la predicación: "El oficio de los (clérigos) de las catedrales es loar a Dios" (Advertencias I, n.18). Pero el Maestro pide que "en las catedrales haya tanta frecuencia de sermones como en las parroquias" (Advertencias I, n.18, 549s). Y expresa la queja de que, en las catedrales "suelen faltar sermones en principalísimas festividades, y así se quedan sin declarar al pueblo aquellos altísimos misterios que en ellas se celebran" (Advertencias I, n.18). Por esto, los canónigos deben ser "muy amigos de la sagrada lección y de la oración" (Carta 148, 140ss).
La cuestión de las rentas, que tantos problemas ha suscitado en la historia de la Iglesia, no debería ser obstáculo para la vida y ministerio sacerdotal, puesto que los clérigos están disponibles para la predicación y "aun de balde no se habían de cansar" (Advertencias I, n.18).[125]
El "modo de vivir" del sacerdote se expresa en la moderación respecto al uso de los bienes. Todo ello podría concretarse en un "plan de vida". La vida fraterna necesita una revisión continua y una derivación o potenciación hacia los diversos campos de caridad (cfr. Advertencias I, n.33).[126]
No se olvida de aconsejar una formación especializada y universitaria, en vistas a predicar "lección de Sagrada Escritura" (Memorial II, nn.67-68). Pide que desaparezca el sistema de acceder a los cabildos por medio de "sermones de oposición".[127]
La renovación de las catedrales y de sus clérigos ("canónigos") repercutiría en la renovación del Seminario y de toda la diócesis. La sustentación económica del Seminario y de otras obras educativas, se puede conseguir por una mejor distribución de las rentas (cfr. Memorial I, n.19).[128]
e) Formación sacerdotal. Proyecto de vida
La formación sacerdotal que propone el Maestro Ávila, se basa en su misma experiencia: sus estudios (antes y después de la ordenación), su biblioteca virtual (libros que conoce y cita), el trasfondo bíblico-patrístico-teológico de sus escritos, etc.
Esta formación, que él posee y que recomienda a los demás, puede calificarse de integral. Hay una base antropológica que corresponde al ambiente y cambios de su época. Se apunta principalmente a las actitudes espirituales, sin ahorrar esfuerzos en el campo intelectual. Se tiende a formar pastores que asuman los diversos ministerios con la responsabilidad que corresponde a una época de cambios.
La formación integral, como proceso de educación de las "buenas costumbres", debe comenzar desde la infancia, "por ser aquella edad el fundamento de toda la vida" (Carta 11, 1192ss). Es formación que ha de impartirse desde la familia y los colegios (cfr. Ser 46, 592ss), y que debe incluir los contenidos evangélicos (cfr. Memorial II, n.88; Advertencias I, n.48). El Maestro aplicó estas directrices a la formación sacerdotal.
La necesidad de formación sacerdotal era patente en aquella época, en que muchos entraban en la clerecía no para tener por herencia al Señor, sino para conseguir privilegios y ventajas temporales. Refiriéndose a la tonsura, constata "que solamente la toman para tener seguridad si algún delito hicieren" (Memorial I, n.31, 921s; para gozar de inmunidad judicial). Frecuentemente no había selección de los candidatos y mucho menos una formación adecuada.
La reforma de la Iglesia dependía estrechamente de la renovación del clero (cfr. Advertencias I, n.33, 1089s). Los "males de la Iglesia, que producían "dentera" en ella, provenían, en gran parte, de "una gente que desde muchachos se crió sin obediencia, sin clausura, sin devoción y con ruines compañías" (Tratado sobre el sacerdocio, n.33, 1268s).[129]
La selección debe hacerse ya en el momento inicial o en lo que hoy llamaríamos pastoral vocacional: "Que los prelados tengan noticia de las personas virtuosas que en su obispado hay, así chicos como grandes, en los cuales se conozca que mora la gracia del Señor y que es gente de vida inclinada a cosas de la Iglesia, que sabe pelear las guerras por la castidad y alcanzar en ellas victoria, y que sepan por experiencia qué es oración o tenga disposición para la aprender y tener siendo enseñados" (Memorial II, n.91, 3410ss).
El objetivo de la formación sacerdotal tiene en cuenta los diversos ministerios (profético, litúrgico y de dirección), que el Maestro resume con los términos de "predicadores", "confesores" y "curas" (cfr. Advertencias II, n.34). Para él, se trata, sobre todo, de "la honestidad que han de tener los clérigos" (Plática 6ª, 107ss; se refiere a la vida de pobreza evangélica).
Toda la formación apunta a desempeñar dignamente los "oficios divinos" (Plática 7ª, 5ss). Por esto, "ha de arder en el corazón del eclesiástico y un fuego de amor de Dios y celo de almas" (Plática 7ª, 62ss).[130]
La creación de los Seminarios correspondía a la necesidad de impartir eta formación antes de la ordenación sacerdotal. El Maestro daba también pláticas a los ya clérigos (Córdoba, Granada, Montilla...).[131]
Apoyado en su propia experiencia, propone soluciones concretas en los Memoriales para el concilio de Trento, con posibilidad de especialización (curas, confesores, predicadores) (cfr. Memorial I, nn.13-15) e indicando los diversos sectores: intelectual, espiritual, pastoral (cfr. Memorial II, nn.66-71).[132]
El tema de la vocación aparece enmarcado en la perspectiva de la predestinación, de la fe, del bautismo, del seguimiento evangélico y del camino de perfección. Todo cristiano está llamado a la santidad, cada uno según su propio estado de vida o vocación específica (laical, religiosa, sacerdotal).
La vocación sacerdotal se presenta en el contexto de la vocación apostólica, como respuesta al "sígueme" de Jesús (cfr. Juan I, lec.14ª, 4135ss). Se trata de una "recia palabra", cargada de amor (Plática 16ª, 67). El Maestro describe la vocación del apóstol San Mateo: "Sígueme. Levántase de su banco, dejado todo lo que tenía delante; deja los libros, deja las cuentas y deja los dineros. Vase tras Jesucristo" (Ser 77, 59ss).[133]
Se resume la doctrina paulina sobre la llamada, según la carta a los efesios: "San Pablo ruega a Dios que dé a entender a los de Éfeso el grande bien para que son llamados; e yo suplico lo mesmo para vos, para que, conociendo el gran valor de vuestra esperanza, seáis más agradecida a quien os llamó" (Carta 94, 19ss).[134]
La vocación al seguimiento evangélico (en el sacerdocio ministerial y en la vida religiosa o consagrada) no puede estar condicionada a la decisión de los padres y demás familiares: "Y si los padres ven a sus hijos que quieren servir a Dios de alguna manera buena, que a ellos no es apacible, deben mirar lo que Dios quiere; y, aunque giman con amor de los hijos, vénzanse con el amor de Dios, y ofrezcan sus hijos a Dios, y serán semejantes a Abraham" (AF cap.98, 10372ss).
La selección, iniciada ya en la familia y en la pastoral vocacional, se concretará en el momento de la admisión en los Seminarios o colegios: "Los que hubieren de ser elegidos para estos colegios sean de los mejores que hubiere en todo el pueblo, haciendo inquisición de ello muy de raíz el obispo y los que el concilio le señalare por acompañados. Y de esta manera vendrán llamados y no injeridos, y entrarán por la puerta de obediencia y llamamiento de Dios" (Memorial I, n.17, 458ss; cfr. Memorial II, n.91, 3407ss).[135]
Lo que importa más son las cualidades morales, indispensables para la idoneidad sacerdotal: "Todos éstos han de procurarse sea gente de la cual se entiende que vive Dios en ellos, amigos de virtud, aficionados a las cosas de la Iglesia, probados en la castidad" (Advertencias I, n.39, 1405ss).
Las vocaciones existen siempre, al menos en sus gérmenes, que hay que detectar y cultivar, como decimos hoy, por medio de una buena pastoral vocacional: "Y para hallar éstos es menester que los obispos tengan en cada pueblo personas de fiar que los inquiran y procuren, informándose de los maestros de las escuelas y de los lectores de gramática... Y, si acaso los obispos del sínodo dijeren que no se halla de esta gente; dígales que es grande engaño pensar que nuestro Señor falte en dar tales personas en su Iglesia, que puedan ser ministros verdaderos suyos. Porque el mismo Dios, que pide que sean sus ministros tales y derramó su sangre por tenerlos, ha puesto su Espíritu divino en muchos para poder serlo; y el parecer que no los hay es porque no los buscan los prelados, ministros del Señor, cuyo es este cuidado" (Advertencias I, n.39, 1412ss).
Es importante asegurar "que jamás ordenen de sacerdote a quien no estuviere suficientemente instruido para ser buen cura" (Advertencias I, n.46, 1615ss). El examen decisivo ha de ser sobre la caridad pastoral y el espíritu de oración ministerial (cfr. Ser 10,140ss).
Los primeros responsables de la formación sacerdotal son los obispos, los cuales deben "criar a los clérigos como a hijos, con aquel cuidado que pide una dignidad tan alta como han de recibir; y entonces tendrán mucha gloria en tener hijos sabios y mucho gozo y descanso en tener hijos buenos, y gozarse ha toda la Iglesia con buenos ministros" (Memorial I, n.5, 122ss).[136]
La renovación de la Iglesia sería un objetivo inalcanzable sin la selección y formación de sus pastores. "Y éste es el punto principal del negocio y que toca en lo interior de él; sin lo cual todo trabajo que se tome cerca de la reformación será de muy poco provecho, porque será, o cerca de cosas exteriores, o, no habiendo virtud para cumplir las interiores, no dura la dicha reformación por no tener fundamento" (Memorial I, n.5, 139ss).[137]
La conclusión a que se llega es la institución del Seminario en cada diócesis. Citando el concilio IV de Toledo, dice: "Esto que dice el concilio parece que se debe practicar de la manera siguiente: que en cada obispado se haga un colegio, o más según la cualidad de los pueblos principales que en él hubiere, en los cuales sean educados, primero que ordenados, los que hubieren de ser sacerdotes" (Memorial I, n.12, 303ss).[138]
El Maestro propone una formación diversificada, según se trate de sacerdotes más fijos (curas y confesores) o de predicadores más ambulantes: "Dos necesidades de personas de éstas tiene la Iglesia; una de curas y confesores, y otra de predicadores; y entrambas se han de remediar de estos colegios" (Memorial I, n.13, 335ss).
En resumen, el Maestro privilegia la selección de los candidatos, invitando a proporcionar una formación adecuada en la oración y pobreza, el estudio de la teología y de la moral, partiendo de las fuentes escriturísticas y conciliares. Propone también una formación teológica y pastoral diferenciada según la dedicación a diversos ministerios. "Los mejores son aquellos que, dejadas todas las cosas, contentos con letras y virtud, buscan esta dignidad para servir a Cristo imitando a Él y a sus Apóstoles" (Advertencias II, n.10, 140ss).
La formación debe continuar durante toda la vida. Al Maestro le apenaba la falta de ciencia teológica y bíblica en los ministros (cfr. Tratado sobre el sacerdocio, n.42), "cuya ignorancia es mucho de llorar" (Advertencias I, n.44, 1521). Habrá que continuar el estudio de la Escritura, de los Santos Padres, de la doctrina moral y espiritual. Para ello recomienda "que, cuando los ordenen, se sepa qué libros tienen de casos de conciencia y de doctrinal moral, de santos (Padres) y de Sagrada Escritura; y se tenga en cuenta con ellos en las visitaciones, que tengan los dichos libros y estudien en ellos, pues, sin esto, todo es perdido" (Memorial II, n.71, 2907ss).[139]***
La economía de los Seminarios es viable si se distribuyen mejor las rentas del obispado y de los mismos clérigos y beneficiados (canónigos): "Y no hay en esto mucho tiempo que gastar, porque de préstamos y fábricas ricas y de anejar algunos beneficios podría proveerse esto con muy gran facilidad. Y cuando de ahí no, con quitar tres o cuatro raciones y otras tantas canonjías de la iglesia catedral, sobraría paño. Y sería bien hecho; pues, en comparación de confesar, y predicar, y regir ánimas, pequeño negocio es cantar en el coro; mayormente que, aunque éstos se quitasen, no por eso habría menos voces, pues no todos los canónigos y racioneros cantan" (Memorial I, n.19, 577ss).
La influencia de las propuestas avilistas, acerca de los Seminarios, en el decreto tridentino, ha sido demostrada por algunos estudios de investigación[140]. El Maestro Ávila, al mismo tiempo, se esforzó por aplicar las decisiones conciliares. Así lo hizo especialmente por medio de las Advertencias al concilio de Toledo: "Para reformar enteramente el clero todo conviene que se hagan de nuevo tales sacerdotes, que antes sea necesario tenerles de la rienda a su virtud y celo que no darles de la espuela para que caminen con leyes... El medio, pues, para hacerlos tales cuales se desea es poner en debida ejecución el seminario" (Advertencias I, n.17, 1359ss).[141]
El Maestro va señalando las diversas áreas de formación: espiritual (moral), intelectual, pastoral (cfr. Advertencias I, n.39, 1405ss). "Lo que principalmente se pretende es hacer buenos sacerdotes que puedan ser curas suficientes para confesar y doctrinar el pueblo" (ibídem, n.40, 1447ss). "En la educación de los que han de estar en el seminario es lo principal de este negocio... de manera que salgan maestros verdaderos de las almas, redimidas por la sangre del Señor" (ibídem, n.43, 1509ss).
Una de las preocupaciones más urgentes será la de en conseguir buenos formadores (cfr. Advertencias I, nn.40-41) y una formación especializada, también a nivel universitario (cfr. ibídem, n.40, 1459ss). "Lo principal que deseo se trate es el buen orden del Seminario, eligiendo a gente de virtud y poniéndoles rectores espirituales o que tengan algo de ello; porque juntándose buen fundamento y doctrina, no faltará nada" (Carta 244, 14ss, a Don Pedro Guerrero).
Para conocer los contenidos de la fe, el Maestro hace hincapié en la doctrina de los concilios. El cita y usa frecuentemente estos textos, que comunican el significado de la revelación. En el Memorial primero para el concilio de Trento, pide al concilio que los formadores, los educandos y los mismos pastores puedan disponer de los textos conciliares: "Por no tener los teólogos copia de todos los Concilios, ignoran muchas cosas necesarias. Convenía que mandase ponerlos en las Universidades e Iglesias Catedrales. Los Concilios que comunmente andan impresos son pequeña parte de los que hay" (Memorial I, n.67).
Las reflexiones teológicas necesitan inspirarse en los santos teólogos que ha tenido la Iglesia. Escribe en el Memorial segundo al concilio de Trento: "Parece que la Teología de Santo Tomás y de San Buenaventura es la más conveniente para ser enseñada en las escuelas, aunque en particular pueda cada uno leer otros buenos autores que hay" (Memorial II, n.66, 2741ss).
Respecto a la formación permanente o continuada (de que ha hablado más arriba), el mismo Maestro había dirigido pláticas a los clérigos de Córdoba, Granada y Montilla. En carta a Don Pedro Guerrero (arzobispo de Granada) recuerda "la obligación de los obispos así en predicar, como en hacer pláticas a sus clérigos" (Carta 244, 19ss). Sugiere "que se dé orden cómo en los pueblos haya lección para los clérigos, así para saber lo que conviene saber para sí y para otros, como para estar bien ocupados" (ibídem).
Ayudaría mucho a la formación permanente si hubiera un texto catequético más completo para quienes imparten el catecismo: "Debíase mandar que éste (catecismo) le tuviesen todos los curas y los predicadores y con efecto leyesen en él" (Memorial II, n.63). Las residencias sacerdotales, organizadas en ambiente de caridad, oración y estudio, favorecen la formación continuada (cfr. Carta 233 y Advertencias II, n.80).
La formación permanente quedaría truncada, si cada sacerdote no tuviera su propio plan o proyecto de vida. El Maestro ofrece a sus discípulos una serie de "avisos" o consejos sobre cada aspecto de la vida sacerdotal, a nivel personal y, a veces, comunitario: pastoral, intelectual, espiritual. No olvida los medios concretos para asegurar los tiempos de oración, estudio, trabajo o ministerio y descanso.[142]
Puede ser también un plan de vida para un grupo (revisión de vida, cenáculo, etc.). Actualmente se tiende especialmente al proyecto de vida para todo el Presbiterio. El "proyecto" del Presbiterio, pedido por PDV 79, no llega a cuajar cuando falta el proyecto de vida personal o del propio grupo (geográfico, funcional, amistad, asociación, dirección espiritual, etc).
Sobre la vida comunitaria o fraterna, baste recordar el modo de vivir de sus discípulos, según el modelo de la vida de los Apóstoles. Es siempre un encontrarse periódicamente, para compartir y ayudarse en todos los aspectos de la vida y ministerio sacerdotal.
f) Líneas básicas de la espiritual y santidad sacerdotal en la escuela del Maestro Juan de Ávila
No se captaría bien la espiritualidad sacerdotal del Maestro Ávila, si no se encuadrara en la perspectiva del misterio de Cristo, vivido desde la propia interioridad y en sintonía con la interioridad (Corazón) del Señor. De este modo, el misterio de Cristo es conocido y vivido personalmente, estudiado y contemplado, celebrado durante el año litúrgico, anunciado, presente en toda persona que busca o sufre, escondido y manifestado en la Iglesia.
La espiritualidad sacerdotal avilista enraíza en el proceso de la espiritualidad cristiana, como algo necesariamente previo y fundamental: conocerse en la propia identidad (dimensión atropológico-cristiano-vocacional); confiar sin dudas enfermizas en el amor de Dios (dimensión teológico-cristológica); entregarse al camino de perfección (dimensión espiritual-pneumatológica).
Al dirigirse a los sacerdotes (como puede verse en el epistolario) el Maestro tiene en cuenta la realidad concreta de la persona (en su situación ambiental), señala el ideal evangélico del sacerdote, sin rebajas, y recuerda la necesidad de poner en práctica unos medios concretos que lo hacen posible.[143]
Observando todo el campo de la espiritualidad sacerdotal (que analizamos a continuación), se puede constatar la presentación de una síntesis entusiasmante, que podríamos calificar de "mística" sacerdotal, encuadrada según diversas dimensiones: teológico-trinitaria (gloria de Dios), cristológico-eucarística, eclesiológico-esponsal, mariana, evangélica o de seguimiento radical (exigente, posible, entusiasmante), pastoral-intelectual (bíblica, patrística, magisterial, litúrgica, teológica, actual), antropológica y sociológica.
Pasando ya a resumir los elementos básicos más concretos, hay que partir de Cristo Sacerdote, prolongado en la Iglesia, hecho presente especialmente por medio del sacerdocio ministerial. Por el hecho de participar en el ser sacerdotal por medio del sacramento del Orden, el sacerdote ministro puede prolongar la palabra, el sacrificio, la acción salvífica y pastoral de Cristo. La espiritualidad es la vivencia de la participación en el ser de Cristo y de la prolongación de su mismo obrar; se vive lo que uno es y hace. Se concreta en caridad pastoral y virtudes del Buen Pastor, al estilo de la vida de los Apóstoles, en el propio Presbiterio y al servicio de la Iglesia local (particular) y universal.
De todos estos datos de espiritualidad sacerdotal (en armonía con la herencia común de toda la Iglesia), se pueden detectar algunos matices o peculiaridades, que podrían constituir lo que, a veces, se ha llamado escuela sacerdotal avilista. No obstante, los matices avilistas más sobresalientes no pueden infravalorar los factores más comunes que hemos ido resumiendo en todo este capítulo.
La referencia a Cristo Sacerdote y Buen Pastor es muy marcada, al menos si se tiene en cuenta su exposición sobre el misterio de Cristo (Verbo encarnado, crucificado y resucitado, presente en la Eucaristía). Esta espiritualidad, eminentemente pastoral, se inspira en este punto de partida: "El estado sacerdotal, que se tome con los fines para que lo instituyó el Sumo Sacerdote Cristo" (Vida, lib.3º, cap.20). "¡Oh eclesiásticos, si os mirásedes en el fuego de vuestro pastor principal, Cristo, en aquellos que os precedieron, apóstoles y discípulos, obispos mártires y pontífices santos!" (Plática 7ª, 92ss).
Esta línea misionera o pastoral enraíza en la consagración (como participación en el ser de Cristo). Los sacerdotes son "todos enteros consagrados al Señor con el trato y tocamiento del mesmo Señor" (Plática 1ª, 89s). Por hacer al Señor presente, "relicarios somos de Dios, casa de Dios y, a modo de decir, criadores de Dios" (ibídem, 123). Es espiritualidad de dimensión cristológica y eucarística.
Esta referencia del sacerdote a Cristo tiene sentido de relación e intimidad, imitación y sintonía. Los ministerios de la Palabra y de los sacramentos dejan entrever esta relación vivencial. Por ser "pregonero de Cristo" (Carta 165, 91) y dispensador de los misterios de Dios (cfr. Tratado sobre el sacerdocio, n.11), el sacerdote es "un hombre que profesa ser ministro de Cristo crucificado" (Memorial II, n.91, 3520s). Cristo "es la piedra de donde el predicador ha de sacar agua, como dice San Pablo" (Plática 4ª, 11; cfr. 1Cor 10,4).
El trato íntimo es de "amistad" y de "estrecha familiaridad" con Cristo, "como persona que tiene con el Señor particular amistad y particular trato" (Tratado del sacerdocio, n.9, 304). Esta intimidad tiene lugar de modo especial en la celebración eucarística: "Si miramos cuán sobre todo es venir Dios al llamado de un sacerdote y estar en sus manos, dejarse tratar de él con más estrecha familiaridad que nadie pudiera pensar, ninguna santidad le parecerá que le sobra y le iguala, ni que llega con mucho a lo que merece el Señor de pureza infinita, comunicando con tan inefable comunicación" (ibídem, n.12, 493ss).
De este modo, la relación íntima con Cristo se concreta en imitación y sintonía con sus sentimientos y amores: "Es mucha razón que quien le imita en el oficio, lo imite en los gemidos... En este espejo sacerdotal se ha de mirar el sacerdote para conformarse con los deseos y oración de él" (Tratado del sacerdocio, n.10, 344ss).
La centralidad de la celebración eucarística es debida al hecho de representar a Cristo Sacerdote, principalmente durante la celebración de este misterio: "El sacerdote representa en la misa a Jesucristo nuestro Señor, principal sacerdote y fuente de nuestro sacerdocio" (Tratado del sacerdocio, n.10, 342ss; cfr. Ser 56, 234ss). Consecuentemente se pregunta: "¿Cómo puede un sacerdote ofender a Dios teniendo a Dios en sus manos?" (Ser 64, 135s). El sacerdote está en el altar "en persona de Cristo a hacer el oficio del mismo Redentor" (Carta 157, 264s).
Ser representante de Cristo es un servicio de visibilidad y de signo eclesial. Es como si la Iglesia se sintiera también expresada de modo especial en el representante de Cristo, como transparencia e instrumento del mismo Cristo: "El sacerdote, como Orígenes dice, es la faz de la Iglesia; y como en la faz resplandece la hermosura de todo el cuerpo, así la clerecía ha de ser la principal hermosura de toda la Iglesia" (Tratado sobre el sacerdocio n.11, 396ss; cfr. Orígenes, In Lev. homil. 5,3.4).
Esta dimensión eclesial de la espiritualidad sacerdotal la explica el Maestro con diversas comparaciones: "guardas de la viña", "cabezas", "corazones de madre", "ojos": "Guardas son de la viña los pontífices, los predicadores, los sacerdotes" (Ser 8, 600ss). "Por el descuido de las cabezas está la viña (de la Iglesia) tan estragada" (ibídem, 628s) y "la faz tan desfigurada" (ser 55, 784 ). Los sacerdotes son la expresión materna de la Iglesia: "Si hubiese en la Iglesia corazones de madre en los sacerdotes... les daría resucitados las ánimas de los pecadores" (Plática 2ª, 375ss). "Somos los ojos de la Iglesia" (ibídem, 449s).
La dimensión mariana es una consecuencia de la dimensión cristológica, eucarística y eclesial. Se subraya el paralelismo y también la relación materna y filial respectivamente. "Mirémonos, padres, de pies a cabeza, ánima y cuerpo, y vernos hemos hechos semejantes a la sacratísima Virgen María, que con sus palabras trujo a Dios a su vientre... Y el sacerdote le trae con las palabras de la consagración" (Plática 1ª, 111ss; cfr. Carta 157, 260ss). La acción sacerdotal es semejante a la de María por "el ser sacramental que el sacerdote da a Dios humanado", no sólo una vez, sino frecuentemente (Tratado del sacerdocio, n.2, 70ss). Consecuentemente, María considera a los sacerdotes como parte de su mismo ser: "Los racimos de mi corazón, los pedazos de mis entrañas" (Ser 67, 743ss). La castidad o virginidad sacerdotal tiene esta perspectiva mariana (cfr. Tratado del sacerdocio, n.15).[144]
La dimensión de seguimiento evangélico radical la hemos resumido anteriormente (en este mismo capítulo), al hablar de la caridad pastoral y, consecuentemente, de las virtudes del Buen Pastor. La descripción del "ministro de Cristo crucificado" (Memorial II, n.91, 3520s) se concreta en la exigencia de compartir e imitar su misma vida de renuncia y de entrega (cfr. Ser 81,96ss).
La caridad pastoral, como "caridad para con todos" (Ser 10,132ss), es la fuente de las exigencias de vida evangélica al estilo de los Apóstoles, como hemos indicado más arriba (n.3, a-b). Los sacerdotes ministros han sido elegidos "para pastores criadores del ganado, que los apacienten en los pastos de ciencia y doctrina... llevándolos sobre sus hombros... aunque sea con derramar sangre y dar la vida, como hizo Cristo, y dijo que este tal es buen pastor" (Advertencias I, n.6, 198ss).
Estas dimensiones básicas (cristológico-eucarística, eclesial-mariana y evangélico-pastoral) podrían ser la clave para delinear la escuela del Maestro Ávila en sus dos vertientes: espiritualidad cristiana en general y espiritualidad sacerdotal en particular.[145]
No se puede deslindar completamente, en la doctrina avilista, la vertiente sacerdotal y la cristiana general. Los contenidos básicos de esta espiritualidad son los mismos. Son temas que se basan en su misma teología sobre la Encarnación, Cuerpo Místico (Iglesia), humanidad (y Corazón) de Cristo, Eucaristía, Espíritu Santo, justificación (y beneficio de Cristo), María, sacerdocio, etc. Los temas de espiritualidad cristiana tienen su punto de partida en Dios Amor, que se manifiesta a través de la Encarnación del Verbo y, de modo especial, en la interioridad o Corazón de Jesucristo (desde la Encarnación hasta la cruz).
Esta espiritualidad cristiana y sacerdotal es de máxima confianza en los méritos de Cristo Sacerdote y Redentor. Apoyado en este confianza, el Maestro alienta a sus discípulos y oyentes a emprender el camino de la contemplación y perfección,
invitándolos a insertarse responsablemente, según su propia vocación específica, en la vida concreta (personal, familar-comunitaria, social). Tema constante de esta derivación contemplativa, evangélica y misionera, es la Eucaristía, la acción del Espíritu Santo y la figura programática de María (modelo y Madre de la Iglesia).
Sus discípulos, como también sus lectores y oyentes, se sentían fuertemente atraídos, pero no condicionados por su doctrina y su testimonio. La doctrina del Maestro siembra confianza y serenidad, mientras, al mismo tiempo, deja grandes espacios para la propia iniciativa y responsabilidad. Es la libertad cristiana, tan ausente en los círculos iluministas de la época.
Los biógrafos del Maestro hablan de "colegio de clérigos", "escuela", "discípulos", pero no aparece propiamente una estructura organizada sobre el grupo "avilista". Hay que recordar que el grupo de discípulos sacerdotes era muy diferenciado (seculares y de diversas órdenes religiosas), y no refleja siempre una relación entre ellos, salvo en el caso de algunas residencias o colegios y de algunas obras apostólicas (grupos para misiones populares).
Sobresalen dos características de la escuela: vida espiritual y vida apostólica. "Vivían sus discípulos apostólicamente... Tuvo si duda intento... de fundar una religión de sacerdotes ejemplares, que, coadjutores de los obispos, acudiesen a cultivar las almas, enseñar a los niños la doctrina, criar santamente la juventud, ayudar a los fieles en el camino de la salvación, gobernar los más perfectos en la vida espiritual; finalmente, que predicasen por el mundo, dilatasen la verdad evangélica, manifestasen los tesoros que tenemos en Cristo crucificado" (Vida, lib.2, cap.1).
El término "escuela", en nuestro caso, indica más bien una relación de consejo espiritual e imitación, pero también una cierta disposición para la vida en grupo: "Ha tenido (el Maestro Ávila) secuela de muchos que, siguiendo su consejo, se dan al servicio de Dios y reformación de vida, de cualquier estado, y especialmente ha tenido y tiene secuela de algunos, en los cuales ha atinado el buen Ávila el modo de vivir de la Compañía, sin obediencia tamen ni obligación".[146]
A veces, los testimonios se refieren a residencias concretas, con cierta organización interna y con derivación apostólica: "Hízose también aquí (en Granada) un Colegio de clérigos recogidos para servicio del arzobispo... Y pudiera referir aquí las personas insignes que fueron tocadas de Nuestro Señor, que después fueron doctores en Teología y muy útiles a la Iglesia con su ejemplo y doctrina".[147]
Pero el hecho de repetirse esos colegios y residencias, dio lugar a una sensación de lo que hoy llamaríamos movimiento, asociación o grupo. Así ocurre con la petición del cardenal infante, Don Enrique, arzobispo de Évora (Portugal): "Había volado en alas de la fama hasta Portugal el buen nombre de esta pequeña Congregación de sacerdotes operarios y sanctos. Y con deseo de aprovechar más sus ovejas, el cardenal... escribió a el Maestro Ávila le enviase algunos sacerdotes de su escuela".[148]
Un buen resumen de la relación del Maestro Ávila con sus discípulos sacerdotes, lo encontramos en esta afirmación del biógrafo Muñoz: "Fue muy celoso, con deseos y afectos ardentísimos, de que se conociese la perfección que pide el estado sacerdotal, que se tomase con los fines para que le instituyó el Sumo Sacerdote Cristo; procuró con grandes ansias y trabajó mucho para que todos fuesen perfectos sacerdotes. Hacíales muy de ordinario pláticas" (Vida, lib.3, cap.20). El grupo de profesores de Baeza recibió atenciones y orientaciones especiales.
Si la organización del "grupo" o "escuela" no aparece bien definida, sí queda clara la adhesión espiritual (no condicionante) y los contenidos doctrinales sobre la santidad sacerdotal (que ya hemos estudiado en este mismo capítulo).
Si se quiere instar en el término "escuela", cabe recordar el influjo decisivo de la figura y doctrina avilista en sus discípulos (procedentes de diversas corrientes), en órdenes religiosas, en santos y autores espirituales hasta nuestros días.
Esta herencia avilista a través de los siglos es debida a su autenticidad, muy distante de los movimientos erasmistas, reformistas e iluministas de su época. Es una herencia relacionada con los carismas de tantos santos del siglo XVI; pero sus contenidos parecen estar también muy de acuerdo con los del concilio Vaticano II y su postconcilio.
La influencia avilista la constató, a distancia de setenta años de la muerte del Maestro, su biógrafo Muñoz,quien escribía en 1635: "No hay ciudad en España que no haya gozado de más varones santos y apostólicos (se refiere a los discípulos), que hayan enseñado más sólida doctrina; y, con haber más de ochenta años que predicó el padre Maestro Ávila y sus discípulos, permanecen hoy en día discípulos de sus discípulos, que conservan el espíritu de este gran Maestro" (Vida, lib.1, cap.20).
El hecho de que la doctrina avilista siga siendo actual en épocas tan diferenciadas como las que discurren entre el siglo XVI y el inicio del tercer milenio, indica una novedad permanente. Santos y autores espirituales citaron y siguen citando con profusión esta doctrina preñada de una viva espiritualidad y capaz de suscitar continuos movimientos de renovación eclesial.[149]
El caso histórico similar de la escuela francesa de espiritualidad del siglo XVII, puede servir como analogía. Sus autores y escritos siguen siendo de suma actualidad. La originalidad innegable de esta escuela, tan influyente hasta hoy, tiene un punto de arranque en el misterio de la Encarnación del Verbo, a la luz de los contenidos bíblicos y patrísticos, con datos entusiasmantes acerca del sacerdocio de Cristo y del sacerdocio ministerial, con gran capacidad de renovación espiritual y pastoral.
Todo resurgir en la historia de la Iglesia tiene sus raíces tradicionales y sus avances novedosos. La escuela francesa, sin perder su originalidad, encuentra sus raíces inmediatas en San Carlos Borromeo (institución de Seminarios), en el cartujo de Burgos, Antonio de Molina (por su doctrina sacerdotal patrística y avilista) y también en San Juan de Ávila.
Hay contenidos comunes en el Maestro Ávila (siglo XVI) y en los autores de la escuela francesa (siglo XVII). La sintonía de conceptos es debida principalmente a las fuentes comunes (bíblicas, patrísticas y de autores espirituales). Es importante notar la gran semejanza en el enfoque acerca de la Encarnación del Verbo, las "miradas" de Cristo Sacerdote (al Padre, al la humanidad entera, a sí mismo para inmolarse), las exigencias evangélicas de la espiritualidad sacerdotal, el paralelismo con la figura de María, la institución de Seminarios, la renovación del clero.
En este contexto hay que valorar la afirmación de P. Pourrat, al transmitir un testimonio de Bourgoing, que hace referencia al aprecio de Bérulle sobre el Maestro Ávila: "Dios ya había echado sus semillas (de renovación del clero) en diversas personas y lugares; me acuerdo haber oído decir a nuestro muy honorable Padre (P. Bérulle) que ello había sido un diseño (dessein) del P. Juan de Ávila, predicador apostólico; añadiendo, al mismo tiempo, que si hubiera vivido (Ávila) en nuestros días, hubiera ido a ponerse a sus pies, y lo hubiera tomado como maestro y director de esta obra, pues le tenía en singular veneración".[150]
Si durante los siglos XVI-XX, la influencia avilista fue más a nivel internacional (por medio de autores espirituales y de santos), a mediados del siglo XX se puede constatar un resurgir espiritual y sacerdotal preferentemente en los ambientes españoles y latinoamericanos. Las fechas son muy significativas: 1944 (cincuentenario de la beatificación), 1946 (Pío XII lo declara Patrono del Clero secular español), 1969 (celebración del cuarto centenario de su muerte), 1970 (Pablo VI lo canoniza y lo propone como protector de los sacerdotes y como modelo de renovación eclesial).[151]
Es difícil valorar debidamente un resurgir sacerdotal que produjo abundantes frutos antes e inmediatamente después del concilio Vaticano II (especialmente entre 1944 y 1970), a pesar de la crisis sacerdotal (crisis posterior y generalizada también en otras naciones).
La doctrina del Vaticano II (clausurado en 1965) comienza a aplicarse de modo coherente al final del segundo milenio y principio del tercero. Es un hecho parecido al postconcilio tridentino (aplicado lentamente según las diversas situaciones). En nuestro estudio hemos intentado constatar los contenidos doctrinales avilistas de valor permanente, señalando su potencialidad de incidir en los temas actuales.
Los estudios de investigación histórica sobre el Vaticano II encontrarían abundante materia sobre la incidencia de algunos obispos (de marcada línea avilista) en la redacción de los textos sacerdotales sobre la "familia sacerdotal" y la "fraternidad sacramental" del Presbiterio (cfr. LG 28; CD 28; PO 8)[152].
El Congreso Internacional, celebrado con ocasión del quinto centenario su nacimiento (Madrid, 2000), ha sido una nueva muestra de su influjo permanente en la Iglesia.[153]
La espiritualidad y santidad sacerdotal, descrita y testimoniada por el Maestro Ávila, sigue sentando escuela, sin necesidad de estructura y organización estricta. Es una realidad de gracia, que no se condiciona a ningún sector, puesto que pertenece a todos. Cada uno podrá inspirarse en algunos aspectos más que en otros. Puede ser también que algunos grupos delineen su camino de revisión de vida y de comunidad fraterna, a la luz de esa doctrina, respetando otras aplicaciones y posibilidades.
De modo parecido a como ocurre con los carismas fundacionales de los santos, esas gracias son siempre insuficientemente aplicadas, porque pertenecen a una herencia común y permanente, capaz de producir continuos movimientos de renovación evangélica, en cualquier situación histórica, eclesial, sociológica y cultural.
Así es la escuela espiritual y sacerdotal del Maestro Juan de Ávila, Patrono del Clero español, que bien merecería llamarse Maestro de la confianza en el amor de Dios, Maestro de la espiritualidad sacerdotal y de la santidad cristiana.
Las Iglesias particulares y sus Presbiterios podrían encontrar en él una invitación hacia una entrega evangélica sin rebajas y una misión apostólica sin fronteras, en armonía con todas las vocaciones y ministerios, y en comunión con el sucesor de Pedro que preside la caridad universal y que lleva para todos el "cántaro" del agua viva (cfr. Ser 33, 249ss; Lc 22,10): "¿Quién habrá que no siga al vicario de Cristo viendo que él sigue a Cristo?" (Memorial II, n.41, 1772ss).
Podemos reconocer, todavía hoy, en la figura y escritos del Maestro San Juan de Ávila, "una escuela de intensa espiritualidad" (Pablo VI)[154]. Juan Pablo II ha ratificado este mismo deseo e invitación: "El ejemplo de su vida, su santidad, es la mejor lección que sigue impartiendo a los sacerdotes de hoy, llamados también a dar nuevo vigor a la evangelización... Ante los retos de la nueva evangelización, su figura es aliento y luz también para los saceredotes de hoy que, al ser administradores de los misterios de Dios, están en el corazón mismo de la Iglesia, donde se construye sobre base firme y se reune en la caridad".[155]
IV
LINEAS CONCLUSIVAS: TRAZOS FUNDAMENTALES DE SU ESPIRITUALIDAD CRISTIANA Y SACERDOTAL
La espiritualidad cristiana y sacerdotal del Maestro Avila está relacionada estrechamente con su ministerio de profeta, liturgo y pastor. En su sepulcro se resume todo con dos palabras ("messor eram", fui segador), que reflejan su ministerio profético de predicador, catequista y educador. Esta acción ministerial es eminentemente contemplativa y, al mismo tiempo, deriva hacia la dirección o consejo espiritual, para guiar a los creyentes por el camino de perfección. Se le descubre siempre como Maestro en todo el decurso de la vida espiritual cristiana y sacerdotal.
En realidad, el Maestro anunciaba el mensaje evangélico en vistas a ayudar a celebrarlo en la liturgia y a vivirlo por un camino de perfección. Por su parte, él vivía esta realidad ministerial como seguimiento evangélico (a imitación del Buen Pastor), al estilo de los Apóstoles y, de modo especial, según la figura de Pablo. Con esta vitalidad espiritual y apostólica, de línea contemplativa (recepción de la Palabra), eucarística y mariana, podrá llegar a los campos más concretos de la caridad pastoral: los pobres, los enfermos, los atribulados, la juventud, la familia... La reforma eclesial que propugna es, pues, desde la propia reforma y procurando la renovación de los diversos estamentos eclesiales.
La dedicación generosa del Maestro Ávila a los ministerios tiene su punto de partida en el amor y seguimiento de Jesucristo: "Señor, que siempre os seguí yo por vos y en vos" (Ser 15, 188s). Su apostolado hubiera sido totalmente otro de no haber tenido el gesto de repartir todos sus bienes patrimoniales (una mina de plata) entre los pobres, con ocasión de su primera Misa. Los primeros años de su ministerio en Sevilla, viviendo evangélicamente con Fernando de Contreras, le marcaron para toda la vida. Su vida pobre y su cercanía a los pobres, durante sus correrías apostólicas, no era un aditamento, sino algo esencial como en la vida de Jesús. "Fue obrero sin estipendio... y habiendo servido tanto a la Iglesia, no recibió de ella un real" (L. Muñoz, Vida, Lib. 3º, cap. 4). Así vivió y así murió, dejando como símbolo la cruz de palo que presidía su habitación en Montilla.[156]
Su disponibilidad misionera quedó también marcada por el ofrecimiento para evangelizar en el Nuevo Mundo, alistándose como misionero con el primer obispo de aquellas tierras (Fr. Julián Garcés). Su viaje frustrado se tradujo en una dedicación plena a los ministerios, según el estilo de vida de los Apóstoles, urgido por la caridad del Buen Pastor. A donde no llegó el "Apóstol de Andalucía", llegarían sus discípulos. Los campos de apostolado eran muchos: predicación y catequesis, sacramentos y vida litúrgica, obras de misericordia, educación, dirección y orientación espiritual, siempre hacia los horizontes universalistas de la Iglesia y hacia todas las situaciones sociológicas y culturales.
Era un trasunto de la figura apostólica de Pablo, en su vida y en su predicación. Desde los comienzos de su predicación, el Maestro explicaba los escritos paulinos; en Écija, ya antes de 1531. Las lecciones sobre la carta paulina a los Gálatas fueron impartidas en Córdoba antes del año 1537. "Fue nuestro predicador muy devoto del apóstol San Pablo y procuró imitarlo mucho en la predicación y en la desnudez y en el gran amor que a los prójimos tuvo. Supo sus epístolas de coro... Y es de ver que todas las veces que se le ofrecía declarar alguna autoridad de este santo Apóstol lo hacía con grande espíritu y maravillosa doctrina, como consta de todo sus sermones y escritos".[157]
A sus discípulos recomendaba este mismo paulinismo, que se aprende a fuerza de persecución: "Si vuestras mercedes estuvieran sentenciados a muerte con tres testigos contestes, como yo los tuve, entendieran muy bien a San Pablo". Un gran historiador ha llegado a afirmar: "Juan de Ávila es un retrato vivo del apóstol San Pablo. Yo no recuerdo que en la historia de la Iglesia hayan otro que se le asemeje tanto. En la vida y en el pensamiento".[158]
Como predicador, el Maestro Ávila es un caso extraordinario en su época, tan falta de buenos predicadores. El epitafio de su sepulcro ("Messor eram") se refiere principalmente a este ministerio. Los biógrafos le llaman "predicador apostólico" o también predicador evangélico. Con estilo paulino (en cuanto a los contenidos y al fuego interior de los conceptos), su predicación abarcaba todos los ambientes del sur de España (templos, conventos, plazas y calles) y todos los géneros de predicación: homilías, conferencias o pláticas, catequesis. Es predicación que discurre glosando los tiempos y contenidos litúrgicos.[159]
Según afirma el mismo biógrafo Fr. Luís, "como persona de letras y ingenio que era... llevaba el sermón bien enhilado" (Vida, parte 3ª, cap. 5). Se producían grandes conversiones o grandes cambios de vida, como en el caso de San Juan de Dios. Sus discípulos y dirigidos se alimentaban de sus sermones.[160]
Una de sus características más sobresalientes fue la de catequista y educador. Como buen pedagogo, se basa en unos contenidos claros, ordenados y completos, presentados con amenidad, convicción y testimonio, reclamando una actitud de alegría por parte de los catequistas, ayudando a memorizar los contenidos por medio del diálogo, las expresiones poéticas y el canto. Era necesario que los niños entendieran el catecismo y supieran explicarlo: "Para que lo entiendan y sepan dar cuenta de cada cosa qué es y para qué" (Doctrina cristiana, final).[161]
El Maestro Ávila era un director espiritual muy conocido y consultado en su época. Sus consejos son pautas muy acertadas y de aplicación concreta a cada persona, en el camino de la vocación, oración-contemplación, perfección, vida fraterna y apostolado. Los dirigidos y dirigidas eran gente de toda condición social, gente sencilla e intelectual, del estamento laical, religioso o sacerdotal, obispos y autoridades civiles. En el epistolario de dirección espiritual o en otras referencias, pueden encontrarse nombres de dirigidos como San Juan de Dios, Diego Pérez de Valdivia, Luís de Granada, Antonio de Córdoba, Sancha Carrillo, Ana Ponce de León (condesa de Feria), Inés de Oces, etc... A todos les va señalando los caminos de la vida espiritual, sin rebajar las exigencias, como quien ha escuchado con respeto, ha reflexionado y acompaña con afecto sincero; invita siempre al conocimiento propio, a la confianza en el amor de Dios y a la entrega generosa.[162]
La figura del Maestro Ávila es la de un contemplativo, que
bebe continuamente en las fuentes de la Palabra de Dios con actitud oración humilde y confiada. Cumplía lo que él mismo recomendaba a sus discípulos: "Sed amigos de la Palabra de Dios, leyéndola, hablándola, obrándola" (Carta 86, 193s). Sus biógrafos dicen que "vivía de oración, en la que gastó la mayor parte de su vida" (L. Muñoz, Vida, lib. 3, cap. 14) y que, pesar de sus muchas ocupaciones, "no predicaba sermón sin que por muchas horas la oración le dirigiese" (ibídem, lib. 1, cap. 8).
Su vida apostólica era eminentemente eucarística. Era un enamorado de la Eucaristía: celebrada, adorada, vivida, predicada. Su mismo sello personal (como puede verse en las cartas) tiene grabada una custodia con el Santísimo expuesto. Fue el gran apóstol de la comunión frecuente y diaria. Tradujo en redacción poética castellana el "Pange lingua" y el "Sacris Solemnis". Se conservan veintisiete sermones dedicados directamente a la Eucaristía. No dejaba de predicar en la fiesta y octaba del Corpus Christi, especialmente desde que, en 1542, se le apareció el Señor, caído bajo el peso de la cruz, cuando el Maestro iba a retirarse la Cartuja; entonces oyó estas palabras: "Así me ponen los hombres".[163]
Su vida espiritual era profundamente mariana. Los sermones dedicados directamente a María (Ser 60-72) se han llamado, a veces, "libro de la Virgen". Todos los otros sermones acostumbran a estar precedidos por la invocación a María, pidiendo la gracia particular del momento litúrgico. En las biografías se indica con detalle esta su preferencia espiritual. Durante su estancia en Granada, ayudó con sus sermones a la construcción de una iglesia en honor de la Santísima Virgen, acarreando él mismo algunas piedras. Recogen también una de sus oraciones marianas preferidas, que recitó en el momento de expirar: "Recordare, Virgo Mater, cum steteris ante Deum, ut loquaris pro nobis bona, et avertas indignationem suam a nobis"[164]. Algunas de sus expresiones son índice de su misma espiritualidad mariana: "Más quisiera estar sin pellejo que sin devoción de María" (Ser 63, 544s); "cuando yo veo una imagen con su Niño en los brazos, pienso que he visto todas las cosas" (Ser 4, 553s).
La caridad pastoral del Maestro se concretaba en todos los niveles ministeriales, pero se puede notar una permanente preferencia por los más pobres, enfermos y atribulados, niños y jóvenes, campesinos y trabajadores. Sus obras caritativas eran asistenciales y promocionales, especialmente proporcionando centros educativos y organizando cofradías, llamando a los ricos a compartir sus bienes con los necesitados y urgiendo a las autoridades a proporcionar trabajo y asistencia a los trabajadores. A partir de su propia experiencia, podía instar a llenar estos vacíos, como consta por los "Memoriales" para el concilio de Trento (cfr. Memorial I, n.43; Memorial II, n.55). Su acción catequética tenía en cuenta estos sectores marginados[165]. Las cartas dirigidas a los enfermos están llenas de unción y comprensión.[166]
Todas estas líneas de su fisonomía (como profeta, liturgo y pastor) le llevaron, sin intentarlo directamente, a ser un gran reformador de la vida eclesial en todos sus niveles (catequesis, sacramentos, caridad) y estamentos (laicado, religiosos, sacerdotes y jerarquía en general). Sus escritos son una invitación continua a la reforma personal y comunitaria por una línea profundamente evangélica. Su invitación nace del amor a la Iglesia, aprendido en la meditación de la Palabra. Por esto le ilusiona pensar que es la misma Iglesia la que invita a la renovación[167]. Su mira principal esta la renovación de la vida sacerdotal (obispos y presbíteros) y de la vida consagrada. Pablo VI, en la homilía de la canonización, le calificó de "un precursor" de la "renovación eclesial".[168]
El Maestro Ávila es un enamorado de Cristo Buen Pastor, contemplado en su Palabra, celebrado en la Eucaristía y sacramentos, anunciado por medio de la predicación y catequesis, vivido con sus exigencias evangélicas y comunicado para ser vivido según las bienaventuranzas y el mandato del amor. No es, pues, un tema el que le atrae, sino una persona, que es el Hijo de Dios hecho nuestro hermano. En Cristo Redentor, se nos ha revelado Dios como Dios Amor, para la salvación de todos y cada uno de los seres humanos.[169]
En sus escritos y en su vida aparecen ampliamente todos los temas de la espiritualidad cristiana y sacerdotal. Sus ejemplos y enseñanzas son una guía para todos los creyentes (laicos, religiosos, sacerdotes). San Juan de Avila explicó y vivió estos temas (cap. I) y puede ser considerado con un Maestro eximio de espiritualidad cristiana y sacerdotal (cap. II-III). Su influjo en la posteridad, a nivel universal, aparece claro en santos y escritos espirituales hasta nuestros días (ver trabajo aparte: Influencia histórica permanente del Maestro San Juan de Avila).
Pablo VI, en los discursos con ocasión de la canonización, delinea la figura de Juan de Ávila, especialmente como modelo de la santidad cristiana y sacerdotal. Indica su figura y sus escritos como "una escuela de intensa espiritualidad". El Papa propone especialmente: "la firmeza en la verdadera fe, el auténtico amor a la Iglesia, la santidad, la fidelidad al Concilio, la imitación de Cristo, tal como debe ser en los nuevos tiempos"[170]. Y resume la figura "profética" del Maestro con esta pincelada: "Una santidad de vida nada común, un celo apostólico sin límites, una fidelidad sin engaños a la Iglesia"[171].
Juan Pablo IIinvita a seguir "el ejemplo de su vida, su santidad... ante los retos de la nueva evangelización"[172]. El Papa citó a San Juan de Avila en primera carta de Jueves Santo (1979), así como durante las visitas a España (Sevilla, 5 noviembre de 1982; Valencia, 8 de noviembre). En un discurso del 1 de diciembre de 2000, también en relación con el V centenario del nacimiento del Maestro, cita ampliamente sus enseñanzas e invita a seguir "el ejemplo, siempre actual, de san Juan de Ávila".[173]
[5]Ver: Obras completas del Santo Maestro Juan de Ávila (Madrid, BAC, 1970-1971) 6 volúmenes; al inicio del volumen I se recogen, en elenco bibliográfico, todas las ediciones de los escritos en diversas lenguas, así como los estudios realizados.
[7]En la "Guía de pecadores" (Lisboa 1556), Fr. Luís publicó una parte del "Audi Filia" (todavía no editado por el Maestro). Era asiduo lector de las cartas del Maestro. De su aprecio por el "Audi Filia", dice: "El Audi Filia también podré yo decir que lo tengo en la cabeza por haberlo leído muchas veces; y, cuando lo leo, paréceme que veo vivo al Padre en aquellas letras muertas, mayormente acordándome cuántas veces platicó conmigo muchas de éstas" (Carta a Sr. Ana de la Cruz, condesa de Feria). Ver: B. VELADO GRAÑA, Dos cartas inéditas del V.P. Fr. Luís de Granada: Revista de Espiritualidad 7 (1948) 350-355.
[18]El texto del prólogo se encuentra en la Miscelánea breve de los escritos menores: Obras completas, vol. VI, 512-514.
[19]La espiritualidad avilista ha sido estudiada con cierta amplitud, aunque quedan todavía muchos aspectos por profundizar. Estudios: C.M. ABAD, La espiritualidad del Bto. Ávila: Manresa 28 (1956) 455-478; M. ANDRÉS MARTÍN, San Juan de Ávila, Maestro de espiritualidad (Madrid, BAC, 1997); F. CARRILO RUBIO, Espiritualidad del Beato Maestro Juan de Ávila: Semana Avilista 1 (1952) 93-105; J. ESQUERDA BIFET, Juan de Ávila, Maestro de espiritualidad cristiana: Studia Missionalia 36 (1987) 83-107; Id., Jean d'Avila, en: Dictionnaire de Spiritualité Chrétienne, VIII, 1 partie, 270-283; Id., Giovanni d'Avila, en: Dizionario Enciclopedico di Spiritualità (Roma, Città Nuova, 1990) 1125-1128; A. GRANADO BELLIDO, San Juan de Ávila. Por qué quema el fuego (Madrid, Paulinas, 1991); I. MENÉNDEZ-REIGADA, El Beato Juan de Ávila, maestro de vida espiritual: Vida sobrentural 39 (1940-1941) 12-13, 102-109; 40, 27-36, 91-99; 41, 28-36; P. POURRAT, La spiritualité chrétienne (Paris 1944) t. 3, 159-163.
[20]El tema de la Trinidad y la presencia divina por inhabitación: M. ANDRÉS MARTÍN, San Juan de Ávila, Maestro de espiritualidad (Madrid, BAC, 1997) cap. VI (espiritualidad trinitaria).
[21]Estas son sus perspectivas fundamentales: J. ESQUERDA BIFET, Giovanni d'Avila, en: Dizionario Enciclopedico di Spiritualità (Roma, Città Nuova, 1990) 1125-1128.
[22]Ver: M. ANDRÉS MARTÍN, San Juan de Ávila, Maestro de espiritualidad, o.c., cap. IV (experiencia de amor) y V (la unión).
[23]La venida del Espíritu Santo sana el corazón: "Venga el Espíritu Santo y quite este corazón cruel, duro, etc., y denle otro sano" (Ser 31, 266; cfr. Ez 11,19).
[25]"Verdaderamente te ama y procura tu bien. Padre tuyo es y buen padre; y a todos ayuda, y hace bien a los que en él esperan" (Ser 9, 309ss).
[26]Así es la actitud de la oración contemplativa, que se expresa "con un afecto sencillo, como niño ignorante" o con "una sosegada atención para aprender de su maestro" (AF cap. 75, 7656ss). Es una actitud como de "un niño o uno que oye órgano y gusta" (Plática 3ª, 167ss).
[27]El Maestro describe la actitud de los primeros cristianos respecto a María, quienes, "movidos por el Espíritu Santo", constataban "el grande amor con que recibía a los que iban a ella, su gran misericordia, que a ninguno desechaba" (Ser 70, 674ss). Honrarla a ella equivale a honrar a Cristo, "porque toda la honra que a su Madre hicieren, la recibe Él como hecha a sí mesmo" (ibídem, 1206ss).
[28]Se han hecho mucho estudios sobre la doctrina mariana en e Maestro Avila. Respecto a la espiritualidad mariana, recojo conenidos y abuntante bibliografía: La oración contemplativa en relación a la devoción mariana según el Maestro Juan de Ávila: Anthologica Annua, 24-25 (1977-1978) 499-550; La doctrina mariológica del Maestro san Juan de Avila: Marianum 62 (2001) 91-114. Cfr. A. MOLINA, Presencia de María en el epistolario del Santo Maestro Juan de Ávila: Estudios Marianos 36 (1972), 281-304.
[29]Acerca de los santos, el Maestro acentúa la imitación y la intercesión. Cfr. R. GARCÍA Y GARCÍA DE CASTRO, El Mtro. Juan de Ávila, santo y forjador de santos: Maestro Ávila 1 (1946) 223-238.
[30]En la "Doctrina cristiana" (1554) se dedica una parte importante al "Credo". También se puede encontrar una síntesis de los contenidos de la fe en el "Dialogus inter confessarium et paenitentem" (n. 4ss). Cfr. M. NICOLAU, La virtud de la fe en las obras del Bto. Ávila: Manresa 17 (1945) 239-242.
[31]Es evidente la referencia a la explicación distinta de Lutero (cfr. Ser 33, 217ss; comenta la doctrina de San Pablo: Gal 2,16).
[32]Los llamados motivos de credibilidad quedan expuestos en el "Audi Filia". El hombre debe creer a Dios si revela (cap. 38), aunque revele misterios ininteligibles (cap. 32), por la autoridad de Dios que no se engaña ni nos engaña (cap. 42).
[33]La fe es "perla preciosa, sin la cual cuanto uno más tiene, más pobre está", y es la "disposición para dársenos el Espíritu Santo" (Carta 150, 89ss).
[34]A sus dirigidos los alienta con esta actitud de esperanza, que se traduce en confianza en el amor de Dios y entrega en sus manos: "El segundo punto que debe mucho notar para alcanzar el camino del cielo, ha de ser tener una viva esperanza en Cristo nuestro Redemptor, aprovechándose de sus merecimientos en todas sus necesidades. Esto se llama en la divina Escriptura con muchos nombres, porque unas veces lo llama fe, otras esperanza, otras sentir de Dios en bondad, otras le llama confianza" (Carta 222, 125ss).
[35]Los sermones son una continua llamada a la confianza en el amor de Dios: "Arrójate en Dios, que no es Dios infiel, que, arrojándote en El, no te ha de hurtar el cuerpo y dejarte caer; si comienzas en el esfuerzo de Dios, en él podrás acabar" (Ser 18, 636ss).
[36]Hay cartas dedicadas totalmente al tema de la confianza, basada siempre en la misericordia de Dios manifestada por medio de Jesucristo crucificado, su Hijo (cfr. Cartas 44, 48, 54, 90, etc.). Las situaciones humanas dejan entrever siempre un destello de la Providencia, que invita a la confianza. Se invita a tener certeza moral del perdón (Carta 160, 51ss), gracias a los "merecimientos de Cristo" (Carta 89, 20ss). Se insiste en ello: "Debe procurar el alegría y confianza grande en los merecimientos de Jesucristo"(Carta 236, 436ss). Y este es "el modo como Él quiere que traten con Él los suyos" (Carta 93, 60ss).
[37]El amor debe prevalecer sobre el temor: "¡Si Dios abriese nuestros ojos para que creyésemos que Dios es verdaderamente bueno, y que nos ama, y el bien que nos tiene aparejado! Aunque para el que no tiene conocimiento de esto es bueno el temor; mas para quien conoce el amor que nos tiene, mucho bien le es pensar en ello, para ser bueno, a quien tanto le ama" (Ser 79, 219ss).
[38]Sobre la caridad en San Juan de Ávila: E.M. DÍAZ RAMÍREZ, Ya han florecido las granadas (Almagro, Ciudad Real, 1993), antología de textos; J.B. GOMIS, El amor puro en el Bto. Juan de Ávila y en Molinos: Verdad y Vida 8 (1950) 351-370; A. SEGOVIA, El amor de Dios en las cartas del P. Ávila: Maestro Ávila 1 (1946) 147-282. Ver los comentarios al Tratado del amor de Dios.
[40]Este gozo es "fruto del Espíritu Santo" (Carta 26, 206ss). Es gozo que expresa "lo más subido de la caridad que en esta vida es cuando nos gozamos de la mesma gloria que tiene Dios" (Carta 222, 425ss).
[41]En el siglo XVI, era frecuente la tendencia hacia los sentimientos sujetivistas. El Maestro amonesta a las monjas de la Cruz, en Zafra: "No penséis que seguir la voluntad de Dios que es solamente rezar un poco o tener alguna poca de devoción o hacer alguna buena obra, que no es sino sufrir afrentas, hacer bien a quien nos hace mal, rogarle por quien nos persigue, y todo hacer contrario a nuestra voluntad; esto es obedecer a Dios" (Plática 16ª, 268ss).
[42]En un sermón dedicado a San Francisco de Asís, dice: "Ésta es buena sabiduría de aquellos con que Dios está, que se guían por el consejo y parecer de Dios; y poco es el saber de los que por su cabeza y parecer se quieren guiar" (Ser 78, 300ss).
[43]Comenta 1Jn 2,7-8, en relación con los textos de la última cena, y alude a la tradición según la cual el apóstol San Juan "lo que más predicaba y escribía era caridad; que cuando era viejo, llevábanlo a la iglesia en una silla, y cuando paraban en el camino predicábales: «¿Qué pensáis, hijuelos? Amaos unos a otros». Y esto muchas veces" (Juan I, lec.9ª, 2229ss).
[44]El Maestro aplica la doctrina del mandamiento nuevo a situaciones difíciles. Se remite a la oración sacerdotal del Señor por la unidad: "Todos generalmente guardad la unidad el corazón, que Cristo oró al Padre... Amaos todos en Cristo, y seréis todos ricos; porque siendo los corazones uno, también lo sea la hacienda" (Carta 86, 162ss, 201s; a la villa de Utrera). Respecto a la caridad pastoral, ver: A. De La FUENTE, El sacerdote y mis hermanos: el Bto. Ávila, modelo de caridad sacerdotal: Maestro Ávila 1 (1946) 413-426.
[45] Ver: M. BRUNSÓ, El Beato Juan de Ávila, reformador y hombre de leyes y de cánones (Madrid, Comillas, 1954) (Tesis Doctoral).
[46]El Maestro tiene sus grandes reparos sobre la pena de muerte, describiendo los males peores que de ella se siguen: "De manera que del delicto (del crimen) y del remedio de él (de la pena de muerte) se siguió igual pérdida" (Carta 11, dirigida a una autoridad civil). Propone buscar otras soluciones alternativas, puesto que "este remedio tan necesario ha de ser el postrero de los otros remedios" (ibídem, 280s). El Maestro se preocupaba de la justicia internacional, especialmente respecto a las guerras tan frecuentes en aquella época. Por esto, en el Memorial primero para el concilio de Trento, propone la creación de un tribunal internacional (cfr. Memorial I, n.63). Cfr. L. CASTÁN, Un proyecto español de Tribunal Internacional de Arbitraje obligatorio en el siglo XVI, formulado por el Mtro Ávila (Tarragona, Biblioteca Antonio Agustín, 1957).
[47]El mismo gobernante se santificará ejerciendo bien su cargo a servicio del bien común: "El lugar de perfección que tenéis es para aprovechar a todos y para que tengáis un acuerdo del bien común con olvido del vuestro" (Carta 86, 131ss). Cfr. A. MARTÍN ARTAJO, El gobernante católico, a la luz de los escritos del Beato Maestro Juan de Ávila: Semana Nacional Avilista (Madrid 1952) 251-269; C. MARTÍN, El gobierno de la ciudad, según el Beato Juan de Ávila: Revista de Estudios de la Vida Local 12 (1953) 333-349.
[48]La humildad es nota característica del Maestro Ávila. En plan de confianza, se califica de "jumento perezoso" y de "poca salud" (Carta 154,1ss). No aceptó dignidades, soportaba las injurias, se dedicaba con preferencia a explicar el catecismo a los pequeños (cfr. L. Muñoz, Vida, lib.3º, cap.4). En la hora de su muerte pidió que le dijeran lo que se suele decir a los grandes pecadores.
[49]Palabras con que inicia el documento titulado "De la oración". Las capítulos 70 y 75 del "Audi Filia" (unidos a la plática 3ª) son un verdadero tratado sobre la oración.
[50]Estudios avilistas: F. BORRAZ GIRONA, De theologia orationis iuxta doctrinam Sancti Johannis de Avila (Roma, Unv. Santo Tomás, 1975; Burgos 1976) (Tesis Doctoral); E.Mª DÍAZ RAMÍREZ, Vino nuevo. Orar con San Juan de Ávila (Barcelona, Casals, 1984); J. ESQUERDA BIFET, La oración contemplativa en relación a la devoción mariana según el Maestro Juan de Ávila: Anthologica Annua, 24-25 (1977-1978) 499-550; J.L. MORENO MARTÍNEZ, San Juan de Avila, Maestro de oración (Burgos, Montecarmelo, 2002); J. SANCHÍS, Doctrina del Bto. Juan de Ávila sobre la oración: Verdad y Vida 5 (1947) 5-64. Su apostolado se apoyaba en la oración: "Vivía de oración, en la que gastó la mayor parte de su vida" (L. MUÑOZ, Vida, lib. 3, cap. 14). A pesar de sus muchas ocupaciones, "no predicaba sermón sin que por muchas horas la oración le dirigiese" (ibídem, lib. 1, cap. 8). Por esto decía que "cuando había de predicar, su principal cuidado era ir al púlpito templado" (ibídem).
[53]Se presenta a los santos como modelos de este seguimiento, especialmente a San Antonio Abad (cfr. Ser 12, 700ss), a San Francisco de Asís (cfr. Ser 78), a Santa María Magdalena (cfr. Ser 76) y a San Mateo (cfr. Ser 77). Ellos son los que se han decidido a vender todas las cosas por el Señor (cfr. Mt 19,21; Ser 12, 700ss; Ser 13, 319ss). Han seguido "las pisadas del Señor" (Ser 15, 326). La Santísima Virgen excede a todos los santos en este seguimiento de totalidad (cfr. Ser 67, 161ss). Ver también, en este mismo capítulo, el tema del amor a Dios en sentido de totalidad (cfr. Ser 30, 484ss; Ser 54, 556ss; Ser 77, todo).
[54]El Maestro Ávila hizo un "prólogo" a esta perla de la espiritualidad cristiana y la tradujo al castellano (1536). La imitación de Cristo, dice el Maestro en el prólogo, se hace posible meditando la palabra de Dios y recibiendo la Eucaristía. Entonces el lector se encuentra ante Jesucristo como ante un "espejo". Cfr. J. TARRÉ, La traducción española de la «Imitación de Cristo»: Analecta Sacra Tarraconensia 15 (1942) 101-127.
[55]La alegría de los santos, como es el caso de San Francisco, enraíza en la actitud de abnegación para seguir a Cristo con libertad de corazón. San Franciso de Asís dejó de lado el "Adán viejo" para ser "reengendrado por Espíritu Santo" (Ser 78,141ss).
[57]Describe los "tres brazos" de la cruz: "tormentos, desprecio y pobreza" (Carta 128, 26ss). Por esto, "la cruz es la muerte del parecer y voluntad propia" (Carta 161, 45ss). L. LERMA SANZ, Theologia crucis apud S. Johannem de Avila (Roma, Gregoriana, 1972) (Tesis doctoral); O. LÓPEZ MELÚS, Doctrina crucis Beati Magistri Joannis de Avila (Roma, Gregoriana, 1956) (Tesis Doctoral, ms. 2180).
[58]La vida del Maestro Ávila está tocada por la cruz, simbolizada en la cruz grande de palo que presidía su habitación en Montilla. Persecuciones, tribulaciones, renuncia a ventajas temporales, todo lo iba afrontando a la luz de la pasión, meditada continuamente. Era la fuente de su serenidad y alegría. La meditación que más recomendaba el Maestro era la pasión del Señor.
[59]Entrar en sintonía con el amor de Cristo en la cruz, tiene sentido de desposorio: "¿Qué le falta a esa cruz para ser una espiritual ballesta, pues así hiere los corazones?... ¡Tirado ha la ballesta y herido me ha el corazón! Agora sepa todo el mundo que tengo yo el corazón herido... ¿Qué has hecho, Amor dulcísimo?... Vine aquí para curarme, ¡y me has herido! Vine para que me enseñases a vivir, ¡y me haces loco! ¡Oh sapientísima locura: no me vea yo jamás sin ti" (Amor, n. 11, 435ss).
[60]Si el Esposo llegó a "morir por puro amor" (AF cap. 78, 8068), como algo que "excede a todo el amor de las madres" (AF cap. 80, 8084s), la esposa es invitada a compartir la misma suerte.
[61]El Maestro recalca que los mártires supieron superar la prueba del martirio, ayudados por la gracia, dispuestos a no perder la filiación divina participada y esperando poder ver a Dios: "Un bien por el cual se iban los siervos de Dios por esos campos y moraban en las cuevas, padecían soles y fríos, hambre y desnudez, un bien por el cual derraman los mártires su sangre" (Ser 18, 373ss).
[62]Al explicar el significado de las tribulaciones, alude frecuentemente al caso de los mártires: "¿Por qué hemos de irnos a sentar a aquella mesa de perseguidos, deshonrados, santos, tratados y muertos a cuchillo, no habiendo nosotros padecido nada? ¡Qué vergüenza sería parecer predicadores delicados delante aquellos que con tantas persecuciones y derramamiento de sangre lo fueron!" (Carta 2, 204ss).
[63]Cfr. A. De La FUENTE, El sacerdote y mis hermanos: el Bto. Ávila, modelo de caridad sacerdotal: Maestro Ávila 1 (1946) 413-426; J.M. MADRUGA, El perfil misionero de San Juan de Avila, en: AA.VV., El Maestro Avila. Actas del Congreso Internacional (Madrid, 27-30 noviembre 2000 (Madrid, EDICE, 2002), pp. 851-864.
[64]Estudios sobre la contemplación en la doctrina avilista: M. ANDRÉS, Historia de la mística de la edad de oro en España y América (Madrid, BAC, 1994) XI,4 (San Juan de Ávila y su escuela); F. BORRAZ GIRONA, De theologia orationis iuxta doctrinam Sancti Johannis de Avila (Roma, Unv. Santo Tomás, 1975; Burgos 1976) (Tesis Doctoral); J. CHERPRENET, Juan de Ávila, Místico: Maestro Ávila 2 (1948) 99-118; J. ESQUERDA BIFET, La oración contemplativa en relación a la devoción mariana según el Maestro Juan de Ávila: Anthologica Annua, 24-25 (1977-1978) 499-550; J.B. GOMIS, Estilos del pensar místico, el Bto. Juan de Ávila: Rev. de Espiritualidad 10 (1951) 443-450; B. JIMÉNEZ DUQUE, Dimensión mística de la vida sacerdotal: Semana Avilista (Madrid 1969) 255-271; J.L. MORENO MARTÍNEZ, San Juan de Avila, Maestro de oración (Burgos, Montecarmelo, 2002); E.A. PEERS, Studies in the Spanish mystics (London 1951) vol. 2, pp. 121-148; R. ROUSSELOT, Les mystiques espagnols (Paris 1869) cap. 3 (Jean d'Avila).
[65]Cfr. J. ESQUERDA BIFET, La oración contemplativa en relación a la devoción mariana según el Maestro Juan de Ávila: Anthologica Annua, 24-25 (1977-1978) 499-550,
[66]En la Plática 3ª distingue entre "dejamiento" y "recogimiento", invitando a este último como línea evangélica auténtica de dejar el pecado y de entregarse al amor de Dios (Plática 3ª, 162ss).
[68]E.M. DÍAZ RAMÍREZ, La madre está tras la sarga. La experiencia de Dios en San Juan de Ávila (Almagro, Ciudad Real, 1995). Ver también: M. ANDRÉS MARTÍN, San Juan de Ávila, Maestro de espiritualidad (Madrid, BAC, 1997) cap. III (la experiencia de Dios).
[69]Cfr. J. ESQUERDA BIFET, La oración contemplativa en relación a la devoción mariana según el Maestro Juan de Ávila: Anthologica Annua, 24-25 (1977-1978) 499-550 (notas comparativas con textos teresianos y sanjuanistas); L. SALA BALUST, F. MARTÍN HERNÁNDEZ, Santo Maestro Juan de Ávila (Madrid, BAC, 1970) pp. 332-325.
[70]En el epistolario, el Maestro es algo severo para con las personas que buscaban directamente estos fenómenos, al estilo de los alumbrados: "No los procuréis hasta que Dios los dé, y ejercitaros en puro padecer a secas por Cristo", sobre todo teniendo en cuenta que muchos "andan tras la miel de las cosas divinas, y no tras la cruz que los ha de salvar" (Carta 184, 206ss).
[71]M. ANDRÉS MARTÍN, San Juan de Ávila, Maestro de espiritualidad, o.c., cap. VIII (etapas de la vida espiritual), cap. IX (el itinerario de la vida espiritual).
[72]Aunque se puede hablar de "amor de principiantes, amor de aprovechantes y amor de perfectos" (Juan I, lec.7ª, 1701ss), habrá que tener en cuenta que "la caridad perfecta es cuando Dios le ha hecho misericordia que no ame otra cosa sino a Dios" (ibídem, 1724ss). Los grados de la caridad quedan descritos en la lección 7ª del comentario a la primera carta de San Juan.
[73]Sobre este mismo tema escribe a su discípulo Don Diego de Guzmán, que posteriormente entraría en la Compañía (Carta 216, 11ss).
[74]La penitencia material es sólo un medio para llegar a la penitencia moral: "Ha de ayunar el hombre en todo lo malo, los ojos, pensamientos, la voluntad" (Ser 7, 249ss; sobre el miércoles de ceniza).
[75]Ver también algunos fragmentos similares, con algunas orientaciones prácticas, en las cartas dirigidas a Don Pedro Guerrero (nn. 177-181, 243-244, 248) y a Don Cristóbal de Rojas (nn. 215 y 182).
[76]Entre los libros espirituales, recomienda: "De mystica theologia" del Pseudo-Dionisio Areopagita; la vida de San Antonio Abad; las "Confesiones" de San Agustín; "Morales" (San Gregorio Magno); el comentario a los Cantares, de San Bernardo; las "Colaciones" de Casiano; la "Imitación de Cristo" (Kempis); los "Cartujanos" (L. de Sajonia); "Passio duorum" de F. Tenorio y L. de Escobar (Valladolid 1526); "Abecedarios" de F. de Osuna (especialmente el tercero, Toledo 1527); "Via Spiritus" de Bernabé de Palma (Sevilla 1532).
[77]Ver algunos estudios sobre la dirección espiritual avilista: C.M. ABAD, La dirección espiritual en los escritos y en la vida del Bto. Juan de Ávila: Manresa 18 (1946) 43-74; J. ESQUERDA BIFET, Juan de Ávila, Maestro de espiritualidad cristiana: Studia Missionalia 36 (1987) 83-107; B. GUTIÉRREZ, El director espiritual según el Maestro Juan de Ávila (Roma, Gregoriana, 1956) (Tesis Doctoral, ms. 2270); B. JIMÉNEZ DUQUE, El Padre Ávila, Director Espiritual: Semana Nacional Avilista (Madrid 1952) 57-71; J. OROZ RETA, San Juan de Ávila Padre de almas: Rev. Agustiniana 36 (1995) 89-115; V.M. SÁNCHEZ RUIZ, Una hija espiritual del Mtro Ávila, doña María de Mendoza, fundadora del colegio complutense de la Compañía de Jesús: Manresa 19 (1947) 354-363.
[78]El buen director espiritual debe concretar los grandes principios en consejos prácticos ("receptas"), según la tradición de la Iglesia: frecuencia de sacramentos, lectura espiritual, meditación-contemplación, obras de caridad, estudio, etc.
[80]En otros casos, como en el de la falsa visionaria Magdalena de la Cruz (del convento de Santa Isabel de Córdoba), se mostró muy reacio (no quiso visitarla ni aprobar lo que algunas personalidades habían aprobado).
[81]La relación de María con la Iglesia tiene sentido de figura y de maternidad: "Miró en esto el Señor al mayor provecho de su sacratísima Madre; miró al provecho de la Iglesia que entonces había y también a los que después habíamos de nacer en ella hasta que el mundo se acabe" (Ser 70, 483ss).
[82]Algunos sermones son una síntesis de la vida consagrada (o religiosa) propiamente dicha, especialmente los que pronunció en monasterios de monjas. Muchas cartas de dirección espiritual, así como las pláticas dirigidas a los padres y novicios jesuitas de Montilla, presentan los mismo contenidos. Cfr. T. ECHEVARRÍA, Ideas y enseñanzas del Bto. Juan de Ávila acerca de la vida religiosa: Vida Religiosa 3 (1946) 153-158, 219-225, 354-360.
[83]Se entra en la vida consagrada "a tratar amores con vuestro esposo Jesucristo" (Plática 15ª, 89s, a las monjas de Santa Clara de Montilla). La plática 16ª, dedicada a las monjas del monasterio de la Cruz en Zafra, explica los mismos contenidos.
[84]Hay que recordar los alientos que el Maestro dio a Santa Teresa respecto a su acción externa por medio de los viajes: "Sea en buena hora la venida a estas tierras, pues confío de nuestro Señor que ha de ser para que Él reciba mayor servicio de esa peregrinación que del encerramiento en la celda; que, cierto, señora, la necesidad que en las ánimas hay es tanta, que hace a los que un poco de conocimiento tienen del valor de ellas, apartarse de los abrazos continuos del Señor por ganarle ánimas donde repose, pues tanto trabajó por ellas" (Carta 185, 3ss).
[85]Pero no deja de alentar al aprecio de la vida consagrada, teniendo en cuenta el ejemplo del Señor, quien "fue tan amador de pobreza, que ya no hay cristiano, si es verdadero cristiano, que no tenga en más ser pobre que rico. Y ansí, después de su venida en tanta pobreza, muchos y muchas dejaron sus haciendas por hacerse pobres, teniendo en más ser pobre por Cristo que rico en le mundo" (Ser 3, 211ss).
[86]La práctica (el voto) de la virginidad da sentido de amor esponsal a los otros votos (ver toda la carta 224).
[87]El tema de la pobreza lo explica el Maestro especialmente para los sacerdotes. Es la pobreza del Buen Pastor, que es la clave de la eficacia apostólica (cfr. Ser 81,100ss; Carta 182, 100ss).
[88]Cristo nos redimió por medio de su obediencia a la voluntad del Padre: "Cristo, obediente fue a su Padre en vida y en muerte; y también obedeció a su santísima Madre, y al santo Josef, como cuenta San Lucas. Y no piense nadie de poder agradar sin obediencia al que tan amigo fue de ella, que, por no la perder, perdió la vida en la cruz" (AF cap. 101, 10625ss; cfr. Lc 2,51).
[89]M. LARRÁYOZ, La vocación al sacerdocio según la doctrina del Bto. Juan de Ávila: Maestro Ávila 1 (1946) 239-254; 2 (1948) 11-26; L. MARCOS, El Bto. Juan de Ávila, Maestro de santidad sacerdotal (Vitoria 1948). Ver otros estudios, según los temas más concretos, en el capítulo VI.
[90]Ver el conjunto de documentos avilistas sacerdotales, en: Juan de Ávila, Escritos sacerdotales (Madrid, BAC, 1969). Algunos estudios ofrecen las bases de su teología sacerdotal (además de los que citamos en apartados siguientes sobre su pastoral y espiritualidad): F.J. DIAZ LORITE, San Juan de Avila y Pastores dabo vobis, en: AA.VV., El Maestro Avila. Actas del Congreso Internacional (Madrid, 27-30 noviembre 2000 (Madrid, EDICE, 2002), pp. 765-788; J. ESQUERDA BIFET, Jesucristo Sacerdote y el sacerdote ministro en la vida y doctrina del Mtro. Juan de Ávila: Semana Avilista (Madrid 1969) 45-68; Id., Escuela sacerdotal española del s. XV: Juan de Ávila: Anthologica Annua 17 (1969); Id., Razón de ser del sacerdocio ministerial. Estudio histórico doctrinal sobre Juan de Ávila en relación a la problemática actual: Teología del Sacerdocio 2 (1970) 121-163; B. JIMÉNEZ DUQUE, San Juan de Ávila y la crisis sacerdotal: Teología Espiritual 14 (1970) 397-414; A. MUÑOZ ALONSO, Carisma y ministerio sacerdotal: Semana Avilista (Madrid 1969) 31-44; F. SÁNCHEZ BELLA, La reforma del clero en San Juan de Ávila (Madrid, Rialp, 1981). Ver otros estudios en notas siguientes.
[92]F. CARRILLO, El Misterio de Cristo en el Beato Juan de Ávila (Málaga 1946); J. ESQUERDA BIFET, Jesucristo Sacerdote y el sacerdote ministro en la vida y doctrina del Mtro. Juan de Ávila: Semana Avilista (Madrid 1969) 45-68.
[93]J.A. De ALDAMA, El Bto. Juan de Ávila, precursor de Santa Margarita María de Alacoque en la devoción al Sagrado Corazón de Jesús: Maestro Ávila 1 (1946) 255-268; M. BRUNSO, El Beato Juan de Ávila y la encíclica «Haurietis aquas»: Resurrexit 21 (1961) 309-311; J. ESQUERDA BIFET, El Bto. Juan de Ávila, jalón imprescindible en la historia de la devoción al Corazón de Jesús: Surge 20 (1962) 227-233.
[95]Son muchos los estudios sobre la mariología avilista. Recogo los contenidos y referencias bibliográficas, en: La doctrina mariológica del Maestro san Juan de Avila: Marianum 62 (2001) 91-114.
[96]Indico sólo algunos estudios sobre su eclesiología: J. DEL RÍO MARTÍN, Santidad y pecado en la Iglesia. Hacia una Eclesiología de San Juan de Ávila (Córdoba 1986); Idem, La Iglesia, misterio de amor de Dios a los hombres, según San Juan de Avila, en: AA.VV., El Maestro Avila. Actas del Congreso Internacional (Madrid, 27-30 noviembre 2000 (Madrid, EDICE, 2002), pp. 581-597; F. MARTÍN HERNÁNDEZ, Dimensión eclesial del sacerdote: Semana Avilista (Madrid 1969) 69-91; M. MARTÍN DE NICOLÁS, Imágenes de la Iglesia en San Juan de Ávila: Miscelánea Comillas 45 (1987) 27-68; Idem, La eclesiología de San Juan de Ávila (Madrid, 1987); A. PLÁCIDO GUTIÉRREZ, La actuación de María en la Iglesia de Cristo, según San Juan de Ávila (Pamplona, Univ. de Navarra, 1984) (Tesis Doctoral); J.I. TELLECHEA IDIGORAS, San Juan de Avila y la reforma de la Iglesia, en: AA.VV., El Maestro Avila. Actas del Congreso Internacional,o.c., pp. 47-75.
[97]Trento trató el tema del sacerdocio ministerial en la ses.XXIII (5 de julio de 1563). La doctrina sacerdotal de la época es abundante, acentuando la exigencia de santidad. Entre otros autores, cabe resaltar: Bartolomé de los Mártires, Stimulus Pastorum (1564) (prologado por Fr. Luís de Granada y con gran trasfondo avilista). El tratado de Antonio de Molina, Instrucción de sacerdotes, es posterior (Burgos 1612), y recoge con profusión los textos y la doctrina avilista. La influencia de la doctrina avilista sacerdotal se puede constatar en el tomo 3º de Luís de la Puente, De la perfeccón del cristiano en todos sus estados (Pamplona 1616).
[98]Algunos estudios avilistas sobre el sacerdocio ministerial: J. DELICADO BAEZA, Dispensador de los misterios de Dios: Semana Avilista (Madrid 1969) 149-167; J. ESQUERDA BIFET, Jesucristo Sacerdote y el sacerdote ministro en la vida y doctrina del Mtro. Juan de Ávila: Semana Avilista (Madrid 1969) 45-68; Id., Razón de ser del sacerdocio ministerial. Estudio histórico doctrinal sobre Juan de Ávila en relación a la problemática actual: Teología del Sacerdocio 2 (1970) 121-163; Id,Escuela sacerdotal española del s. XV: Juan de Ávila: Anthologica Annua 17 (1969); J.J. GALLEGO, Sacerdocio y oficio sacerdotal en San Juan de Ávila (Córdoba 1998); A. MUÑOZ ALONSO, Carisma y ministerio sacerdotal: Semana Avilista (Madrid 1969) 31-44; J.J. GALLEGO, Sacerdocio y oficio sacerdotal en San Juan de Ávila (Córdoba 1998); M. LARRÁYOZ, La vocación al sacerdocio según la doctrina del Bto. Juan de Ávila: Maestro Ávila 1 (1946) 239-254; 2 (1948) 11-26. Ver notas siguientes.
[99]La doctrina avilista en relación con la problemática sacerdotal de su época: R. GARCÍA VILLOSLADA, Problemas sacerdotales en los días del Bto. Ávila (Madrid, Semana Avilista, 1969) 11-29; B. JIMÉNEZ DUQUE, San Juan de Ávila y la crisis sacerdotal: Teología Espiritual 14 (1970) 397-414; J. MARTÍN ABAD, Imagen normativa del sacerdote en el siglo XVI (1500-1563) (Valencia 1975) (Tesis Doctoral); F. SÁNCHEZ BELLA, La reforma del clero en San Juan de Ávila (Madrid, Rialp, 1981).
[100]Además de esta carta 177, ver también las cartas 178-181, 243-244, 248. Esta acción pastoral del obispo reclama su residencia en la diócesis (Ser 81, 147). Como dato curioso y concreto, puede verse una carta (del año 1557), dirigida al P. Cañas S.I., sobre el obispo de Córdoba (Don Leopoldo de Austria), que estaba enfermo y totalmente impedido para residir en la diócesis: "Dejar este obispado sin su presencia toda su vida, no es lícito, pues su necesidad es extrema, y el peligro de vida que él alega tener aquí, no le excusa en caso de tal necesidad, pues es obligado a poner la vida por las ovejas; y aunque ad tempus las pudiese dejar, por toda su vida no" (Carta 196, 29ss).
[101]Además de los estudios avilistas citados anteriormente, ver: A.P. AMANDIO, O "munus sanctificandi" dos sacerdotes, segundo a doutrina de sao Joao de Avila (Roma, PUG, 1995 (Tesis Doctoral); T. CARDENAL FERNÁNDEZ, El ministerio sacerdotal, exigencia de perfección: Semana Avilista (Madrid 1969) 199-220; J. DELICADO BAEZA, Dispensador de los misterios de Dios: Semana Avilista (Madrid 1969) 149-167; F. MARTÍN HERNÁNDEZ, Dimensión eclesial del sacerdote: Semana Avilista (Madrid 1969) 69-91; A. MUÑOZ ALONSO, Carisma y ministerio sacerdotal: Semana Avilista (Madrid 1969) 31-44.
[102]Además de los estudios ya citados, ver: A. DUVAL, Quelques idées du bienheureux Jean d'Avila sur le ministère pastoral et la formation du clergé: Supl. Vie Spirituelle n.6 (août 1948) 121-153; T. HERRERO, Pastoral Bíblica del Maestro Juan de Ávila (Granada 1961).
[104]Cfr. R.M. HORNEDO, El estilo coloquial del Beato Ávila: Razón y Fe n.868 (1970) 513-524; A. HUERGA, El ministerio de la palabra en el B. Juan de Ávila: Semana Avilista (Madrid 1969) 93-147; L. MORALES OLIVER, El Beato Maestro Juan de Ávila y el estilo de la predicación cristiana: Semana Nacional Avilista (Madrid 1952) 19-27; J.A. MUNITIZ, La oratoria del Bto. Ávila y los clásicos: Humanidades n.21 (1928); L. SALA BALUST, F. MARTÍN HERNÁNDEZ, Santo Maestro Juan de Ávila (Madrid, BAC, 1970) 274-289 (El Maestro Ávila, predicador).
[105]Para corregir estos eventuales defectos, existentes incluso en los obispos, el Maestro aconseja que éstos tengan "un hombre docto en teología... con quien comuniquen lo que han de predicar; principalmente que basta en los obispos, para el pueblo, una doctrina llana, que ésta es la que aprovecha más, y en su boca de ellos serán piedras preciosas... Éste es su oficio precipuo y éste quiere el concilio hagan por sí mismos" (Advertencias I, 488ss).
[108]M. BRUNSÓ, El espíritu litúrgico del P. Mtro. Juan de Ávila: Semana Avilista (Madrid 1969) 169-197. Ver referencias; J. ESQUERDA BIFET, El año litúrgico en los sermones de san Juan de Avila, en: AA.VV., Fovenda sacra liturgia. Miscelánea en honor del Dr. Pere Tarrés (Barcelona, Centre de Pastoral Litúrgica, 2000) 427-442.
[109]Ver otros pasajes en que aparecen ideas semejantes: Ser 36, 1960ss; Ser 37, 273; Ser 38, 410; Ser 50, 130ss; Ser 56, 234ss; Ser 64. 135ss. Ver la espiritualidad mariana sacerdotal, más adelante.
[110]L. AGUIRRE, El Bto. Juan de Ávila, paladín de la Eucaristía: Verdad y Vida 2 (1944) 422-436; M. BRUNSÓ, El Padre Ávila y la Eucaristía: Semana Nacional Avilista (Madrid 1952) 29-56; J.M. CARDA, Los efectos de la Eucaristía en los escritos del Bto. Ávila: Rev. Española de Teología 18 (1958) 261-281; A. HUERGA, El Beato Ávila y el Maestro Valtanás: dos criterios distintos en la cuestión disputada de la comunión frecuente: La Ciencia Tomista 84 (1957) 425-457; F. IRIARTE, Evolución y fuentes principales de la espiritualidad eucarística del Apóstol de Andalucía: Rev. de Espiritualidad 17 (1958) 33-55; T. PIZARRO, La eucaristía pan de vida eterna. Orientaciones de espiritualidad del Santo Maestro Juan de Ávila (Cáceres 1986).
[111]El tratadito titulado "Dialogus inter confessarium et paenitentem" es una orientación sobre toda la moral y perfección cristiana.
[112]Cfr. C.M. ABAD, La dirección espiritual en los escritos y en la vida del Bto. Juan de Ávila: Manresa 18 (1946) 43-74; B. GUTIÉRREZ, El director espiritual según el Maestro Juan de Ávila (Roma, Gregoriana, 1956) (Tesis Doctoral, ms. 2270); B. JIMÉNEZ DUQUE, El Padre Ávila, Director Espiritual: Semana Nacional Avilista (Madrid 1952) 57-71; F. MARTIN HERNANDEZ, San Juan de Avila, guía espiritual a través de sus cartas, en: AA.VV., El Maestro Avila. Actas del Congreso Internacional (Madrid, 27-30 noviembre 2000 (Madrid, EDICE, 2002), pp. 711-728; J. OROZ RETA, San Juan de Ávila Padre de almas: Rev. Agustiniana 36 (1995) 89-115; V.M. SÁNCHEZ RUIZ, Una hija espiritual del Mtro Ávila, doña María de Mendoza, fundadora del colegio complutense de la Compañía de Jesús: Manresa 19 (1947) 354-363.
[113]J. JANINI, Los confesores especiales para niños, según el Bto. Juan de Ávila: Surge 5 (1947) 257-262.
[114]Se queja de la poca preparación de los directores: "¡Oh, cuánto mal ha hecho a sí y a otros, gente sin letras, que ha tomado entre manos negocio de la vida espiritual, haciéndose jueces de ella, siguiendo solamente su ignorante parecer!" (AF cap.74, 7616ss). Ver estudios sobre la dirección espiritual según San Juan de Avila, en al apartado anterior.
[115]La carta es un resumen magistral del tema. Primero hay que pedir a Dios "el espíritu de padre para con sus hijos que hubiéremos de engendrar" (Carta 1, 67s). La tarea de dirigir a otros es un "cuidadoso y fuerte amor que El (Dios) pone en un hijo suyo con otros hombres" (ibídem, 79s). Ha de ceñirse a la vida espiritual, sin favoritismo ni intromisiones (ibídem, 227ss). Ofrecerá las pautas seguidas en la tradición eclesial.
[116]Sobre la espiritualidad sacerdotal en los escritos avilistas (además de los estudios citados anteriormente), ver: T. CARDENAL FERNÁNDEZ, El ministerio sacerdotal, exigencia de perfección: Semana Avilista (Madrid 1969) 199-220; J. ESQUERDA BIFET, Mensaje sacerdotal de Juan de Ávila: Surge 19 (1961) 53-58, 196-201, 397-402; 20 (1962) 53-58; 21 (1963) 53-59, 179-201; Id., Escuela sacerdotal española del s. XV: Juan de Ávila (Roma, Instituto Español de Historia Eclesiástica, 1969); A. De La FUENTE, El sacerdote y mis hermanos: el Bto. Ávila, modelo de caridad sacerdotal: Maestro Ávila 1 (1946) 413-426; J.M. GARCÍA LAHIGUERA, La santidad sacerdotal a través del Beato P. Juan de Ávila (Madrid, 1952); A. GARCÍA SUÁREZ, Ascética sacerdotal: Semana Avilista (Madrid 1969) 221-254; A. GRANADO BELLIDO, La espiritualidad sacerdotal en los escritos de San Juan de Ávila (Sevilla 1983) (Miscelánea-Homenaje al card. J.Mª Bueno Montreal) 211-283; B. JIMÉNEZ DUQUE, Dimensión mística de la vida sacerdotal: Semana Avilista (Madrid 1969) 255-271; M. LARRÁYOZ, La vocación al sacerdocio según la doctrina del Bto. Juan de Ávila: Maestro Ávila 1 (1946) 239-254; 2 (1948) 11-26; L. MARCOS FERNÁNDEZ-BOBADILLA, La santidad sacerdotal sgún la doctrina del beato Juan de Ávila (Roma, Gregoriana, 1937) (Tesis Doctoral); Idem, El Bto. Juan de Ávila, Maestro de santidad sacerdotal (Vitoria 1948); J. MARTÍN ABAD, Imagen normativa del sacerdote en el siglo XVI (1500-1563) (Valencia 1975) (Tesis Doctoral); A. MUÑOZ ALONSO, Carisma y ministerio sacerdotal: Semana Avilista (Madrid 1969) 31-44; J. Del RÍO MARTÍN, Espiritualidad sacerdotal en los escritos de San Juan de Ávila, en: Espiritualidad del presbítero diocesano secular (Madrid 1987) 535-582; B. SANTOS, Sacerdote perfecto y ejemplar: Maestro Ávila 2 (1948) 5-10. En el contexto de la historia de la espiritualidad sacerdotal: Historia de la espiritualidad sacerdotal: Teología del Sacerdocio 19 (Burgos, Fac. Teológica 1985) pp. 137-144 (San Juan de Ávila).
[117]La renovación de la vida sacerdotal, según San Juan de Avila, tiene como punto de referencia el estilo de vida de los Apóstoles. Cfr. J. ESQUERDA BIFET, El Maestro Avila y la renovación sacerdotal, en: AA.VV., El Maestro Avila. Actas del Congreso Internacional (Madrid, 27-30 noviembre 2000 (Madrid, EDICE, 2002), pp. 691-709.
[118]El tema de la caridad pastoral equivale, en términos avilistas, al celo apostólico del sacerdote; el tema queda englobado en la santidad sacerdotal. Ver estudios citados anteriormente, al inicio de este apartado. A. De La FUENTE, El sacerdote y mis hermanos: el Bto. Ávila, modelo de caridad sacerdotal: Maestro Ávila 1 (1946) 413-426; J.M. MADRUGA, El perfil misionero de San Juan de Avila, en: AA.VV., El Maestro Avila. Actas del Congreso Internacional (Madrid, 27-30 noviembre 2000 (Madrid, EDICE, 2002), pp. 851-864.
[120]En las "Advertencias" para el sínodo de Toledo, el Maestro señala aplicaciones concretas a partir de las disposiciones de Trento (cfr. Advertencias I, nn. 1-2, 8, 13; Advertencias II, n.10). En las Pláticas 6ª y 8ª, así como en la carta n.177, insiste sobre el mismo tema de la pobreza de prelados y clérigos, también para poner en práctica las decisiones tridentinas.
[121]Manifiesta su discrepancia respecto a la opinión contraria de Fr. Domingo de Soto. No tiene reparo en aconsejar el desprendimiento total de las rentas, en vistas a dedicarse a los campos de caridad; así lo hace con un joven que le pidió consejo para ser sacerdote, buscando al mismo tiempo unas rentas que le habían ofrecido: "Estáis muy bien donde estáis sin blanca de renta, mucho mejor que en Roma con cuanto tiene el que os convida con ella. Sabed conocer la dignidad de los enfermos a quien servís" (Carta 7, 73ss).
[122]En un sermón de Navidad, afirma también: "¡Oh padres sacerdotes!... ¡Cuán grande ha de ser nuestra santidad y pureza para tratar a Jesucristo, que quiere ser tratado de brazos y corazones limpios, y por eso se puso en los brazos de la Virgen, y Josef fue también virgen limpísimo, para dar a entender que quiere ser tratado de vírgenes" (Ser 4, 332ss).
[123]El "corazón indiviso", a que aludía San Pablo (cfr. 1Cor 7,32-34; PO 16), se traduce en disponibilidad misionera incondicional, puesto que se trata de "cumplir con tan altos oficios, que piden al hombre todo entero y no dividido" (Memorial II, n.91, 3504ss).
[124]No hay que olvidar que el Maestro describe el matrimonio como camino de santidad (cfr. cap.III, n.3, g; cap.V, n.4). Las expresiones avilistas no son una infravaloración del matrimonio, sino una acentuación del sentido esponsal del celibato. Esta explicación se entiende mejor al relacionar el celibato sacerdotal con la virginidad de María; el Señor quiso ser concebido de la Virgen, por obra del Espíritu Santo, "para dar a entender que cuerpo tan cercano a la limpieza de espíritu, por cuerpo cuanto fuere posible semejable al espiritual ha de ser tratado y recibido" (Tratado sobre el sacerdocio, n.15, 627ss).
[125]El Maestro alude a ciertas rentas cuantiosas, en aquella época, y concluye: "Razón es no se cansen, pues llevan buena renta" (Advertencias I, n.18). Pone como modelo a los párrocos, que "no se quejan de tener sermones todas las fiestas, con tener menos rentas" (ibídem).
[126]En la carta n.148, dirigida a unos canónigos (parece ser del cabildo de Córdoba), les señala visitar a los enfermos y asistir a los moribundos. Si ponen los medios de oración y de estudio, además del culto eucarístico, "crecerá en ellos el bien comenzado" (Carta 148, 140ss). La fraternidad conseguida es "misericordia grande de Dios", puesto que "los quiere dar Dios perdón y tomarlos por hijos" (ibídem, 5ss).
[127]"Estos medios no parecen convenientes para el predicador cristiano" (Memorial II, n.70, 2839ss). "Sería mejor que el tal cabildo se enviase a informar a las universidades y a otras partes donde las tales personas han predicado, y llámese aquel de cuya vida, letras y predicación mejor información se hallase" (ibídem, 2854ss).
[129]F. SÁNCHEZ BELLA, La reforma del clero en San Juan de Ávila (Madrid, Rialp, 1981). Algunos datos sobre situación del clero y necesidad de reforma: J.L. CASTÁN, La reforma del clero en los sínodos valencianos del siglo XVI (1548-1607): Anales Valentinos 25 (1998) 146-170.
[130]El biógrafo Muñoz resume la finalidad de los colegios avilistas (especialmente eclesiásticos): "Fue su intento no sólo que se criasen hombres de letras, sino también de virtud; pues las escuelas eran sólo para formar eclesiásticos, curas de almas y clérigos ejemplares. Así hizo que las Constituciones mirasen a este fin, y que los mozos comenzasen a industriarse en costumbres eclesiásticas, pues se criaban para ministros de Dios, para enseñar su palabra y predicar al pueblo el camino de la virtud, y que habían de tener desde sus tiernos años embebido en sus entrañas el espíritu evangélico, porque mal puede uno ser maestro en el arte que nunca fue discípulo" (L. MUÑOZ, Vida, lib.1º, cap.20).
[131]El Maestro instituyó tres Colegios Mayores universitarios (Baeza, Jerez, Córdoba) y tres convictos para clérigos (Granada, Córdoba y Évora). El P. Granada habla de convictos o colegios para "clérigos recogidos". El Colegio universitario de Baeza es de 1538; los clérigos formados en Baeza, según Luis Muñoz (biógrafo de Juan de Ávila), tenían fama de buena formación "en toda España".
[132]A. DUVAL, Quelques idées du bienheureux Jean d'Avila sur le ministère pastoral et la formation du clergé: Supl. Vie Espirituelle n.6 (août 1948) 121-153; J. ESQUERDA BIFET, Criterios de selección y formación clerical en el Bto. Maestro Juan de Ávila: Seminarios 7 (1961) 25-45; A. De La FUENTE, El Beato Maestro Ávila y los seminarios tridentinos: Maestro Ávila 1 (1946) 153-171; T. HERRERO, El Beato Maestro Juan de Ávila y la formación bíblica del sacerdote católico: Archivo Teológico Granadino 18 (1955) 133-163; F. MARTÍN HERNÁNDEZ, Los seminarios españoles. Historia y pedagogía (1563-1700) (Salamanca 1964).
[133] M. LARRÁYOZ, La vocación al sacerdocio según la doctrina del Bto. Juan de Ávila: Maestro Ávila 1 (1946) 239-254; 2 (1948) 11-26.
[134]Al describir la vocación cristiana a la santidad, emergen elementos básicos y comunes: "¿Sabéis, hermana, para qué os llama Dios? ¿Sabéis cuál es el fin del camino que habéis comenzado? ¿Sabéis cuál es la joya de vuestra pelea y la corona de vuestra victoria? Dios mismo es" (Carta 94, 26ss).
[135]El mismo Maestro muestra grande equilibrio en el proceso de discernimiento, como aparece en la correspondencia epistolar. En las cartas 7 y 8 puede observarse una respuesta muy distinta cuando le consultan sobre la vocación. En un caso, desaconseja seguir la vocación sacerdotal, por falta de intención recta. En el otro caso, alienta a seguir la vocación, en la que es posible perseverar si se ponen los medios adecuados.
[136]"Son obligados a dar a sus ovejas pastores que las sepan apacentar" (Memorial II, n.71, 2915s). "Y adviértase que para haber personas cuales conviene, así de obispos como de los que les han de ayudar, se ha de tomar el agua de lejos, y se han de criar desde principio con tal educación, que se pueda esperar que habrá otros eclesiásticos que los que en tiempos pasados ha habido" (Memorial II, n.43, 1883ss; cfr. Ser 81, 122ss).
[137]"Pues sea ésta la conclusión: que se dé orden y manera para educarlos que sean tales; y que es menester tomar el negocio de más atrás, y tener por cosa muy cierta que, si quiere la Iglesia tener buenos ministros, que conviene hacellos; y, si quiere tener gozo de buenos médicos de las almas, ha de tener a su cargo de criar tales y tomar el trabajo de ello; y, si no, no alcanzará lo que desea" (Memorial I, n.9, 212ss).
[139]Además del estudio de la Escritura, recomienda la lectura de los Santos Padres y de otros autores cualificados, quienes son un don de Dios a la Iglesia "para que nos declarasen la Escriptura con el mismo espíritu que fue escripta" (Carta 9, 35ss). Son "altos ingenios ejercitados en la divina Escritura, llenos de luz celestial para la entender, como gente puesta por Dios para que enseñasen su Iglesia" (Memorial II, n.20, 838ss). Los más citados por él son: San Agustín (unas 242 veces) y San Ambrosio (unas 77 veces). Cuando se trata de lecturas y estudio, recomienda a sus discípulos especialmente a "Jerónimo y Crisóstomo" (Carta 225, 18). Cita a San Bernardo unas 91 veces (especialmente el comentario a los Cantares), a San Buenaventura unas 11 veces) y Santo Tomás de Aquino unas 74 veces). Por los escritos avilistas y referencias epistolares, se puede constatar la existencia de algunos libros patrísticos en la biblioteca del Maestro: "De mystica theologia" del Pseudo-Dionisio Areopagita, la vida de San Antonio Abad, las "Confesiones" de San Agustín, las "Morales" y otros escritos de San Gregorio Magno, las "Colaciones" de Casiano.El Maestro cita frecuentemente el concilio tridentino (unas dos cientas veces).Cfr. Obras completas, I, 213-214; J. ESQUERDA BIFET, Doctrina teológica del Bto. Maestro Ávila, en tiempo de postconcilio: Miscelánea Comillas 47-48 (1967) 101-104.
[140]En el decreto conciliar influyeron también otras experiencias anteriores a Trento, además de los colegios y de las propuestas avilistas. Hay que recordar el Colegio Capránica de Roma (1456), el Colegio sacerdotal de Dillingen (1549), el Colegio Romano (1551) y Germánico de Roma (1553) (ambos fundados por San Ignacio), la decisión del concilio nacional de Londres (1555-1556) (presentada en Trento por el Cardenal Pole). En España, existía ya una tradición anterior: Lérida (1371, Colegio de la Asunta), Sigüenza (1476), Toledo (1485), Granada (1492), Sevilla (1505), Alcalá (1508)... Ver: L. CASTÁN, El origen del capítulo «Tametsi» del Concilio de Trento contra los matrimonios clandestinos: Rev. Española de Derecho Canónico 14 (1959) 613-666; A. De La FUENTE, El Beato Maestro Ávila y los seminarios tridentinos: Maestro Ávila 1 (1946) 153-171; H. JEDIN, Juan de Avila als Kirchenreformer: Zeitschrift für Aszese und Mystik 11 (1936) 124-138; J.I. TELLECHEA, El obispo ideal en el siglo de la reforma, Instituto Español de estudios eclesiásticos, Roma 1963; A. TORRES, El Bto. Juan de Ávila, reformador: Manresa 17 (1945) 1193-201; VALENTÍN DE S. JOSÉ, El Bto. Juan de Ávila y el Concilio de Trento: Rev. de Espiritualidad 5 (1946) 222-237; Idem, El Bto. Juan de Ávila y el concilio de Trento. El Apóstol forjador de apóstoles: Rev. de Espiritualidad 5 (1943) 12-15. Ver también: (S.C. pro Causis Sanctorum), Positio super canonizatione aequipolenti (Romae 1970) 414-423 (la voz de Ávila en Trento).
[141]En los números sucesivos va detallando: economía, edad para la admisión, selección según conducta moral, pastoral vocacional por la diócesis, estudios, cualidades de los profesores y formadores, etc. (ibídem, nn. 17-43). Para la aplicación del concilio, cabe también recordar, además del Maestro Ávila, a San Pío V, San Carlos Borromeo (que fundó seis Seminarios en Italia), San Gregorio Barbarigo, San Juan de Ribera, Santo Toribio de Mogrovejo...
[142]Algunas cartas significativas: n.5 (al Maestro García Arias, sobre el estudio), n.8 (horario de vida espiritual para un sacerdote), n.148 (vida comunitaria para un grupo de canónigos), n.225 (un plan de estudio para un discípulo), n.236 (plan de vida espiritual para un discípulo). También son prácticos algunos fragmentos de las cartas dirigidas a Don Pedro Guerrero (nn. 177-181, 243-244, 248) y a Don Cristóbal de Rojas (nn. 215 y 182).
[143]Además de los estudios avilistas citados en la nota 39, ver: T. CARDENAL FERNÁNDEZ, El ministerio sacerdotal, exigencia de perfección: Semana Avilista (Madrid 1969) 199-220; J. ESQUERDA BIFET, Escuela sacerdotal española del s. XV: Juan de Ávila: Anthologica Annua 17 (1969); Id., Espiritualidad sacerdotal mariana en Juan de Ávila: Estudios Marianos 35 (1970) 85-114; A. GONZÁLEZ MENÉNDEZ-REIGADA, El Padre Ávila, sacerdote de cuerpo entero: Semana Avilista 2 (1969) 137-150; B. JIMÉNEZ DUQUE, San Juan de Ávila y la crisis sacerdotal: Teología Espiritual 14 (1970) 397-414; L. MARCOS, El Bto. Juan de Ávila, Maestro de santidad sacerdotal (Vitoria 1948); I. ROMERO, Fuego de cruzado. Estampas de sacerdocio del Maestro Juan de ÁVila: Semblanzas sacerdotales (Vitoria 1947).
[144]J. ESQUERDA BIFET, Espiritualidad sacerdotal mariana en Juan de Ávila: Estudios Marianos 35 (1970) 85-114.
[145]J. ESQUERDA BIFET, Escuela sacerdotal española del s. XV: Juan de Ávila (Roma, Instituto Español de Historia Eclesiástica, 1969); B. JIMÉNEZ DUQUE, El Maestro Juan de Ávila (Madrid, BAC, 1988) cap.VII (la escuela sacerdotal); L. SALA BALUST, F. MARTÍN HERNÁNDEZ, Obras completas I, cap. V; Idem, En torno al Mtro. Ávila y su escuela sacerdotal: Surge 8 (1950) 195-199; Idem, La escuela sacerdotal del Beato Maestro Padre Ávila: Semana Nacional Avilista (Madrid 1952) 183-197.
[146]Carta del P. Nadal a San Ignacio, 15 de marzo de 1554. "Otros muchos fueron los que en aquel tiempo, de la escuela del padre Maestro Ávila pasaron a la de San Ignacio, donde vivieron con notable ejemplo de humildad y modestia, y desprecio de las cosas de la tierra, procurando parecerse a su santo Maestro" (L. Muñoz, Vida, cap.11).
[148]J. De SANTIVÁÑEZ, Historia de la provincia de Andalucía de la Compañía de Jesús (Manuscrito, Granada, Biblioteca Universitaria) part 1ª, lib. 1, cap. 36.
[149]Baste recordar algunos maestros espirituales y santos, que han leído y citado la doctrina del Maestro Ávila, haciendo referencia, a veces, a su vida santa: Antonio de Molina, cardenal Astorga (arzobispo de Toledo), Diego de Estella (franciscano), Fr. Luís de León, los jesuitas Baltasar Álvarez, Martín Gutiérrez, Antonio Cordeses, Luís de la Palma, Luís de la Puente, Alonso Rodríguez, Pedro Ribadeneira... Lo citan con cierta profusión San Francisco de Sales, San Alfonso María de Ligorio, Santo Cura de Ars, San Antonio María Claret, Bto. José Allamano, Bto. Manuel Domingo y Sol, etc.
[150]Le sacerdoce(Paris, Bloud et Gay, 1933); cita la afirmación de Bourgoing, tomada del prólogo a las Oeuvres complètes de Bérulle, p.VIII.
[151]Se puede constatar una gran renovación sacerdotal en España durante los años 1942 y siguientes. Fueron muy abundantes las publicaciones y los actos celebrados: biografías, semanas, estudios especializados, peregrinaciones al sepulcro, resurgir del espíritu misionero... En los Seminarios se organizaron "academias" avilistas que fueron un gran fermento de renovación, con derivaciones misioneras especialmente hacia América Latina. Fue la mejor disposición para captar posteriormente los contenidos de los documentos magisteriales preconciliares, conciliares y postconciliares sobre el sacerdocio. Ver algunos datos en: L MARCOS, El Beato Juan de Ávila, Patrono del clero secular español: Resurrexit 6 (1946) 435-436; G. MARTÍNEZ DE ANTOÑANA, El Bto. Juan de Ávila, Patrón del clero secular español: Ilustración del Clero 40 (1947) 97-103; B. SANTOS, A propósito del Patrono del Patronato del Beato Juan de Ávila sobre el Clero Secular español (Granada 1947).
[152]Entre estos Padres conciliares, cabría investigar en los papeles personales de Don Casimiro Morcillo y Don Laureano Castán. Análogamente podría servir de referencia la actuación de Don Pedro Guerrero y Fr. Bartolomé de los Mártires, en el concilio de Trento, respecto a los Seminarios.
[153]Publicado en: AA.VV., El Maestro Avila. Actas del Congreso Internacional (Madrid, 27-30 noviembre 2000 (Madrid, EDICE, 2002).
[155]Mensaje con ocasión del V centenario del nacimiento de San Juan de Avila(10 de mayo de 2000): Oss. Rom. esp. n. 22, 2 de junio de 2000, p.9.
[156]El biógrafo Muñoz describe la pobreza del Maestro Ávila, manifestada también en sus modales externos: "Su vestido era humilde y pobre, pero muy limpio; una loba o sotana de paño bajo, o sarga muy gruesa, alta un codo del suelo; un manteo de lo mismo; todo tan despreciable y vil como pudiera el más mortificado religioso; el vestido interior, tan astroso y pobre, como el exterior de los mendigos; y esta moderación en el traje aconsejaba usasen los sacerdotes, y que fiasen en Dios, y diesen limosnas de sus bienes, aunque fuesen los principales. Esta humildad en el traje conservaron sus discípulos por muchos años" (Vida, lib. 3º, cap. 4).
[157]L. GRANADA, Vida, p.3ª, c.5. El biógrafo L. Muñoz recoge el testimonio de un padre dominico, quien, a pesar de algunas prevenciones, acudió a escucharle y afirmó: "Vengo de escuchar a San Pablo interpretar a San Pablo" (Vida, lib. I, cap. 9). El dominico P. Alonso Carrillo, del convento de Santo Domingo en Córdoba, afirmaba: "Si al apóstol San Pablo y a su doctrina habían de entender los hombres y dar explicaciones de ella, uno era el dicho P. Maestro Juan de Ávila y otro estaba por nacer, porque era único en el mundo en ciencia y virtudes" (L. MUÑOZ, Vida, l.1, cap.9).
[158]R. GARCÍA VILLOSLADA, La figura del Bto. Ávila: Manresa 17 (1945) 389-403; 18 (1946) 87-97. Cfr. Obras completas, IV (introducción a los comentarios bíblicos, I,3: San Pablo interpretando a San Pablo).
[159]L. Muñoz nos ha dejado unas pinceladas que describen su predicación: "No predicaba sermón sin que por muchas horas la oración le precediese" y que, como resultado de sus sermones, "iban todos las cabezas bajas, callando, compungidos". "Sus palabras, aunque fuesen de reprensión, iban envueltas en amor, caridad y celo del aprovechamiento de las almas, y así le oían con notable afecto" (Vida, lib.1º, cap.7-11 y 22). Aconsejaba a sus discípulos: "Amar mucho a nuestro Señor". Había que subir al púlpito "templado", es decir, "con una muy viva hambre y deseo de ganar con aquel sermón alguna ánima para Cristo" (L. GRANADA, Vida, parte 1ª, cap.2).
[160]Cfr. L. SALA BALUST, F. MARTÍN HERNÁNDEZ, Santo Maestro Juan de Ávila (Madrid, BAC, 1970) 274-289 (El Maestro Ávila, predicador).
[161]Ver el catecismo ("Doctrina cristiana") en: Obras completas VI, 357-362 (introducción), 454-481 (texto).
[164]Esta oración, "Recordare", la recomienda en el sermón 66, 27ss. Ver: L. GRANADA, 2ª parte, cap. 7 (De la devoción que tenía a Nuestra Señora).
[165]Invita a prestar atención "especialmente para hombres del campo, como son pastores, gañanes, caminantes, trajineros, carreteros y trabajadores, etc." (Doctrina cristiana, 1834ss).
[166]Recuérdese su colaboración, pidiendo limosna por la calle, para el hospital de San Juan de Dios en Granada. Cfr. J. SÁNCHEZ MARTÍNEZ, «Kénosis-Diakonía» en el itinerario espiritual de San Juan de Dios (Madrid 1995) 262-266; B. MORÁN, La enfermedad en la ascética del Beato Mtro Juan de Ávila (Madrid 1951).
[167]"Ya consta que lo que este santo concilio pretende es el bien y la reformación de la Iglesia. Y para este fin, también consta que el remedio es la reformación de los ministros de ella" (Memorial I, n.9, 212ss). Las líneas básicas y la praxis concreta de la reforma, pueden verse en los "Memoriales" y las "Advertencias" (más las "advertencias necesarias para los reyes").
[169] El "Tratado del amor de Dios" (que hemos resumido más arriba) puede ser la clave de su fisonomía espiritual y apostólica, a la luz de la encarnación del Verbo y del misterio redentor.
[171]Discurso durante la audiencia después de la canonización(1 de junio de 1970): Insegnamenti VIII/1970, 562-567 (ver p.571).
FRATERNIDADES SACERDOTALES EN EL PRESBITERIO DIOCESANO Espiritualidad sacerdotal de comunión
Escrito por Super UserFRATERNIDADES SACERDOTALES EN EL PRESBITERIO DIOCESANO
Espiritualidad sacerdotal de comunión
Juan Esquerda Bifet
Presentación
1. Líneas básicas de la misión y espiritualidad sacerdotal
2. Cómo vivir la identidad sacerdotal en el propio Presbiterio
3. Proyecto de vida personal y comunitaria
A modo de invitación
* * *
Presentación
Son muchas las perspectivas bajo las cuales puede estudiarse la espiritualidad sacerdotal, sin necesidad de contraponerlas: a partir de la consagración (carácter y gracia sacerdotales), a partir de la misión (en relación con los ministerios), a partir de la comunión eclesial, especialmente en la realidad del Presbiterio de la Iglesia particular (siempre en la Iglesia universal).
En el presente estudio, partimos de la comunión eclesial, que debe llevar, por su misma naturaleza a valorar la consagración y la misión o ministerialidad. Tomamos esta perspectiva por la sencilla razón de que me han pedido hablar de las "asociaciones" sacerdotales, que yo encuadro en un marco más amplio: las fraternidades sacerdotales en el Presbiterio.
La fisonomía del sacerdote ha quedado claramente delineada en los documentos conciliares y postconciliares (LG, PO, PDV, Directorio), como actualización de los textos evangélicos sobre la figura del Buen Pastor y sobre el estilo de vida de los Apóstoles.
Esta realidad eclesial es la voz del Espíritu Santo, que llama a construir y a vivir la figura sacerdotal en el Presbiterio diocesano del tercer milenio del cristianismo.
Es urgente presentar esta doctrina hecha realidad o puesta en práctica en los sacerdotes y en las fraternidades sacerdotales, como posibilidad real de la espiritualidad específica del sacerdote diocesano o secular. Al decir "diocesano" queremos decir el sacerdote incardinado en una Iglesia particular (diócesis o también vicariato, prefectura, prelatura, etc.), donde preside la unidad eclesial un sucesor de los Apóstoles en comunión con el Papa. Y es urgente llegar a entusiasmar a las nuevas vocaciones (especialmente en los Seminarios) sobre la mística o espiritualidad del sacerdote en cuanto tal.
Las "fraternidades sacerdotales" que proponemos, y que ya son realidad en muchas Iglesias particulares, quieren poner en evidencia que es posible construir, con el propio Obispo, la "fraternidad sacramental" del Presbiterio (PO 8; cfr. LG 28), como "lugar privilegiado", donde todo sacerdote diocesano incardinado ("secular"), "debiera encontrar los medios específicos de santificación y evangelización" (Directorio 27). Ahí enraiza la espiritualidad de comunión, en relación con la consagración y misión o ministerialidad.
Partimos de lo que es común a todo sacerdote diocesano (nn.1-2), para llegar a propuestas concretas de tipo asociativo (n.3), en armonía con los medios también comunes a todo sacerdote. Además de todo lo que se organice en el Presbiterio para toda la familia sacerdotal, siempre queda un espacio operativo para los grupos y fraternidades concretas, a nivel de iniciativa y de generosidad evangélica.
¿Qué lugar ocupan, pues, las asociaciones o fraternidades sacerdotales en el Presbiterio de la Iglesia particular? Dando la importancia principal a las lineas básicas de espiritualidad sacerdotal (n.1), sin olvidar las concretizaciones que deben existir en el propio Presbiterio (formación permanente) (n.2), se puede pasar fácilmente a encuadrar armónicamente las asociaciones o fraternidades en el proyecto de vida personal y comunitario a modo de "espacio operativo" más viable (n.3). En esta perspectiva de grandes principios, parece que sería más fácil la superación de limitaciones y roces inherentes a toda institución eclesial. Los grandes ideales ayudan a relativizar y a encuadrar los problemas concretos.
1. Líneas básicas de la misión y espiritualidad sacerdotal
Toda fraternidad sacerdotal en el Presbiterio necesita inspirarse en las líneas básicas que constituyen la espiritualidad específica del sacerdote diocesano:
1ª) Ser signo personal, comunitario y sacramental de Cristo, Buen Pastor, Cabeza, Esposo, Siervo, Sacerdote y Víctima (cfr. PO 12-18; PDV 27-30; Dir 57-67).
Se participa en su ser (consagración), se prolonga su obrar (misión) y se transparenta su estilo de vida (espiritualidad). Así se construye la comunidad eclesial como comunión: prolongando la Palabra del Señor, haciendo presente su sacrificio y acción salvífica, actualizando su acción pastoral de caridad.
El sacerdote es signo transparente de la vida evangélica del Buen Pastor, que amó hasta "dar la vida" (caridad pastoral), dándose él (pobreza), sin pertenecerse (obediencia), como consorte o Esposo (virginidad) (Jn 10; Mt 8,20; Jn 4,34; Mt 9,15). Así fueron llamados a vivir los Apóstoles y sus sucesores, en seguimiento evangélico radical, comunión fraterna y disponibilidad misionera (Mt 4,19ss; 19,27ss; Mc 3,14; PDV 15-16, 60), para compartir esponsalmente la misma vida del Señor (Mc 10,38; PDV 22, 29) y llegar a ser signo de cómo amó él (Jn 17,10; PDV 49).
Esta realidad de signo es también "relacional" o contemplativa, de profunda amistad con Cristo (Jn 15,14; Mc 3,14; 1Jn 1,1ss; PDV 12,25; Dir 38-42), como de quien vive de su presencia (Mt 28,20; Mc 16,20).
Todo sacerdote, además de ser signo personal de Cristo, es también signo comunitario (especialmente en el Presbiterio), dentro de la realidad de Iglesia comunión (Lc 10,1; Jn 17,21-13; PO 8; PDV 17, 31, 74-80; Dir 25-29). La vivencia de esta realidad de comunión se convierte en signo eficaz de evangelización. Por participar del sacerdocio y misión de Cristo, así como por participar en la sucesión apostólica, ser cooperador directo del Obispo y estar incardinado en la Iglesia particular, el sacerdote ha de estar disponible para la misión local y universal (Mt 28,19-20; LG 28; PO 10; PDV 17, 32; Dir 45-56).
2ª) El sacerdocio vivido en el Presbiterio tiene las características de una "íntima fraternidad" exigida por el sacramento del Orden (LG 28). Es, pues, "fraternidad sacramental" (PO 8) que equivale también a signo eficaz de santificación y evangelización.
Por esto, el Presbiterio es "mysterium" y "realidad sobrenatural" (PDV 74), que matiza la espiritualidad del sacerdote en el sentido de pertenecer a una "familia sacerdotal" (CD 28; PDV 74), como "lugar privilegiado" donde el sacerdote "debería encontrar los medios específicos de santificación y evangelización" (Dir 27).
3º) La misión y espiritualidad sacerdotal diocesana se viven necesariamente en relación de dependencia familiar respecto al carisma episcopal (PO 7; PDV 31, 74).
Los sacerdotes son "colaboradores y consejeros necesarios" del Obispo (PO 7; Dir 22, 62). Con él y en grado inferior, participan en la sucesión apostólica de los Doce (PDV 15-16, 60).
Por esto la actuación del carisma episcopal es imprescindible, no sólo para las cuestiones administrativas y pastorales, sino principalmente para el campo de la espiritualidad específica (CD 15-16, 28). Sin esta actuación episcopal, no sería posible la construcción del Presbiterio descrito por los Santos Padres (San Ignacio de Antioquía) y por los documentos conciliares y postconciliares (PDV 79).
4ª) El sacerdote diocesano, por la incardinación, pertenece de modo permanente a la Iglesia particular (diócesis, vicariato, prefectura, prelatura...). Sirve, pues, a la Iglesia allí donde ésta se concreta bajo la dirección de un sucesor de los Apóstoles (CD 11; LG 28).
La pertenencia estable a una Iglesia particular comporta asumir la responsabilidad correspondiente respecto a una herencia apostólica, una historia de gracia y una colaboración misionera universal (PDV 31-32, 65, 74). Todo sacerdote diocesano, por el hecho de serlo, queda disponible para la Iglesia universal, siempre en relación de dependencia con su propio Obispo (LG 28; PO 10; PDV 32; Dir 14-15).
Esta diocesaneidad no implica separación ni privilegios respecto a otras modalidades de servir a la Iglesia particular (también como miembros del Presbiterio con pleno derecho), pero tiene su propio camino específico de espiritualidad y de misionariedad. El sacerdote diocesano está al servicio de todos los carismas y vocaciones, indicando una línea de comunión con el Obispo y de coordinación entre todos los componentes del pueblo de Dios (PO 6, 9).
Por ser sacerdote diocesano secular ("incardinado"), se tiene una espiritualidad específica (con las líneas indicadas), aunque no necesariamente una espiritualidad peculiar en el sentido de inspirarse en el carisma fundacional de un fundador (como en el caso de los religiosos y de algunas instituciones). "Secular" indica no conventual o monástico. Esta espiritualidad específica sacerdotal (que constituye la propia identidad) ni se pone en duda, ni se presenta como reivindicación, ni se reduce a una discusión teórica de contraste con otras espiritualidades, sino que se afirma para vivirla e inspirarla a los futuros sacerdotes, especialmente durante la formación inicial en los Seminarios.
2. Cómo vivir la identidad sacerdotal en el propio Presbiterio
Por encima de toda fraternidad concreta (arciprestazgo, vicaría, grupo, asociación...), el sacerdote diocesano está llamado a vivir la fraternidad del propio Presbiterio según el proyecto que se haya elaborado para una formación permanente (PDV 79). Esto es exigencia del sacramento del Orden, de la pertenencia a la Iglesia diocesana y al Presbiterio y, al mismo tiempo, es un derecho del pueblo de Dios (PDV 70). Toda fraternidad o grupo concreto deberá respetar esta realidad fraterna general, sin hacer una vida paralela.
El cuidado de la vida sacerdotal ("pastoral sacerdotal"), siempre en relación de dependencia respecto al carisma episcopal, es un acompañamiento de la persona del sacerdote en todas sus dimensiones. De este acompañamiento es también responsable todo el Presbiterio y la comunidad diocesana (PDV 76-78; Dir 81-97).
La vida sacerdotal del Presbiterio se estructura en sus cuatro niveles o dimensiones: humana, espiritual, intelectual y pastoral (PDV 71-72). Así se va tomando conciencia concreta de que, en la propia Iglesia particular, se hace realidad la Iglesia misterio, comunión y misión (PDV 73-75). El proyecto de vida que debe existir en todo Presbiterio, tiene que ser integral y sistemático, abarcando toda la vida y ministerio sacerdotal (PDV 3, 79; Dir 76, 86).
El proyecto de vida en su dimensión humana (personal y comunitaria) cuidará del sacerdote para que se pueda sentir plenamente realizado en el servicio pastoral: el equilibrio personal, virtudes humanas y de relación, conocimiento propio y de los demás, convivencia, posibilidad de compartir, dialogar, cooperar, entablar verdaderas amistades, cuidar del descanso y de la salud (deporte), organización del sustento necesario y de la previsión social... (PO 3; PDV 43-44, 72; Dir 76).
El proyecto de vida en su dimensión espiritual asegurará los medios para vivir la propia vocación y la espiritualidad específica, la oración y relación personal con Cristo, las virtudes del Buen Pastor en el seguimiento radical (la "Vida Apostólica"), la santificación en el ejercicio de los ministerios... (PO 12-17; OT 8-12; PDV 45-50, 72; Dir 76).
El proyecto de vida en su dimensión intelectual tendrá en cuenta la actualización de los contenidos de la fe, el enfoque kerigmático del estudio de la teología, los criterios eclesiales de fe en el enfoque de la problemática actual (en el dogma y la moral), la relación entre la fe y la ciencia... (PO 19; OT 13-18; PDV 51-56, 72; Dir 77).
En su dimensión pastoral, el proyecto de vida estimulará la disponibilidad misionera local y universal, un plan de pastoral de conjunto, el valor espiritual del ejercicio del ministerio (PO 13; PDV 24-26), la actualización de contenidos, la renovación de metodologías y de expresiones, el equilibrio y armonía entre ministerios (proféticos, cultuales, diaconales)... (PO 4-6, 9; OT 19-21; PDV 57-59, 72; Dir 45-56, 78).
Las cuatro dimensiones necesitarán personal responsable, encuentros, cursos de actualización, publicaciones o información... En resumen, en el Presbiterio debe haber un proyecto de vida sacerdotal en todas sus dimensiones.
3. Proyecto de vida personal y comunitaria
Las fraternidades y grupos sacerdotales tendrán el cometido de "animar" este proyecto del Presbiterio y de llenar el espacio operativo que todavía queda para la iniciativa, la generosidad evangélica y los medios más concretos de vida sacerdotal. Las líneas básicas de espiritualidad (n.1) y el proyecto de vida en el Presbiterio (n.2) necesitan medios personales y comunitarios más concretos para hacerse verdaderamente efectivos (n. 3).
Esta concretización, para el sacerdote diocesano (incardinado), tendrá que realizarse en la misma línea del carisma específico: caridad pastoral concretada en el estilo evangélico de los Apóstoles, relación con el carisma episcopal, pertenencia responsable al Presbiterio, dedicación plena a la Iglesia particular también en su responsabilidad misionera universal... Para los demás sacerdotes, se tendrá en cuenta el propio carisma fundacional, religioso, asociativo, etc.
1º) Proyecto y compromisos personales (PO 18; PDV V-VI; Dir 41-54, 68, 76, 81-86).
Sin un proyecto personal adecuado, el proyecto comunitario no se pondría nunca en práctica. Los medios son los comunes a todo sacerdote, tal vez ya aconsejados o programados en el proyecto del Presbiterio, pero que siempre dejan espacio a una mayor concretización para la iniciativa privada:
- a partir del discernimiento personal sobre la acción de la gracia (del Espíritu Santo), sobre las propias limitaciones, sobre las prioridades y urgencias particulares de cada uno,
- celebración eucarística y encuentro personal (tiempo de visita, adoración),
- tiempo para la meditación de la Palabra o "lectio divina",
- liturgia de las Horas,
- momento mariano (rosario, consagración...),
- estudio y lectura espiritual,
- reconciliación sacramental periódica,
- revisión y consulta personal: examen, retiro y Ejercicios, dirección o consulta espiritual, asistencia a la reunión de grupo,
- tiempo necesario de descanso, vocación, deporte...
- renovación de estos compromisos o propósitos,
- tener estos medios escritos o memorizados en un plan sencillo espiritual, humano, intelectual, pastoral, concretando tiempo y modalidades...
2º) Proyecto y compromisos del grupo o fraternidad (PO 8, 17; PDV 17, 29, 31, 44, 50, 68, 74-81; Dir 28-29; can 278-280).
Además de las indicaciones del proyecto del Presbiterio, el grupo o fraternidad sacerdotal podrá concretar mejor a nivel de iniciativa privada y de generosidad evangélica, también para hacer realidad lo programado para todos los sacerdotes:
- a partir del discernimiento comunitario del Espíritu, para descubrir la peculiaridad del grupo o fraternidad,
- encontrarse periódicamente para: orar, compartir, ayudarse y ayudar a otros, descansar...
- participación responsable en el proyecto de formación permanente del Presbiterio diocesano (según las indicaciones del Obispo),
- compartir y ayudarse en la vida espiritual, pastoral, intelectual, humana,
- según diversas modalidades de reunión o de vida en grupo:
* a partir de la realidad (acontecimientos) iluminada por el evangelio (revisión de vida),
* a partir del evangelio, magisterio, santos, escritos...
* a partir de virtudes o deberes cristianos y sacerdotales,
* a partir de textos litúrgicos: preparación de la homilía, vivencia de la litúrgica...
- hacer y renovar estos compromisos preferentemente en común y en un día señalado (Jueves Santo, domingo del Buen Pastor, día del Cura de Ars o de San Juan de Avila, etc.)
3º) Según diversas posibilidades de vida en grupo:
- modalidad geográfica: arciprestazgos (decanatos), vicarías, zonas, cercanía...
- modalidad funcional, según afinidad de ministerios especializados: consiliarías, enseñanza, liturgia, formación, apostolado y servicios con jóvenes, familia, enfermos, pobres...
- modalidad de amistad: por años de ordenación, amistad y afinidad, grupos espontáneos...
- modalidad "carismática" inspirada en una figura sacerdotal o espiritual...
- otras modalidades de iniciativa privada o grupal: consejo espiritual y apostólico, revisión de vida en grupo...
- modalidad de asociación: asociaciones, movimientos, institutos, vida consagrada...
- modalidad de la Unión Apostólica, como servicio asociativo internacional para intercambiar experiencias de "Vita Apostólica" en el Presbiterio diocesano.
4º) La posibilidad concreta de las "asociaciones" (cfr. PO 8; PDV 31, 68, 81; Directorio 25-29, 88; CIC 278, 298-329):
Hay que recordar los elementos constitutivos de las asociaciones sacerdotales, según las orientaciones actuales de los documentos eclesiales, teniendo en cuenta que todas ellas se inspiran en algún ideario, tienden a unos objetivos concretos y emplean los medios adecuados. En líneas generales se puede decir que señalan los objetivos pertinentes al nivel humano, espiritual, intelectual y pastoral, pero con aspectos preferenciales de vida y ministerio sacerdotal: vida espiritual y apostólica, compromisos morales o jurídicos, modalidad de vida de grupo, modalidad dependencia respecto al propio obispo, etc.
Las orientaciones eclesiales invitan a "tenerlas en mucha estima" e indican unas líneas básicas: a) "estatutos reconocidos por la competente autoridad eclesiástica"; b) "fomentan la santidad de los sacerdotes en el ejercicio del ministerio"; c) "una ordenación apta y convenientemente aprobada de la vida y por la ayuda fraterna"; d) "servir a todo el orden de los presbíteros" (PO 8); e) "contribuyen a la unión de los clérigos entre sí y con su propio obispo" (can. 278,2).
En armonía con el Presbiterio diocesano, deberá respetarse la inserción en las zonas pastorales (v.g. arciprestazgo) y las orientaciones sobre formación permanente de todos los sacerdotes. En esta perspectiva, siempre queda un espacio operativo para la vida más personal y comunitaria de iniciativa privada y de generosidad evangélica.
Entre las asociaciones, es muy conocida (a partir del siglo XIX) la Unión Apostólica (en algunas diócesis tiene una larga historia que merecería estudiarse y valorarse más, también por las eminentes figuras sacerdotales que la han promovido). Tiene como objetivo principal suscitar la fraternidad sacerdotal que deriva del sacramento del Orden y de la pertenencia al Presbiterio de la Iglesia particular, en comunión con el propio Obispo y con el Sucesor de Pedro. Busca vivir la "Vita Apostólica" en la fraternidad del Presbiterio diocesano (sacerdotes y diáconos), proponiendo posibilidades de fraternidad por medio de un proyecto de vida personal y comunitaria. Propiamente funciona como federación de grupos, que tienen su propia autonomía e intinerario.
Decía Pablo VI: "La Unión Apostólica podrá encontrar, precisamente en el seno del Presbiterio, su espacio operativo y la posibilidad de ofrecer un servicio agradable y fructífero para el Clero" (Pablo VI, 22.11.72). Insertándose en el "proyecto de vida", que pide "Pastores dabo vobis" para el Presbiterio (PDV 76), la U.A. puede ser un fermento para la aplicación de todos los niveles de la formación permanente (en el campo de la iniciativa privada y de la generosidad evangélica), ayudando también al aprecio y a la coordinación de las demás asociaciones sacerdotales.
A modo de invitación:
Muchos sacerdotes del pasado y del presente histórico han hecho realidad este proyecto personal y comunitario, con modalidades diferentes y con contenidos equivalentes.
El sacerdote diocesano, en general, se siente todavía desmantelado en este campo concreto de la fraternidad. Tal vez de ahí deriva el que, en algunos lugares, las vocaciones no sean ni abundantes ni definidas. En algunas Iglesias particulares, donde abundan las vocaciones y donde los Seminarios van en auge, los futuros sacerdotes se preguntan sobre la posibilidad de vivir la identidad específica del sacerdote diocesano (descrita en PO, PDV, Directorio), en su propio Presbiterio y con su propio Obispo. El hecho de que existan otros cauces legítimos y recomendables no excusa de la urgencia de colaborar para construir el cauce propio y peculiar.
Hay que dar pasos concretos, sin esperar a más programaciones teóricas que quedan frecuentemente en el papel. Las propuestas concretas que sugerimos (n.3) son un paso humilde (entre otros posibles), que abre caminos para que otros mejoren lo andado.
El Presbiterio que llegue a entusiasmar a los sacerdotes actuales y a los del futuro, hay que construirlo como "familia sacerdotal" (PDV 74; CD 28), compuesta de sacerdotes apasionados por Cristo, y de pequeñas fraternidades o grupos y cenáculos (por zonas geográficas, función, amistad, asociación, etc.), que siguen un proyecto de vida definido y claro.
Las posibilidades son muchas; basta con empezar por una... Se puede iniciar por iniciativa privada, por asesoramiento de los formadores, por grupo o asociación, etc. A todo sacerdote le es posible dar ese paso trascendental, que podría ser el de reunirse periódicamente con algunos hermanos (dos o tres), buscar asesoramiento espiritual y pastoral, y colaborar responsablemente en el proyecto común del Presbiterio.
Teológicamente es necesaria la actuación concreta (paternal y fraterna) del propio Obispo, que hay que pedir y secundar, especialmente para las posibilidades geográficas, funcionales, asociativas, etc. Los presbíteros necesitan la actuación del carisma episcopal, de suerte que lo sientan cercano, plenamente comprometido y corriendo la misma suerte (humana, espiritual, intelectual y pastoral) en el Presbiterio de la Iglesia particular. La vida asociativa o comunitaria es un signo eficaz de espiritualidad y de evangelización, como concretización de la "fraternidad sacramental" del Presbiterio (cfr. PO 8).
Lo que fue el concilio de Trento respecto a los Seminarios, lo es ahora el concilio Vaticano II y su postconcilio respecto a los Presbiterios diocesanos. La aplicación de un concilio necesita años, cambio de mentalidad y personas generosas evangélicamente. "Con María, la Madre de Jesús" (Act 1,14), es siempre posible responder a las nuevas gracias que el Espíritu Santo derrama en su Iglesia. El "nuevo fervor de los apóstoles", exigido para la "Nueva Evangelización", significa, para los sacerdotes diocesanos, redescubrir y comprometerse a vivir la propia espiritualidad y misión sacerdotal, a nivel personal y comunitario.
Juan Esquerda Bifet
Pontificia Universidad Urbaniana
Via Urbano VIII, 16
00165 ROMA (Italia)
Bibliografía sobre asociaciones sacerdotales: A. Del PORTILLO, Ius associationis et associationes fidelium iuxta Concilii Vaticani II doctrinam: Us Canonicum 8 (1968) 5-28; J. ESQUERDA BIFET, Asociaciones y espiritualidad sacerdotal, en: Espiritualidad del presbítero diocesano (Madrid, EDICE, 1987) 597-607; Idem, Asociaciones sacerdotales de perfección: Teología Espiritual 10 (1966) 413-431; L. MARTINEZ SISTACH, Las asociaciones de fieles (Barcelona, Facultad de Teología, 1986); (Pont. Consejo para los Laicos) Los sacerdotes en el seno de las asociaciones de los fieles. Identidad y misión (Ciudad del Vaticano 1981); P. POUPLIN, Les associations sacerdotales et la vie spirituelle des prêtres: Vocation n. 285 (1979) 1118-128.
** FRATERNITA' SACERDOTALI NEL PRESBITERIO DIOCESANO
PROGETTO DI FORMAZIONE PERMANENTE NEL PRESBITERIO DIOCESANO
Presentazione
La fisionomia del sacerdote diocesano è stata presentata con chiarezza dai documenti conciliari e postconciliari,[1] a modo di attualizzazione dei testi evangelici sulla figura del Buon Pastore e sullo stile di vita degli Apostoli. Questa realtà ecclesiale è la voce dello Spirito Santo oggi che chiama a costruire e a vivere la figura sacerdotale nel Presbiterio diocesano del terzo millennio del cristianesimo.
E' urgente presentare questa dottrina attuata in persone singole e fraternità sacerdotali, allo scopo di far vedere la possibilità effettiva della spiritualità specifica del sacerdote diocesano. Ed è anche urgente saper contagiare di questo ideale le nuove generazioni vocazionali (specialmente nei Seminari diocesani) sulla mistica e spiritualità del sacerdote diocesano.
Le "fraternità sacerdotali" che tentiamo di descrivere, e che sono già una realtà in molte Chiese particolari, mettono in evidenza che è possibile costruire col proprio Vescovo la "fraternità sacramentale" del Presbiterio (PO 8; cfr. LG 28; PDV 17, 74), come "luogo privilegiato" nel quale il sacerdote (diocesano, secolare) "dovrebbe trovare i mezzi specifici di santificazione e di evangelizzazione" (Dir 27).
Nella nostra riflessione prendiamo come punto di partenza quello che è comune ad ogni sacerdote diocesano (nn.1-2), per poter arrivare a delle proposte concrete (n.3), in armonia con i mezzi comuni e soliti per la vita sacerdotale. Oltre quello che il Presbiterio organizzi per tutta la famiglia sacerdotale, c'è sempre un ampio spazio operativo per i gruppi e fraternità concrete, a livello di iniziativa e generosità evangelica.
1. Linee basilari della missione e spiritualità sacerdotale
Ogni fraternità sacerdotale nel Presbiterio ha bisogno di ispirarsi alle linee basilari che costituiscono la spiritualità specifica del sacerdote diocesano:
1ª) Essere segno personale, comunitario e sacramentale di Cristo, Buon Pastore, Capo, Sposo, Servo, Sacerdote e Vittima.[2]
Si partecipa al suo essere (consacrazione), si prolunga il suo agire (missione) e si fa trasparire il suo stile di vita (spiritualità). In questo modo si costruisce la comunità ecclesiale come comunione: prolungare la Parola del Signore, far presente il suo sacrificio e azione salvifica, attuare la sua azione pastorale di carità.
Il sacerdote è segno trasparente della vita evangelica del Buon Pastore, il quale ha amato fino a "dare la vita" (carità pastorale) per poter dare se stesso (povertà), secondo i disegni del Padre (obbedienza) e come consorte e Sposo (verginità)[3]. A questa vita sono stati chiamati gli Apostoli e i suoi successori, nella sequela evangelica radicale, in comunione fraterna con disponibilità missionaria[4], per poter condividere sponsalmente la stessa vita del Signore e diventare segno di come ha amato lui.[5]
Questa realtà di "segno" è anche "relazionale" e contemplativa, di amicizia profonda con Cristo nell'esperienza della sua presenza.[6]
Ogni sacerdote, oltre ad essere segno personale di Cristo, é anche segno comunitario (in modo speciale nel Presbiterio), partecipe della Chiesa comunione[7]. Nel vivere questa realtà di comunione diventa segno efficace di evangelizzazione.
Per il fatto di partecipare al sacerdozio e alla missione di Cristo, come pure alla successione apostolica, essendo cooperatore diretto del Vescovo e incardinato nella Chiesa particolare, il sacerdote deve essere disponibile per la missione locale e universale.[8]
2ª) Il sacerdozio vissuto nel Presbiterio ha le caratteristiche di "intima fraternità" postulata dal sacramento dell'Ordine (LG 28). E' quindi "fraternità sacramentale" (PO 8), segno efficace di santificazione e di evangelizzazione. Di conseguenza, il Presbiterio è "mysterium" e una "realtà soprannaturale" (PDV 74) che conferisce alla spiritualità sacerdotale il senso di appartenenza ad una "famiglia sacerdotale" (CD 28; PDV 74), come "luogo privilegiato" dove il sacerdote "dovrebbe trovare i mezzi specifici di santificazione e di evangelizzazione" (Dir 27).
3ª) La missione e spiritualità sacerdotale diocesana viene vissuta necessariamente in rapporto di dipendenza familiare col carisma episcopale (PO 7; PDV 31, 74). I sacerdoti sono "collaboratori e consiglieri necessari" del Vescovo (PO 7; Dir 22, 62). Con lui ma in grado inferiore, partecipano alla successione apostolica dei Dodici (PDV 15-16, 60).
Per ciò l'attuazione del carisma episcopale è imprescindibile, non soltanto per le questioni amministrative e pastorali, ma principalmente nel campo della spiritualità specifica (CD 15-16, 28). Senza di quest'attuazione episcopale, non sarebbe possibile la costruzione del Presbiterio tale quale viene descritto dai Santi Padri[9] e dai documenti conciliari e postconciliari (PDV 79).
4ª) Il sacerdote diocesano, per il fatto dell'incardinazione, appartiene permanentemente alla Chiesa particolare. E' quindi al servizio della Chiesa lì dove viene concretizzata e guidata sotto la direzione di un successore degli Apostoli in comunione col Romano Pontefice (CD 11; LG 28).
L'appartenenza stabile alla Chiesa particolare ha come conseguenza una speciale responsabilità riguardo l'eredità apostolica, la storia di grazia e la collaborazione universale (PDV 31-32, 65, 74). Ogni sacerdote diocesano deve restare disponibile per la Chiesa universale, sempre in rapporto di dipendenza al proprio Vescovo.[10]
Questa diocesaneità non implica separazione ne privilegi riguardo le altre modalità sacerdotali di servire nella Chiesa particolare (che sono anche membri del Presbiterio in pieno diritto), ma ha un suo proprio cammino specifico di spiritualità e di missionarietà. Il sacerdote diocesano è al servizio di tutti i carismi e vocazioni, in comunione col Vescovo e in coordinamento con tutti i componenti del Popolo di Dio (PO 6, 9).
Per il fatto di essere diocesano o secolare, il sacerdote "incardinato" nella diocesi ha una propria spiritualità specifica (secondo le linee sopra elencate), anche se non sempre ha necessariamente una spiritualità peculiare nel senso di ispirarsi in un carisma fondazionale (come è il caso dei religiosi e di altre istituzioni). Questa spiritualità sacerdotale specifica (che costituisce la propria identità) non è da mettere in dubbio ne deve essere presentata come rivendicazione ne può essere ridotta a discussione teorica di contrasto con altre spiritualità, ma si deve affermare per essere vissuta e comunicata specialmente ai futuri sacerdoti durante la formazione iniziale nei Seminari.
2. Come vivere l'identità sacerdotale nel proprio Presbiterio
Al di sopra di ogni altra fraternità concreta (vicariati foranei, vicarie, gruppi, associazione...), il sacerdote diocesano è chiamato a vivere la fraternità del proprio Presbiterio secondo il progetto di formazione permanente (PDV 79). Questa formazione è esigenza del sacramento dell'Ordine, dell'appartenenza alla Chiesa diocesana e al Presbiterio e, al tempo stesso, è un diritto del popolo di Dio (PDV 70). Ogni altra fraternità e gruppo dovrà rispettare questa realtà fraterna nel Presbiterio, senza costruire una vita parallela.
La cura della vita sacerdotale ("pastorale sacerdotale" o riguardo i sacerdoti), è sempre in rapporto di dipendenza riguardo il carisma episcopale, e si concretizza nell'aiutare il sacerdote in tutte le sue dimensioni. Di questa assistenza e aiuto ne è responsabile anche tutto il Presbiterio e tutta la comunità diocesana (PDV 76-78; Dir 81-97).
La vita sacerdotale del Presbiterio si organizza secondo quattro livelli o dimensioni: umana, spirituale, intellettuale e pastorale (PDV 71-72). In questo modo si prende coscienza che nella propria Chiesa particolare si fa presente la realtà della Chiesa mistero, comunione e missione (PDV 73-75). Il progetto di vita che deve attuarsi in ogni Presbiterio, deve essere integrale e sistematico, abbracciando tutta la vita e ministero sacerdotale (PDV 3, 79; Dir 76, 86).
Il progetto di vita nella sua dimensione umana (personale e comunitaria) aiuterà il sacerdote a sentirsi realizzato nel servizio pastorale: equilibrio personale, virtù umane e di rapporto, conoscenza di se stesso e degli altri, saper convivere e condividere, dialogo, cooperazione, avere vere amicizie, far attenzione al riposo e alla salute (sport), sostentamento, previsione sociale...[11]
Il progetto di vita nella sua dimensione spirituale garantisce i mezzi per vivere la propria vocazione e la spiritualità specifica, la preghiera e il rapporto con Cristo, le virtù del Buon Pastore nella sequela evangelica radicale (la "Vita Apostolica"), la santificazione nel'esercizio dei ministeri...[12]
Nella sua dimensione intellettuale il progetto di vita aiuta ad attualizzare i contenuti della fede, la prospettiva kerigmatica dello studio della teologia, i criteri ecclesiali della fede nella presentazione della problematica attuale (nel dogma e nella morale), il rapporto tra fede e scienza...[13]
Nella sua dimensione pastorale, il progetto di vita susciterà la disponibilità missionaria locale e universale, il disegno di pastorale comunitaria, il valore spirituale dell'esercizio del ministero (PO 13; PDV 24-26), l'attualizzazione dei contenuti, il rinnovamento della metodologia e delle espressioni, l'equilibrio e armonia tra i ministeri (profetici, cultuali, diaconali)...[14]
Le quattro dimensioni hanno bisogno di personale responsabile, incontri, corsi di attualizzazione (aggiornamento), pubblicazioni e informazione... Insomma, in ogni Presbiterio ci deve essere un progetto di vita sacerdotale in tutte le sue dimensioni.
3. Progetto di vita personale e comunitario
Le fraternità e gruppi sacerdotali hanno lo scopo di "animare" il progetto del Presbiterio e di riempire lo spazio operativo che ancora rimane per l'iniziativa privata, la generosità evangelica e i mezzi concreti di vita sacerdotale. Le linee basilari di spiritualità (n.1) e il progetto di vita nel Presbiterio (n.2) hanno bisogno di mezzi personali e comunitari più concreti e più efficaci, adattati ai bisogni particolari (n. 3).
Questa concretizzazione, per quanto si riferisce al sacerdote diocesano (incardinato nella diocesi), dovrà attuarsi nella stessa linea del carisma specifico: carità pastorale secondo lo stile evangelico degli Apostoli, rapporto con il carisma episcopale, appartenenza responsabile al Presbiterio, dedizione piena alla Chiesa particolare anche nella sua responsabilità missionaria universale... Riguardo gli altri sacerdoti non incardinati nella diocesi, si dovrà far attenzione al proprio carisma fondazionale, religioso, associativo, ecc.
1º) Progetto e impegni personali[15]. Senza un progetto personale efficiente, il progetto comunitario non si metterà in pratica. I mezzi sono quelli comuni ad ogni sacerdote, che sono anche consigliati e programmati nel progetto del Presbiterio, ma che pure lasciano uno spazio sufficiente per un'ulteriore concretizzazione secondo l'iniziativa privata:
- a partire dal discernimento personale sull'azione della grazia (dello Spirito Santo), sui propri limiti, sulle priorità ed urgenze particolari di ognuno,
- celebrazione eucaristica e incontro personale (adorazione),
- tempo per la meditazione della Parola o "lectio divina",
- liturgia delle Ore,
- momento mariano (rosario, consacrazione-affidamento...),
- studio e lettura spirituale,
- riconciliazione sacramentale periodica,
- revisione e consulta personale: esame, ritiro e Esercizi, direzione spirituale, assiduità all'adunanza di gruppo,
- tempo necessario di riposo, vacanze, sport...
- rinnovamento di questi impegni e propositi,
- ritenere questi mezzi scritti o memorizzati in un piano semplice spirituale, umano, intellettuale, pastorale, indicando tempo e modalità...
2º) Progetto e impegni del gruppo o fraternità[16]. Oltre gli indirizzi del progetto del Presbiterio, il gruppo o fraternità potrà ancora concretizzare meglio, a livello di iniziativa privata e di generosità evangelica, affinché diventi una realtà tutto quello che è stato programmato per tutti i sacerdoti:
- a partire dal discernimento comunitario dello Spirito per scoprire la peculiarità del gruppo o fraternità,
- incontrarsi periodicamente per: pregare, condividere, aiutarsi e aiutare altri, riposo...
- partecipazione responsabile nel progetto di formazione permanente del Presbiterio diocesano (secondo gli indirizzi dati dal Vescovo),
- condividere e aiutarsi nella vita spirituale, pastorale, intellettuale, umana,
- secondo le diverse modalità di adunanza o di vita in gruppo:
* a partire dalla realtà (eventi) illuminata dal Vangelo (revisione di vita),
* a partire dal Vangelo, magistero, santi, scritti...
* a partire dalle virtù e doveri cristiani e sacerdotali,
* a partire dai testi liturgici: preparazione dell'omelia, modo di vivere la liturgia...
- fare e rinnovare questi impegni preferibilmente in comune e in un determinato giorno (Giovedì Santo, domenica del Buon Pastore, festa del Curato d'Ars o di S. Giovanni d'Avila, ecc.)
3º) Diverse possibilità di vita in gruppo:
- modalità geografica: vicarie foranee, zone, vicinanza...
- modalità funzionale, secondo l'affinità di ministeri specializzati: consiglieri, insegnamento, liturgia, formazione, apostolato e servizi per i giovani, famiglia, poveri, operai...
- modalità di amicizie: secondo gli anni di ordinazione, amicizia e affinità, gruppi spontanei...
- modalità di collegamento: associazioni, movimenti, istituti, "comunità", vita consacrata...
- modalità "carismatica" ispirata in una figura sacerdotale o spirituale...
- modalità di Unione Apostolica, come servizio associativo internazionale per lo scambio di esperienze di "Vita Apostolica" nel Presbiterio diocesano,
- altre modalità di iniziativa privata: consiglio spirituale e apostolico, revisione di vita in gruppo...
Un invito riassuntivo:
Molti sacerdoti del passato e del presente storico hanno già messo in pratica un qualche progetto personale o comunitario, con modalità diverse e contenuti equivalenti.
Il sacerdote diocesano ordinariamente si sente ancora spaesato in questo campo concreto della fraternità. Forse è questa una delle cause più importanti perché in alcune diocesi le vocazioni non siano ne abbondanti ne definite. In alcune Chiese particolari, in cui abbondano le vocazioni e dove i Seminari sono in crescita, i futuri sacerdoti si domandano sulla possibilità di vivere l'identità specifica del sacerdote diocesano (tale quale viene descritta in PO, PDV, Direttorio), nel suo Presbiterio e col suo Vescovo. Il fatto dell'esistenza di altre vie legittime e raccomandabili non scusa dall'urgenza di collaborare nella costruzione della propria via specifica.
Ci vogliono passi concreti, senza aspettare altre programmazioni teoriche che ordinariamente restano nella carta. Le proposte concrete che suggeriamo (n.3) sono soltanto un passo umile (tra tanti possibili), come cammino aperto da migliorare permanentemente.
Il Presbiterio che susciti entusiasmo nei sacerdoti attuali e in quelli del futuro, si deve costruire come "famiglia sacerdotale" (PDV 74; CD 28), composta da sacerdoti appassionati di Cristo, e da piccole fraternità o di gruppi e cenacoli (secondo zone geografiche, funzione ministeriale, amicizia, ecc.), nella messa in pratica di un progetto di vita concreto e chiaro.
Le possibilità o modalità sono molte e alcune già esistono; bastarebbe cominciare da una sola... Si può iniziare a partire dall'iniziativa privata, dal consiglio dei formatori, ecc. Ogni sacerdote è capace di fare questo passo trascendentale e semplice: radunarsi periodicamente con alcuni fratelli, cercare consiglio spirituale e pastorale, collaborare responsabilmente nel progetto comune del Presbiterio.
Teologicamente è necessaria l'azione concreta (paterna e fraterna) del proprio Vescovo, che si deve domandare e seguire, specialmente quando si tratta delle modalità geografiche e funzionali. I presbiteri hanno bisogno dell'attuazione del carisma episcopale, fino a sentirlo vicino, pienamente impegnato e condividendo la stessa sorte (umana spirituale, intellettuale e pastorale) nel Presbiterio della Chiesa particolare.
Quello che il concilio di Trento è stato per i Seminari, lo è nei nostri tempi il concilio Vaticano II e il suo postconcilio riguardo i Presbiteri diocesani. L'applicazione di un concilio ha bisogno di molti anni, di cambiamento di mentalità e specialmente di persone evangelicamente generose e disponibili. "Con Maria, la Madre di Gesù" (At 1,14), è sempre possibile rispondere alle nuove grazie che lo Spirito Santo effonde nella sua Chiesa. Il "nuovo fervore degli apostoli", domandato dalla "Nuova Evangelizzazione", significa, per i sacerdoti diocesani, riscoprire ed impegnarsi a vivere la propria spiritualità e missione sacerdotale.[17]
Juan Esquerda Bifet
Pontificia Università Urbaniana. Roma
SUMMARY
La fisionomia del sacerdote diocesano è stata presentata con chiarezza dai documenti conciliari e postconciliari (LG cap. III, PO nn.7-9, PDV nn.31-32, 74, Dir nn.25-29), a modo di attualizzazione dei testi evangelici sulla figura del Buon Pastore e sullo stile di vita degli Apostoli.
Le "fraternità sacerdotali" che sono già una realtà in molte Chiese particolari, mettono in evidenza che è possibile costruire col proprio Vescovo la "fraternità sacramentale" del Presbiterio (PO 8; cfr. LG 28; PDV 17, 74), come "luogo privilegiato" nel quale il sacerdote (diocesano, secolare) "dovrebbe trovare i mezzi specifici di santificazione e di evangelizzazione" (Dir 27).
A partire dalle caratteristiche comuni di ogni sacerdote diocesano (nn.1-2), si tenta di arrivare a delle proposte concrete (n.3), in armonia con i mezzi comuni e soliti per la vita sacerdotale. Oltre quello che il Presbiterio organizzi per tutta la famiglia sacerdotale, c'è sempre un ampio spazio operativo per i gruppi e fraternità concrete, a livello di iniziativa e generosità evangelica.
*** PROGETTO DI FORMAZIONE PERMANENTE NEL PRESBITERIO DIOCESANO
Presentazione
1- Linee basilari della missione e spiritualità sacerdotal
2. Vivere l'identità sacerdotale nel proprio Presbiterio
3. Progetto di vita personal e comunitaria
* * *
Presentazione
La fisionomia del sacerdote diocesano è stata presentata con chiarezza dai documenti conciliari e postconciliari, a modo di attualizzazione dei testi evangelici sulla figura del Buon Pastore e sullo stile di vita degli Apostoli. Questa realtà ecclesiale è la voce dello Spirito Santo oggi che chiama a costruire e a vivere la figura sacerdotale nel Presbiterio diocesano del terzo millennio del cristianesimo.
E' urgente presentare questa dottrina attuata in persone singole e fraternità sacerdotali, allo scopo di far vedere la possibilità effettiva della spiritualità specifica del sacerdote diocesano. Ed è anche urgente saper contagiare di questo ideale le nuove generazioni vocazionali (specialmente nei Seminari diocesani) sulla mistica e spiritualità del sacerdote diocesano.
Le "fraternità sacerdotali" che tentiamo di descrivere, e che sono già una realtà in molte Chiese particolari, mettono in evidenza che è possibile costruire col proprio Vescovo la "fraternità sacramentale" del Presbiterio (PO 8; cfr. LG 28; PDV 17, 74), come "luogo privilegiato" nel quale il sacerdote (diocesano, secolare) "dovrebbe trovare i mezzi specifici di santificazione e di evangelizzazione" (Dir 27).
Nella nostra riflessione prendiamo come punto di partenza quello che è comune ad ogni sacerdote diocesano (nn.1-2), per poter arrivare a delle proposte concrete (n.3), in armonia con i mezzi comuni e soliti per la vita sacerdotale. Oltre quello che il Presbiterio organizzi per tutta la famiglia sacerdotale, c'è sempre un ampio spazio operativo per i gruppi e fraternità concrete, a livello di iniziativa e generosità evangelica.
1. Linee basilari della missione e spiritualità sacerdotale
Ogni fraternità sacerdotale nel Presbiterio ha bisogno di ispirarsi alle linee basilari che costituiscono la spiritualità specifica del sacerdote diocesano:
1ª) Essere segno personale, comunitario e sacramentale di Cristo, Buon Pastore, Capo, Sposo, Servo, Sacerdote e Vittima.
Si partecipa al suo essere (consacrazione), si prolunga il suo agire (missione) e si fa trasparire il suo stile di vita (spiritualità). In questo modo si costruisce la comunità ecclesiale come comunione: prolungare la Parola del Signore, far presente il suo sacrificio e azione salvifica, attuare la sua azione pastorale di carità.
Il sacerdote è segno trasparente della vita evangelica del Buon Pastore, il quale ha amato fino a "dare la vita" (carità pastorale) per poter dare se stesso (povertà), secondo i disegni del Padre (obbedienza) e come consorte e Sposo (verginità). A questa vita sono stati chiamati gli Apostoli e i suoi successori, nella sequela evangelica radicale, in comunione fraterna con disponibilità missionaria, per poter condividere sponsalmente la stessa vita del Signore e diventare segno di come ha amato lui.
Questa realtà di "segno" è anche "relazionale" e contemplativa, di amicizia profonda con Cristo nell'esperienza della sua presenza.
Ogni sacerdote, oltre ad essere segno personale di Cristo, é anche segno comunitario (in modo speciale nel Presbiterio), partecipe della Chiesa comunione. Nel vivere questa realtà di comunione diventa segno efficace di evangelizzazione.
Per il fatto di partecipare al sacerdozio e alla missione di Cristo, come pure alla successione apostolica, essendo cooperatore diretto del Vescovo e incardinato nella Chiesa particolare, il sacerdote deve essere disponibile per la missione locale e universale.
2ª) Il sacerdozio vissuto nel Presbiterio ha le caratteristiche di "intima fraternità" postulata dal sacramento dell'Ordine (LG 28). E' quindi "fraternità sacramentale" (PO 8), segno efficace di santificazione e di evangelizzazione. Di conseguenza, il Presbiterio è "mysterium" e una "realtà soprannaturale" (PDV 74) che conferisce alla spiritualità sacerdotale il senso di appartenenza ad una "famiglia sacerdotale" (CD 28; PDV 74), come "luogo privilegiato" dove il sacerdote "dovrebbe trovare i mezzi specifici di santificazione e di evangelizzazione" (Dir 27).
3ª) La missione e spiritualità sacerdotale diocesana viene vissuta necessariamente in rapporto di dipendenza familiare col carisma episcopale (PO 7; PDV 31, 74). I sacerdoti sono "collaboratori e consiglieri necessari" del Vescovo (PO 7; Dir 22, 62). Con lui ma in grado inferiore, partecipano alla successione apostolica dei Dodici (PDV 15-16, 60).
Per ciò l'attuazione del carisma episcopale è imprescindibile, non soltanto per le questioni amministrative e pastorali, ma principalmente nel campo della spiritualità specifica (CD 15-16, 28). Senza di quest'attuazione episcopale, non sarebbe possibile la costruzione del Presbiterio tale quale viene descritto dai Santi Padri e dai documenti conciliari e postconciliari (PDV 79).
4ª) Il sacerdote diocesano, per il fatto dell'incardinazione, appartiene permanentemente alla Chiesa particolare. E' quindi al servizio della Chiesa lì dove viene concretizzata e guidata sotto la direzione di un successore degli Apostoli in comunione col Romano Pontefice (CD 11; LG 28).
L'appartenenza stabile alla Chiesa particolare ha come conseguenza una speciale responsabilità riguardo l'eredità apostolica, la storia di grazia e la collaborazione universale (PDV 31-32, 65, 74). Ogni sacerdote diocesano deve restare disponibile per la Chiesa universale, sempre in rapporto di dipendenza al proprio Vescovo.
Questa diocesaneità non implica separazione ne privilegi riguardo le altre modalità sacerdotali di servire nella Chiesa particolare (che sono anche membri del Presbiterio in pieno diritto), ma ha un suo proprio cammino specifico di spiritualità e di missionarietà. Il sacerdote diocesano è al servizio di tutti i carismi e vocazioni, in comunione col Vescovo e in coordinamento con tutti i componenti del Popolo di Dio (PO 6, 9).
Per il fatto di essere diocesano o secolare, il sacerdote "incardinato" nella diocesi ha una propria spiritualità specifica (secondo le linee sopra elencate), anche se non sempre ha necessariamente una spiritualità peculiare nel senso di ispirarsi in un carisma fondazionale (come è il caso dei religiosi e di altre istituzioni). Questa spiritualità sacerdotale specifica (che costituisce la propria identità) non è da mettere in dubbio ne deve essere presentata come rivendicazione ne può essere ridotta a discussione teorica di contrasto con altre spiritualità, ma si deve affermare per essere vissuta e comunicata specialmente ai futuri sacerdoti durante la formazione iniziale nei Seminari.
2. Come vivere l'identità sacerdotale nel proprio Presbiterio
Al di sopra di ogni altra fraternità concreta (vicariati foranei, vicarie, gruppi, associazione...), il sacerdote diocesano è chiamato a vivere la fraternità del proprio Presbiterio secondo il progetto di formazione permanente (PDV 79). Questa formazione è esigenza del sacramento dell'Ordine, dell'appartenenza alla Chiesa diocesana e al Presbiterio e, al tempo stesso, è un diritto del popolo di Dio (PDV 70). Ogni altra fraternità e gruppo dovrà rispettare questa realtà fraterna nel Presbiterio, senza costruire una vita parallela.
La cura della vita sacerdotale ("pastorale sacerdotale" o riguardo i sacerdoti), è sempre in rapporto di dipendenza riguardo il carisma episcopale, e si concretizza nell'aiutare il sacerdote in tutte le sue dimensioni. Di questa assistenza e aiuto ne è responsabile anche tutto il Presbiterio e tutta la comunità diocesana (PDV 76-78; Dir 81-97).
La vita sacerdotale del Presbiterio si organizza secondo quattro livelli o dimensioni: umana, spirituale, intellettuale e pastorale (PDV 71-72). In questo modo si prende coscienza che nella propria Chiesa particolare si fa presente la realtà della Chiesa mistero, comunione e missione (PDV 73-75). Il progetto di vita che deve attuarsi in ogni Presbiterio, deve essere integrale e sistematico, abbracciando tutta la vita e ministero sacerdotale (PDV 3, 79; Dir 76, 86).
Il progetto di vita nella sua dimensione umana (personale e comunitaria) aiuterà il sacerdote a sentirsi realizzato nel servizio pastorale: equilibrio personale, virtù umane e di rapporto, conoscenza di se stesso e degli altri, saper convivere e condividere, dialogo, cooperazione, avere vere amicizie, far attenzione al riposo e alla salute (sport), sostentamento, previsione sociale...
Il progetto di vita nella sua dimensione spirituale garantisce i mezzi per vivere la propria vocazione e la spiritualità specifica, la preghiera e il rapporto con Cristo, le virtù del Buon Pastore nella sequela evangelica radicale (la "Vita Apostolica"), la santificazione nel'esercizio dei ministeri...
Nella sua dimensione intellettuale il progetto di vita aiuta ad attualizzare i contenuti della fede, la prospettiva kerigmatica dello studio della teologia, i criteri ecclesiali della fede nella presentazione della problematica attuale (nel dogma e nella morale), il rapporto tra fede e scienza...
Nella sua dimensione pastorale, il progetto di vita susciterà la disponibilità missionaria locale e universale, il disegno di pastorale comunitaria, il valore spirituale dell'esercizio del ministero (PO 13; PDV 24-26), l'attualizzazione dei contenuti, il rinnovamento della metodologia e delle espressioni, l'equilibrio e armonia tra i ministeri (profetici, cultuali, diaconali)...
Le quattro dimensioni hanno bisogno di personale responsabile, incontri, corsi di attualizzazione (aggiornamento), pubblicazioni e informazione... Insomma, in ogni Presbiterio ci deve essere un progetto di vita sacerdotale in tutte le sue dimensioni.
3. Progetto di vita personale e comunitario
Le fraternità e gruppi sacerdotali hanno lo scopo di "animare" il progetto del Presbiterio e di riempire lo spazio operativo che ancora rimane per l'iniziativa privata, la generosità evangelica e i mezzi concreti di vita sacerdotale. Le linee basilari di spiritualità (n.1) e il progetto di vita nel Presbiterio (n.2) hanno bisogno di mezzi personali e comunitari più concreti e più efficaci, adattati ai bisogni particolari (n. 3).
Questa concretizzazione, per quanto si riferisce al sacerdote diocesano (incardinato nella diocesi), dovrà attuarsi nella stessa linea del carisma specifico: carità pastorale secondo lo stile evangelico degli Apostoli, rapporto con il carisma episcopale, appartenenza responsabile al Presbiterio, dedizione piena alla Chiesa particolare anche nella sua responsabilità missionaria universale... Riguardo gli altri sacerdoti non incardinati nella diocesi, si dovrà far attenzione al proprio carisma fondazionale, religioso, associativo, ecc.
1º) Progetto e impegni personali. Senza un progetto personale efficiente, il progetto comunitario non si metterà in pratica. I mezzi sono quelli comuni ad ogni sacerdote, che sono anche consigliati e programmati nel progetto del Presbiterio, ma che pure lasciano uno spazio sufficiente per un'ulteriore concretizzazione secondo l'iniziativa privata:
- a partire dal discernimento personale sull'azione della grazia (dello Spirito Santo), sui propri limiti, sulle priorità ed urgenze particolari di ognuno,
- celebrazione eucaristica e incontro personale (adorazione),
- tempo per la meditazione della Parola o "lectio divina",
- liturgia delle Ore,
- momento mariano (rosario, consacrazione-affidamento...),
- studio e lettura spirituale,
- riconciliazione sacramentale periodica,
- revisione e consulta personale: esame, ritiro e Esercizi, direzione spirituale, assiduità all'adunanza di gruppo,
- tempo necessario di riposo, vacanze, sport...
- rinnovamento di questi impegni e propositi,
- ritenere questi mezzi scritti o memorizzati in un piano semplice spirituale, umano, intellettuale, pastorale, indicando tempo e modalità...
2º) Progetto e impegni del gruppo o fraternità. Oltre gli indirizzi del progetto del Presbiterio, il gruppo o fraternità potrà ancora concretizzare meglio, a livello di iniziativa privata e di generosità evangelica, affinché diventi una realtà tutto quello che è stato programmato per tutti i sacerdoti:
- a partire dal discernimento comunitario dello Spirito per scoprire la peculiarità del gruppo o fraternità,
- incontrarsi periodicamente per: pregare, condividere, aiutarsi e aiutare altri, riposo...
- partecipazione responsabile nel progetto di formazione permanente del Presbiterio diocesano (secondo gli indirizzi dati dal Vescovo),
- condividere e aiutarsi nella vita spirituale, pastorale, intellettuale, umana,
- secondo le diverse modalità di adunanza o di vita in gruppo:
* a partire dalla realtà (eventi) illuminata dal Vangelo (revisione di vita),
* a partire dal Vangelo, magistero, santi, scritti...
* a partire dalle virtù e doveri cristiani e sacerdotali,
* a partire dai testi liturgici: preparazione dell'omelia, modo di vivere la liturgia...
- fare e rinnovare questi impegni preferibilmente in comune e in un determinato giorno (Giovedì Santo, domenica del Buon Pastore, festa del Curato d'Ars o di S. Giovanni d'Avila, ecc.)
3º) Diverse possibilità di vita in gruppo:
- modalità geografica: vicarie foranee, zone, vicinanza...
- modalità funzionale, secondo l'affinità di ministeri specializzati: consiglieri, insegnamento, liturgia, formazione, apostolato e servizi per i giovani, famiglia, poveri, operai...
- modalità di amicizie: secondo gli anni di ordinazione, amicizia e affinità, gruppi spontanei...
- modalità di collegamento: associazioni, movimenti, istituti, "comunità", vita consacrata...
- modalità "carismatica" ispirata in una figura sacerdotale o spirituale...
- modalità di Unione Apostolica, come servizio associativo internazionale per lo scambio di esperienze di "Vita Apostolica" nel Presbiterio diocesano,
- altre modalità di iniziativa privata: consiglio spirituale e apostolico, revisione di vita in gruppo...
Un invito riassuntivo:
Molti sacerdoti del passato e del presente storico hanno già messo in pratica un qualche progetto personale o comunitario, con modalità diverse e contenuti equivalenti.
Il sacerdote diocesano ordinariamente si sente ancora spaesato in questo campo concreto della fraternità. Forse è questa una delle cause più importanti perché in alcune diocesi le vocazioni non siano ne abbondanti ne definite. In alcune Chiese particolari, in cui abbondano le vocazioni e dove i Seminari sono in crescita, i futuri sacerdoti si domandano sulla possibilità di vivere l'identità specifica del sacerdote diocesano (tale quale viene descritta in PO, PDV, Direttorio), nel suo Presbiterio e col suo Vescovo. Il fatto dell'esistenza di altre vie legittime e raccomandabili non scusa dall'urgenza di collaborare nella costruzione della propria via specifica.
Ci vogliono passi concreti, senza aspettare altre programmazioni teoriche che ordinariamente restano nella carta. Le proposte concrete che suggeriamo (n.3) sono soltanto un passo umile (tra tanti possibili), come cammino aperto da migliorare permanentemente.
Il Presbiterio che susciti entusiasmo nei sacerdoti attuali e in quelli del futuro, si deve costruire come "famiglia sacerdotale" (PDV 74; CD 28), composta da sacerdoti appassionati di Cristo, e da piccole fraternità o di gruppi e cenacoli (secondo zone geografiche, funzione ministeriale, amicizia, ecc.), nella messa in pratica di un progetto di vita concreto e chiaro.
Le possibilità o modalità sono molte e alcune già esistono; bastarebbe cominciare da una sola... Si può iniziare a partire dall'iniziativa privata, dal consiglio dei formatori, ecc. Ogni sacerdote è capace di fare questo passo trascendentale e semplice: radunarsi periodicamente con alcuni fratelli, cercare consiglio spirituale e pastorale, collaborare responsabilmente nel progetto comune del Presbiterio.
Teologicamente è necessaria l'azione concreta (paterna e fraterna) del proprio Vescovo, che si deve domandare e seguire, specialmente quando si tratta delle modalità geografiche e funzionali. I presbiteri hanno bisogno dell'attuazione del carisma episcopale, fino a sentirlo vicino, pienamente impegnato e condividendo la stessa sorte (umana spirituale, intellettuale e pastorale) nel Presbiterio della Chiesa particolare.
Quello che il concilio di Trento è stato per i Seminari, lo è nei nostri tempi il concilio Vaticano II e il suo postconcilio riguardo i Presbiteri diocesani. L'applicazione di un concilio ha bisogno di molti anni, di cambiamento di mentalità e specialmente di persone evangelicamente generose e disponibili. "Con Maria, la Madre di Gesù" (At 1,14), è sempre possibile rispondere alle nuove grazie che lo Spirito Santo effonde nella sua Chiesa. Il "nuovo fervore degli apostoli", domandato dalla "Nuova Evangelizzazione", significa, per i sacerdoti diocesani, riscoprire ed impegnarsi a vivere la propria spiritualità e missione sacerdotale.
Juan Esquerda Bifet
Pontificia Università Urbaniana. Roma
[1]Vedere specialmente: "Lumen Gentium" (LG) cap. III, "Presbyterorum Ordinis" (PO) nn.7-9, "Pastores dabo vobis" (PDV) nn.31-32, 74; "Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri" (Dir) nn.25-29.
[9]Cfr. Lettere di S. Ignazio di Antioquia: Ad Ephesios II, IV 1-2; Ad Magnesios II, III 1-2; Ad Trallenses II 1-2; III 1 ecc.
[17]Nota bibliografica: C. BERTOLA, La fraternità sacramentale dei presbiteri, Diss. Univ. Gregoriana 1994; P. CODA, La forma comunitaria del ministero presbiterale: Lateranum 56 (1990) 569-588; J. ESQUERDA BIFET, Teología de la espiritualidad sacerdotal, BAC, Madrid 1991; N. LA SANDRA, Vescovi e presbiteri in comunità per la missione, Ponteracina, Ediz. Centro Eucaristico 1990); K. LECLERCQ, La fraternité sacerdotale. Réviser sa vie entre frères pour vivre l'évangile: Bull. Saint‑Sulpice 8 (1982) 152‑158; P.
PARACCHINI, Testimoni e maestri di comunione e di fraternità: Seminarium 30 (1990) 167-176; A. PIE, La vie relationnelle du prêtre: Suppl. Vie Spirituelle 138 (1981) 347‑368; S. SPERA, Spiritualità del presbiterio diocesano e vita comune: Rassegna di Teología 23 (1982) 236‑249.